Hector Berlioz

Roméo et Juliette

Questi due splendidi CD di difficile reperibilità offrono registrazioni di alcune delle migliori musiche di Hector Berlioz. La prima e più lunga è la rappresentazione di Roméo e Juliette del 1986, denominata “Symphonie dramatique, Op. 17”con Ricardo Muti sul podio della Philadelphia Orchestra, il Coro di Westminster e l’impeccabile Jessye Norman in uno dei suoi migliori ruoli (Juliette). John Aler e Simon Estes completano il cast. L’esibizione è meravigliosa e Jessye Norman dà il suo miglior contributo a quest’opera che già è stupenda di per sé. La registrazione in DDD è a dir poco eccezionale.
La seconda registrazione risale al 1969 e rimasterizzata nel 1998 (Come la prima), è una stupenda esibizione di Les Nuits d’été, Op. 7 con Sir John Barbirolli che dirige la New Philharmonia Orchestra e Janet Baker nella sua prima esibizione da solista. Sono disponibili altre registrazioni di queste opere ma questa rappresenta una collezione da sogno. Altamente raccomandati.

Roméo et Juliette, op 17

Nel novembre del 1839, nel negozio dell’editore musicale Schlesinger in Rue Richelieu a Parigi, si incontrarono per la prima volta Richard Wagner e Hector Berlioz. Il primo, musicista agli esordi, era giunto in Francia da poco più di un mese, il 17 settembre. Lo accompagnavano la moglie Minna e il terranova Robber, simbolica presenza della piega faticosa che avrebbe preso la vita dell’esule nella capitale più musicale dell’epoca: dopo avere inseguito per un lungo cammino in Germania la carrozza dove erano i Wagner ed essere stato imbarcato anche durante il famoso viaggio in mare con tempesta che avrebbe ispirato le ventose armonie del Fliegende Holländer, giunto in Francia, e coinvolto nelle ristrettezze economiche che attanagliavano la coppia dei padroni, il cagnone la abbandonò per inseguire un destino migliore.
Berlioz era invece al colmo della gloria: il 1839 può considerarsi come il punto culminante della sua fortuna in patria, anche se il titolo di Cavaliere della Legion d’Onore, ottenuto il 10 maggio di quell’anno, non compensava l’ennesima esclusione dall’Institut de France. Critico musicale al Journal des Débats, era sotto l’ala protettrice dei proprietari, Bertin padre e figlio. Il giornale dei Bertin, politicamente schierato contro il regime borbonico fino al 1830, appoggiava la monarchia di Louis Philippe, ed era allora assai potente. Alcune commissioni importanti venivano a Berlioz da politici amici dei Bertin, e grazie a esse aveva composto il Requiem. I potenti hanno molti nemici: e questi non erano del tutto estranei alla caduta del Benvenuto Cellini, o almeno avevano certamente gioito della sua progressiva e inesorabile scomparsa dai cartelloni tra il 1837 e il 1838. Per Berlioz la penna della critica musicale costituiva una vera e propria arma di attacco e difesa all’interno del complicato mondo musicale parigino, un mondo fatto di alleanze, faide, odi, rancori, appoggi politici, committenze governative, un mondo che egli conosceva assai bene per averne sperimentato da anni gli effetti sulla propria pelle. Tant’è che, pur affermando a gran voce di essersi infine affrancato dalla schiavitù della critica durante i sei mesi della composizione del Romèo et Juliette, di fatto per tutto quel periodo controllò attentamente in che mani aveva affidato la sua arma, e continuò a scrivere e a farsi vedere in teatro. Wagner conosceva la critica musicale di Berlioz (apparsa anche nei giornali tedeschi qualche volta): essa per molti aspetti gli insegnò il mestiere. Proprio da Parigi Freundfeuer (uno dei soprannomi di Wagner articolista) iniziò a scrivere le sue corrispondenze: una di esse, parafrasando il sottotitolo della Symphonie fantastique, si intitolava Episodi della vita di un compositore tedesco.
“Berlioz – afferma Wagner nell’Autobiographische Skizze – mi attirò più degli altri [musicisti] nonostante il suo carattere ostico: egli si distingue enormemente dai suoi colleghi parigini perché compone musica senza avere di mira il denaro”.

Il dono di Paganini

Contribuiva certamente ad attirare l’interesse di Wagner il gran chiasso che si era creato intorno alla composizione del Romèo et Juliette, fin dalla formidabile messinscena paganiniana che ne era stata la premessa.
Il gesto a dir poco teatrale del grande violinista aveva infatti riempito le pagine dei giornali nell’inverno 1838-39. Scortato dal figlio Achille che fungeva da interprete delle parole del padre (Paganini non poteva parlare a causa di un tumore alla laringe), si era prostrato davanti a Berlioz reduce da un concerto, e il giorno seguente gli aveva mandato un assegno di ventimila franchi, accompagnato da parole che scolpivano per il compositore francese una lapide a futura memoria, con la quale Paganini voleva legare il suo nome a quello del musicista dei tempi nuovi: «Mio caro amico – gli scrisse in italiano Paga-nini – Beethoven spento non c’era che Berlioz che potesse farlo rivivere; e io, che ho gustato le vostre divine composizioni degne d’un genio quale voi siete, credo mio dovere pregarvi di accettare, in segno del mio omaggio, ventimila franchi che vi saranno rimessi dal barone de Rothschild dopo che gli avrete presentato la lettera acclusa».
Si è molto discusso intorno all’atto di liberalità di Paganini, che era proverbialmente un avaro. Il gesto, secondo quel che raccontò anche Liszt in tarda età, per alcuni si spiegava con il fatto che Paganini era stato allora accusato dal pubblico francese di non essere generoso perché si era rifiutato di suonare a un concerto di beneficenza. In previsione del fatto che Paganini doveva fare a Parigi dei concerti nel 1838, Jules Janin, giornalista letterario al Journal des Débats e amico di Berlioz, avrebbe suggerito al violinista come rimedio, per attirarsi le simpatie del pubblico, di finanziare il compositore francese, che andava lamentandosi della corvée della critica musicale che gli impediva di realizzare i suoi progetti compositivi. Infatti, continua il racconto, Paganini fece i concerti con le sale stracolme. In realtà la diceria non ha alcun fondamento, in quanto non vi fu alcun concerto di Paganini a Parigi dopo il dono fatto a Berlioz. Un’altra ipotesi, avanzata da Sir Charles Hallé, era che dietro a Paganini ci fosse l’editore Bertin (Hallé sostiene di averne avuto notizia dalla moglie di Bertin): il fatto di fingere un dono attraverso Paganini serviva a dare ancor più risalto all’aiuto che l’editore aveva voluto dare a Berlioz, trasformando l’omaggio anche in un riconoscimento artistico: “Quel che sarebbe apparsa – afferma Hallé – come un semplice atto di liberalità da parte di un ricco e potente editore a un giornalista del suo staff si trasformò in un significativo tributo di un genio a un altro, e ebbe una risonanza colossale”. Berlioz sarebbe stato tenuto all’oscuro di tutto. È vero che Bertin, che si trovava fuori della sala

del Conservatorio dopo il concerto e l’inchino di Paganini, fu il primo con cui Berlioz, scosso dalla scena appena vissuta, si intrattenne a parlarne: e, visto il commovente effetto che il tributo del virtuoso aveva avuto sull’anima del musicista, potrebbe essere venuta a Bertin l’idea di spingere le cose un po’ più in là, mascherando una sua offerta di denaro per venire in soccorso a Berlioz che, dopo il fiasco del Benvenuto, attraversava un periodo economicamente più faticoso del solito. È vero anche che Bertin aveva già cercato di sistemare le faccende di Berlioz premendo vanamente perché gli fosse dato un posto al Conservatorio, che Berlioz non ottenne mai (tranne quello di bibliotecario, che non costituiva una rendita sufficiente). Tuttavia l’ipotesi avanzata da Hallé è scarsamente credibile, perché Berlioz, che comunque era a conoscenza anche di questa come di tutte le altre voci, non vi prestò la minima attenzione, e perché sembra strano che Paganini si sia prestato a fare da prestanome alla filantropia altrui. Nel 1839, intervistato da Auguste Morel per il Journal de Paris, Paganini diede dell’evento la versione più attendibile: «L’ho fatto per Berlioz e per me stesso. Per Berlioz, perché ho visto un giovane uomo di genio la cui forza e il cui coraggio potevano soccombere di fronte alla quotidiana lotta contro la mediocrità invidiosa, l’ignoranza e l’indifferenza, e ho pensato: devo aiutarlo. Per me stesso perché un giorno mi sarà fatto credito per questo, e quando verranno contati i miei meriti musicali, non sarà il più piccolo il fatto che io per primo ho riconosciuto un genio e l’ho segnalato all’ammirazione di tutti».
Grazie al dono di Paganini, Berlioz potè dare inizio alla composizione della sua Terza Sinfonia, alla quale si dedicò tra il 24 gennaio e l’8 settembre del 1839, date riportate nell’autografo della partitura. Scrive il musicista nei Mémoires:
«Ah! Questa volta niente più articoli per i giornali, o almeno quasi più; avevo del denaro, Paganini me l’aveva dato per scrivere della musica, e io ne scrissi in abbondanza. Lavorai per sette mesi alla mia Sinfonia, senza interrompermi mai più di tre o quattro giorni su trenta, qualunque cosa accadesse. Quale esistenza piena di ardore vissi in quel periodo! Con quale vigore navigavo nel gran mare della poesia, accarezzato dalla folle brezza della fantasia, sotto i caldi raggi di quel sole d’amore che illuminò Shakespeare, e credendomi abbastanza forte per arrivare all’isola meravigliosa dove s’innalza il tempio dell’arte pura!»

L’incontro con Wagner

Nicolò Paganini

L’eco dell’evento, rimbombando dai giornali parigini, era stata formidabile e aveva raggiunto la Germania. Wagner, giunto a Parigi in quei primi giorni di autunno, ne sentiva parlare ovunque negli ambienti musicali. Fin dal 13 ottobre, con grande anticipo, la grancassa de La Gazette Musicale si era messa in moto per la prima esecuzione della Sinfonia alla cui composizione i soldi di Paganini erano stati devoluti da Berlioz, la Symphonie dramatique avec choeurs Romèo et Juliette, prevista il 24 novembre nella Sala del Conservatorio.
Nel negozio di Schlesinger il giovane tedesco avrà avvicinato il più maturo e ben più famoso francese. Li dividevano dieci anni: un abisso nella storia della musica in quel momento storico, spesso sottovalutato nei confronti tra il valore dell’opera dell’uno e quella dell’altro, confronti dai quali Berlioz è uscito sempre inevitabilmente perdente.
Wagner si sarà presentato, e sarà stato corrisposto dal maestro che aveva composto quegli Episodes de la vie d’un artiste di cui Wagner aveva tanto sentito parlare (Schumann aveva recensito la Fantastique nel 1835), ma di cui non aveva ancora sentito una nota: infatti, quando a Lipsia, grazie alle cure di Schumann, nel novembre del 1836 venne eseguita per la prima volta un’opera del compositore francese, l’ouverture da Les Francs juges, Wagner si trovava a Königsberg. Berlioz lo incuriosiva più di ogni altro musicista francese, e nonostante “il suo carattere ostico”, come lo definisce Wagner nell’Autobiographische Skizze, il maestro dovette essere urbanamente cortese con lo sconosciuto, non foss’altro perché questi era tedesco, e il cuore di Berlioz batteva sempre per quella terra così musicale. Ma non andò oltre la cortesia: come tutti i musicisti che lavoravano a Parigi Berlioz era sempre di fretta, e, all’epoca in cui incontrò Wagner, dopo la fatica di fare copiare le parti, era impegnato nelle prove della sua orchestra e del suo formidabile coro, un totale di duecento esecutori. Scrive Wagner: “Pur avendo conosciuto Habeneck, Halévy e Berlioz, ecc., non potei avvicinarmi a loro più di tanto: a Parigi nessun artista ha tempo di fare amicizia con un altro, perché tutti sono presi dalla fretta e devono badare a se stessi”. Se Berlioz non fece gran caso al giovane tedesco, Wagner invece ricorderà questo storico incontro quando detterà nel 1865 Mein Leben a Cosima. Fu forse lì, Chez Schlesinger, o forse durante una pausa dell’esecuzione del Romèo, che Wagner diede a Berlioz il suo indirizzo.
La partitura autografa del Romèo riporta l’appunto, a pagina 64: “M. Wagner, Rue Monmartre” (in realtà non abitava lì, ma si trattava forse un domicilio temporaneo). Il nome di Wagner è nella lista dei billets à doner dell’esecuzione del 24 novembre: dunque, considerando che a Parigi quella fu l’unica esecuzione di musica di Berlioz di quel mese, il Romèo et Juliette è la prima musica di Hector Berlioz che Richard Wagner sentì. E per dirne bene o male – più spesso male, ma talora anche bene, con stupore dello stesso Wagner – essa riaffiora frequentemente anche negli ultimi anni. Persino nei diari di Cosima, che pure non amava affatto la musica di Berlioz (ma soprattutto non amava la persona, troppo vicina, anche musicalmente, al padre), e non perdeva occasione per affermarlo.

Musica a programma

Era stato nel settembre del 1827 che, durante le rappresentazioni parigine di una troupe inglese, Shakespeare aveva “fulminato” Berlioz. La composizione progettata da Berlioz sul Romeo and Juliet di Shakespeare dovette però attendere il 1838, e il finanziamento di Paganini, per potere finalmente vedere la luce. Berlioz pianificò una Sinfonia dalla forma rivoluzionaria, in sette movimenti, alcuni strumentali, altri vocali. Ma la musica ideata dal compositore non intendeva essere la traduzione musicale letterale del dramma di Shakespeare, bensì l’espressione delle sensazioni derivate da alcune scene. Se nella Symphonie fantastique l’intenzione extra musicale era espressa attraverso un programma scritto da distribuire agli ascoltatori prima dell’esecuzione, e destinato a costituire “il testo parlato di un opera”, nel Romèo et Juliette il programma diviene parte integrante della stessa composizione. Con il programma della Fantastique Berlioz non aveva fatto altro che seguire, amplificandolo letterariamente, l’uso dei compositori francesi che lo avevano preceduto, incapaci di concepire una musica priva di un riferimento descrittivo. La tradizione francese infatti tendeva a prediligere alla musica strumentale “pura”, ritenuta l’arte per eccellenza dai romantici tedeschi, la musica imitativa, teorizzata nel Settecento, tra gli altri, da Jean-Jacques Rousseau. I musicisti francesi, e tra essi il maestro di Berlioz, Jean Francois Lesueur, che di Rousseau era un grandissimo ammiratore, attribuivano alla musica vocale un valore decisamente superiore rispetto a quella strumentale, genere indeterminato, al quale mancava la chiarificazione della parola (indeterminazione che per i tedeschi era invece la ragione stessa della sua infinita superiorità). Per Lesueur, e per la maggioranza dei musicisti francesi della sua epoca, non esisteva musica che non fosse completata da un testo, elemento significante per eccellenza, e quindi mezzo indispensabile per ottenere l’imitazione.
Della tradizione francese sulla musica imitativa erano imbevuti ancora nell’Ottocento molti letterati, primo fra tutti Stendhal che pensava che “l’effetto delle Sinfonie di Haydn e di Mozart si accentuerebbe parecchio se le si suonasse nell’orchestra di un teatro, e se, nel corso della loro durata, delle eccellenti decorazioni, analoghe al pensiero musicale dei diversi brani, si succedessero sulla scena teatrale. Una bella decorazione, che rappresenti un mare calmo e un ciclo immenso e puro, accentuerebbe, mi pare, l’effetto di un tale Andante di Haydn che dipinge una felice tranquillità […] Si ha un bel dire, la musica che è la più vaga tra le belle arti, non è descrittiva per se stessa”. L’impatto con il sinfonismo beethoveniano, scoperto da Berlioz alla fine degli anni Venti grazie alle esecuzioni parigine della Società dei Concerti del Conservatorio, aveva modificato la vocazione del musicista, che all’inizio della propria carriera, influenzato dalla concezione della musica tipica della tradizione francese e attirato dai grandi esempi di Gluck e Spontini, non vedeva altro sbocco che la musica operistica. Sotto l’impulso della scossa impressagli da Beethoven, ch’egli afferma nei Mémoires essere stata pari a quella causatagli da Shakespeare, e suggestionato dalle parole con le quali il compositore tedesco aveva giustificato il programma della Pastorale (la Sesta Sinfonia), la cui musica andava considerata “piuttosto espressione dei sentimenti che pittura”, Berlioz aveva scoperto la possibilità di esprimere il proprio universo interiore attraverso la musica sinfonica, elaborando una concezione nuova della musica, che si sostanzia nella definizione berlioziana del “genre instrumentai expressif”. Date le critiche ricevute per il programma della Fantastique, che Schumann, nella sua recensione di quest’opera, aveva suggerito ai suoi connazionali di buttare via per andare direttamente alla musica, Berlioz si era sentito in dovere di giustificare la funzione del testo scritto che accompagnava quella Sinfonia. Proprio le note giustificative aggiunte a posteriori al programma della Fantastique ci danno la chiave per intendere propriamente il senso della definizione di “Sinfonia drammatica” applicata al Romèo: “se – afferma Berlioz – le poche righe di questo programma fossero state di natura tale da poter essere recitate o cantate tra i diversi brani della Sinfonia come i cori della tragedia antica…”. Ecco dunque il Romèo et Juliette, che non è “né un’opera in forma di concerto, né una cantata”, bensì la realizzazione pratica, ad altissimo livello musicale, delle teorie tanto amate dal vecchio maestro Lesueur.

Romèo et Juliette

Il Romèo et Juliette si compone di sette movimenti. Il programma è molto articolato, come si può vedere dalla successione qui riportata:

  1. Introduzione: Combattimenti – Tumulto – Intervento del Principe

    Prologo

    Strofe

    Scherzetto

  2. Romeo solo – Tristezza – Rumori lontani di ballo e di concerto Grande festa in casa dei Capuleti

  3. Notte serena – II giardino dei Capuleti, silenzioso e deserto. I giovani Capuleti, uscendo dalla festa, passano cantando delle reminiscenze della musica del ballo. Scena d’amore.

  4. La Regina Mah o la fata dei sogni. Scherzo

  5. Convoglio funebre di Giulietta

  6. Romeo alla tomba dei Capuleti. Invocazione. Risveglio di Giulietta. Gioia delirante, disperazione, ultime angosce e morte dei due amanti

  7. Finale. La folla accorre al cimitero.

    Rissa dei Capuleti e dei Montecchi.

    Recitativo e aria di Padre Lorenzo.

    Giuramento della riconciliazione.

Nella Symphonie dramatique di Berlioz il compito di narrare la storia, come ho detto, è affidato alle parti vocali (corali e solistiche), su testi di Emile Deschamps – una delle figure di primo piano nella generazione romantica della Jeune France, poeta, drammaturgo e traduttore – mentre quelle strumentali ne operano uno straordinario commento. Come per la Fantastique, la trama musicale è elaborata a partire da una serie di idées fìxes, presentate fin dall’Introductìon et Prologue e associate al testo narrativo. La funzione di questo prologo, cantato da un piccolo coro di tredici voci (D’anciennes haines endormies), dal quale si staccherà poi un corifeo (contralto) per intonare le Strofe dedicate alle prime emozioni dell’amore e alla poesia di Shakespeare (Premiers transports que nul oublie), è quella di offrire una sorta di sommario musicale di quanto verrà sviluppato nel corso dei successivi movimenti. La scena che precede il ballo in casa dei Capuleti (Romèo seul) descrive quel sentimento di solitudine che Berlioz conosceva bene e di cui parla lungamente nei Mémoires e nella corrispondenza, il male dell’isolamento, una manifestazione di quel mal du siècle così profondamente romantico che l’intera sua generazione aveva derivato dalle pagine del René de Chateaubriand. La scena si apre con una brevissima melodia dei violini primi, che a molti ricorda l’inizio del Tristan. Sono poche note: un salto ascendente (una quarta per Berlioz e una sesta per Wagner) e una discesa cromatica, che in Wagner è segnata dal famoso accordo sulla terza nota, ed è seguita dall’ascesa cromatica del cosiddetto motivo del desiderio. Un tema isolato, come è tipico di Berlioz, una tendenza, derivata forse dall’esempio di Gluck, a porre in risalto una linea melodica attraverso il suo totale isolamento oppure con un sostegno armonico minimale. Questa caratteristica, che ritroviamo anche in Wagner, era stata notata anche da Schumann a proposito dell’esposizione dell’idée fìxe della Fantastique e soprattutto dell’inizio della Scène aux champs di questa stessa Sinfonia.
Nella parte centrale della Sinfonia, Berlioz abbandona la parola, troppo limitativa dell’immaginazione, e passa al solo linguaggio strumentale – “lingua più ricca, più variata, meno determinata e, per la sua stessa vaghezza, incomparabilmente più possente” – per descrivere sentimenti sublimi come quelli della scena d’amore (Scène d’amour), che per Berlioz costituiva il capolavoro della propria musica, o il fantasmagorico e galoppante prestissimo dello Scherzo della Reine Mab.

Il Convoi funèbre de Juliette consiste, secondo le parole dello stesso Berlioz, in una “marche fuguée: instrumentale d’abord, avec une psalmodie sur une seule note; vocale ensuite, avec la psalmodie dans l’orchestre”. Dunque una marcia fugata strumentale e una salmodia sulla sola nota Mi dell’esclamazione Jetez de
fleurs sospirata dal coro, una sorta di litania corale e orchestrale: il fugato passa poi alle voci e a sua volta l’orchestra si impadronisce della salmodia sul Mi.
Infine segue la scena di morte nella tomba dei Capuleti (Romèo au tombeau des Capulets), dove, con forzatura tutta romantica del testo shakespeariano (lì Romeo moriva prima del risveglio di Giulietta), i due amanti fanno in tempo a rivedersi un’ultima volta prima di morire.
Questa scena destava nel musicista i brividi dell’estasi: infatti il massimo strazio che l’anima romantica potesse concepire non poteva che essere quel che Shakespeare, assai saggiamente, non aveva previsto, cioè il risveglio di Giulietta ancor vivo Romeo, e l’ultimo abbraccio di amore e morte. Così recitava questa scena del Romeo and Juliet il grande attore inglese Garrick, che aveva cambiato la versione originale, inserendo l’incontro d’amore tra le tombe, soprattutto allo scopo di dare a se stesso l’occasione di una tirata finale strappapplausi. La “felice intuizione” di Garrick è esaltata dalla musica di Berlioz, che riesce a generare un’intensa atmosfera conducendola al suo apice attraverso una sapiente combinazione ritmica e tematica: Romeo si avvelena (tremolo discendente dei violoncelli che è parso anticipare il magico momento in cui viene bevuto il filtro d’amore nel Tristano), ma non muore subito; i dolci sospiri del clarinetto segnalano il risveglio di Giulietta sul tremolo degli archi, e ecco che, nell’élan de joie delirante che segue, il tema dell’amore si trasforma ritmicamente, e, su un esuberante 6/8, si slancia l’impeto febbrile dell’ultimo incontro appassionato tra i due amanti (anche qui il clima di delirio ricorda quello delle allucinazioni di Tristano ferito) prima che, con il passaggio sinuoso dei clarinetti verso il tempo tagliato – a tratti interrotto dagli ultimi slanci spezzati di violini e viole che tentano vanamente di riportare un ultimo ricordo dell’impeto vitale dei 6/8 – ci si avvii all’ultimo istante di angoscia e morte. Dopo la lunga pausa di silenzio, due accordi dissonanti ci dicono i colpi mortali che Giulietta si è inferta, e tutto si spegne sulla discesa cromatica degli oboi che, dilatandolo, riprendono il frammento conclusivo che, in Romèo seul, dipingeva la solitudine di Romeo.
Chiude la Sinfonia il Récit e l’Air di Pére Laurence, e di nuovo il piccolo coro insieme ai due grandi, cui si unisce la voce del basso, nell’imponente affresco del Serment de la Réconciliation. “Troverai molto di te qui” scrisse Liszt a Berlioz mandandogli l’Ouverture del Tannhäuser. E in effetti nel finale del Romèo incontriamo un passaggio, punteggiato da brillanti figure di violini (due note alternate a una pausa), dei guizzi che ascoltiamo prima a tratti sotto la voce di Pére Laurence, e poi sviluppati sotto il coro, che dominano sulla scura sonorità dei tromboni: somiglia veramente tanto, come atmosfera, come stile, come genere di contrappunto, a un tema dell’ouverture del Tannhäuser.

Symphonie Dramatique

La nuova Sinfonia di Berlioz, come detto, portava il sottotitolo di symphonie dramatique. Legende dramatique sarà definita da Berlioz un’altra sua opera, La Damnation de Faust, composta come scene musicali per il Faust di Goethe nel 1828 dopo la folgorazione della lettura della traduzione di Nerval, e rielaborata interamente nel 1848, facendole assumere una forma di teatro oratoriale che quando, forzandone i confini, lo si rappresenta sulla scena, mantiene sempre una sorta algidità ermafroditica: teatro che non si fa musica e musica che non si fa teatro. Così come è avvenuto d’altronde, con in aggiunta le inevitabili cadute nel cattivo gusto che la determinazione del gesto opera sull’ambiguità espressiva della musica, allorché si è voluto restringere il Romèo et Juliette nei confini veramente troppo angusti del balletto. “Semi-opere”, come sono definiti il Romèo e La Damnation in un recente saggio musicologico di Daniel Albright, questi capolavori costituiscono una sorta di Über-genere, che rompe con i confini assegnati ai generi tradizionali sulla scia dell’aspirazione onnicomprensiva e sincretistica del Romanticismo.
L’originalità di queste opere nel panorama della musica della prima metà dell’Ottocento, come lo era stata quella della Fantastique pochi anni prima (che pure finisce coll’essere più tradizionale di una Sinfonia con viola, come l’Harold en Italie, o una Sinfonia con sette movimenti come Romèo), era proprio l’ambiguità del loro genere d’appartenenza, se si fa riferimento alla tradizione del passato. Se, per far rientrare nel letto di Procuste della forma il Romèo et Juliette si può, con molta fatica, dire che la sua forma sia quella di una Sinfonia in cinque movimenti, con un intermezzo costituito dal Convoi funebre de Juliette e dalla scena della tomba, è ben vero che Wagner, e non era il solo tra i contemporanei di Berlioz, definiva una Sinfonia la Damnation de Faust.
Queste opere sono accomunate da una stessa tecnica di elaborazione tematica che contribuisce anch’essa a oscurare i confini fino allora assai precisi tra i diversi generi musicali. Ma soprattutto sono tutte ispirate a episodi tratti da opere letterarie che avevano colpito la fantasia di Berlioz: si tratti infatti di Sinfonia, di leggenda o di teatro (si pensi al Benevenuto Cellini), Berlioz nelle sue opere sfugge alla convenzione dello sviluppo consequenziale di un plot, e ricerca l’idea, la poesia, sublimata dalla musica. Spesso si concentra su episodi del tutto marginali delle opere letterarie che costituiscono la sua fonte, episodi dai quali trae maggiore ispirazione: così, nel Romèo, il collaterale episodio della Reine Mah, “messagère fluette et légère”, che nel testo originario del dramma shakespeariano non è altro che una breve battuta pronunciata da Mercutio, si allarga alle dimensioni di uno Scherzo e serve a riassumere un’atmosfera di spensierata follia da “notte di mezza estate” (pur sempre shakespeariana nell’ispirazione), caratterizzata dall’eterea leggerezza della strumentazione, atmosfera che contrasta con la violenza della finta morte dì Giulietta (il Convoi funebre che segue lo Scherzo).

Wagner e Berlioz

Romèo et Juliette costituisce la prima opera di Berlioz ascoltata da Wagner. Cito da Mein Leben: «Questo era un mondo assolutamente nuovo per me, nel quale cercavo di orizzontarmi con piena imparzialità, affidandomi alle impressioni ricevute. Sulle prime ero rimasto addirittura stordito dalla potenza d’un virtuosismo orchestrale di cui non avevo ancora idea. La temerarietà fantastica e la rigorosa precisione con cui mi incalzavano qui le più arrischiate combinazioni, fatte quasi palpabili al tatto, fiaccavano con inesorabile violenza la mia personale sensibilità poetico-musicale e la ricacciavano nelle profondità dell’animo mio. Mi facevo unicamente orecchio di fronte a fenomeni di cui non avevo avuto fino a qui la più lontana idea e che cercavo di chiarirmi».
Nel gennaio del 1860 Wagner invierà a Berlioz la partitura autografa dei Tristan, il prezioso “primo esemplare” come scrisse lo stesso Wagner nel biglietto di accompagnamento, del Tristan und Isolde che oggi si trova alla Bibliothèque Nationale, con questa dedica: “Au cher et grand auteur de Romèo et Juliette l’auteur reconnaissant de Tristan et Yseult”. Berlioz recensì i concerti wagneriani, nei quali vennero eseguiti brani dal Fliegende Holländer, dal Tannhäuser, dal Lohengrin e dal Tristan. “Concerts de Richard Wagner: la musique de l’avenir”, intitolò l’articolo, ribadendo e contestando quel concetto di musica dell’avvenire che, pur rinnegato da Wagner, aveva fatto tanto presa in Francia. E quando prestò la partitura del Tristan a Pauline Viardot si premurò di raccomandarle di fare molta attenzione alle settime diminuite, che di notte non le scappassero dal cassetto in cui aveva riposto la musica di Wagner e non cominciassero a rosicarle i mobili.
È difficile, e sarebbe particolarmente complesso in questa sede, distinguere il rapporto di discendenza tra la musica di Berlioz e quella di Wagner. Si incontrarono cinque volte, e solo una, esuli entrambi in Inghilterra, sembrarono familiarizzare. Uno non sapeva il tedesco, l’altro masticava un pessimo francese. Amici entrambi di Liszt, ascoltavano a gran fatica i tentativi di mediazione di quest’ultimo, e, eleggendolo ad arbitro, si ingelosivano se quello parlava bene dell’uno o dell’altro. In più, a peggiorare le cose, come spesso accade ai geni, avevano al fianco delle donne insopportabili, in particolare Berlioz (Cosima entrò in scena troppo tardi), con l’irosa Marie Recio che non riuscì neppure nel ruolo della vestale, custode del fuoco sacro del genio del marito, ruolo in cui trionferà Cosima Liszt. “Mostruoso” sembrava a Wagner Berlioz nel 1879, a dieci anni dalla morte: eppure a quell’epoca pensava spesso al musicista francese, leggeva brani dei suoi Mémoires, conosceva perfettamente Les soirées de l’orchestre, e riprendeva spesso in mano le sue partiture, suonandole e commentandole con Cosima.

Aveva persino dato il nome di Berlioz a un pappagallo dalla grande cresta che gli ricordava la chioma leonina del francese. Una volta, dopo aver suonato insieme a Cosima la Fée Mab, la Scène d’amour dal Romèo et Juliette e la Fantastique, pur riconoscendone i pregi e “un certo qual senso della melodia semplice e ulteriore” esclamò: “la musica di Berlioz è impensabile nel mio Stato”. Un’altra volta, qualche mese prima, dopo aver suonato con Rubinstein l’Ouverture del Cellini e il Roi Lear, aveva definito la musica di Berlioz “una miseria prossima alla volgarità e nello stesso tempo una grande eccentricità”, e aveva concluso, irritandosi fino a farsi venire male al petto: “sarebbe meglio che questa musica non fosse stata mai scritta”. Tuttavia quella stessa sera, dopo averne tanto parlato male, avviandosi a dormire, confessò a Cosima di dovere molto a Berlioz, primo fra tutti al Berlioz del Romèo et Juliette: “Io ho tenuto presente parecchi temi da Berlioz; il tema dell’Adagio per esempio è meraviglioso. Comunque – tagliò bruscamente il discorso Wagner – appartiene alla scuola francese”; e, liquidata la cosa, chiuse finalmente gli occhi per addormentarsi.

Les nuits d’été, raccolta di sei melodie per voce e orchestra, op. 7

Con la loro delicata e misteriosa bellezza Les Nuits d’été sono un prodotto del tutto atipico d’un musicista iper-romantico per definizione: è sorprendente che queste sei liriche siano uscite dalla penna di Hector Berlioz, abituata a tracciare sui pentagrammi una musica aspra, colma di forti contrasti e di audaci effetti. Ma, se è vero che quest’uomo dai lineamenti marcati coronati da un ispido cespuglio di capelli descritto da Heine come “un bosco sull’orlo d’un dirupo” era un musicista programmaticamente rivoluzionario, originale e smisurato, è anche vero che una vena sotterranea di classicismo affiorava talvolta a moderarne la sregolatezza e ad equilibrarne gli eccessi, più frequentemente nella musica vocale, perché la sua passione per la voce umana non era inferiore a quella per l’orchestra, ma, mentre l’orchestra gli si presentava come il campo ideale per sfrenate galoppate alla scoperta di timbri ed effetti mai uditi, la voce doveva essere rispettata e i suoi limiti naturali dovevano essere osservati. E, sebbene Berlioz sia generalmente considerato soprattutto in relazione ai suoi prodigi orchestrali, la voce ha un ruolo tutt’altro che secondario nella sua musica: la s’incontra infatti non soltanto nelle opere e nella musica sacra, ma anche in lavori anomali, che non rientrano in nessuno dei generi musicali canonici, come Lélio, Romèo et Juliette e La damnation de Faust, e in una congerie seminesplorata di cantate, di mélodies e di pezzi vari per voci soliste o per coro, con accompagnamento di pianoforte o d’organici strumentali più ampi.
Tra le mélodies di Berlioz spiccano quelle raccolte sotto il titolo Les Nuits d’été, le uniche a essere concepite come un ciclo coerente, con un unico tema, con una calcolata successione d’atmosfere e con un’alternanza equilibrata di tempi e tonalità: quest’unità interna è più forte nella versione originale per voce di mezzosoprano o tenore e pianoforte ma sussiste anche nella successiva versione per orchestra, nonostante i cambiamenti di tonalità e l’assegnazione d’ogni lirica a un tipo diverso di voce. La prima stesura delle Nuits d’été è stata composta in un periodo non determinabile esattamente, compreso tra il 1838, anno della pubblicazione de La corneale de la mort di Théophile Gautier da cui sono tratte le poesie, e il 1841, anno della pubblicazione della versione musicale di
Berlioz. Si sarebbe tentati di vedere un’eco dei sentimenti personali di Berlioz intorno al 1840 (in quel periodo il suo matrimonio con Harriet Smithson stava giungendo alla fine) nella scelta da lui fatta tra le cinquantasei poesie della raccolta di Gautier, in cui si può leggere una parabola sulla natura effimera dell’amore, ma l’assenza di qualsiasi indicazione che ci permetta di penetrare le ragioni che l’hanno spinto alla composizione di questo ciclo ci obbliga a considerare Les Nuits d’été null’altro che il risultato della sua sensibilità romantica per le atmosfere notturne, melanconiche, lugubri.
La prima delle sei liriche ad essere orchestrata fu Absence, nel febbraio del 1843, in vista d’un concerto di beneficenza al Gewandhaus di Lipsia a cui

Mendelssohn aveva invitato Berlioz a collaborare. In quell’occasione Mendelssohn si complimentò con il collega francese per certe finezze della strumentazione e Berlioz stesso s’accorse che la lirica «fa così dieci volte più effetto che col pianoforte»: eppure soltanto alla fine del 1855 o nel gennaio del 1856 si decise a strumentare una seconda lirica (Le spectre de la rose), aggiungendovi otto battute orchestrali d’introduzione e trasportandola da re maggiore a si maggiore per andare incontro alla tessitura della cantante prevista per l’esecuzione. A questo punto, su richiesta d’un editore tedesco che era rimasto conquistato da questa versione orchestrale, Berlioz si decise a mettere mano anche alle restanti quattro liriche, e la strumentazione fu rapidamente completata nel marzo del 1856. Les Nuits d’été devono gran parte della loro atmosfera sensuale, meditativa ed elegiaca proprio a questa delicata ma abilissima orchestrazione, lontanissima da quel gigantismo che comunemente – ma spesso a torto – viene associato al nome di Berlioz.
Villanelle, prima delle sei mélodies delle Nuits d’été, è un’introduzione amabile e gaia alle ben diverse atmosfere delle successive liriche. Berlioz, come certe volte Schubert nei suoi Lieder, non disdegna toni popolari e scrive una canzone primaverile, con una melodia fresca e leggera che si ripete con leggerissime varianti in tutte e tre le strofe, di cui l’ultima esce dal solco soltanto per far ritorno ben presto alla prevista conclusione: ma è una semplicità apparente, perché la delicata raffinatezza dell’orchestrazione, le imprevedibili soluzioni armoniche, i bizzarri giri di frase non hanno nulla di naïf e sono tipicamente berlioziani.
Le spectre de la rose offre al compositore l’occasione per una grande scena drammatica, tra vertici di passione e ripiegamenti nostalgici. Berlioz ha inventato qui una di quelle sue lunghissime frasi dall’andamento originale e imprevedibile: è una melodia d’ampio respiro, che più volte sale con ampi intervalli e ogni volta rapidamente ricade. La voce è trattata come uno strumento capace di “legare” e vibrare in modo superbo, servendosi delle parole come meri supporti della melodia più che come protagoniste, un po’ secondo la concezione italiana.
In Sur les lagunes la voce sottolinea invece il valore espressivo delle parole e segue l’andamento prosodico del verso, talvolta in modo simile a un recitativo, talvolta con un più ampio slancio melodico che nei momenti più patetici la fa salire al registro acuto o sprofondare in cupe meditazioni (la lunga scala discendente della voce alle parole “Ah, sans amour m’en aller sur la mer”), non seguendo però pedissequamente il testo ma prendendosi le sue libertà, soprattutto quando Gautier tende a una resa realistica di sentimenti ed azioni: Berlioz mira piuttosto a un lamento disperato che sublimi il dato contingente Absence è comunemente ritenuta la più nota (se si può parlare di notorietà a proposito di questa raccolta ingiustamente piuttosto trascurata) e la più bella delle sei liriche di Nuits d’été: la desolata solitudine di chi è lontano dalla persona amata è espressa con totale semplicità, senza ricerca dell’effetto, ma con una concezione e una realizzazione di notevole originalità. Uno squisito gioco armonico da il tono poetico di Au cimetière: in tutta la prima parte l’armonia oscilla tra due accordi e la melodia si muove su quattro note contigue, determinando un’atmosfera immobile e sospesa, ambigua e angosciosa, che grava sull’ascoltatore fino alla fine.
Rispetto alle liriche precedenti L’ile inconnue costituisce un anticlimax, che serve a chiudere il ciclo con un tono più leggero, quasi frivolo, almeno apparentemente, perché i contorni di quest’isola alla Watteau, in cui regnano il vero amore e l’eterna felicità, diventano alla fine incerti e vaghi, rivelando che si tratta soltanto d’un miraggio irreale.