Ludwig Van Beethoven

Missa Solemnis

Oltre alla grande Messa in Si Minore di Johann Sebastian Bach, questa composizione è la più bella cornice musicale della Messa cattolica tradizionale.
Beethoven ha impiegato cinque anni a comporla contemporaneamente alla Sinfonia titanica No 9 in Re minore, op. 125 “Corale”. Karajan interpreta magistralmente questa spartito donandoci una monumentale performance, di grande potenza e di forte impatto emotivo. Con forze vocali e strumentali che contano circa 200 elementi, la sua efficacia sta nella sua perfezione. Karajan concepisce questa Messa come una manifestazione della spiritualità interiore e religiosa di Beethoven, dando così ai movimenti lenti una qualità pastosa della beatitudine diretta e della sublimità senza eguali. I movimenti conclusivi, con le loro potenti dichiarazioni fugali, sono offerti come una costruzione musicale elaborata, che dimostra la possente padronanza di Beethoven delle strutture musicali contrappuntistiche.
Karajan, i Berliner Philharmoniker, il coro Wiener Singverein e i quattro splendidi solisti, all’apice della loro carriera, forniscono una straordinaria miscela di potenza e intuizione in questa splendida performance. Il Gloria sta sconvolgendo la terra nel suo grido di lode. Il Credo è sicuro nella sua affermazione di fede.
Il Sanctus è sommesso e dolce nel suo esame della fede, con un Benedictus che è incredibilmente sublime nella sua bellezza. L’Agnus Dei e il definitivo Dona Nobis Pacem terminano notoriamente la Messa con un punto interrogativo sul destino dell’umanità, una cicatrice psichica legata alle Guerre Napoleoniche appena passate. Karajan fornisce ad ogni movimento la sua interpretazione corretta, dinamica, luminosa e soprattutto estremamente coinvolgente. Ritengo che Beethoven stesso avrebbe apprezzato tutto ciò.
La qualità video appare buona. Il suono in stereo PCM e DTS 5.1 è chiaro. Il DVD dura circa 84 minuti. Una magnifica performance tradizionale, fortemente consigliata.

Missa solemnis in re maggiore per soli, coro misto ed orchestra, op. 123

Cominciata nel 1818 e destinata a celebrare l’insediamento dell’illustre allievo, arciduca Rodolfo, al vescovado di Olmutz, la Missa solemnis non fu compiuta che cinque anni dopo. Beethoven non potè mai udirne un’esecuzione completa. Tre dei cinque pezzi che la compongono furono eseguiti nel concerto del 7 maggio 1824, che vide la prima esecuzione della Nona Sinfonia. Insieme con quest’ultima, la Messa viene considerata come il principale monumento, in campo sinfonico e corale, di quell’ultimo stile beethoveniano che trova la sua esplicazione più autentica negli ultimi Quartetti e nelle ultime Sonate.
Riconosciuto che essa non si attiene alle norme liturgiche, si è poi molto discusso circa il suo significato religioso, volendosi da alcuni, come il D’Indy, che essa interpreti con precisione sentimenti della più rigida ortodossia cattolica; da altri, che sia invece espressione d’una fede laica e immanente nell’umanità. Opinioni estreme e insostenibili entrambe, ché mentre la Messa è la voce di un puro cuore realmente credente nella potenza e nella bontà d’un essere divino superiore all’uomo, non si racchiude poi nelle strette di alcuna confessione costituita. Se l’uomo Beethoven allevato nella fede cattolica, s’era poi ristretto, come scrive Chantavoine a «quella specie di deismo umanitario e provvidenziale, familiare al secolo dell’Illuminismo, e inclinava verso quel panteismo estetico di cui Goethe aveva trovato indirettamente la fonte in Spinoza», non v’è alcun dubbio che l’artista, nell’atto di misurarsi per la seconda volta col testo sacro della Messa, ne valutò attentamente il significato e la sottopose ad una diligentissima lettura musicale, adottando soluzioni talvolta analoghe, talvolta diverse, talvolta opposte a quelle della Messa in do maggiore del 1807.
Nella Messa solenne, come nel finale della Nona Sinfonia, trova la sua naturale ed espressa applicazione uno dei caratteri interni del terzo stile beethoveniano, quello per cui ogni nuova opera, Quartetto o Sonata o Sinfonia che sia, tende a celebrare un rito sacro, a dire parole di portata universale; se è lecito esprimersi così, l’arte passa dall’umanità comunemente intesa a quella forma di umanità più alta che è la religióne. D’altra parte, l’attenta lettura musicale del testo liturgico si riflette in un puntiglioso ordinamento formale della materia sonora, governato da una specie d’ossessione del principio ternario; sicché, se si ritiene che uno dei caratteri del terzo stile sia, se non l’abbandono e la dissoluzione, per lo meno la trasformazione radicale delle vecchie forme sonatistiche a favore della continuità discorsiva in seno alla variazione libera, allora per questo aspetto la Messa solenne non partecipa pienamente dei caratteri comunemente attribuiti al terzo stile, pur condividendone la non comune difficoltà di ascolto.
La Messa si compone delle solite cinque parti: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei. Kyrie e Sanctus sono relativamente i più facili da comprendere e di effetto più immediato, in quest’ultimo specialmente la celeste devozione del Benedictus. Invece il Gloria e il Credo sono creazioni musicali difficili, per la grande quantità d’immagini rese attraverso idee ora brevi ed incisive ora straordinariamente sottili, e ancora con procedimenti di sviluppo d’entusiasmante complessità. Ne risulta un’architettura così vasta – scrive Luigi Ronga – «che certo da sola può imporsi nello svolgersi della sua forza sonora, ma tale da soverchiare chiunque, interprete ed ascoltatore, non impegni a fondo ogni sua capacità penetrativa dei mezzi musicali che coordinano l’acuto rilievo dei particolari nell’organica unità del tutto».
Una calma e serena grandezza è nel movimento piano e regolare del Kyrie, in cui D’Indy illustra la significazione teologica delle relazioni tonali nelle tre successive invocazioni, simboleggianti nei suoni il mistero della Trinità.
Il Gloria è, si suol dire, la parte più oggettiva dell’intera composizione, quella dove Beethoven sembra aver meno impegnato della propria personalità, applicandosi essenzialmente a variare l’illustrazione diligente del testo con la ricchezza dei colori, la forza delle linee, l’efficacia dei contrasti: un grido di giubilo apre il pezzo e lo percorre per intero sollevandosi sempre più in alto, sino alla fuga finale In gloria patris, che D’Indy giudica il punto debole dell’opera, mentre per altri (Bekker) va annoverata tra i quattro punti salienti della Messa. Di rilevante interesse è la complessiva architettura che investe ed organizza il testo entro un organismo sostanzialmente sonatistico composto di “Allegro vivace” in re maggiore e “meno allegro” in si bemolle – “Larghetto” – “Allegro maestoso”. La prima parte si avvicina a una forma di rondò, dove i ritorni dell’idea principale, sul Gloria in excelsis Deo, sul Laudamus te, sul Domine rex coelestis, e sul Domine Deus, Agnus Dei, sono intercalati dagli intermezzi sempre diversi dell’Et in terra pax, dell’Adoramus e del Glorificamus te, del Gratias agimus, e del Domine fili unigenite. All’entusiastica lode del divino succede nel “Larghetto” il ripiegamento sull’invocazione di misericordia, così pronunciata e sottolineata che Beethoven non esitò a interpolare davanti alla parola “miserere” un “oh”, che naturalmente non è contemplato nel testo liturgico. La terza parte del Gloria ritorna ad un carattere quasi orgiastico di esaltazione della grandezza divina ed è costruita in tre sezioni progressivamente più intense: una solenne introduzione (Quoniam: “allegro maestoso”); una fuga (in gloria Dei Patris), anch’essa tripartita secondo un criterio d’intensificazione, fino a un punto culminante (“poco più allegro”), dove il tempo viene accelerato e, come scrive Ruclolf Gerber, «tutte le voci si riuniscono in una esecuzione all’unisono del tema, che rumoreggia via come un uragano, e la fuga come principio compositivo diventa illusoria»; infine la ripresa del tema iniziale in un “Presto”.
Una partecipazione totale, una compenetrazione assoluta con le più intime fibre dell’anima fa del gigantesco Credo una delle più personali creazioni beethoveniane. Nel trapasso dall’oggettiva adorazione e celebrazione, da Vecchio Testamento, delle due prime parti al dramma umano-divino del Vangelo, l’intero sistema delle convinzioni e delle passioni dell’artista si mette in moto. Il Cristo di questo Credo è ancora una volta l’eroe, cioè il benefattore dell’umanità, cardine d’ogni grande concezione beethoveniana. Si apre il pezzo con uno di quei caratteristici temi di quattro note, che prendono possesso della tonalità occupandone le funzioni principali (in questo caso si tratta di si bemolle), e che ispirano un senso di solidità incrollabile, di sicurezza virile e di ferma fede. Le sei sezioni del Credo si raggruppano anch’esse, musicalmente, in architettura tripartita. La prima parte (Credo in unum Deum) è l’affermazione della fede nelle due prime figure dell’unico Dio, padre e figlio: si apre e conchiude nella tonalità principale, con inflessione alla sottodominante. La seconda parte è il dramma evangelico di Gesù disceso sulla terra, e comprende l’incarnazione, la passione e la resurrezione: nel primo pezzo la tonalità base della Messa, re maggiore, è piegata verso alterazioni modali di reminiscenza gregoriana; il secondo, ove culmina più pateticamente il dramma, è in re minore; il terzo nella luminosa tonalità di fa maggiore. La terza parte del Credo si addentra nei misteri della fede (Credo in Spiritum Sanctum et vitam venturi saeculi) e comprende anche le parti più aridamente concettuali del testo (Credo in unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam). Trascendendo l’illustrazione spicciola delle parole nell’autonomia musicale di una fuga, in cui si assomma tutta la metafisica perfezione di questa forma suprema di costruzione sonora, Beethoven ha evitato magistralmente ogni rischio.

Herbert von Karajan

Nel Sanctus, iniziato con sommessa devozione e poi irrompente nell’animato giubilo dell’Osanna, un preludio strumentale circonda di devoto raccoglimento gli atti del celebrante che consacra il pane e il vino; indi segue la celeberrima melodia del Benedictus, di trasparenza e delicatezza quasi femminee nel gioco ricorrente delle voci e del violino solista.
Anche l’Agnus Dei si eleva alle massime altezze nella seconda parte, il Dona nobis pacem, sul quale Beethoven iscrisse di suo pugno l’intitolazione: “preghiera per la pace esteriore e interiore”. Come sarà per la gioia nella Nona Sinfonia, il concetto di pace si eleva qui a un significato superiore di somma
perfezione spirituale della condizione umana. Perfino D’Indy, zelantissimo assertore dei valori cattolici nella Missa solemnis, riconosce il carattere eminentemente pastorale del Dona nobis pacem, che lo fa accostare alla Sesta Sinfonia. «La pace non è nella città; è ai ruscelli della valle, agli alberi del bosco che l’inquieto abitatore della città va a domandarla». Sicché in questo caso D’Indy s’accorda eccezionalmente con Chantavoine, altrettanto tenace assertore del carattere laico di questa Messa, per il quale ciò che Beethoven ha cantato nel Dona nobis pacem «non è tanto la messa quanto il suo libro favorito, le Considerazioni su Dio e la natura, di Sturm».
Fiumi d’inchiostro ha fatto scrivere il breve episodio bellicoso (“allegro assai”) che è inserito nella preghiera, per dipingere – secondo un esempio di Haydn – i vani assalti del male alla coscienza del giusto invocante pace. Trombe e tamburi imitano realisticamente rumori della guerra, presentata come simbolo d’ogni male. Ciò che fu sentito come un’indebita intrusione profana nel tessuto musicale d’una Messa. Ma il musicista s’è preoccupato di variare, con uno di quei pronunciati contrasti che erano essenziali al suo primo e secondo stile, la persistente atmosfera di religiosa elevazione. Nelle somme altezze dello spirito l’aria rarefatta si fa alla lunga irrespirabile: l’episodio guerresco è una boccata d’umanità, che permette di riprendere in seguilo l’ascesa verso il divino con lena rinnovata.

Ė apprezzabile il modo in cui ogni singolo episodio venga posto in luce come se un riflettore si accendesse e si spostasse sulle varie scene. Forse il discorso unitario ne perde un po’, e il risultato resta notevole. Registrazione buona. Raccomandato!
Nessuna Messa ha questa dedica: “Dal cuore possa andare ai cuori”.
Nessuna sceglie per la voce di soprano, nel Kyrie, un’entrata talmente carica di interrogativi.
Nessuna avvia il Gloria con un’ansia così sfibrante.
Nessuna è altrettanto attraversata dalle indicazioni di sforzando, forte, fortissimo e, a contrasto, nel Benedictus, da un così lungo episodio Andante molto cantabile, affidato alla dolcezza contemplativa del violino solo.
Nessuna è figlia inconfondibile e insieme sorprendente del suo autore. Che Beethoven è mai questo?
Solemnis: così si definisce una Messa che, nella presenza di coro, orchestra e voci soliste, si distingua o per le dimensioni non ordinarie o per la particolarità dell’occasione per la quale viene concepita ed eseguita. La Missa solemnis che inaugura la nuova stagione di Santa Cecilia risponde a ambedue queste caratteristiche: la vastità della concezione e le circostanze, complesse, per cui viene concepita.
La composizione occupa Beethoven, in momenti diversi, tra 1819 e 1823; un lungo periodo durante il quale nascono altri capolavori, dalle Variazioni Diabelli, alla Nona Sinfonia, dall’avvio con l’opera 127 della serie degli ultimi Quartetti, alle ultime Sonate per pianoforte.
L’affaticata vicenda invita, anche, a ripercorrere il sempre inquieto rapporto del Titano con i mecenati, in particolare se verso di loro poteva esibire rapporti di vera conoscenza, perfino di amicizia.
Il Principe Rodolfo d’Asburgo (Firenze, 1788 – Baden, 1831), figlio di Leopoldo II, fratello dell’Imperatore Francesco I, buon musicista, allievo dall’età di quindici anni di Beethoven a Vienna, già munifico dedicatario di alcune opere, già cardinale, sarà consacrato arcivescovo di Olmùtz, una località della Moravia, dunque nei confini dell’Impero, il 20 marzo 1820. L’annuncio viene dato con grande anticipo e subito Beethoven si mette al lavoro per scrivere, appunto, la Missa solemnis destinata a quella celebrazione: «Se una mia Messa solenne sarà eseguita durante le cerimonie di consacrazione di Vostra Altezza Imperiale, quel giorno verrà annoverato tra i più gloriosi della mia vita e Dio mi assisterà perché i miei poveri talenti possano contribuire alla gloria di quel giorno».
Ma non tutti i geni sanno anche promuoversi, e non tutti coloro che si promuovono bene sono geni. E c’è, come probabilmente nel caso in questione, chi di promuoversi non è proprio capace perché i tempi della promotion non coincidono con quelli della creazione. Fatto sta che l’arciduca diventa anche arcivescovo, ma la Messa di Beethoven non è ancora pronta. Lo sarà soltanto molto tempo dopo: la prima esecuzione avviene infatti alla Società Filarmonica di San Pietroburgo il 18 aprile 1824.
La dedica dice: Serenissimo ac eminentissimo Domino Rudolfo Joanni Caesareo Principi et Archiduchi Austriae. Passano poche settimane e tre sezioni della Messa vengono eseguite anche a Vienna, nel concerto del 7 maggio 1824 al Theater an der Wien.
La serata rimarrà storica soprattutto perché è in quella occasione che debutta la Nona Sinfonia. Tre sezioni – Kyrie, Credo, Agnus Dei – e annunciate come Inni: era stato questo il punto di mediazione tra le aspettative dell’autore e i limiti imposti dalla Chiesa cattolica di Vienna all’esecuzione di musica liturgica in luoghi teatrali.
Beethoven, vestito con un frac verde, è in sala; assiste al concerto dalla fossa dell’orchestra, non ode la musica, non sente gli applausi, si accorge del successo quando il pubblico inizia a sventolare dei fazzoletti bianchi. Sale in proscenio, si inchina commosso.
Dopo aver sperato di trovare un editore, chiesto e restituito anticipi, stretto e stracciato accordi, il compositore cerca ora di pubblicare la propria Messa grazie al ricavato di una sottoscrizione tra le principali case regnanti e istituzioni musicali d’Europa. Scrive, scrive, scrive a tutti (anche a Goethe e a Cherubini), ma alla fine di questa frenetica attività promozionale i sottoscrittori sono soltanto dieci: lo Zar, i re di Prussia, Francia, Danimarca, l’elettore di Sassonia, i granduchi di Darmstadt e di Toscana, i principi Galitzin e Radziwill, l’Associazione Cecilia di Francoforte. Troppo pochi. Finalmente, nel 1825, sarà l’editore Schott a stampare quella che l’autore considera “la mia opera più riuscita”.
Ma la Missa solemnis è davvero tale?
Fra i tanti possibili (la storia di un’opera d’arte è anche, e in gran parte, la storia della sua ricezione critica, del suo gradimento, o della sua sfortuna), proponiamo due giudizi che, nella loro distanza di riferimenti culturali e di punto di vista, condividono la radicalità e invitano con forza a un confronto.
Scrive Theodor Adorno: «La rinuncia coerente all’elaborazione tematica, elimina nettamente nella Missa ogni legame immediato con la rimanente produzione di Beethoven. La struttura interiore, la fibra di questa musica è radicalmente diversa da tutto ciò che s’intende per stile beethoveniano. È arcaicizzante, non ricavata formalmente dalla variazione e dallo svolgimento dei nuclei tematici, ma si compone di una somma di sezioni per lo più imitative, paragonabile alla tecnica dei Fiamminghi della metà del XV secolo».
«Per il cristiano, la cui legge suprema è l’obbedienza, la posizione di Beethoven appare ripugnante, poiché in lui la sottomissione è preceduta da una lotta con il dubbio, e la fede viene raggiunta attraverso un cimento faustiano», così Paul Henry Lang in The Creative World of Beethoven.
Ora invece, anche qui scegliendo alcuni tra i molti appunti autografi, ascoltiamo alcune riflessioni dell’autore contenute nei Quaderni di conversazione: «Per scrivere della vera musica religiosa bisogna esaminare tutti i corali ecclesiastici dei monaci, farne degli estratti, anche delle strofe, nelle traduzioni migliori, con la più esatta prosodia di tutti i salmi e gli inni cattolici».
«Noi diciamo che la comune musica sacra è degenerata in una musica quasi operistica».
Ancora, ma da una lettera all’arciduca Rodolfo del 1819: «Gli antichi ci servono moltissimo, perché hanno per lo più un autentico valore d’arte. Ma la libertà, il progresso nel mondo dell’arte, come in tutta la grande creazione, sono lo scopo, e sebbene noi moderni non siamo tanto avanti nella saldezza quanto i nostri antichi precursori, tuttavia la raffinatezza della nostra civiltà ha aggiunto qualche cosa».
Sono passati quindici anni dall’Oratorio Cristo sul Monte degli ulivi e dodici dalla Messa in do maggiore, due opere di cui l’autore stesso avvertiva i limiti.
Ora che si accinge ad affrontare la sua seconda Messa e il terzo e ultimo lavoro di carattere liturgico, Beethoven ribadisce dunque tre esigenze.
La prima è la necessità di conoscere la migliore tradizione dell’autentica “musica religiosa”. Ma se è autentica, la musica sacra non può “degenerare in una musica quasi operistica”: deve distinguersi. Era già in¬ziata – e si sviluppava vivacissima sulle riviste musicali tedesche – la discussione riguardo alla differenza tra i generi “sacro” e “profano”: un problema fino ad allora non ingombrante (Vivaldi ne avrebbe sorriso, Händel cominciò a porselo con gli Oratori in lingua inglese, Bach non scrisse opere, però nelle sue cantate sacre troviamo numerosi episodi di teatralizzazione vocale), ma che il più consapevole sguardo verso il passato (e le periodizzazioni della storia iniziate con la cultura illuminista) pone in primo piano, avviando una riflessione che ancora appassiona, ancora irrisolta. E tuttavia, afferma Beethoven, la consapevolezza sia della “scienza musicale” del passato, sia del preciso contesto liturgico in cui la Messa doveva nascere, non potrà sacrificare “la libertà” e “il progresso nel mondo dell’arte”. L’opera non potrà che essere figlia della soggettività del suo genio creatore.
Dal conflitto e dalla sintesi fra queste diverse esigenze nasce la Missa solemnis, che appare divisa in due blocchi di pensiero musicale. Quando lo sguardo tende al Domine Deus, all’Omnipotens, al Rex coelestis, all’Altissimus, dunque in particolare nelle tre scansioni iniziali del Kyrie, del Gloria e della prima parte del Credo, Beethoven ci ricorda di essere l’autore dell’ Egmont, del Fidelio, lo studente di filosofia che legge Kant e condivide l’immensità dei suoi orizzonti: “Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”. Beethoven, che ritiene l’uomo degno di governare la propria esistenza nel nome di una libera dignità, quando contempla l’Assoluto ha il suo sguardo teso, non placato. Faustiano?
Ma quando il testo canonico della Messa si rivolge al Figlio, alla sua nascita, morte e resurrezione – a colui che Homo factus est, al Filius Patris, al Benedictus, all’lncarnatus, al Crucifixus, all’Agnus Dei, a colui che perdona – allora prevale la compassione beethoveniana, la sua partecipazione, da uomo a uomo, “da cuore a cuore”, a questo dramma e al mistero dell’orizzonte di salvezza che svela. Fermando il tempo, dilatando lo spazio dell’ascolto nella perorazione strumentale posta a conclusione del Benedictus, quando il violino solo conclude la propria meditativa ascensione sul sol sovracuto, mentre l’ultimo accordo orchestrale, dilatando un pizzicato, condivide quel desiderio di tendere verso l’altrove.
L’autore sta accanto al Figlio e da lì osserva il mondo del Padre: la voce sola del basso che ricorda i peccata e chiede miserere; la “Preghiera per la pace interiore ed esteriore”, indicata all’inizio dell’Allegretto vivace dell’Agnus Dei, mentre dapprima i soprani, poi i contralti, i tenori, i bassi del Coro a lungo accarezzano, la “a” di pacem. Le stesse parole vengono riprese in un recitativo inquieto, riesplodono in un brusco tono di fanfara, quasi una citazione dalla Missa in tempore belli di Haydn, con una tensione che rimanda al periodo in cui l’autore considerava il contrasto, l’opposizione fra due diversi princìpi, il nucleo generatore della sua creatività. La consolazione e il furore, la passione e la tensione verso la spiritualità: il fertile magma che sappiamo appartenergli.
Beethoven prescrive ängstlich (con timore) per il recitativo del contralto nell’Agnus Dei, a cui coro e solisti fanno ala accompagnando “colla voce”, senza pronunciare parole, il suo incedere nel dubbio, nell’attesa. E come è repentina la conclusione dell’opera: noi lo chiameremmo un “finale aperto”.
Manca l’elaborazione tematica, dice Adorno: come manca nella Marcia funebre della Terza Sinfonia, quando Beethoven individua alcune cellule tematiche, le ripete senza sviluppo, le gela nella loro evidenza. Berlioz chiamerà questa tecnica idèe fixe, in Wagner diventerà il Leitmotiv, sottoposto però a delle metamorfosi quando, nel proprio percorso, incontra altri motivi, altre situazioni. L’idea di una cellula da cui si genera, o che già comprende, un universo linguistico ed espressivo sarà determinante anche per la messa a punto del sistema di composizione dodecafonico e in particolare per la poetica di Anton Webern.

Leonard Bernstein

In questa Messa Beethoven non racconta, isola delle idee e le ripete, nell’orchestra e nelle voci, a volte con iterazione ossessiva, stordente, rabbiosa. Con una sapienza compositiva che crea un percorso attraverso le più caratterizzanti forme della musica sacra dei secoli precedenti: la polifonia, il ricorrente intervallo di terza discendente tipico delle Messe fiamminghe, la presenza di episodi a voce sola: «Lo stile a cappella deve essere preferibilmente definito come il vero unico stile da chiesa», scrive in una lettera del 1825 nella
quale fa riferimento alla Missa solemnis, sostenendo che “quasi potrebbe essere eseguita solo a cappella”!
Queste istantanee dal passato si fondono con una potenza orchestrale e corale del tutto contemporanea, certamente sua, e diventano torsi marmorei, frammenti scolpiti e uniti per sovrapposizione, non per sviluppo. Quadri da una Messa.
Ha ragione Henry Lang, Beethoven aveva qualche problema ad ubbidire, se non a se stesso. E a placare i propri dubbi.

Testo

KYRIE
Kyrie eleison Christe eleison. Kyrie eleison.

GLORIA
Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis. Laudamus te, benedicimus te, adoramus te, glorificamus te. Gratias agimus tibi propter magnam gloriam tuam, Domine Deus, Rex coelestis, Deus Pater omnipotens, Domine, Fili Unigenite, Jesu Christe, Domine Deus, Agnus Dei, Filius Patris. Qui tollis peccata mundi, miserere nobis, suscipe deprecationem nostram. Qui sedes ad dexteram Patris, miserere nobis. Quoniam Tu solus sanctus. Tu solus Dominus, Tu solus altissimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spirito, in gloria Dei Patris. Amen.

CREDO
Credo in unum Deum Patrem omnipotentem, factorem coeli et terrae, visibilium omnium et invisibilium: et in unum Dominum Jesum Christum, Fi-lium Dei Unigenitum, et ex Patre natum ante omnia saecula. Deum de Deo, lumen de lumine, Deum veruni de Deo vero, genitura, non factum, con-substantialem Patri, per quem omnia facta sunt; qui propter nos homines et propter nostram salutem descendit de coelis. Et incarnatus est de Spiritu Sancto, ex Maria Virgine, et homo factus est; crucifixus etiam prò nobis sub Pontio Filato passus et sepultus est; et resurrexit tertia die, secundum scripturas et ascendit in coelum, sedet ad dexteram Patris; et iterum venturus est cum gloria, judicare vivos et mortuos, cujus regni non erit finis. Credo in Spiritum Sactum Dominum et vivificantem, qui ex Patre filioque procedit, qui cum Patre et Filio simul adoratur et conglorificatur, qui locutus est per Prophetas. Et in urtarti sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam. Confiteor unum baptisma, in remissionem peccatorum. Et expecto re-surrectionem mortuorum, et vitam venturi saeculi. Amen.

SANCTUS
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus Deus Sabaoth. Pieni sunt coeli et terra gloria tua. Hosanna in excelsis.

BENEDICTUS
Benedictus Qui venit in nomine Domini. Hosanna in excelsis.

AGNUS DEI
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis. Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis. Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona nobis pacem.