Ludwig Van Beethoven

Sonate per pianoforte

Si tratta della seconda integrale beethoveniana di Backhaus, cui manca la sola op 106 inserita nella versione Mono del ciclo precedente. La qualità di registrazione è, come DECCA ci ha abituati, ottima per gli anni. Il ciclo è stato inciso per lo più a Ginevra, su un arco temporale abbastanza ampio (1953- 1969): alcune minime differenze nella prospettiva della ripresa audio sono percepibili, così come alcune differenze nel rumore di fondo. L’ascolto rimane comunque molto gradevole.
Per quanto riguarda l’interpretazione si tratta sicuramente di un punto di riferimento delle Sonate beethoveniane: Backhaus affronta queste pagine in maniera estremamente libera e personale. Eseguite senza ritornelli (e personalmente non lo trovo un grosso problema), con estrema libertà dei tempi all’interno dello stesso movimento, le dinamiche sono precise ed accentuano i chiaroscuri ed i contrasti, sempre con eleganza. Il risultato è un miracolo di equilibrio che coglie sicuramente lo spirito dell’autore, pur non essendo minimamente “filologico”. La prassi esecutiva infatti non è sicuramente moderna (Backhaus era del 1884!) accentuando ed esplicitando gli spiriti – classico o romantico – sottesi al discorso musicale in maniera che pochi altri esecutori hanno saputo rendere. La libertà pianistica, a tratti quasi “improvvisativa”, assieme alla capacità in un qualche modo di rimanere fedeli ad un’idea, sono il vero punto centrale di questa integrale, che ci regala una prospettiva sulle Sonate beethoveniane che non può mancare in qualsiasi collezione. Registrazioni eseguite dal 1953 al 1969 e rimasterizzazione effettuata nel 2000. Audio molto buono. Imperdibile!!

Wilhelm Backhaus

I contemporanei di Wilhelm Backhaus conobbero il pianista soltanto tale e quale si presentava sul podio. Per il resto della sua vita l’artista rimase per loro uno sconosciuto. Il suo comportamento modesto e l’incredibile concentrazione mentre suonava erano come una prova della genuinità del suo atteggiamento. Il suo dono naturale era divenuto per lui compito: la piena dedica all’opera musicale, che andava “creata” a nuovo davanti all’ascoltatore. Ciò che Backhaus “ricreò” in più di quarantamila concerti è stato documentato e reso accessibile per mezzo delle registrazioni sonore e dei dischi. L’assenza di questa testimonianza viene nuovamente presentato in questa incisione, alla quale aggiungeremo alcune parole in memoria di un artista insuperabile.
La maniera in cui saliva sul podio non era affatto cerimoniale: piuttosto, egli si faceva avanti con passo sicuro, consapevole che stava per compiere il suo dovere. Tra gli scarsi particolari noti sull’artista, era significativo ch’egli usasse sempre portare con sé il proprio sgabello in maniera da potersi sedere adeguatamente davanti allo strumento sempre nella maniera in cui era abituato. Qualunque fosse il tempo della musica che stava eseguendo, la sua positura era sempre rilassata, i movimenti rimanevano estremamente parsimoniosi, privi di gesti superflui e determinati esclusivamente dallo sviluppo musicale pianistico. I lineamenti erano impassibili, ma tradivano un ascolto attentissimo che controllava costantemente ciò che le sue mani – con tutte le forze riunite – strappavano allo strumento.
Tutto veniva concentrato nell’esecuzione, la quale, come avviene con tutti i grandi pittori o scultori, non era tecnica ma arte, mai fine a sè stessa bensì veicolo per l’idea musicale: vero diletto per chi era in grado di assistere a come un grande maestro riusciva ad eseguire senza sforzo alcuno le più grandi difficoltà. In campo musicale il compositore rappresenta evidentemente l’idea musicale, ma il testo musicale costituisce soltanto una parte dell’opera vera e propria, la quale per la sua realizzazione necessita essenzialmente il suono – e con questo anche l’interprete, l’intermediario e il traduttore che trasforma il testo in suono. Backhaus si dedicò con estremo impegno a questo compito.
Il suo suono dolce e pieno, ottenuto con un impiego estremamente economico
del pedale, era delizioso e discreto, non stancava e non offendeva mai l’ascoltatore: tanto più brillanti spiccavano quei passaggi ben misurati, che acquistavano un colore più intenso e che ad esempio evidenziavano uno sviluppo armonico. Tuttavia, ciò che colpiva più direttamente l’ascoltatore era la differenziazione ritmica: la possibilità di catturare l’aspetto caratteristico e individuale di ogni motivo e renderlo udibile tramite le sue sfumature; e inoltre di non semplicemente “suonare” i passaggi di scale in maniera arida e noiosa, ma di dare a loro quella struttura di accenti che rende chiaro e comprensibile il suo significato.
Il termine comunemente impiegato di “virtuoso” per Backhaus significava la sicurezza espressa dalla parola latina virtus, abilità e vigore, ed era il risultato del suo entusiasmo per il brano che stava affrontando in quel momento. E per lui questo rappresentava sempre una sfida nella quale egli impiegava le proprie capacità straordinarie per dare al brano un massimo di trasparenza. Senza perdersi in particolari, egli presentava la forma dell’opera in maniera perfettamente comprensibile agli ascoltatori.
Così abbiamo conosciuto questo artista, di cui una monografia definitiva non è ancora stata scritta, nonostante il contributo di A.H. Eichmann apparso nella serie Die groben interpreten (i grandi interpreti – Ginevra, 1957/Londra 1958). Ci accontenteremmo di elencare alcune tappe importanti della vita del maestro:

1884 – Backhaus nasce a Lipsia il 26 marzo.
1890 – Prime lezioni di musica.
1892 – Prima apparizione in pubblico.
1894 – Studente al Conservatorio di Lipsia presso Reckendorf. 1895 – Incontro con D’Albert, Grieg, Nikisch e Brahms.
1898 – Si diploma a Lipsia; studi presso d’Albert. 1899 – Primi recitals pianistici.
1901 – Concerto con Nikisch nel Gewandhaus. 1902 – Concerto con Richter a Manchester.
1904 – Temporaneamente professore al Royal College of Music di Manchester. 1905 – Vince il primo premio al terzo Concorso Anton Rubinstein a Parigi. 1907 – Prime incisioni discografiche.
1908 – Corsi di specializzazione a Sondershausen.
1912 – Partecipazione al primo Festival americano Brahms (Concerto in si bemolle).
1925 – Tiene 57 concerti in Austria con 175 opere diverse.
1926 – Insegna al Curtis Institute di Filadelfia.
1929 – Esegue il ciclo completo delle Sonate di Beethoven a Vienna e Parigi. 1931 – Sceglie Lugano come residenza.
1969 – Riceve la croce d’onore della Repubblica Federale tedesca. Il 29 giugno tiene il suo ultimo concerto. Muore il 5 luglio. I funerali vengono svolti a Colonia.

L’incisione ci rende consapevoli dell’esistenza non soltanto di una storia della musica ma anche di una storia dell’interpretazione che abbiamo appena incominciato a studiare. Cerchiamo dunque di definire il ruolo di Wilhelm Backhaus all’interno di questo sviluppo e di chiarirlo tramite alcuni cenni storici.
Backhaus non soltanto ottenne la sua preparazione alla svolta del secolo in un periodo in cui l’arte era dominata dall’ Jugendstil, ma oltre a ciò a Lipsia, città in cui Klinger con il “monumento a Beethoven” e le acqueforti della “Brahms Phantasie” presentava interpretazioni “extramusicali” di due compositori che per il pianista avrebbero avuto un’importanza fondamentale. Tanto più che nel caso di Beethoven sin dall’inizio tali interpretazioni avevano offuscato l’interesse per l’aspetto puramente musicale – persino tra gli interpreti. Era quindi inevitabile che si destasse una nuova generazione estremamente sensibile a tutto ciò che era comunicabile direttamente tramite la musica. Con le sue inclinazioni e il suo atteggiamento, Backhaus era destinato a recare nella storia dell’interpretazione una nuova obiettività (obiettività che recava il sigillo del Bauhaus di Weimar) in tutto quello che era eccessivamente adorno, “sovraccarico”, e che non va confusa con la tanto discussa “fedeltà al testo”.
Si può affermare che in linea generale qualsiasi interprete che non altera intenzionalmente lo spartito musicale vuole essere fedele al testo. Che il compito gli riesca o no dipende dal punto fino a cui egli riesce a presentare un’opera composta nel passato in maniera tale che essa risulti nuovamente accessibile all’ascoltatore nel presente.
A Lipsia fu compiuto un passo decisivo in avanti quando nel 1908 l’editore Breitkopf & Hartel pubblicò in versione definitiva l’opera sensazionale di Albert Schweitzer sull’interpretazione di Bach, in cui l’autore definiva essenzialmente la funzione di un’esecuzione moderna, determinando i limiti – ma anche la legittimità – della cosiddetta interpretazione storica. (Si veda a questo proposito il testo di Walter Frei Der geschichtliche ort von Albert Schweitzer Bach-Deutung, Lucerna, 1989). Backhaus, la cui arte e maestria non erano mai state messe in dubbio dagli intenditori, contribuì – certo non senza opposizione da parte di coloro che si accontentavano sempre del consueto e del “normale” – a imporre un nuovo stile di interpretazione musicale, che non per caso ebbe le prime reazioni positive nei paesi anglosassoni, dove da William Morris (1834-96) in poi alcune riforme radicali della convenzione avevano preparato la via per un’arte “nuova”.
Queste riforme si verificarono anche sul continente, sebbene appena alcuni decenni più tardi – non per ultimo sotto forma di un riconoscimento duraturo dei
meriti di William Backhaus. Lasciando da parte ogni forma di nostalgia per i “vecchi tempi”, oggi giorno si nota la tendenza a ritornare ai raggiungimenti della “nuova obiettività”. E proprio per questo le incisioni di Backhaus possiedono un elemento di continua attualità. Parsimonioso quant’era nella sua arte e nel suo modo di suonare, rimane assolutamente esemplare la maniera in cui dal suo inesauribile capitale Backhaus riuscì a estrarre elementi nuovi ed anche “vecchi”.

Walter Frei (Traduzione DECCA 1992)

Willhelm Backhaus

Saggio sulle Sonate per pianoforte di Beethoven

Quando Ludwig van Beethoven lasciò Bonn per recarsi a Vienna, egli era famoso soprattutto come virtuoso del pianoforte, e tale strumento rimase per tutta la vita al centro del suo pensiero compositivo. Esteriormente ciò si dimostra dal fatto che la metamorfosi del vecchio Hammerflugel nel moderno pianoforte fu praticamente merito di Beethoven, il quale fu anche il primo compositore a scrivere per questo strumento. Le 32 Sonate sono per così dire la spina dorsale della sua opera ed ebbero un influsso determinante su tutto il resto della sua vita musicale.
Alla sonata per pianoforte Beethoven affidò la sua espressione più personale, come si manifestò soltanto nei Quartetti, e molte idee nuove gli giunsero proprio da questa intima relazione con lo strumento.
Dalla tradizione egli ereditò la forma-sonata e il ciclo di Sonate. All’epoca né l’una né l’altro era ancora stato “codificato” o divenuto semplice formula. Beethoven li tratta con una libertà che possibile soltanto quando i principi di costruzione sono rimasti ancora vivi. La natura fondamentale e lo spirito di tali principi hanno le loro radici nell’illuminismo e corrispondono perfettamente al desiderio di Beethoven: quello di realizzare il suo obiettivo e compiere i suoi obblighi interiori superando tutti gli ostacoli.
Se poniamo questa idea in libera relazione all’esposizione, allo sviluppo e alla ricapitolazione, comprenderemo immediatamente perché, rispetto al modello di Carl Phillip Emanuel Bach (ch’egli ammira profondamente), Beethoven farà dello sviluppo il campo principale della sua battaglia spirituale, allargandone considerevolmente le dimensioni. Già nell’esposizione egli non impiega due temi strettamente collegati, né un tema unico che porta avanti nella dominante – procedimento che aveva assicurato un potente senso di direzione allo slancio pieno di ottimismo dei movimenti delle sonate haydniane.
Con Beethoven appaiono invariabilmente due idee fortemente contrastanti, ed è questa opposizione a generare lo sviluppo musicale. La ricapitolazione, in quei tempi minacciata da paralisi, con lui diventerà una possente sezione conclusiva del movimento, e inoltre dotata di notevole potenziale di intensificazione; dalla Sonata “Appassionata op. 57” in poi vi è la tendenza a presentare la ricapitolazione in forma codificata, e non più completa.
La coda in tal modo acquista maggiore importanza, diventando una riflessione su quanto è avvenuto e quanto è stato raggiunto durante il movimento. Nuova è anche l’introduzione lenta, impiegata occasionalmente dalla “Patetica op 13” in poi. Nella Sinfonia Haydn, l’aveva impiegata spesso, Mozart soltanto raramente; ma nessuno dei due compositori ne aveva fatto uso nelle numerose sonate per pianoforte. Nelle sue introduzioni lente Beethoven indica chiaramente l’evoluzione del suo stile pianistico verso una pretesa sinfonica, che nel corso delle sue Sonate diventa sempre più palese e incomincia a porre richieste sempre maggiori alla tecnica d’esecuzione.
Tali richieste non sono mai esclusivamente di genere virtuosistico. L’ornamentazione e la figurazione acquistano valore tematico e diventano fenomeni genuinamente musicali, come rivela in maniera esemplare la “Waldsteinsonate op. 53”. L’elemento sinfonico si manifesta anche attraverso l’aumento del numero dei movimenti nel corso dell’intera serie di Sonate. Soltanto sei Sonate contengono 2 movimenti, 15 contengono 3 movimenti e 11 addirittura 4 movimenti. Dall’op. 81a (“Les adieux”) in poi si nota anche un nesso ciclico tra i singoli movimenti. Il significato del singolo movimento cambia in maniera caratteristica: la danza del minuetto ormai passata di moda, nell’ambiente di società cede il posto al valzer; ma una svolta simile sarebbe impensabile nelle Sonate per Beethoven, nonostante il tema di valzer nelle
Diabelli-Variationen – proprio queste variazioni, anzi, lo dimostrano in maniera lampante. Nella Sonata in la M op 2 n. 2 Beethoven inventa lo scherzo come espressione caratteristica ed essenziale del suo senso per il ritmo e per il movimento di danza.
L’evoluzione del movimento lento forse è meno appariscente. Dal Largo, con gran espressione della Sonata in mi bemolle M op. 7 in poi esso ha la capacità di diventare nella sua estasi lirica – nonostante i movimenti esterni – l’asse centrale dell’intera Sonata. Particolarmente interessante in questo caso è l’Adagio sostenuto della Sonata “Hammerklavier op. 106. Che Beethoven nelle sue Sonate abbia seguito l’esempio di Mozart e Haydn impiegando la tecnica della variazione e delle marce non ci sorprende affatto. D’altro canto l’istinto contrappuntistico di Beethoven, la sua tendenza alla polifonia, alla condotta canonica nelle parti e addirittura alla fuga come si manifesta nelle ultime Sonate (Opp. 101, 106, 109-111) merita un esame più attento.
Queste opere composte tra il 1816 e il 1822, compiono già un passo decisivo verso il Romanticismo – periodo che volse l’attenzione più verso il passato storico. Una preoccupazione fondamentale di quest’epoca era l’esposizione delle favole e leggende popolari, quindi di un genere di letteratura che dava particolare enfasi agli aspetti più misteriosi e oscuri dell’esistenza.
In pieno contrasto con tutto questo sta Beethoven, l’artista classico, la cui ricerca del passato porta invece alla riscoperta del senso per l’architettura musicale come lo si trova nell’antico contrappunto.
Tutto ciò che Beethoven nel periodo giovanile e nel periodo medio ha impiegato soprattutto per il suo contenuto affettivo, ora tende verso l’astrazione e, con meravigliosi dialoghi interiori di infinita varietà, egli apre una porta verso dimensioni musicali assolutamente nuove. Nella rappresentazione musicale del dolore e della sofferenza, Beethoven (il quale ha già sofferto duramente) ora reagisce adattandosi a un ordine fisso e durevole: egli non ama le sfrenate espressioni di dolore, ma ama lasciarsi andare lamentando la propria sfortuna; piuttosto, egli ritorna alle vecchie forme in cui la musica non cerca di esprimere nulla al di fuori di sé stessa. Questo processo di condizionamento intellettuale e spirituale significa per Lui null’altro che l’accettazione della realtà – oppure, come un altro solitario, Holderlin, avrebbe detto nei suoi ultimi inni: “riconoscere le cose come stanno” (“Bestehendes gut gedeutet”).
Sotto questo punto di vista, nell’opera di Beethoven vi sono parecchi aspetti da rivalutare. Se osserviamo le varie componenti della sua tecnica, ciò che colpisce di più è il suo trattamento dell’armonia. Poiché la musica per pianoforte di Beethoven, in misura assai più grande di quella del passato, deriva la sua vitalità dall’armonia. L’effetto dell’armonia è più “pianistico” poiché, non essendo il pianoforte uno strumento melodico e tenuto conto del fatto che la sua sonorità rimane relativamente invariabile, gli effetti di “colore” vengono
ottenuti soprattutto con una varietà di combinazioni simultanee di suoni – in altre parole con l’armonia.
Di conseguenza le tessiture pianistiche di Beethoven sono generalmente più ampie di quelle di Haydn o Mozart; ma persino – anzi, specialmente – quando diventano più rade, è sempre l’armonia a renderle interessanti.
Ottimo esempio è la maniera in cui il motivo del “Lebewohl” (“addio”) diventa l’idea principale del primo movimento della Sonata op. 81a (“Les adieux”). Beethoven ha bisogno della cosiddetta cadenza rotta (o d’inganno): l’addio se possibile non deve essere definitivo, bensì seguito da una riunione, e questo semplice desiderio viene espresso in maniera semplice e brillante dall’arrivo della cadenza rotta anziché di quella perfetta.
Ciononostante egli riesce a ritrarre il dolore del congedo con dissonanze nuove e straordinariamente eloquenti, ma allo stesso tempo assai prossime: nella coda il motivo del “Lebewohl” incomincia a intrecciarsi melodicamente e poco a poco il suo vero significato viene reso chiaro dall’armonia: le due persone appaiono l’una di fronte all’altra nella giustapposizione delle tonalità di tonica e dominante. Le differenze tonali di questo incontro generano accordi (incompleti) di nona. In senso stretto, ci troviamo di fronte a un caso di bitonalità che guarda verso il futuro – ben oltre a Wagner e al tardo Romanticismo – fino al nostro secolo.
È invariabilmente segno di grande maestria il saper impiegare il materiale più improbabile trovando soluzioni completamente inattese. Tale caratteristica, presente sin dall’inizio nella musica di Beethoven, viene intensificata in misura straordinaria nelle sue opere tarde, nelle quali ad esempio il senso di libertà e di movimento privo di ostacoli non è tanto il risultato di armonie insolite e ben scelte quanto dell’idea geniale di cambiare l’accordo sul tempo debole della battuta anziché come ci si attenderebbe, su quello forte. Grazie a questo accorgimento egli riesce a fare in modo che i normali accordi allo stato di secondo rivolto abbiano l’effetto di avvenimenti grandiosi.
In Beethoven il processo armonico è strettamente legato all’elaborazione dei motivi. L’invenzione dei temi stessi è tale che la loro frammentazione nello sviluppo fa risaltare ancora di più la loro vita musicale interiore. La Sonata in re m op 31 n. 2, “La Tempesta” (Beethoven avrebbe detto a Czerny che essa rappresenta il suo “nuovo sentiero”) non è il ritratto musicale di una tempesta esteriore, bensì di una lotta interiore. Essa esordisce con un lento arpeggio ascendente sulla dominante allo stato di primo rivolto (in altre parole un accordo maggiore) e prosegue con una rapida figura discendente sulla tonica (minore).
Maggiore-minore, ascesa-discesa, lento-veloce: tutte queste forti opposizioni appaiono una accanto all’altra nei due motivi; esse contengono in forma embrionale i temi ai quali daranno vita più avanti, le loro derivazioni, gli
sviluppi potenziali e le ulteriori elaborazioni. All’inizio sembra che la rapida figura discendente voglia coprire il dolce accordo spezzato, ma in seguito la situazione viene capovolta quando i motivi di triadi ascendenti del basso hanno la meglio sul motivo più cantabile della voce superiore.
Wilhelm Backhaus

Nello sviluppo arpeggiato dell’inizio nella tonica maggiore per iniziare la ricapitolazione.
Questa figura di triade arpeggiata viene quindi estesa in una specie di recitativo, in modo tale da suggerire che la “domanda” posta all’inizio stia per ottenere la sua risposta. L’intero movimento è profondamente caratteristico non soltanto dello stile pianistico di Beethoven, ma di tutto il suo pensiero musicale. Il primo movimento della Sonata in mi m op. 90 è un perfetto esempio della variazione dei motivi come momento essenziale della composizione.
L’idea è strettamente collegata alla concezione fondamentalmente pianistica del tutto, dato che una serie caleidoscopica di motivi corrisponde meglio alla natura del pianoforte che una semplice presentazione melodica. Alla fine dello sviluppo appare una figura discendente di semicrome che viene immediatamente ripetuta un’ottava più in basso. Essa ritorna in aumentazione ritmica e in imitazione stretta, oscillando avanti e indietro mentre la voce più alta riacquista velocità, accelerando attraverso un’interessante motivo di terzine (che acquista rilievo attraverso una combinazione sincopata) e quindi conduce di ritorno alla ricapitolazione. La qualità pianistica di questa particolarità dello stile beethoveniano viene inoltre evidenziata dall’impiego degli estremi del registro: la musica sembra concepita ancora più “su misura” per lo strumento. L’elaborazione dei motivi procede mano in mano con l’invenzione ritmica. La preoccupazione di Beethoven è di spezzare la simmetria ed impiegare le risorse dello strumento per generare un massimo di vitalità ritmica. Ad esempio le sincopi nel primo movimento della Sonata in la M op. 101 neutralizzano del tutto la sensazione del metro di 6/8 e hanno un effetto sorprendente per la maniera in cui allargano le dimensioni del movimento: sforzati sui tempi deboli, improvvise interruzioni e pause inattese, e finalmente poliritmi; tutto contribuisce magistralmente a mantenere vivo lo sviluppo musicale.
Per contrasto il trattamento della melodia è indubbiamente di importanza minore. Naturalmente, subito dopo Mozart sarebbe stato anche segno di poca fantasia porre l’enfasi sull’aspetto melodico. La questione se il talento melodico sia veramente stato l’unico dono che la Natura abbia negato a Beethoven – come propone Stravinski spiritosamente nella sua Poétique musicale – può rimanere aperta; ma Stravinski ha senz’altro ragione quando fa notare che Beethoven, proprio per questa ragione, ha intensificato fino al massimo tutte le altre componenti musicali.
A questo punto è opportuno far notare un aspetto della musica di Beethoven che è stato spesso ingiustamente ignorato. La serietà e il pathos si fanno sentire con insistenza tale nella sua musica che la sua ironia e il senso dell’umorismo sono frequentemente passati inosservati. Ma a un ascolto attento della Sonata in fa M op. 10 n. 2 è facile scoprire come Beethoven semina dovunque con generosità queste perle della sua natura. Il lettore ha capito l’obiettivo di questa breve
introduzione: essa non ha il compito di fornire informazioni su ogni Sonata che potrà facilmente trovare nella letteratura specializzata. Piuttosto, esso tenta di sottolineare gli aspetti caratteristici e vitali di tutte le Sonate del Maestro, in modo che al primo ascolto l’orecchio sia pronto a percepire le nuove prospettive alle quali abbiamo accennato.
Ogni interpretazione inizialmente deve basarsi sui fatti musicali, dopodiché rimane una questione assolutamente personale dell’interprete – anche quando esegue un’opera per sé stesso in privato. Il testo cerca di evitare decisamente una simile interpretazione. Anche le lodi possono essere dirette soltanto al personaggio storico del compositore. Se il giovane Beethoven ha ricevuto l’eredità dell’assai riverito C. P. E. Bach, e se nel suo periodo medio ha dato sublime espressione al maturo stile classico (in qualità di terzo membro di questo “triumvirato” dei compositori del classicismo), la sua opera tarda ritorna al pensiero polifonico di Johann Sebastian Bach. Ma con la sua completa padronanza della tecnica e della forma Beethoven crea le basi per le generazioni successive: Schubert e Weber, Schumann e Mendelssohn, tutti costruiscono partendo dal suo lascito, ciascuno a modo suo. Più tardi Berlioz e Liszt fanno riferimento a Lui quando creano il poema sinfonico; e toccherà poi a Wagner canalizzare nel proprio dramma musicale il flusso del pensiero sinfonico tedesco.
Persino Brahms, il quale inizialmente sente l’eredità musicale di Beethoven come ostacolo, col tempo trova rassegnatamente la via di ritorno alla grandezza di Beethoven. E l’influsso di Beethoven è percepibile anche nel nostro secolo, non soltanto nell’opera di Mahler e Schoenberg, ma in quella di numerosi altri compositori.
L’obiettivo di questo saggio introduttivo è di illuminare queste relazioni storiche fornendo concreti esempi musicali. In passato il termine “genio” fu applicato soltanto nei confronti di una personalità che con le sue profonde innovazioni aveva influenzato in maniera determinante gli sviluppi futuri. In questo senso riconoscere il genio beethoveniano significa ascoltare nella sua musica quegli elementi innovativi che rendono più comprensibile la musica in generale – e in maniera particolare quella del 19o e 20o secolo. Capovolgendo questa affermazione, si può dire che chi conosce bene l’epoca in cui vive, non può non possedere la capacità di riscoprire sempre nella musica di Beethoven quell’elemento nuovo, quell’originalità che schiude prospettive insospettate e contribuisce ad allargare l’orizzonte intellettuale.

Walter Frei (Traduzione DECCA 1992 Aristide Zappa)