Hector Berlioz

Requiem

Questa registrazione risalente al 1960 è guidata dalle mani esperte di Charles Munch, un incomparabile interprete della musica francese e di molto altro. La Boston Symphony Orchestra era, ed è, una delle migliori orchestre al mondo e la sua esibizione in questa incisione è assolutamente straordinaria. Il “Dies Irae” è straordinariamente drammatico e coinvolgente. Il coro ha un controllo e un’articolazione grandiosi. La sua abilità a passare dalla calma e la limpidezza del “Quid Sum Miser” alle onde burrascose del “Lacrimosa”, all’esultanza gioiosa dell’“Hosanna”, all’impressionante e terrificante “Dies Irae” è incredibile. Bellissimo il “Sanctus” affidato alla voce del tenore Léopold Simoneau. Sicuramente, il genio di Charles Munch è l’energia promotrice di tutti gli altri interpreti e il Coro, protagonista assoluto di questa composizione, risponde fedelmente alla sua guida. Questo è il Requiem, un lutto vissuto da un popolo, un’esperienza profonda sia per gli spettatori che per gli interpreti. Poche altre registrazioni sono così buone. Questo CD è inserito in un prezioso cofanetto contenente altri 84 CD edito dalla Sony di recente pubblicazione. Ultraraccomandato.

Grande messe des morts, op. 5

Ai primi del 1837 Berlioz fu sollecitato dal ministro degli interni De Gasparin – desideroso di aiutare i giovani musicisti e di promuovere in particolare la ripresa del genere religioso – a comporre un Requiem in memoria del maresciallo Mortier, vittima dell’attentato di Fieschi contro Luigi Filippo avvenuto il 28 luglio 1835. Al compositore veniva promesso un compenso di 4000 franchi (circa tre milioni di oggi) e assicurata la possibilità di servirsi di un complesso di 450 esecutori, tra coro e orchestra. L’invito verbale non fu tuttavia seguito da quello scritto: il governo stava per cadere e il direttore della sezione belle arti del ministero, amico di Cherubini, aveva creduto bene di passare l’incarico al suo protetto. Ma all’ultimo momento Berlioz riuscì a sventare la manovra e per vendicarsi del collega rivale gli indirizzò queste righe sarcastiche: «Signore, sono vivamente commosso per la nobile abnegazione che vi ha spinto a rifiutare il vostro mirabile Requiem per la cerimonia agli Invalidi. Abbiatevi tutta la mia riconoscenza. Tuttavia, poichè la decisione del ministro è irrevocabile, son qui a pregarvi di non preoccuparvi più di me e di non privare il governo e i vostri ammiratori di un capolavoro che darebbe tanto lustro alla cerimonia solenne. Con profondo rammarico, credetemi, Signore, il vostro devoto servitore». (Debolezza di un carattere che pur non mancava di magnanimità!).
Il testo liturgico riempì di entusiasmo il musicista: «E’ un soggetto di una grandiosità e di una poeticità formidabili – scrisse ad un amico – e a tutta prima ne sono rimasto schiacciato; ma poi mi sono risollevato, ho dominato il tema e ora credo di aver creato una grande partitura».
Sei mesi dopo aver ricevuto l’incarico, Berlioz aveva terminato il lavoro, le parti erano state copiate e l’esercito degli esecutori radunato. Avevano inizio le prove e il musicista poteva così udire i grandiosi effetti sonori immaginati. Ma improvvisamente il governo decise di sospendere, per ragioni politiche, la commemorazione del maresciallo Mortier: niente cerimonia funebre e, quindi, niente Requiem. Altri si sarebbe abbattuto, ma non il tenace lottatore ch’era Berlioz: «L’opera ormai esiste – dichiarò – e si presenterà certamente l’occasione di farla ascoltare». E si presentò ben presto: il 14 ottobre dello stesso anno il generale Damrémont cadde alla presa di Costantina; il 30 Berlioz propose al ministro della guerra di commemorare il caduto con l’esecuzione del suo Requiem, precisando che «le spese di copiatura e di composizione sono già state, sostenute dal ministero dell’interno » (in effetti non s’era visto ancora un franco dei 4000 promessi!). La proposta fu accettata e così il 5 dicembre il Requiem fu eseguito alla Cappella degli Invalidi, sotto la direzione di Habeneck. La cronaca del Ferrand riferisce: «II Requiem è stato ben eseguito; il suo effetto è stato terrificante sulla maggioranza degli ascoltatori; la minoranza, che non ha capito niente, non sa che dirne… L’impressione è stata folgorante per gli individui dai sentimenti e dalle abitudini più opposte; il curato degli Invalidi ha pianto sull’altare per un quarto d’ora dopo l’esecuzione; l’impressione prodotta dalle cinque orchestre e dalle otto paia di timpani del Tuba mirum non si può descrivere; una corista è svenuta; veramente si tratta di un’opera tremenda».

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A parte il pittoresco della descrizione di Ferrand, il Requiem è di una monumentalità impressionante, sia per l’eccezionaiità dei mezzi sonori messi in campo – duecento coristi, una orchestra «di 140 esecutori, quattro raggruppamenti supplementari di strumenti a fiato posti ai lati dell’orchestra, sedici timpani, due grancasse, tam-tam, tre paia di piatti… (e Berlioz desiderava di raddoppiare e perfino di triplicare tale organico per realizzare il suo pensiero) -, che per l’ispirazione che lo sorregge, sempre originale e traboccante di genialità. La grandiosità dell’opera non deve tuttavia distrarci dalle finezze che vi abbondano: il Barzun paragona il Requiem a una cattedrale gotica, dove il monumentale si combina con la delicatezza cesellata, ciascun elemento intensificando la peculiare qualità dell’altro. E, aggiungeremmo, la partitura del Requiem possiede la stessa ricchezza di luce e di colore delle vetrate gotiche, e i loro magici effetti cangianti di riflessi aerei: e non soltanto in virtù di una maestria timbrica assoluta, ma decisamente anche per il delinearsi di un nuovissimo modo di concepire l’impiego degli altri elementi linguistici musicali – armonia, melodia, ritmo – non più nel tradizionale senso funzionale ma secondo un «colorismo» che anticipa senz’altro l’impressionismo armonico di Debussy e quello ritmico di Strawinsky: per non dire degli inauditi effetti «spaziali», stereofonici, ottenuti nel Tuba mirum con la diversa localizzazione dell’orchestra, del coro, dei quattro gruppi di fiati – che fanno pensare a Boulez e a Stockhausen.
Il Requiem consta di dieci parti che si diversificano non soltanto per le tradizionali differenze di ordine melodico, timbrico e dinamico, ma – ed è questa una sua originale caratteristica – anche per quella che si porrebbe dire, la «fisionomia drammatica» propria di ciascuna di esse ed espressa attraverso la forma musicale.
Così il primo brano – REQUIEM e KYRIE – si presenta come una introduzione sinfonica in cui vengono annunciati e sviluppati dei temi i cui accenti ritorneranno nelle altre parti. Il pezzo è formato da due grandi pannelli: una dolente implorazione per la pace eterna, la cui espressione angosciosa e cupa si illumina improvvisamente alle parole «et lux perpetua»; ed un drammatico Kyrie che conclude in un clima di mistero. Il tratto in cui le parole «et lux perpetua luceat» vengono riprese e scandite reiteratamente fa pensare alla Sinfonia di Salmi strawinskyana.

Charles Munch

Il secondo – DIES IRAE, TUBA MIRUM – inizia con un motivo grave e lento, quasi liturgico. E’ come il tema di una Passacaglia che sorreggerà tutta la possente costruzione culminante nell’esplosione apocalittica del «Quando judex est venturus» e dei tremendi clamori del «Tuba mirum» e che trova la sua conclusione nel terzo brano – QUID SUM MISER – con la ripresa orchestralmente spoglia del motivo di passacaglia intramezzato da atterriti silenzi entro i quali si insinua il lamento straziante del coro.
Nel quarto brano – REX TREMENDAE – che ha il taglio formale di un Finale d’opera, l’apparato fonico si rinforza di nuovo, fino al «de profundo lacu», dove risuonano terrificanti i corni, le trombe e i tromboni, per calmarsi infine nella dolce melodia «qui salvandos salvas gratis».
Una stessa dolcezza pervade il quinto pezzo – QUAERENS ME -: un mottetto in cui il coro solo, a sei voci, commenta il tema del perdono.
Il sesto – LACRYMOSA – è un Interludio dall’inaspettato ritmo di danza su cui si snoda una melodia lamentosa ampiamente fraseggiata e punteggiata da energici accordi degli ottoni. Il ritorno finale del tema del Dies Irae ci indica che il compositore ha concepito come un possente tutto unico i quattro brani, dal secondo al quinto.
Il n. 7 – OFFERTORIUM – è, come indicò l’Autore, un «coro delle anime del Purgatorio» trattato salmodicamente, con una parte orchestrale che crea un clima meditativo attorno alla preghiera «Signore Gesù Cristo, libera le anime dei fedeli defunti».
L’HOSTIAS – n. 8 – costituisce la seconda parte dell’Offertorium, quale offerta dopo la supplicazione – «Hostias et preces tibi laudis offerimus». Qui Berlioz rinuncia ai grandi mezzi sonori e raggiunge il sublime con una semplificata e come decantata tavolozza orchestrale: flauti, tromboni all’unisono, accordi degli archi. Al termine, un audace sconcertante colpo di genio: note gravi dei tromboni a cui risponde, a quattro ottave di distanza, il suono del flauto, come ad evocare, col vuoto fonico, il nulla misterioso, l’infinita, incolmabile distanza fra terra e cielo.
Nella lunga frase melodica di cui si compone il nono pezzo – SANCTUS – il tenore e il coro femminile si scambiano i temi costitutivi del brano, che sfocia nella poderosa fuga dell’HOSANNA, dove si oppongono l’espressione individuale e quella collettiva.
Infine l’AGNUS DEI riprende – dopo una breve introduzione fatta di accordi e di pause – i temi dell’Hostias e dell’inizio, concludendo nella pace dell’eterno riposo finalmente concesso.
«Tale è – scrive il Barraud – questo grandioso Requiem. Nonostante l’epoca in cui fu scritto e le intemperanze di carattere del suo Autore non vi si riscontrano che rare debolezze o errori di gusto in un insieme che reca l’impronta del genio folgorante».