Prokofiev Sergej

Concerto n°5 per pianoforte e orchestra

Due magnifici spartiti russi interpretati da quell’istrione pianista sovietico che fu Sviatoslav Richter. Splendida la direzione di Stanislav Wislocki sul podio della Warsaw Philharmonic Orchestra, soprattutto del mio amatissimo concerto n.2 di Sergej Rachmaninov. Registrazioni eseguite dal 1959 al 1960 e rimasterizzazione effettuata nel 1975. Audio buono. Altamente raccomandato.

Concerto n. 5 in sol maggiore per pianoforte e orchestra op. 55

Nessun dubbio che il pianoforte sia lo strumento centrale della creatività di Prokof’ev. Ne fa fede innanzitutto uno sguardo al catalogo del compositore: cinque Concerti pianistici, nove Sonate portate a termine più alcuni abbozzi, una miriade di brevi composizioni, un nutrito catalogo per pianoforte a quattro mani, oltre all’impiego del pianoforte come supporto nella produzione cameristica e vocale. Ma, al di là di questa incidenza numerica, lo stesso Prokof’ev fu uno dei più grandi pianisti del suo tempo, avviato fin da giovanissimo a una carriera di concertista, dopo aver studiato con la madre, poi con Alexander Winkler, infine, dal 1909, con Anna Esipova.
Non a caso la maggior parte della produzione pianistica di Prokof’ev venne composta direttamente per servire il Prokof’ev virtuoso, in una prospettiva che in qualche modo si richiamava alla grande tradizione del pianismo mitteleuropeo. Una diretta correlazione si stabilisce dunque fra compositore ed esecutore. Lasciate alle spalle le esperienze adolescenziali, Prokof’ev assimila uno stile pianistico che risente della lezione di Liszt, filtrata attraverso la scuola di Anton Rubinstein, e le suggestioni simboliste di Skrjabin. L’assimilazione della tradizione, tuttavia, è parallela al suo rigetto; alla scrittura visionaria e timbricamente studiatissima di Skrjabin, Prokof’ev preferisce un suono aggressivo e percussivo, una incisività ritmica, passaggi di carattere toccatistico, derivati anche dallo studio della musica del 700. Nel pianismo di Prokof’ev, insomma, tutta l’eredità del pianismo romantico sfocia in una concezione dello strumento che si potrebbe dire percussiva; e questo tratto percussivo dell’esecutore si traduce, per il compositore, nell’attribuire alle sue composizioni pianistiche un dinamismo che rimane un elemento innovativo e costante, al di là di una logica evoluzione.
Si comprende dunque come proprio attraverso i primi tre Concerti pianistici, scritti nel 1912, 1913, 1921, e segnati da una netta preminenza del solista sull’orchestra, Prokof’ev si affermasse nella doppia veste di compositore- esecutore con un successo di scandalo, prima in Russia, poi in America ed Europa. L’entusiasmo iconoclasta di queste partiture fece il giro dei continenti suscitando le reazioni più diverse, ma lasciando comunque un segno. Storia diversa quella del Quarto Concerto, scritto nel 1931 per la sola mano sinistra e dedicato al pianista Paul Wittgenstein, che aveva perso la destra durante il conflitto mondiale, ma che respinse poi la partitura, destinata ad essere eseguita postuma.
Composto nel 1932 dall’autore quarantunenne, il Conceno n. 5 in sol maggiore op. 55 precede di poco il definitivo ritorno in Russia del compositore, ormai pienamente affermato. Le stesse vicende esecutive di questa partitura mostrano come il caso Prokof’ev fosse stato ormai assimilato dalla cultura musicale europea; la prima esecuzione avvenne a Berlino, il 31 ottobre 1932, sotto la direzione di Wilhelm Furtwängler; al concerto prendeva parte anche Paul Hindemith, come violista in Araldo in Italia di Berlioz; in sala sedevano sia Schönberg che Stravinskij; e sembra difficile immaginare una serata che potesse accostare in modo altrettanto significativo i maggiori compositori europei.
Con la sua nuova partitura Prokof’ev toccò nei due mesi seguenti Varsavia, Mosca e Leningrado, per arrivare subito in America, dove ripetè la sua esecuzione sotto la direzione di Bruno Walter. Quanto basta per rendersi conto che un nuovo Concerto di Prokof ev era destinato a galvanizzare l’attenzione degli ambienti musicali di tutto il globo.

Sviatoslav Richter

«Il mio problema essenziale, in questo Concerto, fu di creare una tecnica che fosse diversa da quella dei miei precedenti concerti», ebbe a dichiarare l’autore.

Di qui, è facile domandarsi che legame abbia questa partitura con le precedenti, e cosa presentasse invece di originale. La risposta risiede probabilmente nell’individuare quei tratti del Concerto che in qualche modo possono essere ricondotti alla poetica del neoclassicismo, che si era imposta un po’ ovunque nel decennio precedente, non trovando tuttavia Prokof’ev fra i primi sostenitori. Dal neoclassicismo Prokof’ev era fermamente distante per uno stile che non contemplava l’oggettivismo assoluto del materiale, ma piuttosto l’iconoclastia ribelle verso la tradizione tardoromantica. Ciò nonostante è proprio la scrittura pianistica, come suggerisce l’autore, il tratto più innovativo del Concerto; se i Concerti pianistici della stagione neoclassica, basti pensare a Stravinskij e Ravel si volgono verso un alleggerimento della scrittura, qualcosa di simile avviene nel Concerto op. 55, dove Prokofev ricerca un equilibrio maggiore fra solista e orchestra, e affida al pianoforte una scrittura più essenziale, più sobria, volta alla ricerca di una sonorità traslucida. Il che non vuoi dire tecnicamente meno impegnativa; l’uso del registro acuto della tastiera costringe infatti a continui salti e spostamenti di grande cimento tecnico. Nuova è inoltre la costruzione complessiva del Concerto, articolata in cinque movimenti ben distinti fra loro.
Le caratteristiche specifiche di questo Concerto op. 55 possono essere apprezzate immediatamente nel movimento iniziale, Allegro con brio, dove il pianoforte appare subito impegnato in grandi e icastici salti di registro – sottolineati anche dagli spostamenti d’accento – e spesso anche in una funzione di arabesco rispetto alle linee melodiche affidate agli archi e ai fiati. Nell’insieme questo movimento si allontana dalla forma classica, e presenta piuttosto una plastica giustapposizione di situazioni contrastanti, in cui non mancano ritorni tematici e un episodio lirico che stempera l’aggressività prevalente.
Il Moderato ben accentuato che si colloca in seconda posizione è in realtà una marcia graffiante e ironica, una delle tante marce cui Prookof’ev si è magistralmente applicato; i ritmi incisivi di ottoni e percussioni sostengono le volate del pianoforte; questa idea di base si alterna con episodi diversivi e si ripresenta poi ogni volta in una dversa scrittura strumentale. Segue una Toccata, movimento che riprende il materiale melodico del tempo iniziale; per spiegare questa scelta non bisogna pensare a un’idea ciclica di Concerto, ma piuttosto al desiderio di aprire un momento di virtuosismo puro; e d’altronde già l’espressione “Toccata” riporta al virtuosismo libero e fantasioso della musica barocca. Questo breve movimento è insomma una sorta di posticipazione della cadenza che manca nel tempo iniziale.
Con il Larghetto ci troviamo di fronte alla pagina lirica della partitura, unica concessione espressiva che esuli dall’ambientazione prevalente del Concerto.

Anche in questo caso, comunque, il tema in ribattuti conserva una connotazione di elegante graffito; come dire che anche questo tempo mantiene i medesimi principi degli altri movimenti, convertiti però verso finalità contemplative. Completa è l’integrazione con l’orchestra; molti materiali tematici passano ai legni, mentre il pianoforte compie delicati arabeschi. Si staglia però l’energia dell’episodìo centrale, che porta a una intensa perorazione di arte retorica, in cui si fondono il lirismo degli archi e gli accordi e arpeggi del solista.
L’ultimo tempo si basa sulla giustapposizione di sezioni contrastanti; basterebbe osservare i cambiamenti delle indicazioni di tempo: Vivo – Appena più mosso – Più mosso – Più tranquillo – Coda. Allegro non troppo. Dinamismo e martellamento vitalistico sono le parole d’ordine di questo tempo, che accoglie comunque alcuni passaggi di tecnica semplificata nonché una sezione centrale basata sull’intimismo di sonorità contenute, che si spegne con il pianoforte solo; la coda è costruita come un grande climax che parte da un grazioso motivo degli archi soli per coinvolgere tutta l’orchestra e il solista in una conclusione trascinante di effetto immancabile.

Rachmaninov Concerto n. 2 in do minore per pianoforte e orchestra op. 18

Rachmaninov è una delle ultime espressioni e incarnazioni della figura del concertista-compositore dell’epoca tardo-romantica, secondo la tradizione di un Liszt e di un Busoni, e si può dire che il suo nome sia legato più alla sua attività di interprete, di direttore d’orchestra e soprattutto di pianista che non a quella di autore e creatore di musica, anche se la sua produzione è abbastanza rilevante e comprende tre lavori teatrali (tra cui il più noto è Aleko), due oratori, tre sinfonie, diversi poemi sinfonici, un numero stragrande di liriche vocali e quattro concerti per pianoforte e orchestra. Rachmaninov, infatti, fu un formidabile virtuoso della tastiera e riversò principalmente nelle composizioni per pianoforte tutto il suo mondo espressivo e il suo temperamento solitario e introverso, incurante e quasi sprezzante verso tutto ciò che di nuovo fermentava nel mondo musicale nel periodo compreso tra la prima e la seconda guerra mondiale. Non è mancato tra i musicologi chi ha sostenuto, fra l’altro, che Rachmaninov decise nel 1918 di stabilirsi definitivamente negli Stati Uniti perché la sua natura eclettica e fortemente individualista si sentiva più vicina all’arte occidentale e internazionale che non a quella più propriamente russa. È vero che egli ebbe sempre un atteggiamento distaccato e a volte polemico nei confronti del gruppo dei Cinque e in particolar modo di Musorgskij, ma non si può negare che anche l’arte di Rachmaninov, che subì l’influsso della musica di Cajkovskij, il quale aveva preconizzato all’illustre pianista quando era ragazzo un brillante avvenire, riveli il segno di un russismo popolare e folklorico, contraddistinto da una sensazione di struggente malinconia e di intima tristezza per i sentimenti e le cose che si dissolvono con il mutare del tempo.

Witold Rowicki

Del resto la fortuna di Rachmaninov, anche se ha subito delle oscillazioni, non è mai tramontata in URSS ed oggi si assiste in questo paese ad un processo di rivalutazione e di riabilitazione del grande pianista e le sue composizioni vengono pubblicate in edizioni critiche ed eseguite spesso nelle sale da concerto.
Nella produzione di Rachmaninov il Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra è uno dei pezzi più eseguiti dai pianisti per le caratteristiche della scrittura solistica, tecnicamente brillante e ricca di intenso lirismo. Il pianoforte ha un ruolo preminente rispetto all’orchestra concepita quasi sempre in forma di accompagnamento e contrapposta allo strumento solista in un gioco di luci dosato secondo un raffinato gusto delle sonorità. Del resto lo stesso Rachmaninov in una intervista rilasciata nel 1923 alla rivista americana “The Etude”, che da molti anni ha cessato le pubblicazioni, espresse la sua convinzione che i pezzi scritti per pianoforte dovessero essere, ubbidendo ad una tipica espressione tedesca, “Klaviermässig”, cioè avere delle qualità inconfondibilmente pianistiche e scorrere con facilità e naturalezza sotto le dita, così come avviene per i concerti pianistici di Cajkovskij.
Il Concerto n. 2 fu scritto nel 1901 e dedicato al dottor Dahl, un medico psicanalista che aveva curato il compositore colpito un anno prima da una forte crisi depressiva. Venne eseguito per la prima volta a Mosca nel dicembre dello stesso anno sotto la direzione d’orchestra di Alexandr Siloti e con Rachmaninov al pianoforte. Il Concerto venne poi presentato a Londra e nella celebre Gewandhaus di Lipsia, entrando a far parte del repertorio dei più acclamati pianisti. Esso è nella struttura tradizionale in tre tempi e il primo movimento (Moderato) si apre con una breve introduzione su grandi accordi alternati ad un rintocco di un fa basso e profondo. Subentra un secondo tema più disteso in contrasto con il primo, così da determinare una dialettica di indubbio effetto emotivo. L’Adagio del secondo movimento è una pagina di straordinaria suggestione melodica per quel soffio di romanticismo lunare in cui è immersa. È diviso in tre parti: esposizione, sviluppo con una magnifica cadenza del pianoforte, e ripresa in modo cantabile.
L’Allegro scherzando è agile e spigliato, alternando momenti giocosi ad altri più malinconici ed introversi, con un richiamo ad uno dei temi del primo movimento, anche se ben più famoso è il secondo tema sfociante alla fine nella luminosa tonalità di do maggiore.