Chopin Fryderyk

The Chopin Collection

Dopo le mitiche incisioni con la EMI negli anni ’30 Rubinstein continuò lo studio e l’approfondimento dell’amato e conterraneo Chopin, ne ampliò il repertorio eseguito e tornò in sala di registrazione a partire dagli anni ’60, alla soglia degli ottant’anni, per registrare l’integrale delle opere chopiniane.
Il cofanetto edito dalla RCA e costituito da 11 CD – comprende infatti tutte le registrazioni effettuate dal grande pianista negli Stati Uniti dal 1958 al 1967 (vale a dire: Sonate, Barcarola , Berceuse, Ballate, Scherzi, Polacche, Valzer, Improvvisi, Notturni, Mazurche, i due Concerti), con l’eccezione dei Preludi e nuovamente di Barcarola e Berceuse registrate, sempre negli USA, nel 1946. Il lascito è notevole e conferma ancora una volta la quasi identificazione dell’esecutore con l’autore, consolidando il mito del binomio Chopin- Rubinstein, come se altri pianisti non avessero eseguito alla perfezione Chopin e se lo stesso Rubinstein non avesse spaziato nell’intero repertorio pianistico esistente. Il punto sta proprio qui: altri esecutori probabilmente hanno interpretato meglio il singolo brano di Chopin, ad esempio Benedetti Michelangeli lo Scherzo n. 2 in si bemolle, o Lipatti i Valzer, e ancora Horowitz qualche Mazurca, ma è difficile trovare un pianista che abbia saputo esprimere Chopin a tutto tondo come Rubinstein. E questo perché – a differenza dei pianisti sopra citati (e di altri più vicini a noi) che hanno interpretato Chopin in chiave eminentemente romantica, forzando ora la malinconia, ora lo sconforto, ora l’eroismo, ora la femminilità ed eccellendo quindi nel singolo brano caratterizzato da tale aspetto – la visione di Rubinstein è sempre molto equilibrata, direi apollinea: Chopin ha sì slanci eroici e, agli antipodi, momenti di angoscia, ma sempre calati in un classicismo di fondo, la sua musicalità nasce dal cuore e dalla passione, ma senza forzature ed eccessi. Tra i settanta e gli ottant’anni Rubinstein non poteva certo mostrare il virtuosismo esibito nelle registrazioni degli anni ’30, ma in compenso le esecuzioni qui contenute – comunque affrontate con grande passione ed entusiasmo – guadagnano in termini di approfondimento, di ricerca del colore, di scelta del tempo, di affinamento dell’interpretazione.
Senza nulla togliere agli altri ottimi interpreti di Chopin, questa raccolta è senza dubbio un must! Emozionante, evocativa e perfetta. Registrazioni eseguite dal 1946 al 1962 e rimasterizzazione effettuata nel 1991. Audio ottimo. Imperdibile!!

Artur Rubinstein o la voglia di essere felici di Bernard Gavoty (1978)

Per capire la vita e il carattere di Artur Rubinstein bisogna risalire al 1907, quando un fatto relativamente insignificante determinò una linea di condotta dalla quale il pianista non si sarebbe più discostato e che segnò anche il confine tra il suo atteggiamento giovanile e il suo comportamento di adulto di fronte alle necessità dell’esistenza.
Nel 1907 Rubinstein aveva 21 anni; era scoccata l’ora della maggiore età, ma dietro di sé il pianista aveva già una vita movimentata. Fin da piccolo Rubinstein aveva rivelato un talento eccezionale, unendo delle qualità straordinarie all’impazienza di metterle alla prova. Presto si manifestò in lui la tendenza a concentrarsi più sulla musica che sul lavoro, ed era ancora molto giovane quando già dava concerti e viveva fuori di casa, in ambienti in cui si apprezzavano, oltre alle sue brillanti esecuzioni, anche la sua apertura mentale, la sua appassionata voglia di vivere, le sue argute osservazioni e la sua estrosa spensieratezza. Incapace di frenarsi, Rubinstein si dava alla bella vita sperperando in pochi giorni il guadagno di tante serate pianistiche. Era di quelli che intaccano il capitale invece di vivere sobriamente del reddito.
Senza denaro, ma ciò malgrado amante dei divertimenti, il pianista si affidava alla propria buona stella, godeva l’attimo fuggente e si rifiutava energicamente di pensare al futuro. La sua natura appassionata lo immergeva nell’intrigo di avventure complicate; pensava sempre di aver trovato il grande amore, era
sempre sincero, ma gli mancava la costanza. Varsavia, Berlino, Parigi e l’America lo accolsero in rapida successione, e Rubinstein mieté ovunque allori, trionfali quanto effimeri, continuando a fare debiti, e riuscendo sempre per puro miracolo a pagarli tutti. All’ultimo momento un qualche protettore lo traeva d’impaccio: fin dalla giovinezza “Re Arturo” godeva della protezione degli Dei. C’erano giorni però in cui lo sconforto aveva la meglio sulla gioia di vivere e Rubinstein aveva l’impressione che tutto andasse storto. Di tanto in tanto il giovane pianista veniva sopraffatto da un senso di disgusto trascinandosi da una situazione di emergenza all’altra, nei momenti di lucidità, l’artista percepiva la cascata alla fine del fiume, le cascate del Niagara sotto le quali la sua carriera sarebbe affondata.
E un giorno a Berlino il mondo gli crollò addosso. Non aveva più un soldo per pagarsi la stanza, o per comperarsi qualcosa da mangiare; con le forze che gli venivano meno Artur attendeva la borsa piena di monete d’oro delle fiabe. Invano. Di giorno lo coglieva la disperazione, di notte faceva sogni dorati che si scioglievano come nebbia alle prime luci dell’alba. Alla fine prese una drammatica decisione: “Non mi aspettavo più niente dalla vita, la vita mi aveva cacciato in una situazione senza scampo. Volevo morire, era pronto a farlo. Un pomeriggio sfilai la cintura della mia logora vestaglia e ne feci un cappio. Nella mia stanza da bagno c’era un gancio per gli abiti posto abbastanza in alto perché mi ci potessi impiccare. Vi spinsi sotto la sedia, fissai la cintura al gancio e mi misi il cappio intorno al collo. Nel momento in cui allontanai la sedia con un calcio, la cintura si strappò e finii rovinosamente a terra. La mia prima reazione fu una specie di crisi nervosa. Piansi amaramente, rimasi a lungo steso per terra dove mi trovavo, inconsolabile e troppo debole per alzarmi in piedi. Poi, in parte inconsciamente, mi trascinai fino al pianoforte e gli affidai i miei sospiri e le mie lacrime. La musica così profondamente amata, la compagna di tutti i miei sentimenti, l’amica che ci incita alla guerra, che ci infiamma di amore e passione, che lenisce le nostre pene e ci riporta la pace dell’anima, la musica, anche in questo giorno terribile, mi ridiede la vita. Tutt’ad un tratto mi accorsi di avere una fame da morire. Questa volta, due wurstel me li concedevo proprio, decisi. Ma una volta all’aperto mi bloccai. Qualcosa di strano mi colpì; chiamatela una rivelazione, o una visione. Mi guardai intorno con occhi nuovi, come se vedessi tutto per la prima volta: le strade, gli alberi, le case, i cani che si inseguivano, gli uomini e le donne, ora tutto pareva diverso, persino i rumori della grande città erano cambiati-restai affascinato da tutto. La vita sembrava meravigliosa, valeva la pena di essere vissuta, sia pure in carcere o in un letto d’ospedale, perché la si potesse guardare con questi occhi. La mia rinascita trasformò tutto il mio modo di ragionare. Nel caos dei miei pensieri scoprii il segreto della felicità. Per me questo vale ancora oggi. La mia massima dice così: “Ama la vita incondizionatamente, nel bene come nel male. Non mi
attribuisco una costituzione o una forza d’animo particolare, e neppure quella capacità che certi hanno di ridere delle proprie disgrazie. Al contrario, soffro di momenti di depressione, crisi di rabbia e scatti di impazienza, esattamente come tutti gli altri, con l’unica differenza che in quegli stati d’animo riconosco l’inevitabile rovescio dell’euforia”.

Fryderyk Chopin

Da allora in poi Rubinstein coltivò quella particolare e saggia filosofia che si può riassumere in cinque parole: la voglia di essere felice, a cui si deve aggiungere che la felicità si dà a chi la cerca.
Artur Rubinstein nacque il 28 gennaio 1886 a Lodz in Polonia, che a quei tempi era sotto il dominio russo, settimo ed ultimo figlio di una famiglia ebrea che non disponeva di grossi mezzi finanziari. Il padre di Rubinstein gestiva una piccola ditta di tessitura a mano ed era solito cantare la nostalgia di chi vive esule, intonando la nota canzone ebraica “L’anno prossimo a Gerusalemme”. Il piccolo Artur, più sensibile al canto che alla voce parlata, non dimenticò mai le canzoni del padre.
All’età di tre anni Artur era in grado di suonare a orecchio qualsiasi motivo al pianoforte, usando tutte le due mani. La sua memoria non era da meno del suo senso armonico. Non si accontentava di tenere a mente il motivo, ma notava anche l’accompagnamento, e riproduceva tutto alla perfezione al pianoforte.
A tre anni e mezzo il talento del bambino si manifestò a Berlino in maniera talmente palese che si decise di “presentarlo” a Joseph Joachim. Il grande violinista accennò il secondo tema dell'”Incompiuta” di Schubert, che il bambino ripetè immediatamente con la giusta armonia e trasportò senza indugio in un’altra tonalità. “Forse diventerà un grande musicista”, profetizzò Joachim, “ma per ora non forzatelo, ne parleremo quando avrà sei anni”.
Un bel giorno Artur partì con la madre per Varsavia, dove fu messo a pensione presso un parente e affidato alle cure di un insegnante di media levatura. A questo punto l’azienda paterna fallì e la famiglia si disperse ai quattro venti. Artur incominciò a studiare musica seriamente sotto la rigida disciplina del professor Heinrich Barth – il decano del Collegio Reale di musica – grazie all’appoggio finanziario di tre mecenati che gli aveva procurato Joachim. Questi si fece promettere dai genitori che a nessun costo avrebbero sfruttato il talento del bambino prodigio e che gli sarebbe stata impartita un’educazione completa – una promessa che i Rubinstein avrebbero sempre mantenuto.
A Berlino Artur ascoltava d’Albert, Busoni, Ysaye con entusiasmo e felicità pari al riserbo con cui trattava Joachim. Alla fine di una serata pianistica di d’Albert, un amico lo presentò al maestro: “È questo il giovane Rubinstein” d’Albert gli domandò con un tocco di ironia: “Allude al nome o al talento?” (Rubinstein significa rubino). L’amico rispose: “A tutti e due”. Allora il grande pianista rise “Lo dimostri, giovanotto, salga sul palcoscenico, voglio sentirla suonare”. Artur suonò due rapsodie di Brahms, il suo compositore prediletto, e d’Albert entusiasta esclamò: “Lei è un rubino autentico!”.
Per il suo debutto in pubblico Rubinstein eseguì il Concerto in la maggiore di Mozart che ripetè a Potsdam e quindi presso la Hochschule di Berlino sotto la direzione di Joachim. All’incirca nello stesso periodo anche Jacques Thibaud diede un concerto a Berlino: Artur Rubinstein non dimenticò mai la meravigliosa, eccitante sensazione provata di fronte a una pienezza di suono che non sarebbe più stata eguagliata per oltre mezzo secolo.

Artur Rubinstein

Sotto l’arco di Thibaud, che i suoi amici avevano soprannominato “Principe Azzurro”, il piacevole Concerto in sol minore di Max Bruch assurgeva alle stesse vette del magistrale Concerto di Brahms.
Un concerto dato a Varsavia, nella nuovissima sala della Filarmonica, sotto la direzione di Emil Mlynarski, che sarebbe divenuto in seguito il suocero di Artur Rubinstein, rafforzò le speranze del giovane: il Concerto in sol minore di Saint- Saens fu un trionfo, come lo fu l’esecuzione del suo interprete.
Poi venne il giorno in cui Joachim diede al nostro amico Artur una lettera di raccomandazione per il celebre Paderewski, che a quel tempo risiedeva nel Nord della Svizzera. Dopo un estenuante viaggio in treno, il giovane Rubinstein giunse al cancello di una bella villa, dove fu invitato a entrare in un ampio salone. La porta si spalancò e il sole brillò – sì, il sole. Era Paderewski, ancora giovane a quarant’anni, con un abito bianco, con la camicia bianca, una cravatta bianca; una folta chioma bianca, baffi dello stesso colore e una leggera lanugine dorata tra bocca e mento gli conferivano un aspetto leonino, ma erano il suo sorriso e il suo fascino che lo rendevano così incredibilmente solare.

“Mi venne incontro con passetti rapidi, e con poche parole cordiali mi mise a mio agio e mi fece dimenticare il mio nervosismo. “Ho sentito parlare molto bene di lei dal professor Joachim, che ammiro e stimo” disse. “Sono inoltre felice che lei sia polacco” aggiunse, battendomi amichevolmente sul braccio. “E adesso mi suoni qualcosa che le piace suonare”. Purtroppo Artur scelse le Variazioni sul tema di Paganini di Brahms, le suonò molto male e in modo spaventosamente confuso. Grazie al cielo si riprese dopo mangiato e Paderewski poté riscrivere a Joachim: “il giovanotto è senz’altro un vero talento e prevedo per lui un futuro luminoso”. Poco tempo dopo quest’avventura, Rubinstein decise che ne aveva abbastanza di Berlino. Così fece ritorno a Varsavia, recandosi poi nella campagna polacca dove si “fece scorta” di salute. Un impresario polacco Konstanty Skarzynski, che era rimasto molto impressionato dal talento del giovane pianista, lo invitò a cercare fortuna a Parigi. Detto, fatto: Rubinstein si mise in viaggio e ben presto, diciassettenne, fu a Parigi. “Era tanto bella da mozzarmi il fiato…… non riuscii a spiccicare parola, ma in quel momento e in quel luogo pronunciai il solenne voto che da allora in avanti avrei trascorso tutto il tempo possibile in quella celestiale città”. Astruc lo ricevette in presenza di Jacques Thibaud, Paul Dukas e Maurice Ravel. Invece di suonare dei lavori per pianoforte, Artur suonò a memoria il Concerto in sol minore di Max Bruch e il Concerto di Mendelssohn, in onore di Thibaud, il migliore e più valido interprete di queste opere. Il giovane pianista venne immediatamente ingaggiato da Astruc, che aveva dato vita a una società musicale con lo scopo di offrire al pubblico parigino opere nuove e musicisti sconosciuti (anche Wanda Landowska fu lanciata in questo modo).
Astruc gli offrì cinquecento franchi al mese – circa cento dollari di quei tempi – pretendendo però una percentuale molto alta dei guadagni dai concerti pubblici che il suo protetto avrebbe dato. Ma che cosa importava, era un colpo di fortuna! I genitori, consultati, diedero il loro assenso e si fecero garanti per il figlio minorenne. La Parigi di quei tempi, però, disponeva soltanto di sale da concerto vetuste e minuscole, con un pubblico poco numeroso. Le società sinfoniche ingaggiavano esclusivamente virtuosi noti al grande pubblico e in grado di attirare le masse.
Parigi, quella splendida città, non era accogliente, e la Francia nel suo insieme era un paese piacevole, ma ai musicisti che speravano di farvi carriera non offriva grandi possibilità e Artur Rubinstein se ne sarebbe accorto ben presto. Malgrado la buona volontà di Astruc, a Parigi il pianista condusse una vita di stenti, si trovava sempre in difficoltà finanziarie e riusciva a sfuggire a una simile esistenza solo di tanto in tanto, grazie ad allettanti ma rari inviti a partecipare ai lussi della capitale.
A questo punto al giovane Artur si offrì una possibilità: gli venne proposta una tournée negli Stati Uniti patrocinata da un fabbricante di pianoforte americano.
Il suo debutto con l’orchestra ebbe luogo alla Carnegie Hall e, anche se non fu clamoroso, il successo fu comunque promettente. Ci vollero altre due tournée in Nordamerica prima che il talento del virtuoso ancora in evoluzione fosse riconosciuto in modo ufficiale e definitivo.

Fryderyk Chopin

Artur Rubinstein compì una di queste tournée in coda a un giro concertistico nel Sudamerica, che a sua volta seguì una serie di concerti trionfali in Spagna. “In Spagna ho sempre incontrato i favori del pubblico e qui mi si sono aperte le porte dell’America Latina”. L’altra tournée negli Stati Uniti ebbe luogo nel 1936, poco prima della Seconda Guerra Mondiale. Fino a quel momento per il pubblico americano le divinità della tastiera rispondevano ai nomi di Paderewski, Hoffmann, Rachmaninov e Horowitz.
Di fronte a questa pericolosa concorrenza che cosa mai poteva proporre Rubinstein? “Tutti erano d’accordo che avevo talento, sentimento e un tocco ricco di colori, però mi si attribuivano alcune pecche: sbagli, arrangiamenti personali di passaggi difficili, trucchi da prestigiatore, il fatto che privilegiassi lo spirito rispetto alla lettura, ecc. In realtà mi abbandonavo al mio istinto naturale e non lavoravo con sufficiente meticolosità. Preferivo vivere pericolosamente piuttosto che dedicarmi per ore ai passaggi veloci e agli arpeggi. Non ero abbastanza preciso. Una volta superata la soglia dei quarant’anni, da uomo sposato, riconobbi i pericoli di una carriera così precaria e non volli deludere mia moglie. Lavorai sodo per levigare la mia tecnica e rivolsi la mia attenzione a particolari che fino a quel momento mi erano apparsi di secondaria importanza. La rinascita della mia carriera risale ad allora, e fu un fatto fruttuoso e definitivo. Da improvvisatore mi trasformai in purista. Il matrimonio mi ha reso felice”.
Di ritorno a Parigi dopo il suo primo viaggio negli Stati Uniti, il pianista riprese la sua vita oziosa e prodiga. Si alzava tardi, studiava per due ore al pianoforte, poi andava a prendere l’aperitivo da Fouquet, per passare ai caffè concerto degli Champs Elysées e la sera finire da Maxim.
“Ero divenuto magro e smunto, con le gote incavate e le borse sotto gli occhi. Così mi trovò un pomeriggio Paul Dukas sulla terrazza del Caffè Weber, con una tazza di caffè e un pezzo di torta – tutta la mia colazione: “Ma che cosa fai a Parigi? Ti credevo partito da un pezzo”, mi disse “Ma no”, ribattei, “qui mi diverto da matti. Inviti tutte le sere, poi da Maxim e, ah! quelle fantastiche ragazze! Chi potrebbe abbandonare una città del genere?” “È proprio di questo che ti volevo parlare. Va in campagna, riposati e riprendi le forze; la voglia di lavorare di tornerà da sola”.
“Proprio quella mattina avevo ricevuto una lettera da un amico polacco che mi invitava in campagna nei pressi di Varsavia”. “Vieni presto, potrai cavalcare, lavorare quando hai voglia, leggere e riposarti; la cucina è semplice e sana: latte fresco, frutta e verdura dal nostro orto. Sono certo che ti farà bene”.
Seguendo il consiglio di Dukas, Artur fece le valigie e tornò in patria. Tre mesi di campagna lo rimisero in forze. Poi si recò a Varsavia, si concentrò sul lavoro secondo i consigli di Emil Mlynarski, fece amicizia con Szymanowski, Kochansky, Fitelberg e altri. Poi fece ritorno a Parigi dove, come istruttore di
canto, collaborò all’allestimento della “Salomè” di Richard Strauss allo Chatelet. Parigi, Varsavia, Berlino: tre capitali costituirono i vertici del triangolo in cui il nostro eroe ventenne visse i suoi successi e subì i colpi del destino. A quei tempi si consumò anche il dramma di Berlino, di cui si è parlato all’inizio di questa storia, e che doveva trasformare completamente la vita di Artur Rubinstein.
Grazie al generoso aiuto finanziario di un mecenate polacco, il principe Lubomirski, Artur vide aumentare il numero dei suoi ingaggi e per la prima volta si recò in Italia. A Venezia trascorse “attimi di eternità”: così il pianista descrisse le ore in cui il tempo perdeva ogni significato. In Russia Rubinstein fece la conoscenza di Kussewitzky e Modest Cajkovskij, fratello dell’infelice autore della “Sinfonia patetica”. A Vienna sentì suonare per la prima volta Pablo Casals, grazie al quale si recò in Inghilterra dove si esibì con il grande violoncellista spagnolo e con Jacques Thibaud.
Nel frattempo applaudiva Nijinsky, stella del balletto russo, e faceva la conoscenza di Stravinskij, le cui prime opere – L’uccello di fuoco e Petrouschka – lo entusiasmarono. Non gli piacque invece la Sagra della Primavera, ed espresse molto francamente le proprie riserve al compositore. Un giorno Rubinstein lesse su un giornale inglese una notizia sconvolgente: “L’esercito tedesco ha invaso il Belgio”. Era il mese di agosto del 1914 e il pianista aveva ventisette anni. Artur Rubinstein si recò a Parigi e cercò di arruolarsi nella Legione Polacca e nella Legione Straniera, venendone però dissuaso. Un giorno dalla finestra del suo albergo vide passare i famosi tassì per la Marna carichi dei volontari che volevano salvare Parigi. Poco tempo dopo Rubinstein si recò in Gran Bretagna.
In Inghilterra diede numerosi concerti, per la maggior parte a favore della Croce Rossa. Un giorno la stampa inglese annunciò la ritirata delle truppe russe e l’abbandono della Polonia alla Germania. “L’esercito tedesco ha occupato Varsavia”. Rabbia e disperazione furono la prima reazione del pianista, come accade a Chopin, quando a Stoccarda seppe della caduta di Varsavia. Rubinstein temette il peggio: i genitori uccisi, la famiglia dispersa, le donne forse violentate…… Tranquillizzato, qualche giorno dopo lasciò l’Inghilterra per la Spagna, dove, dopo due concerti di grande successo a San Sebastian, gli venne proposta una tournée per tutto il paese. Non fu solo un successo, fu un trionfo indescrivibile. Nella sola stagione 1916/17 Rubinstein diede oltre cento concerti in Spagna, il che gli aprì le porte di tutto il mondo.
“Gli anni della mia giovinezza erano giunti alla fine”, scrisse Rubinstein, “concluso quel periodo, la mia vita cambiò colore. Ero riuscito a fondare la mia carriera su solide basi, una carriera che con i suoi numerosi alti e bassi mi ha finora dato una gioia incommensurabile”. Per Rubinstein, che la lunga esperienza lo aveva reso per nulla più abitudinario, ogni concerto era una nuova
avventura, magica e imprevista. Il pianista conosceva certamente tutti i pericoli insiti nella routine. Ma in certi giorni dichiarava ridendo soddisfatto: “Quella sera mi sentivo ispirato: la difficile Sonata in fa minore di Brahms mi sgorgava dalle dita, la dominavo facilmente.

Artur Rubinstein

E allo stesso modo mi riuscirono tre Preludi di Debussy e il mio pezzo d’obbligo di Chopin. Del resto, non potete immaginare come mi rimorda la coscienza perché guadagno tanto tra concerti e registrazioni discografiche con un’opera che all’autore ha procurato soltanto una cifra irrisoria. L’interprete guadagna una fortuna alle spalle dell’autore – che ingiustizia!”
Rubinstein è stato uno dei più famosi pianisti del mondo. Ovunque si annunciava un suo concerto, la gente accorreva e nel giro di pochi giorni, forse addirittura di poche ore, la biglietteria della sala da concerto innalzava trionfalmente il cartello del “tutto esaurito”.
Primo assoluto tra i pianisti, è stato amato ed ammirato perché la sua esecuzione e il suo volto rispecchiavano le tensioni del suo pianismo. Rubinstein non cessò mai di girare il mondo: “Adoro viaggiare, gli alberghi mi stimolavano e i pasti in aereo mi entusiasmano. Il contatto con il pubblico mi offre lo spunto per una piacevole conversazione. E quando dico “conversazione” sappiate che sono inguaribilmente debito ai monologhi……”

Frédéric Chopin di Uwe Kraemer (1978)

Se ci si basa sul numero di opere della produzione totale di un compositore ancora presenti nel repertorio concertistico di oggi, un musicista sarebbe senz’altro in testa alla lista dei “grandi”: Frédéric Chopin. E ciò malgrado il fatto che con unilateralità geniale si fosse concentrato sul pianoforte, non pubblicando alcuna opera nella quale non fosse presente il “suo” strumento. È pur vero che una parte dei pezzi virtuosistici con accompagnamento di orchestra, da lui scritti per alcune esibizioni pubbliche sono ormai spariti dalla scena concertistica per la loro superficialità, per quanto piacevole e brillante. Tuttavia, delle 3 Sonate, 27 Studi, 4 Scherzi, 24 Preludi, 16 Polacche, 20 Notturni, 58 Mazurche, 17 Valzer, 4 Ballate, 4 Improvvisi, 3 Rondò, 1 Fantasia, 1 Allegro da concerto, 1 Berceuse, 1 Barcarola, 1 Bolero, 1 Tarantella e 3 Scozzesi, ossia delle circa 190 composizioni per pianoforte solo pubblicate in vita e postume, circa 120 vengono invariabilmente eseguite nel repertorio internazionale.
Chopin dimostrava la massima originalità coniando dei generi interamente nuovi. Le sue quattro Ballate non hanno niente in comune con la “Balade” franco-provenzale, la “Ballata” italiana o con il genere letterario della “Ballade” tedesca, apparsa negli anni attorno al 1770. Due fattori prepararono il terreno a questo genere originalissimo: l’innata capacità chopiniana di trasformare in musica il materiale delle leggende, e la tradizione musicale della sua patria. Il gusto di Chopin era per natura poetico più che letterario, e tendeva a farsi ispirare dalle immagini, ma, attraverso una rappresentazione fantastica di carattere drammatico, il musicista riusciva ad attingere ad una struttura formale convincente.
Le danze rappresentarono per Chopin una fonte particolare di ispirazione e costituiscono una parte centrale della sua produzione artistica. Le sue Mazurche
seguono soltanto a tratti le tradizioni del folklore polacco: Chopin ne conservò gli elementi più esteriori mirando a sostituirne l’elemento rustico con scene suggestive, la cui delicata precisione doveva richiamare l’attenzione sulle sfumature della lingua polacca.
La Polacca rappresenta la controparte aristocratica della rustica Mazurca. Come conseguenza dei vivaci rapporti culturali tra Polonia e gli altri paesi occidentali, la danza si stabilizzò in ritmo ternario per costituire una forma strumentale autonoma, e dal 1795 – anno della nuova spartizione della Polonia – divenne il simbolo dell’anelito di libertà della nazione. Con le sue drammatiche Polacche, veri e propri “canti di virile resistenza all’oppressore”, (Bourniquel), Chopin musicista abbozzò grandi affreschi spesso derivati da associazioni con avvenimenti storici.
Oltre alle Mazurche e Polacche, una terza forma di danza assume un ruolo di rilievo nella produzione complessiva di Chopin: il valzer. La sua affermazione spesso citata: “non ho la stoffa di un compositore di valzer viennesi”, non va intesa come espressione di rassegnato rimpianto, ma come un caparbio rifiuto della mentalità a cui questo genere era legato, e che il compositore durante il suo soggiorno viennese (1830/31) aveva fustigato per la sua grossolanità. Esteriormente i suoi Valzer possiedono le caratteristiche mutuate dalla tradizione viennese, ma i Valzer di Chopin, con la loro evanescente e malcelata malinconia, erano inadatti alla sala da ballo; semmai si volesse ballarli davvero, ebbe a dire Robert Schumann nella sua recensione, “una buona metà delle ballerine dovrebbero essere perlomeno contesse”.
Le opere che meglio rispecchiano il carattere di Chopin sono indubbiamente i Notturni. In essi il compositore ha potuto mettere in risalto la “dolce forza” del suo pianismo intimo e poetico, e fare del genere introdotto dal pianista e compositore irlandese J. Field l’espressione del suo animo malinconico. Infatti, laddove Field nei suoi Notturni ritmicamente tesi riprendeva i differenti tipi di Notturni della musica da camera di Beethoven, Spohr, Gyrowetz e Dussek, Chopin si limitava ai tempi lenti e a una melodia piena di sentimento.
Il compositore conferì ai suoi lavori un tratto caratteristico di vellutata oscurità notturna, dove malinconia, toni sommessi, eccitazione, calma, serenità e pace vengono a formare una sintesi affascinante.
I Preludi sono spesso di una brevità aforistica, rivisitazioni romantiche dell’idea dell’improvvisazione bachiana, e videro la luce per la maggior parte a Majorca, tra il 1829 e il 1839. Grazie alla discrezione con cui Chopin ampliò il linguaggio attraverso nuove modalità stilistiche, questi lavori divengono degli eventi musicali, e prendono posto nell’universo delle impressioni romantiche. Alcuni dei Preludi si avvicinano nella loro instabilità alla leggerezza di un Notturno (nn. 4, 6, 9, 13, 15, 21), senza copiarne i preziosi ornamenti e il cromatismo; altri risolvono soltanto problemi di virtuosismo pianistico (nn. 3,
5, 8, 14, 16, 19), altri ancora riprendono il ritmo della Mazurca (n. 7), evocano un Capriccio (n. 10, 22), rassomigliando a improvvisazioni rapsodiche (n. 1,18) oppure a una Romanza senza parole (n. 17).
I quattro Improvvisi sono caratterizzati da una minore pensosità. Durante il periodo barocco così si definiva una poesia improvvisata. Nella loro tenera eleganza e brillante splendore, questi brani di Chopin, così ricchi di arabeschi, rappresentano dei lavori mondani per eccellenza, che, sotto una patina gioiosa, nella leggiadria e nei movimenti dell’esecuzione, lascia intravedere solo a tratti più forti moti dell’animo.

Artur Rubintein

Delle tre Sonate di Chopin, quella in si bemolle minore, op. 35 (1835), ha un carattere sperimentale, che Schumann imputava alla “presunzione” di Chopin di “accoppiare quattro delle sue frasi più scatenate per infilarle di soppiatto sotto questo nome in luoghi dove altrimenti non avrebbero potuto penetrare”. Il febbrile movimento iniziale, che nella ripresa rinuncia alla presentazione del primo tema e quindi modifica leggermente la forma tradizionale della Sonata,
fonde genialmente nell’esecuzione il primo tempo grave con lo sfrenato tema principale e le affannose terzine della frase successiva. Il cupo Scherzo, descritto da Cortot come “Danza funebre”, ricrea l’atmosfera del primo movimento; la Marcia funebre ha acquisito enorme popolarità per come giunge dalla cupa disperazione all’urlo improvviso. “Nel finale si videro irrompere fantasmi, e gli interpreti ritenevano di udirvi “il sibilare del vento sopra le tombe” (Anton Rubinstein).
Più strettamente legata alle proporzioni e alle norme della concezione classica è la Sonata in si minore del 1844. Nel ritmo di marcia fortemente teso del primo movimento il lavoro appare più convenzionale dell’opera in si bemolle minore, e rivela soprattutto nel voluttuoso secondo tema la mano caratteristica del compositore.
Lo Scherzo in mi bemolle maggiore, con la sua brillante linearità e i suoi graziosi movimenti prolungati, è caratterizzato da una parte centrale in netto contrasto, con la sua linea melodica che scorre liberamente su un pedale e i suoi ricchissimi effetti armonici. Il Largo, dopo le dure scansioni introduttive, dà l’impressione di un tenero pezzo notturno, mentre il Finale, anziché un’atmosfera spettrale, ci offre uno sfoggio di virtuosismo brillante che si intensifica ad ogni riapparizione del tema, e accompagna l’opera fino alla sua entusiasmante conclusione.

(Traduzione: Bjword, London)