Bach Johann Sebastian

Concerti Brandeburghesi

Ho ascoltato per anni diverse esecuzioni dei Concerti Brandeburghesi. Infatti posseggo in CD registrazioni sia filologiche che con strumenti moderni. Stavo guardando un programma culturale su Rai 5, alla fine del quale è stato trasmesso un estratto di questa magnifica performance. Sono rimasto affascinato e ho subito acquistato questo DVD. Ritengo sia impossibile trovare una interpretazione tanto bella come questa. Bach sarebbe orgoglioso. Video e audio ottimi. Imperdibile!

Concerto brandeburghese n. 1 in fa maggiore, BWV 1046

Una tradizione forse non infondata vuole che i sei Concerti offerti nel 1724 da Bach a Christian Ludwig, Margravio del Brandeburgo, siano stati archiviati dai bibliotecari di corte senza essere stati eseguiti neppure una volta. Fin troppo facilmente oggi riconosciamo in questo gesto non tanto la miopia del committente, che aveva fama di grande intenditore, quanto piuttosto il riflesso dei rapporti di potere che allora collocavano il musicista nel rango di un servitore, riservando ai suoi prodotti un’accoglienza alterna e spesso distratta. Per un altro aspetto, tuttavia, lo zelo dei bibliotecari di Köthen corrisponde in modo efficace all’essenza di quei concerti, è un simbolo del loro senso storico, anche se irride la loro qualità musicale. Queste pagine di Bach, infatti, sembrano riassumere un’epoca proprio nel momento in cui la archiviano, minacciando con la loro esuberanza i limiti delle forme musicali esistenti.
Ciò non vuol dire che i Concerti Brandeburghesi siano qualcosa come la “vetta”, la “conclusione” o anche solo un “repertorio” della musica strumentale barocca: essi tendono piuttosto a ricondurre gli elementi di quella musica nell’unità di una configurazione ideale, in un sistema aperto, sono il supporto materiale di una memoria che non divide in modo meccanico l’antico dal moderno, ma agisce in modo più complesso, secondo un insieme di tecniche intimamente legate all’esperienza del sacro che attraversa tutta l’opera di Bach. Mentre sembra registrare nel dettaglio l’orizzonte musicale in cui vive, egli mette in crisi la visione lineare del movimento storico, confonde volutamente i tempi, mescola le cronologie, pone gli uni accanto agli altri elementi di epoche e provenienze differenti. Il risultato è appunto quello di un “archivio” che consegna al presente la possibilità di riattivare continuamente il proprio rapporto con l’origine, di riconoscersi in una discendenza che ripete in forme sempre diverse il destino esemplificato dalla vicenda del Cristo: a questa connessione si riportano infatti la coscienza della finitezza, il senso della mortalità e il bisogno di redenzione che sono posti da Bach alla radice stessa della sua nozione di bellezza. Persino una certa esteriorità di queste pagine, concepite come musica da intrattenimento, appare funzionale a un richiamo etico che invita a considerare in modo diverso il rapporto con il passato.
Il richiamo di Bach, tuttavia, rimase di fatto inascoltato, e senza seguito rimasero anche le invenzioni e le numerose innovazioni stilistiche da lui adottate nei Brandeburghesi. La circolazione di questi lavori fu infatti tardiva e quando furono riscoperti, così come quando nel corso dell’Ottocento il biografo Friedrich Spitta diede loro per la prima volta il titolo con il quale oggi sono conosciuti, essi non potevano più esercitare una reale influenza sulla pratica musicale dei nuovi compositori. L’archiviazione dei bibliotecari di Köthen ha in tal senso un valore opposto a quello che abbiamo attribuito alla musica di Bach: equivale a una rimozione che insieme alle partiture dei Brandeburghesi occulta un modello di interpretazione storica.
L’originalità della proposta di Bach non è tuttavia sfuggita ai critici e agli interpreti, specialmente a quelli che in epoca recente hanno cercato di evidenziare il carattere unitario e sistematico dei Brandeburghesi. Nikolaus Harnoncourt ha descritto ad esempio il paradosso in base al quale proprio la diversità delle forme e la singolarità delle soluzioni musicali sarebbero alla radice del senso di unità che promana da queste pagine. «Ogni concerto è scritto per una destinazione strumentale differente», nota Harnoncourt, «e la diversità delle forme è estrema almeno quanto quelle che riguardano la strumentazione e lo stile». Nei Concerti Brandeburghesi troviamo in effetti gli uni accanto agli altri i modi tipici dello stile francese, quelli cantabili del concerto italiano, la condotta severa del contrappunto, l’impasto moderno della sinfonia e la sequenza arcaica della suite, la tecnica delle cantate sacre e quella delle sonate da camera. Persino l’unità di riferimento più immediata, la forma del concerto grosso, diventa nelle mani di Bach un involucro capace di rinnovarsi continuamente e di accogliere una quantità innumerevole di inserzioni spurie. Harnoncourt definisce tutto questo come un «catalogo» della musica barocca e, al tempo stesso, di tutto ciò di cui Bach era capace come musicista. Questo spirito di compilazione, cui non sono estranei neppure gli interessi pedagogici sempre coltivati da Bach, indica in modo molto chiaro quale fosse per lui la funzione realmente rilevante della Hofmusik, della musica di corte. Quando non è improntata al raccoglimento del genere sacro, quando non nasce dalla meditazione privata o non deriva direttamente da esigenze speculative, la musica diventa per Bach un’occasione per descrivere la propria collocazione storica e per risvegliare, nel presente, il senso della pietas nei confronti delle tracce del passato, senza lasciarsi travolgere dall’ansia del superamento, quasi che nei Concerti Brandeburghesi egli abbia voluto riprodurre il gesto istitutore e conservatore, rivoluzionario e tradizionale che è proprio, in fondo, di ogni concetto dell’archivio.
La concezione dei Brandeburghesi è dovuta anche alla stratificazione del loro lavoro di scrittura. Bach non li compose espressamente per la raccolta da offrire a Christian Ludwig, ma li elaborò probabilmente in tempi anche lontani, nel corso del quindicennio che copre il periodo del suo impiego alla corte di Weimar e il suo trasferimento a Köthen. Le differenti versioni autografe che ci sono pervenute e l’importanza delle modifiche di volta in volta apportate dall’autore mostrano come lo stato definitivo dei Concerti Brandeburghesi sia il risultato di un lavoro di montaggio rigoroso e inventivo, ma per lo più non preordinato. Così l’intervento delle parti solistiche viene ampliato o ridotto in rapporto all’aggiunta di una parte nuova, mentre un movimento già utilizzato in altri contesti, per esempio in una cantata, viene ora collegato all’organismo del concerto attraverso l’inserzione di un raccordo che ne riorganizza la sostanza musicale. La varietà non è dunque un principio programmatico della composizione di questi concerti, ma è un effetto naturale del lavoro pratico, è il riflesso di un atteggiamento intellettuale che si confonde con l’esercizio stesso del magistero musicale bachiano.

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La raccolta dei Brandeburghesi inizia con una pagina improntata allo stile francese e che in una prima versione portava il titolo di Sinfonia, non di Concerto. Il movimento iniziale compariva già, come introduzione, nella cosiddetta Jagdkantate (Cantata della caccia) BWV 208, e da questo inizio deriva la concezione appunto “sinfonica” di un brano in cui lo spirito di gruppo prevale rispetto alla condotta solistica di un singolo o di più strumenti. Una parte di rilievo è data tuttavia ai corni da caccia, assenti solo nell’Adagio, e al violino piccolo, uno strumento allora molto di moda in Francia e che con il suo timbro acuto emerge dal tessuto musicale anche senza bisogno di una scrittura virtuosistica troppo accentuata. La struttura è ampia e nella versione finale consta di quattro movimenti: questo comportò per Bach una sostanziale revisione del finale, dove l’alternarsi di due danze, un minuetto e una polonaise, si combina con la ripetizione ciclica del trio in una forma che combina lo spirito arcaico della suite e quello più “moderno” del rondo.

Concerto brandeburghese n. 2 in fa maggiore, BWV 1047

La denominazione di Concerti Brandeburghesi non è originale ma risale allo Spitta, il primo autorevole studioso di Bach, che nel 1873, studiando la raccolta pubblicata per la prima volta nel 1850 dall’editore Peters di Lipsia, li definì in questo modo, facendo riferimento alla qualifica del destinatario, Christian Ludwig margravio di Brandeburgo, che Bach aveva incontrato a Berlino nel corso di un suo viaggio. Tuttavia nella lunga e ossequiosa lettera di dedica che accompagnava la raccolta, datata 24 marzo 1721, Bach qualificò queste composizioni semplicemente come Concerts avec plusieurs instruments. La definizione dello Spitta sembra ancor più “impropria” in considerazione del fatto che molto probabilmente questi concerti non furono mai eseguiti dai musici che formavano l’orchestra del margravio di Brandeburgo, bensì da quelli della cappella di Köthen, dove Bach era stato chiamato a ricoprire l’ufficio di Kapelmeister nel dicembre del 1717.

Il principe Leopold di Anhalt-Köthen, che aveva studiato canto e che sapeva suonare il clavicembalo e la viola da gamba, s’impegnò con forte determinazione alla creazione di un eccellente ensemble di musicisti. Bach era legato al principe da sincera amicizia e in quell’ambiente così favorevole sentì accrescere il proprio impulso creativo. «Vi trovai un duca benigno, che non solo amava ma conosceva anche la musica (ne era cioè competente), presso il quale credetti di terminare la mia esistenza», cosi scriveva nel 1730 al suo amico Erdmann.
Diversamente dalla luterana corte di Weimar, dove Bach aveva precedentemente svolto le funzioni di organista e di Konzertmeister, ossia di primo violino solista, nella calvinista corte di Köthen non c’era spazio per la musica sacra. E se è vero che Bach era venuto a conoscenza delle composizioni vivaldiane, trascrivendone alcune per organo o clavicembalo a Weimar, è a Köthen che ebbe modo per la prima volta di scrivere concerti e di confrontarsi con il nuovo genere del concerto solistico italiano in tutte le sue peculiarità formali e stilistiche.
Anche i Brandeburghesi, come gran parte della sua musica strumentale, risalgono agli anni di Köthen (1717-23). Il problema della loro cronologia è ancora aperto, ma oggi gli studiosi sono sostanzialmente concordi a datare il Primo, il Terzo e il Sesto Concerto al 1718; il Secondo e il Quarto al 1719; il Quinto al 1720. L’eterogeneità esistente tra le sei composizioni nell’organico strumentale, nella successione dei movimenti e nel diverso assetto formale e stilistico è tale da non consentire una loro collocazione nelle categorie tradizionali del concerto solistico o del concerto grosso che, sovrapponendosi continuamente, si annullano l’un l’altra. Tuttavia pur nella loro diversità, «tali opere» – come osserva giustamente Basso – «costituiscono un gruppo unitario, formano una sorta di piccolo dizionario dimostrativo delle possibilità aperte al genere del concerto, inteso in un’accezione per così dire globale e universale».
Il Secondo Concerto Brandeburghese sfugge a qualsiasi forma di schematizzazione già a partire dalla strumentazione. Al ripieno degli archi infatti Bach contrappone un insolito concertino, formato da tromba piccola in fa (dalle sonorità più acute e penetranti rispetto a quella in re o in do), oboe, flauto a becco e violino. Nel primo movimento (Allegro), l’alternanza dei soli e dei tutti non procede con la consueta e un po’ scontata regolarità delle coeve composizioni italiane. La parte iniziale del brano è caratterizzata dalla contrapposizione tra la tematica del tutti, articolata in quattro brevi sezioni, a quella dei soli (di appena due battute) che rispondono all’orchestra prima a coppie e poi in gruppo.

Johann Sebastian Bach

Nella seconda parte, il concertino perde la sua individualità tematica e, suonando assieme al tutti, si appropria di quella del ripieno fino alla conclusione del pezzo, segnata dal ritorno improvviso alla tonica.
L’Andante è affidato al flauto, oboe, violino e basso continuo (Bach probabilmente rinuncia alla tromba anche per ragioni di natura pratica, ossia per consentire all’esecutore di far riposare il labbro): si passa quindi dal piano sonoro del concerto a quello della sonata a tre. Il regolare movimento per crome del basso, che ripete più volte ciclicamente – sia pure non in maniera simmetrica – il suo disegno, fornisce la base per la ininterrotta imitazione tra gli altri strumenti di un motivo “a sospiro”.
Nell’Allegro assai, i principi della fuga si uniscono a quelli concertanti. Gli strumenti solisti, che in questo movimento ricoprono un ruolo decisamente più importante del ripieno, entrano in successione secondo i canoni della fuga: prima la tromba, poi l’oboe, il violino e in ultimo il flauto. Segue una sezione a carattere modulante (re minore – Si bemolle maggiore) in cui l’orchestra si alterna ai soli, riproposti in diverse combinazioni strumentali, fino al tutti conclusivo, dove l’ultima ripresa del tema, suonata dalla tromba, viene sostenuta dal breve pedale di tonica.

Concerto brandeburghese n. 3 in sol maggiore, BWV 1048

La sera del 28 Luglio 1750 si chiude a Lipsia, la lunga giornata terrena di Johann Sebastian Bach.
Forkel, suo primo biografo, ci racconta che dopo anni di intenso studio della musica la vista di Bach andò peggiorando finché su consiglio di un amico, «che aveva fiducia in un medico londinese, Bach si sottopose, coraggiosamente, a due interventi chirurgici che però fallirono. Non solo perdette del tutto la vista, ma anche la sua costituzione, fino allora così vigorosa, fu irrimediabilmente scossa, forse a causa di farmaci dannosi. La sua salute continuò a peggiorare per più di sei mesi, finché, la sera del 28 Luglio 1750, Bach, all’età di sessantasei anni, si addormentò per sempre. Un mattino, dieci giorni prima di morire, poté nuovamente vedere e sopportare la luce, ma poche ore dopo fu colpito da un attacco apoplettico, e nonostante le cure prodigategli dai medici, il suo organismo ormai stremato non poté più resistere all’acuto stato febbrile».
Con la morte di Bach scompare l’ottimo organista della chiesa di San Tommaso a Lipsia, gli eredi ne disperdono i manoscritti musicali, la vita musicale prende nuove strade e solo rari organisti continuano ad utilizzare qualche corale durante i servizi della liturgia luterana. Meno di cinquant’anni dopo la sua scomparsa, la tecnica esecutiva necessaria per leggere ed eseguire i suoi lavori sembra definitivamente scomparsa.
La data fatidica della rinascita bachiana è il 5 Novembre 1793 quando a Berlino un piccolo gruppo di suoi antichi discepoli, fonda la SingAkademie (Accademia di canto) nella quale gli originali 27 cantori iniziano faticosamente a studiare ed a proporre al pubblico la musica vocale di Bach.

Negli anni seguenti entra nella compagine il giovane Felix Mendelssohn- Bartoldy che l’11 Marzo 1829 esegue a Berlino con enorme successo, la Passione secondo Matteo. Il recupero della figura e del lavoro di Johann Sebastian Bach è cosa fatta.
Nato a Eisenach il 21 Marzo 1685 in una famiglia dedita alla musica da almeno quattro generazioni, e rimasto orfano di padre e di madre a dieci anni, Bach inizia la sua vita di musicista come fanciullo cantore a Lüneburg studiando appassionatamente i testi musicali della fornita biblioteca locale.
Nel 1703 entra come violinista alla corte di Weimar ed avvia la sua carriera di musicista che si snoda nell’arco della sua vita con prestigiosi incarichi prevalentemente organistici nelle chiese luterane tedesche. Bach era considerato il migliore collaudatore di organi della sua epoca.
Segnato da una profonda religiosità e dalla passione per l’approfondimento della musica che coltiva con passione certosina, rappresenta la sintesi delle forme strumentali che gli organisti del Seicento avevano elaborato e l’apertura alle nuove voci musicali che gli pervengono da altri paesi. Comprende ed assimila la grazia dei clavicembalisti francesi ma soprattutto studia gli italiani con particolare riferimento a Vivaldi del quale trascrive numerosi concerti.
Tutte queste esperienze confluiscono poi nella costruzione della monumentale mole della musica ad uso della liturgia luterana.
La vita di Bach fu quella di un onesto e laborioso organista tedesco del nord. Ebbe due mogli e una ventina di figli, dei quali dieci sopravvissutigli, tutti musicisti e, tre almeno, tali da occupare un posto cospicuo nella storia. Una fede religiosa improntata a robusta e sana energia, una concezione di vita lietamente operosa e feconda, erano le caratteristiche della casa. «La vita familiare del tempo dei Bach non conosceva morbidezze di sentimento, ne lacrime, ne baci» (Ernst Borkowsky). Alle sei del mattino tutti i numerosi Bach grandi e piccini saltavano puntualmente giù dal letto e radunati intorno al clavicembalo nella stanza da lavoro cantavano un inno di grazie al Signore. «C’era una devozione virile, una fede esatta e senza riserve, semplicità di cuore, fiducia nella forza della preghiera. Mai l’incertezza del dubbio, ma sempre sicurezza di vita, esatto adempimento di dovere, allegra operosità. Nessuna debolezza nella vita e nel lavoro quotidiano» (Borkowsky). Massimo Mila nota ancora che «la sua Immensa produzione musicale fu messa assieme con un lavoro assiduo, metodico e tranquillo, eseguito con scrupolosa cura di artigiano ed inteso, senza alcuna posa, come servizio di Dio. Senza posa, che se Bach fosse stato calzolaio, avrebbe fatto a maggior gloria di Dio un numero sterminato di scarpe, tutte accuratamente lavorate e finite».

Dal 1717 Bach si trova alla corte di Cöthen con l’incarico di maestro di cappella, ed ha l’occasione di soddisfare l’invito di Christian Ludwig, margravio del Brandeburgo, di scrivere dei pezzi per la sua orchestra.
I Six concerts avec plusieurs instruments, inviati il 24 marzo 1721 da Johann Sebastian Bach, e battezzati nel 1873 dal grande biografo del compositore, Philipp Spitta, Concerti brandeburghesi, costituiscono un affascinante laboratorio delle possibilità di scrittura per gruppo strumentale, indagate attraverso una straordinaria varietà di soluzioni compositive. In realtà piuttosto che ad una serie di concerti scritti per un’occasione specifica ci troviamo di fronte alla bella copia autografa di opere già (in parte?) composte in precedenza. In vista della raccolta i concerti vennero ordinati secondo un piano di perfetta simmetria (per due volte ricorre la serie di due concerti grossi e uno di gruppo, quasi fossero due libri, scrive Alberto Basso), per proseguire la loro vicenda oltre il 1721, quando, ormai a Lipsia, Bach avrebbe impiegato singoli movimenti all’interno di nuove cantate.
Nei Brandeburghesi il compositore coniuga la lezione assimilata dai modelli italiani (Vivaldi Corelli Albinoni e Alessandro Marcello) col contrappunto rigoroso e con alcune strutture della musica vocale, imprimendo una sigla personalissima a questo genere d’avanguardia nel panorama musicale dell’epoca. Da vero maestro dell’integrazione, in grado di compendiare in un ideale enciclopedico i tratti di un’intera civiltà Bach utilizza di volta in volta con somma libertà le forme principali dei suoi tempi: il concerto grosso, in cui un concertino di pochi strumenti si contrappone all’intera orchestra d’archi, denominata appunto concerto grosso; il concerto solistico tripartito, con la sua alternanza razionale di episodi solistici e ritornelli orchestrali; il concerto di gruppo, nel quale non emergono protagonismi di singoli attori; la sonata da camera, a tre e a quattro. Sul versante della strumentazione occupa la scena musicale un caleidoscopio di colori che conosce pochi eguali nel tardobarocco europeo: un gusto per la preziosità timbrica – nella scelta degli strumenti e nella loro combinazione – che troverà in seguito espressione nelle grandi pagine vocali lipsiensi (le passioni, le cantate, l’Oratorio dì Natale).

Margravio Christian Ludwig von Brandenburg

Istanze stilistiche divergenti vengono dunque conciliate all’insegna di una «stravaganza» che permette a questo gruppo unico di opere, rappresentative di un’intera stagione creativa del loro autore, di svettare in un frangente storico cruciale: a conclusione di quel secondo decennio del Settecento in cui il concerto italiano si era affermato attraverso l’editoria musicale internazionale.
Nel Concerto n. 3 in sol maggiore BWV1048, destinato ai soli archi, Bach divide al suo interno violini, viole e violoncelli in tre gruppi, ottenendo un totale di nove parti, cui va aggiunta una decima realizzata dal basso continuo. Con tale risorsa a disposizione, il compositore procede allo sfruttamento sistematico delle sfumature timbriche di questa unica sezione orchestrale, in una scrittura serrata di natura polifonica.
Alla forma del concerto grosso subentra quella del concerto di gruppo, chiaramente esemplificata dall’ AIIegro moderato introduttivo, in cui le diverse sezioni si scambiano, in un dialogo arioso, un materiale tematico fondato su una cellula anapestica (nota 1) che domina incontrastata l’intera pagina, nel cui dinamismo irrefrenabile emerge a tratti l’effimero protagonismo dei violini.
Il brano si apre con una frase di introduzione basata sul citato ritmo anapestico, seguita da un episodio contrastante in cui la cellula viene scambiata in modo imitativo tra i tre gruppi di strumenti ad arco e da una frase di collegamento con l’episodio successivo. Il secondo episodio contrastante è dominato dai violini I e II ed è concluso dalla frase di collegamento. Un terzo episodio sempre contrastante è aperto da un tema in imitazione tra le viole e termina con la sua frase di raccordo al passaggio successivo. Il quarto episodio contrastante è in forma di doppia fuga. Il soggetto è sviluppato dal violino I ed imitato dai violini II e III. Segue poi una parte conclusiva che riassume i passaggi del primo tempo.
Un problema interpretativo pressoché insolubile è posto dalla semplice cadenza frigia (due soli accordi) che costituisce l’Adagio centrale. Bach sembrerebbe portare a estreme, paradossali conseguenze quella tendenza italiana (riscontrabile, ad esempio, in talune opere di Corelli e Albinoni) di svuotare il tempo intermedio a vantaggio di quelli estremi. Il rebus esecutivo viene di norma risolto con l’introduzione di una cadenza oppure inserendo all’interno del concerto un movimento da un’altra opera del compositore (nella presente esecuzione ho preferito lasciare i due soli accordi così come scritti da Bach).
Con l’Allegro finale una frenesia cinetica s’impossessa dell’intera compagine, più compatta poiché i violoncelli suonano all’unisono e coinvolta in un inarrestabile congegno motorio di natura contrappuntistica. La forma di danza binaria di quest’ultimo tempo, sottilmente articolata al suo interno, è inconsueta nei concerti bachiani. Nella prima parte l’orchestra presenta un tema che viene trattato per imitazione dai tre gruppi degli archi (violini, viole e violoncelli). Dopo la ripetizione della prima parte, nel secondo episodio il tema passa ai violoncelli ed al basso continuo che provvedono a svilupparlo. L’intera orchestra ripresenta il tema in tonalità minore e lo sviluppa poi in un intreccio tra i tre gruppi di archi. In chiusura l’orchestra torna ad esporre il temanuovamente nella sua tonalità maggiore. A questo punto viene ripetuta la seconda parte nella sua interezza.

Introduzione del Concerto n. 3 basato sulla cellula anapestica

Concerto brandeburghese n. 4 in sol maggiore, BWV 1049

I 6 concerti per diversi strumenti scritti da Bach a Köthen nel 1721 sono chiamati Concerti brandeburghesi perché dedicati «A Son Altesse Royalle Cretienne Louis, Marggraf de Brandenbourg ecc.». Questo principe, che viveva ora a Berlino ora nelle sue terre, era grande amatore di musica e le sue considerevoli rendite gli permettevano di mantenere a proprie spese una buona orchestra. Egli fece la conoscenza di Bach durante un viaggio in cui il maestro accompagnava il principe di Köthen (al cui servizio Bach fu dal 1717 al 1723) e gli domandò di inviargli delle composizioni. Sintomatiche dell’umiltà del grande musicista di fronte agli uomini e di fronte a Dio, sono le frasi che si leggono nella dedica, scritta in un curioso francese arcaico: Bach, cioè, prega il Principe di accogliere i concerti benignamente e «de ne vouloir pas juger leur imperfection à la rigueur du gout fin et delicat, que tout le monde sçait qu’Elle a pour les pièces musicales…»; e si ritiene felice di poter rinnovare nel principe «quelque plaisir aux petits talents que le Ciel m’a donnés pour la Musique».
Nati sul vigoroso tronco del concerto grosso italiano, soprattutto vivaldiano, questi concerti ne sono come la estrema ramificazione, nel senso che quella configurazione di strumenti contrapposti, concertanti («concertino») da una parte e grosso dell’orchestra («ripieno» o «tutti») dall’altra, si amplia e si arricchisce soprattutto per il largo posto concesso ai fiati e per la varietà di atteggiamenti che in forma il dualismo solisti-orchestra. Talvolta, anzi, si nota senz’altro il trapasso al tipo di concerto «a solo», come nel Quarto ove predomina il violino (tanto da essere annoverato tra i concerti per violino solo), o nel Quinto in cui, forse per la prima volta nella storia del clavicembalo, questo strumento assurge a un ruolo solistico soprattutto con la sua spettacolare cadenza.
Il Quarto concerto brandeburghese prescrive «violino principale, due flauti d’echo, due violini, una viola in ripieno, violoncello e continuo». E’ riferibile al tipico concerto grosso, in cui il «concertino» è formato dal violino e da due flauti, con il violino che nei tempi estremi assume un ruolo di schietto virtuosismo. In un secondo momento Bach trascrisse la parte del violino solista per clavicembalo (come doveva fare del resto con tutti i suoi concerti violinistici). Meno alato del Quinto, questo concerto è forse più ricco di atteggiamenti concertanti e si svolge in solide concatenazioni secondo un rigoroso equilibrio polifonico. L’ultimo tempo «sta in primissimo rango tra i consimili lavori di Bach», dice lo Spitta, «per lo slancio, la potenza delle idee, la ricchezza degli sviluppi, l’affascinante padronanza della più completa tecnica, la brillantezza e la grazia».

Concerto brandeburghese n. 5 in re maggiore, BWV 1050

A differenza dei Concerti di Corelli, Vivaldi e dello stesso Händel, che conobbero una vasta diffusione europea tramite la stampa, i Concerti di Bach, primi fra tutti i Brandeburghesi, dovettero aspettare più di un secolo per essere conosciuti e ammirati. Pubblicati solo nel 1850 sull’onda della Bach- Renaissance i sei Concerti furono chiamati Brandeburghesi dal grande studioso di Bach Philipp Spitta. Se, come risulta probabile, lo stesso margravio di Brandeburgo, dedicatario dell’opera, non fece eseguire nel suo palazzo di Berlino i sei Concerti, ne risulta che le uniche esecuzioni di tali capolavori avvennero nella piccola corte di Köthen presso la quale Bach fu Kapellmeister fra il 1717 e il 1723.
Amatissimi e popolarissimi oggi, i Brandeburghesi vengono considerati il punto culminante della barocca “arte del concerto”, fusione mirabile di tre diverse tipologie – il concerto policorale, il concerto grosso e il concerto solistico – succedutesi nel corso di circa due secoli.
Bach conobbe il margravio Christian Ludwig di Brandeburgo probabilmente a Karlsbad nel giugno 1718 e sicuramente a Berlino nel settembre dello stesso anno. La lunga dedica, scritta in un francese non proprio impeccabile, che accompagna il manoscritto datato 24 marzo 1721 è spesso citata come esempio del ruolo di sudditanza dei musicisti del periodo barocco verso i loro mecenati.

Karl Richter

Vi abbondano infatti espressioni del tipo “umilissimo e obbedientissimo servitore”, “il mio umile ossequio” e via dicendo. Nella dedica Bach riferisce di aver suonato davanti al margravio due anni prima e di aver ricevuto da lui l’ordine di inviargli sue composizioni. Il periodo di composizione dei Concerti va dunque compreso tra la fine del 1718 – quando nacque il Sesto Concerto – e l’inizio del 1721: l’ultimo ad essere composto fu probabilmente il Quinto.
Non è un caso che questi Concerti siano nati nel pieno periodo di Köthen (1717-23); nella piccola corte del principe Leopold, di stretta osservanza calvinista, la musica sacra era pressoché bandita mentre fioriva la Konzert- Musik affidata a un’orchestra di dodici-quindici eccellenti strumentisti. Buona parte della musica strumentale di Bach risale a questo periodo; e basti citare, oltre ai Brandeburghesi, tutto il vasto corpus delle opere per strumento solista – Suites per violoncello solo, Sonate e Partite per violino solo, opere per clavicembalo.
Si è detto del carattere di compendio esaustivo dell’arte concertistica che rappresenta la raccolta bachiana. Con il termine di Six Concerts avec plusieurs Instruments Bach intendeva superare il campo abbastanza ristretto del concerto grosso italiano – in cui si alternano concertino e ripieno – per esplorare con
estrema libertà un terreno ben più vasto comprendente lo stile della Ouverture e della Suite francese, il concerto per gruppi omogenei, il nuovo concerto solistico di tipo vivaldiano, in un’ampia e stupefacente gamma di connotazioni timbriche.
Nel Quinto Concerto compaiono tre strumenti concertanti: un flauto traverso, un violino e un cembalo. Il ripieno è affidato a quattro parti di archi con una sola parte di violino invece delle consuete due.
L’Allegro iniziale, costruito su uno schema formale parzialmente simmetrico (A – B – C – A’ – B’), si basa su due elementi tematici ben distinti: la vigorosa figurazione del tutti iniziale e il tema cantabile dei solisti che segue immediatamente. Il tratto che più colpisce in questo Allegro è certo rappresentato dalla spiccata funzione solistica del clavicembalo cui è affidata una cadenza di insolita lunghezza prima del ritornello finale.
Di carattere intimo e cantabile è il tempo centrale che Bach indica col termine assai appropriato di Affettuoso. Qui il ripieno tace per dare spazio ai solisti che intrecciano la delicata trama di una Sonata a tre.
Chiude il Concerto un Allegro in stile di fuga concertante su uno scintillante tema di giga in cui la tecnica della variazione è abilmente sfruttata.

Concerto brandeburghese n. 6 in si bemolle maggiore, BWV 1051

Appare difficile immaginare per un ascoltatore di oggi che il testo più rappresentativo e compiuto della barocca “arte del concerto” – i sei Concerti brandeburghesi di J. S. Bach – siano stati per oltre un secolo completamente ignorati dal mondo musicale. Privati del privilegio della stampa (la prima edizione è del 1850, in piena Bach-Renaissance) i Concerti furono certamente eseguiti nella piccola corte del principe Leopold von Anhalt-Köthen presso cui Bach prestò servizio in qualità di maestro dei concerti e della musica da camera fra il 1717 e il 1723 ma non in quella berlinese del margravio Christian Ludwig di Brandeburgo, dedicatario e mecenate dell’opera. Così una pressoché nulla influenza sui contemporanei di Bach e sugli immediati successori è in stridente contrasto con la trionfale accoglienza tributata dai musicisti e musicofili del Novecento.
Capolavoro sommamente speculativo e riassuntivo delle diverse forme del concerto policorale, del concerto grosso e del concerto solistico, i Concerti brandeburghesi non perdono di vista, e anzi esaltano, l’aspetto ludico e ricreativo della musica, con il loro tripudio di timbri e di invenzioni melodiche e ritmiche.
L’ambiente di Köthen era favorevole alla pratica della musica strumentale. Il principe, di stretta osservanza calvinista e quindi poco incline alla musica sacra, «non solo amava ma conosceva anche la musica», secondo quanto scrisse Bach all’amico Erdmann nel 1730. L’orchestra di corte, formata da una quindicina di ottimi strumentisti, si prestava ottimamente alle esigenze del Konzertmeister ed era motivo di vanto per il principe.
Ultimo della serie, ma primo in ordine di composizione (1718), il sesto Concerto è, come il terzo, un Concerto per soli archi. La novità è che, mancando i violini, gli strumenti di suono medio e grave (due viole da braccio, due viole da gamba, violoncello, violone e cembalo) creano una sonorità inconfondibilmente scura e brunita. Lo spazio dato alla funzione solistica e concertante delle viole – strumenti di ripieno nella prima metà del Settecento – è anche un elemento nuovo e importante.
Formalmente il Concerto è, fra i sei, quello più vicino alla struttura del concerto grosso, con il concertino – vale a dire il gruppo di solisti che si contrappone al Tutti – formato generalmente dalle due viole e dal violoncello. La fantasia di Bach non si accontenta comunque di definire un gruppo stabile di solisti ma di volta in volta lo allarga o lo restringe con grande libertà.
In tutto simile al contesto sonoro della Sonata a tre è l’Adagio ma non troppo centrale, in cui il tema austero ed espressivo viene sottoposto ad una fitta rete di imitazioni fra le due viole soliste.
A concludere il Concerto Bach pone un Allegro sul ritmo rilassato e gioioso di 12/8 la cui ripetizione nei ritornelli del Tutti è spezzata e variata da una serie di episodi virtuosistici e imitativi.