Brahms Johannes

Ein Deutsches Requiem

Nel gennaio 1865, Brahms si recò a trovare sua madre, colpita da un malore, che sfortunatamente morì prima del suo arrivo. Nell’aprile di quell’anno iniziò a lavorare al Requiem. È composto come un’offerta di consolazione a coloro che sono afflitti. Brahms dichiarò in seguito che la parola “tedesco” del titolo potrebbe essere facilmente rimossa e al suo posto potrebbe scriversi “umano”. Come nella Musikalische Exequien di Heinrich Schutz del 1636, Brahms prende testi in lingua tedesca tratti dalla Bibbia, molti dei quali utilizzati per i riti funebri protestanti in Germania e in Europa. Nel 1868 il Requiem fu eseguito e immediatamente acclamato per la sua grandezza. Brahms aggiunse in un secondo momento il settimo movimento, contenente la bellissima aria per soprano “Ihr habt nun Traurigkeit”, l’unico movimento che rievoca la figura materna.
Herbert von Karajan ha eseguito diverse registrazioni di questa splendida partitura. La registrazione del 1947 a Vienna (Etichetta EMI) con Elisabeth Schwarzkopf è profondamente emotiva e con un’interpretazione leggendaria. L’incisione del 1964 con la soprano Gundula Janowitz e il baritono Eberhard Waechter per la DGG rimane ancora oggi un punto di riferimento. In questo splendido DVD, registrato nel marzo 1978 presso il Grosses Festspielhaus di Salisburgo per il Festival di Pasqua di Salisburgo del 1978, emerge la profondità del dolore e una consolazione offerta da ciò che è più unico nella comunicazione umana: la capacità di pronunciare l’inesprimibile attraverso la musica. Solo con la musica le nostre emozioni possono essere messe a nudo con questa semplicità e chiarezza. Solo con la musica può essere convalidata l’equazione dolore e bellezza con tale forza.
Karajan scandisce le parole insieme al leggendario coro Wiener Singverein, la bacchetta dell’uno esalta l’espressività degli altri, la sublimità della performance emerge prepotentemente. I due solisti Gundula Janowitz e Jose Van Dam sono altrettanto splendidi. Ci sono pagine difficili nel Requiem ma entrambi i cantanti le gestiscono con sicurezza. Il risultato è una magica prestazione, confrontabile soltanto con l’altra incisione del 1964. L’audio in stereo PCM e DTS 5.1 è ricco e pieno. L’immagine è rimasterizzata e chiara. Il film dura 79 minuti. Fortemente consigliato, per non dire imperdibile.

Ein deutsch’es Requiem (Requiem tedesco) per soli, coro e orchestra, op. 45

La prima esecuzione del «Requiem tedesco» nella versione definitiva in sette parti ebbe luogo il 18 febbraio 1869 al Gewandhaus di Lipsia, sotto la direzione di Carl Reinecke: fu un grandissimo successo, al pari di quanto era avvenuto il 10 aprile (Venerdi Santo) dell’anno precedente nella cattedrale di Brema per la presentazione del lavoro (dirigeva Brahms stesso), in una stesura ancora priva del brano che, composto nell’estate successiva, sarebbe entrato della partitura come quinto numero (esito negativo era invece toccato ai primi tre pezzi, eseguiti a Vienna il 1° dicembre 1867, e sottoposti subito dopo a qualche rimaneggiamento). Questa affermazione era la prima che Brahms avesse conseguito con un lavoro di ampie proporzioni, vistosamente impegnativo sul piano della scrittura come su quello degli intenti espressivi e formali; importantissima anche per la sua storia personale di compositore, in quanto capace di bilanciare l’insuccesso clamoroso che in quello stesso Gewandhaus aveva incontrato, una decina d’anni prima, il «Concerto op. 15» per pianoforte e orchestra, la composizione che, di contro al «Requiem», limita l’arco formale e stilistico dell’opera di Brahms prima della piena maturità: simbolo, al di là del suo indubbio valore artistico, dello sfortunato primo approccio del musicista alla grande forma sinfonica.
Di fatto, nel catalogo brahmsiano il «Concerto op. 15» resta l’unico importante lavoro sinfonico negli anni anteriori al «Requiem»: sino al 1873, l’anno delle «Variazioni su tema di Haydn», alla grande orchestra il musicista non si sarebbe più accostato, almeno pubblicamente, se non per unirla al coro e alle voci soliste in opere come appunto il «Requiem tedesco» e, immediatamente seguenti, la cantata «Rinaldo», la «Rapsodia» per contralto e coro virile, lo «Schicksalslied», il «Triumphlied» (numerati rispettivamente come opera 50, 53, 54, 55). Questo non certo perché l’insuccesso di pubblico e di critica avesse in qualche modo intimidito Brahms; le cause erano del tutto interiori, e se il decennio in cui nacque e si concretò il «Requiem» vide altre rinunce da parte del compositore, ciò fu sintomo evidente di una scelta che era insieme presa di posizione polemica ed esigenza morale. Rinviando ad un futuro magari molto lontano il tentativo sinfonico, s’imponevano adesso quasi i voti di castità e povertà di un noviziato sofferto e cocciutamente paziente, per decenni: il cammino lunghissimo verso una meta da raggiungere, veramente, «buscando el levante por el poniente» (come dire arrivare alla sinfonia attraverso il quartetto, il quintetto ecc.), per poter finalmente esprimere una parola faticosa e faticata, forse però definitiva, e non più uguagliatile se non mutando radicalmente prospettive e linguaggi, mondo morale e tecniche; voltando pagina (e avvicinandosi a cambiar secolo, soprattutto).
Era l’ossessione del secolo, il problema della forma: la sonata, spinta da Beethoven a lacerazioni strutturali e orizzonti fantastici quanto meno sconcertanti, sembrava divenuta per i romantici un’eredità troppo costosa da mantenere, una castagna bollente con cui inevitabilmente scottarsi le dita. Specialmente quando l’approccio alla forma avvenisse nel genere nobilissimo, ma quanto mai problematico della sinfonìa; dove all’ipoteca dei grandi precedenti storici il maggior ribollire del potenziale sonoro, nelle prospettive orchestrali ottocentesche, sovrapponeva il rischio di deviazioni estreriorizzanti, descrittive, coloristiche, nella quasi illimitata alchimia delle combinazioni timbriche. Proprio sul terreno della sinfonia Brahms poco più che ventenne doveva andar incontro allo scacco interiore che avrebbe determinato l’orientamento coerente dei due decenni successivi della sua vita: perché è dalle ceneri di una lungamente meditata, e penosamente abortita, sinfonia in re

minore che nacque con faticose trasformazioni il «Concerto op. 15», una volta constatata l’incapacità, comunque l’impossibilità di realizzare l’intenzione originaria. Né gli altri due lavori orchestrali di quegli anni, le «Serenate» òp. 11 e 16, nonostante la freschezza dei risultati artistici, riuscirono a confermare Brahms nel suo tentativo sinfonico; che venne dunque rimandato a tempi migliori, preparandolo con determinata, coraggiosa lentezza attraverso la dura esercitazione sull’eredità dei classici (in tal senso lo aveva spronato il consiglio dello stesso Schumann), restringendosi con severità negli organici della musica da camera. Tace dunque in questi anni l’orchestra brahmsiana; non tace il pianoforte, che però, abbandonata per sempre la sonata dopo i quattro esperimenti degli anni ’50, si limita ad esplorare con profetiche recidive il regno della variazione (sotto il cui segno si sublimerà, col finale della «Quarta», il cammino sinfonico brahmsiano).
Ma se Brahms inseguiva e perfezionava il dominio della forma sotto il segno della classicità nell’opera cameristica, anche sviluppava e sempre più caratterizzava il proprio linguaggio in quella vocale: dove gli era più agevole coltivare, proseguire, sfruttare e ampliare i due filoni lessicali che tanto diffusamente avrebbero informato, in tutte le fasi della sua attività e sotto le più diverse connotazioni poetiche ed estetiche, quasi ogni pagina sua, il corale e il «Lied». È in questa dimensione che si elabora l’humus melodico e armonico che troveremo alla base del «Requiem tedesco»: una scelta operata in fondo con naturalezza, così come con naturalezza Brahms aveva sposato la causa ideologica che macroscopici fraintendimenti dei suoi avversari, non meno che di certi suoi sostenitori (e fra questi il grande Hanslick), avrebbero poi tacciato o contribuito a far tacciare di «reazionaria», e che con quegli stessi orientamenti linguistici è certo per più rispetti legata.
Gli anni ’60, infatti, si aprono per Brahms con un gesto «pubblico», la firma apposta ad un manifesto contrario alla scuola «Neotedesca»; il cui corifeo è Liszt, il Liszt dei grandi poemi romantici, dove le ragioni dell’elaborazione formale si sottomettono all’urgenza della eespressione, e più vistosamente alla tentazione descrittiva del «programma» letterario; ma anche il Liszt che scioglie, o stempera, l’emozione religiosa in ampie composizioni sacre e oratoriali, informandole di un misticismo cattolico oggi per noi suggestivo quanto mai, per un Brahms, allora, probabilmente sgradevole, fin indecente quanto la veste talare che l’ungherese andò a cercarsi poi, fra peccati e suggestioni controriformistiche, in una Roma che oltre ad essere la città dei Papi, si preparava pure a diventare il teatro delle prime gesta di D’Annunzio adolescente (e non è tanto paradossale, a pensarci bene, che Brahms abbia potuto apprezzare invece il «cattolicesimo» del tutto diverso della «Messa» di Verdi).

Herbert von Karajan

E gli anni ’60 sono, soprattutto, gli anni di «Tristano»: e i maestri romantici, quasi tutti, sono scomparsi dalla scena della vita, e fra di loro quello che per pochi, importantissimi anni, aveva vegliato sulla giovinezza di Brahms, Robert Schumann. L’invadenza di istanze teatrali, comunque contenutistiche, tutt’uno con l’estenuata tensione cromatica dell’armonia tristaniana, fors’anche un sentimento religioso che inevitabilmente marciava in direzione della decadente sensualità del «Parsifal»: questo il nemico da battere, o comunque qualcosa da cui differenziarsi, per poter essere se stessi. «Non è possibile sottrarsi a questo influsso del presente che io sento nefasto e non tradire la musica che mi è necessaria, e che io voglio salvare dal tempo? Non la musica che mi impongono gli altri, ma quella cui aspira tutto il mio gusto, la mia coscienza, la mia profonda volontà?».
Identità individuale, per Brahms non meno che per qualunque uomo del secolo XIX, era anche coscienza dell’identità della nazione, quella germanica nel caso specifico, che al profondo, naturale umanesimo di lui non pareva potersi separare, in musica come altrove, dalla continuità della tradizione. E tradizione, in tal senso, significava, magari scavalcando Beethoven, Bach e Handel, la polifonia a cappella di Heinrich Schùtz, la moralità severa di tre secoli di

Riforma, nutrita di contrappunto e di corale; Brahms il «progressivo», come lo avrebbe salutato il padre della musica radicale del nostro secolo, mira adesso a «salvarsi dal tempo», saldamente ancorato alla sicurezza di un linguaggio consacrato dalla storia, per poter poi, senza crociate estetiche e ambizioni filosofiche, additare alla musica principi organizzativi non ancora esauriti, capaci di germinare in futuro proprio linguaggio di imprevedibile novità. Come dunque Brahms prepara il dominio superbo della forma seguendo la scia del classicismo viennese, cosi segue con autentico entusiasmo la Bach- Renaissance, la Händel-Renaissance, divorando via via che escono a stampa, i volumi delle edizioni complete dei due maestri, seguendo nell’avido e gioioso ritorno alle fonti la scia del grande pioniere di questa operazione, Felix Mendelssohn-Bartholdy (giusto lui, un quarto di secolo prima, aveva posto quello che parrebbe essere il più autorevole precedente del «Requiem tedesco», quella «Symphonie-Cantate nach Worten der heiligen Schrift» intitolata «Lobgesang» (Canto di lode).
Lo spirito del «Requiem», al pari dell’opera mendelssohniana, riconduce dichiaratamente alla civiltà protestante tedesca. Nel titolo, che non ha certo bisogno di commenti; nella scelta del testo, anche questo messo insieme «su parole della Sacra Scrittura», che oltre ad essere parola di Dio è anche pietra miliare, nella versione tedesca di Martin Lutero, dell’unificazione linguistica della nazione; nei significati religiosi che i frammenti biblici sembrano sottolineare, proponendo una meditazione sulla morte e la salvezza eterna certo non grettamente confessionalista, ma chiaramente radicata nella teologia protestante; nei connotati stilistici del tessuto musicale, al primo ascolto riconducibili con facilità agli interessi culturali e agli orientamenti artistici cui si accennava dianzi, con palese evidenza di certe valenze espressive nello stesso ricorso a questa o quella «forma» storica (la funzione dei fugati, per esempio, posti sempre come coronamento risolutivo, persin catartico, della tensione accumulata in determinate sezioni del «Requiem»). Quello che l’opera brahmsiana non pare se non in minima misura riprendere dai maestri ideali del passato è il drammatismo che, sia pur sublimato e assolutamente indenne da esteriorità teatrali, anima tante pagine degli oratori handeliani come delle «Passioni» di Bach, e che puntualmente ricompare nello stesso Mendelssohn: la moralità, la filosofia della musica così coerentemente presidenti a tutto il cammino creativo di Brahms, nonché trattenerlo a distanza, più che rispettosa, sdegnosa dal teatro, non gli lasciarono toccare che di striscio lo spirito stesso dell’oratorio, pur tanto amato nei frequentatissimi capolavori del passato. Di fatto, il «Requiem tedesco» sembra essenzialmente postulare una dimensione «liturgica», ancorché spontaneamente laica: puramente ideale, del resto, che la tradizione riformata non concepisce musica «sacra» al di fuori del canto dell’assemblea, e restringe il concetto stesso di liturgia ad un evento non codificato, comunque di ruolo secondario.
Significato quasi di «Introito» sembra svolgere la prima sezione del «Requiem»: la strumentazione, da cui sono esclusi i violini, disegna con immediata efficacia il clima espressivo del brano; il discreto intervento dell’organo, previsto ad ogni buon conto «ad libitum», come semplice raddoppio dei bassi, anziché sostenere magniloquenze sonore, rifuggite in nome di una assorta semplicità, sottolinea il senso «liturgico» di questa sezione. Di essa occorrerà tener memoria quando, nel brano conclusivo della partitura, lo stesso materiale musicale rivestirà parole abbastanza simili a queste. La vocalità di questo primo numero scioglie l’andamento essenzialmente omoritmico, da corale, del primo versetto, in un discorso più fluido, alle parole «Die mit Tränen…» (Quelli che seminano con lacrime mieteranno con canti), mentre al ripieno orchestrale, sostenuto principalmente dagli archi (contrabbassi, violoncelli «a tre», viole); il gioco delle imitazioni contrappuntistiche si articola fino a sfociare nella ripresa delle parole iniziali «Selig sind…» (Beati coloro che soffrono).
La seconda sezione, forse la più popolare del «Requiem», utilizza non casualmente un relitto della mancata sinfonia giovanile, lo Scherzo che, espunto dalla rielaborazione in forma di concerto solistico, compare all’inizio di questo brano; il suo carattere funebre, quasi di marcia nonostante la scansione ternaria, nasce anche dalla trasposizione al modo minore, senza eccessive modifiche, dello stesso spunto melodico che aveva introdotto, affidato a successivi interventi degli archi, il primo numero della partitura: un frammento, secondo quanto rivelò lo stesso Brahms, del celebre corale «Wer nur den lieben Gott», che il coro sovrappone alla ripetizione dell’idea tematica già proposta dalla sola orchestra (gonfia di ottoni, compresa la tuba, mossa dalle terzine «beethoveniane» dei timpani, arricchita da un’arpa in funzione tutt’altro che decorativa). Portata ad un crescendo di estrema incisiva eloquenza, la prima parte dello «scherzo» lascia il campo ad una sezione contrastante, che al cupo incedere della prima, modellandosi su parole più liete, oppone una fluida discorsività quasi liederistica, dove il modo maggiore guadagna in leggerezza dalla trasparenza della strumentazione. Una brusca impennata, come un breve recitativo corale, apre la via ad un monumentale fugato: «Aber des Herrn Wort… – Die Erlöseten…» (Ma la parola di Dio dimora in eterno. E coloro che soffrono saranno riscattati).

Johannes Brahms

Nel robusto discorso contrappuntistico si insinuano, imprevedibili, «ristagni» ritmici e armonici tipicamente brahmsiani, sino al rallentando conclusivo sulle parole «Ewige Freude» (Gioia eterna). Un episodio responsoriale, affidato al baritono solista di contro al coro, apre la terza parte: il tema è la caducità della vita dell’uomo. Alla compassata espressività dell’invocazione del solista,
oppone un elemento di più bruciante drammaticità la ripresa da parte dell’orchestra di una cellula secondaria di quella, una semplice fioritura, trasformata quasi in un lancinante «memento mori». Un interrogativo, ancora del solista («Ma ora, o Signore, come posso consolarmi?»), trova immancabilmente risposta in un altro ampio fugato corale («La mia speranza è in te»). Il quarto coro, che Brahms stesso aveva, al tempo della composizione dell’opera, voluto sottrarre, almeno per il momento, al giudizio dell’amico Joachim, giudicandolo «la parte più debole», è in realtà un delicatissimo intermezzo, essenziale nella sua tersa semplicità a ristabilire l’equilibrio dopo le ambiziose strutture delle sezioni precedenti, pur non rinunciando, ancora una volta, al coronamento contrappuntistico. Con esso si lega il carattere del brano successivo, l’ultimo composto da Brahms, un «Lied» del soprano solista, dove l’espressività affettuosa della semplice linea melodica, unita alla lievissima tinta della strumentazione, non esclude improvvisi ripiegamenti, in cui il cambiamento di modo dal maggiore al minore può ricordare addirittura certa scrittura liederistica del Mahler prima maniera.
Il «Requiem tedesco» si avvia alla conclusione col sesto brano, il più ambizioso e magniloquente, strutturato in tre sezioni. Nella prima, un recitativo di sapore fra l’ecclesiastico e il bachiano del baritono prepara, assieme agli incalzanti interventi del coro, le fiammeggianti prospettive sonore di quello che può essere giudicato come il «Dies irae» di quest’opera, destinato a placarsi in un lungo fugato scopertamente memore della lezione baehiana. La chiusa giunge, pacificante, col settimo coro, che riprendendo l’atmosfera del primo brano suggella coi pizzicati degli archi e le pennellate «elisie» dell’arpa e dei legni la raggiunta fede nella beatitudine della morte.