Ravel Maurice

Boléro e altre composizioni

Anche se avete diverse versioni, vi esorto a prendere in considerazione questa incisione, perché raramente ho ascoltato questi spartiti interpretati in modo così magico dalla London Symphony Orchestra diretta da Claudio Abbado. La partitura migliore, forse, è la resa magicamente straordinaria e affascinante di Ma Mére l’Oye. Seguono poi la Rhapsodie Espagnole, Pavane pour une infante défunte, una delicatissima e struggente composizione e il famosissimo Boléro, impetuoso e travolgente soprattutto nel finale. Audio ottimo. Registrazione in DDD effettuata nel 1986. Altamente raccomandato.

Boléro

Nel panorama della musica europea del Novecento, la figura di Maurice Ravel si colloca a sé per una singolare ventura: quella di essere riuscito a conciliare le opinioni dei critici musicali con i successi che i più vari pubblici gli tributavano. Ma, con l’andare degli anni, questo universale consenso è apparso quanto meno sospetto al versante «progressista» della musicologia, pericolosamente incline a qualificare come regressivo chi avesse scritto qualcosa ancora vagamente tonale e definire come aggiornato e rispettabile chi avesse comunque sposata la causa della dissonanza e della «lacerazione». Simili qualificazioni manichee (che pure hanno trovato un autorevolissimo sostenitore in Theodor W. Adorno) appaiono oggi viziate di un certo schematismo riduttivo, anche se tardano a scomparire, e dopo una sorta di esilio, in questa particolare temperie che assiste alla liquidazione di certe avanguardie, il nome di Ravel affiora sempre più insistentemente quando si parla dei più interessanti musicisti di oggi (e pensiamo a Salvatore Sciarrino, ma anche al giovanissimo Carluccio, e al «classico» Bussotti). I cento anni che ci separano dalla sua nascita non hanno minimamente offuscato il fascino e la lezione di stile che emanano dalla sua musica, anche se ad alcuni Ravel potrà non apparire un prepotente creatore di concezioni nuove, per non aver voluto mai abbandonare l’impianto tonale ed essersi limitato a una dimensione espressiva di comunicabilità raffinata.
Eppure, il suo pianismo ha soppiantato l’iridescenza morbida dei movimenti accordali di Debussy con la linearità della melodia netta e tornita; la sua tastiera può gareggiare per la varietà della timbrica ora con il clavicembalo, ora con la percussione, ora con la chitarra; la sua orchestra si distingue per la chiarezza e l’originalità dell’impiego dei singoli strumenti, ascoltati sempre e valorizzati nelle loro peculiarità coloristiche; per la frequenza di passaggi bitonali e politonali che pure mantengono un tipico carattere di plausibilità, accettabile anche dalle orecchie meno disposte all’ascolto di musica moderna.
Suscita pertanto un certo stupore la strana accoglienza riserbata al «Boléro» nel 1928: alla prima, raccontano le cronache, una delle solite «signore da concerto», aggrappata alla sua poltrona, gridò «Pazzo! Pazzo!». Eppure Parigi era stata teatro di ben altre battaglie: a quindici anni prima — riferiamo l’evento più significativo — risaliva lo scandalo del «Sacre du printemps» di Strawinsky. Che cosa dunque aveva impressionato il pubblico parigino nella partitura di Ravel? La celebre ballerina Ida Rubinstein (interprete, fra l’altro, del «Martyre de S. Sébastien» di Debussy) aveva chiesto a Ravel la musica per un balletto: per il musicista era una stupenda occasione per provare ancora una volta la gioia di ispirarsi a movimenti di danza. Quante sue pagine ne sono pervase: dalla giovanile «Habanera» alla «Valse» al «Menuet antique», e poi la Pavana, il Rigaudon, i ritmi americani ne «L’enfant et les sortilèges» e quelli spagnoli ne «L’heure espagnole». Il «Boléro» conferma questa curiosità tutta raveliana per i ritmi di danza, che giungono qui a un inedito parossismo; l’attrazione sempre rinnovantesi per la terra di Spagna, a lui, basco, tanto vicina; la finezza e l’originalità nell’uso degli strumenti.
Di questa danza popolare spagnola, già entrata nel linguaggio della musica colta con Chopin e con gli operisti italiani dell’Ottocento, Ravel evidenzia l’essenza ritmica, che costituisce l’ossatura del pezzo, nel quale, secondo una dichiarazione dello stesso Ravel «non c’è forma propriamente detta, non c’è sviluppo, non c’è o non c’è quasi modulazione». Ecco dunque l’elemento di assoluta novità: tutto l’interesse del musicista è concentrato sullo strumentale, unico tratto di varietà nella monotona, ossessiva ripetizione della melodia iniziale: dall’enunciazione in pianissimo affidata al flauto sì passa ad altri timbri o gruppi di strumenti, in un crescendo di allucinante effetto emotivo, che si placa in una risolutiva modulazione al mi maggiore, poco prima della fine.
Uno studioso francese ha scritto acutamente che in Ravel «la danza è il manto isolante del suo sogno», lo strumento cioè di cui si serve per simulare il distacco dalla materia cantata, per nascondere il fondo della sua anima «appassionata», una sorta di graticcio in cui figure e sentimenti s’irrigidiscono in una fissità e lontananza stranianti. Anche con il «Boléro» avviene qualcosa di simile: qui la danza esprime inizialmente un senso di apatia, di assenza di passione, di contemplante immobilità, ma un fremito angoscioso non tarda a insinuarsi nel quadro e montando via via giunge a travolgere, con l’ossessionante ripetersi del modulo ritmico-melodico, la calma semplicità della danza popolare: la coscienza dell’uomo contemporaneo riprende amaramente i suoi diritti, uscendo dall’incantato vagheggiamento di tempi e regioni lontane da cui il «Boléro» era germinato.

Rhapsodie espagnole

Una fotografia dell’epoca di Daphnis et Chloè (1909), ritrae Ravel al pianoforte accanto a Nijinskij, che incrocia le mani in un passaggio. Stravinskij sosteneva che il ballerino adorato da Diaghilev – e primo coreografo del Sacre – non possedesse nemmeno i rudimenti della musica. Stava in posa? In effetti, Ravel in quella foto sorride.
E ancora in un quattro mani Maurice viene colto da un visitatore di rispetto mentre suona la Rhapsodie espagnole e le da gli ultimi ritocchi prima di eseguirla in pubblico. E, nel 1907, Manuel de Falla, appena arrivato a Parigi, prega l’amico Ricardo Vines di fargli conoscere la giovane promessa che considera la Spagna sua “seconda patria”, non fosse altro che per essere nato (Ravel) a Ciboure, paese basco a pochi chilometri dal confine.

Claudio Abbado

Arrivato a casa di Vines, Falla ascolta in anteprima il nuovo pezzo e commenta: «La Rhapsodie mi confermò subito l’enorme impressione già avuta dalla Sonatine, ma mi sorprese per il suo autentico carattere spagnolo. In perfetto accordo con ciò che io penso (e all’opposto di quanto aveva fatto Rimskij nel suo Capriccio), l’ispanismo di Ravel non era affatto ottenuto mediante una pedissequa utilizzazione di documentazioni popolari, ma con un libero impiego di ritmi, melodie modali ed evoluzioni proprie della nostra lirica popolare; elementi che non alteravano affatto le caratteristiche musicali dell’autore, anche se in questo caso egli adoperava un linguaggio melodico totalmente diverso da quello usato nella Sonatine».
Falla, spagnolo autentico e al di sopra di ogni sospetto, corrobora l’opinione diffusa e non controversa: Ravel, come Bizet, non fu un turista. La sua Spagna, anche nella Rhapsodie, non è un acquerello di maniera. I caratteri “folk” della musica che adorava – riflesso condizionato della lingua che la madre parlava in casa – erano elementi strutturali dell’invenzione, soprattutto quelli ritmici, presi come spunti e utilizzati come elettroshock per riplasmare la Forma.
La Rhapsodie espagnole non sfugge alla regola raveliana generale: la prima veste in cui venne concepita e presentata al pubblico, nonché edita, è quella
pianistica; l’orchestrazione seguirà di due anni. Il che, a suo modo, l’apparenta al Concerto in re – e al Concerto in sol – che nasceranno vent’anni dopo.

Claudio Abbado

Le quattro parti in cui è articolata sono la conversione della Sonata nella plasticità dell’immagine. Nel Prelude a la nuit, con la ripetizione di un disegno quasi minimalista di quattro note – fa, mi, re, do diesis – emerge una delle strutture mentali (pianistiche) di Ravel. L’iterazione non era per lui solo colore e passione, ma eco di riti tribali destinati a entrare nella musica del nostro secolo, così pesantemente condizionata dal ritmo, come prolungamento ma anche come antidoto: la sospensione del tempo. Nel disegno persistente e misterioso, da thriller, c’è Rave una verità musicale antica – l’immobilità attraverso il movimento, come nel Bolèro -, su cui l’orchestra si riversa con onde debussiane.
La Malaguena stacca la seconda parte di netto, con un intreccio di ritmi sfalsati, scale e note ribattute. Ma l’idea che sembra aver generato tutta la Rhapsodie è troppo bella per essere abbandonata. Verso la fine della Malaguena riappare la magnifica ossessione: fa-mi-re-do diesis, fa-mi-re-do diesis.
Come Andante di questa corporea anti-Sonata, Ravel introdusse di peso la Habanera composta dodici anni prima (nei Sites auriculaires), anch’essa piena di stranezza e di mistero nelle pause insistite. Ravel non negò l’autoimprestito, anzi scrisse chiara la data, 1895, come messaggio a Debussy, che nella sua Soirée dans Grenade del 1903 si era ispirato alla Habanera. Non viceversa.
La Feria, su cinque idee intrecciate fra loro, non cita ma fa letteralmente divampare, accesi dall’orchestra, lo spirito della danza e l’anima della Spagna nella loro dimensione più autentica. Uno splendido gioco di finti finali trascina l’orchestra in plasticità questa volta non impressionistiche, e si apre così nel primo Ravel quella vena esotica che riapparirà spesso, senza bisogno di preavviso o giustificazione, in brani come la Chanson espagnole, Don Quichotte à Dulcinèe, lo stesso Bolèro, e con riferimenti diversi nella Tzigane, nelle Chansom madécasses. Influenzato, Ravel, da Saint-Saëns. Influenzati, da lui, anche il Debussy di Ibéria e lo spagnolissimo Falla.

Ma mère l’oye

Ci sono due modi del tutto diversi di trarre ispirazione poetica dal mondo dell’infanzia: quello di chi vi fa ritorno come ad un’isola felice di innocenza e di magia, e quello invece di chi lascia affiorare il fanciullino che porta dentro di sé. Nel primo caso l’infanzia diventa un tema fantastico con una sua particolare aura poetica; nel secondo invece viene rivissuta un’esperienza in prima persona. Questi diversi atteggiamenti li possiamo riscontrare in due lavori pianistici composti da Debussy e da Ravel in quel primo decennio del nostro secolo in cui fra i due compositori francesi sono frequenti, nell’ambito della tastiera, scambi e equivalenze di temi poetici e ispirativi: Chìldren’s Corner (1906-1908) e Ma mère l’oye (1908). Mentre nel primo caso Debussy fa dono alla figlia Chouchou di una serie di splendidi quadretti pianistici in cui il mondo dell’adorata bambinetta è osservato attraverso un filtro mitico, non privo di risvolti ironici, Ravel offre ai suoi piccoli amici, Jean e Mimie Godebski, una serie di favole sonore in cui la musica non solo è mezzo evocativo, ma diventa racconto, narrazione; inoltre, se i Children’s Corner richiedono dita esperte e maturità tecnica ed interpretativa, Ma mère l’oye può anche esser affrontata da pianisti se non proprio in erba, almeno a livello medio dei loro studi, come in effetti avvenne nel caso della prima esecuzione pubblica, affidata a due pianiste decenni.
Ma la differenza fra queste due partiture non si limita all’aspetto poetico e ispirativo, riguarda più a fondo il linguaggio pianistico dei due compositori. L’immagine pianistica di Debussy è frutto di astrazione, il suo tempo musicale si condensa e si dilata cosi come la materia musicale si raggruma e si assottiglia in continuazione, conquistando un nuovo spazio sonoro, anzi molti spazi che si intersecano: siamo alle soglie dei Préludes. Il tempo musicale di Ravel è invece un tempo narrativo, e i temi sono personaggi, immagini favolistiche tratteggiate con nitore calligrafico. Children’s Corner può solamente vivere sulla tastiera,

perché il pianoforte è la sua orchestra; Ma mère l’oye invece può trasporre le sue funzioni narrative in una dimensione sonora amplificata, passare dal bianco e nero della tastiera al caleidoscopio coloristico dell’orchestra. È quanto Ravel ebbe occasione di fare qualche anno dopo, elaborando una versione ballettistica delle Pièces enfantines andata in scena nel 1912 al Théâtre des Arts, a Parigi.
Pur essendo vicino a Debussy per quel gusto a cesellare e a raffinare il suono così da cavarne tutto il profumo lirico in esso racchiuso, Ravel tende a distaccarsi nettamente dall’estetica impressionistica nella ricerca di un mondo espressivo meno simbolico e immateriale e più razionalistico, rivolto principalmente verso un ideale artistico fatto di chiarezza nelle immagini e di misurata compostezza nella forma. Un esempio di questa accentuata preferenza per la linearità e la purezza classica, che Ravel aveva ricavato dallo studio meticoloso della letteratura musicale francese del Sei-Settecento e in particolare della produzione clavicembalistica (Couperin in testa) così trasparente nella scrittura e agile nell’architettura, si ritrova nella Pavane pour une infante defunte scritta nel 1899 per pianoforte e poi orchestrata dallo stesso compositore, che l’aveva dedicata alla principessa di Polignac, nel 1908. Con questo lavoro, che ha la brevità e l’intensità espressiva di un foglio d’album, Ravel ebbe il primo autentico successo di pubblico, soprattutto per l’intimo, penetrante e delicato lirismo che distingue tale pagina elegiaca immersa in un acquario di eleganti ed evanescenti armonie poggiate su un chiaro impianto diatonico.
Malgrado il titolo, la Pavane non ha un carattere programmatico e descrittivo, come ebbe a sottolineare subito Ravel in risposta a coloro che lo consideravano un impressionista («Pour moi – egli disse – je n’aì songé en assemblant le mots qui composent ce titre qu’au plaisir de faire une alliteration») ; in essa si avverte la presenza di un artista abilissimo nell’uso degli impasti timbrici e delle sonorità armoniose e seducenti, dotato oltretutto di un sottile e lucido autocontrollo tale da calibrare l’invenzione melodica anche nei momenti in cui sembra dare sfogo ad accenti ed inflessioni patetiche, senza tuttavia cercare l’effetto e l’exploit virtuosistico fine a se stesso.

Pavane pour une infante défunte

Pur essendo vicino a Debussy per quel gusto a cesellare e a raffinare il suono così da cavarne tutto il profumo lirico in esso racchiuso, Ravel tende a distaccarsi nettamente dall’estetica impressionistica nella ricerca di un mondo espressivo meno simbolico e immateriale e più razionalistico, rivolto principalmente verso un ideale artistico fatto di chiarezza nelle immagini e di misurata compostezza nella forma.

London Symphony Orchestra

Un esempio di questa accentuata preferenza per la linearità e la purezza classica, che Ravel aveva ricavato dallo studio meticoloso della letteratura musicale francese del Sei-Settecento e in particolare della produzione clavicembalistica (Couperin in testa) così trasparente nella scrittura e agile nell’architettura, si ritrova nella Pavane pour une infante defunte scritta nel 1899 per pianoforte e poi orchestrata dallo stesso compositore, che l’aveva dedicata alla principessa di Polignac, nel 1908. Con questo lavoro, che ha la brevità e l’intensità espressiva di un foglio d’album, Ravel ebbe il primo autentico successo di pubblico, soprattutto per l’intimo, penetrante e delicato lirismo che distingue tale pagina elegiaca immersa in un acquario di eleganti ed evanescenti armonie poggiate su un chiaro impianto diatonico.
Malgrado il titolo, la Pavane non ha un carattere programmatico e descrittivo, come ebbe a sottolineare subito Ravel in risposta a coloro che lo consideravano un impressionista («Pour moi – egli disse – je n’aì songé en assemblant le mots qui composent ce titre qu’au plaisir de faire une alliteration») ; in essa si avverte la presenza di un artista abilissimo nell’uso degli impasti timbrici e delle sonorità armoniose e seducenti, dotato oltretutto di un sottile e lucido autocontrollo tale da calibrare l’invenzione melodica anche nei momenti in cui sembra dare sfogo ad accenti ed inflessioni patetiche, senza tuttavia cercare l’effetto e l’exploit virtuosistico fine a se stesso.

Le qualità maggiori che mi vengono in mente ogni volta che penso a André Cluytens sono prima di tutto nobiltà, l’immaginazione prodigiosa e la capacità lirica di descrivere con splendore maestoso l’architettura aerea che rappresenta la musicalità radiosa di Ravel. Cluytens non ha mai avuto un’orchestra di fama mondiale (al contrario di Victor De Sabata, Dimitri Mitropoulos o Jascha Horenstein, per esempio), ma ha trasformato il suono di questo ensemble portandolo verso confini immaginabili. Cluytens, secondo il mio modesto parere, interpreta come nessun altro direttore (eccetto Charles Munch) la musica di Ravel. L’interpretazione, per esempio, del Boléro e Pavane ne sono un esempio eloquente. Registrazione eseguita nel 1962 e rimasterizzazione effettuata nel 1987. Nonostante la datazione l’audio è più che buono. CD di difficile reperibilità Imperdibile.

La Valse

La danza permea l’opera di molti musicisti dei primi del Novecento. Inebriarsi dei ritmi e dello spirito della danza era per musicisti tra loro diversissimi – da Debussy, flou, sfuggente e impalpabile, a Stravinsky, fauve, violento e ossessivo – un modo per reagire alla pesantezza ritmica della tradizione sinfonica classico-romantica. Ma c’è anche un’altra spiegazione, più
contingente, per quell’ondata di musica di danza: questa spiegazione ha un nome e un cognome, Sergej Diaghilev, il geniale impresario dei Ballets russes, che è stato una fonte vulcanica di proposte, di suggerimenti e di stimoli per i compositori dei primi trent’anni del ventesimo secolo.
Anche la nascita della Valse è merito di Diaghilev, che però, quando ricevette la partitura, la rifiutò. Fu poi Ida Rubinstein a metterla in scena, il 20 novembre 1928, all’Opera di Parigi, con un’accoglienza entusiastica e surriscaldata, ma intanto la prima esecuzione aveva avuto luogo in forma di concerto il 12 dicembre 1920, con l’Orchestra Lamoureux di Parigi diretta da Camille Chevillard: da allora La Valse ha la funzione di tonico infallibile nelle sale da concerto per il suo potere di accontentare simultaneamente tutti i tipi d’ascoltatore, che possono scoprirvi le infinite e preziose meraviglie timbriche e armoniche della raffinata tavolozza di Ravel o lasciarsi semplicemente andare al suo effetto trascinante.
Ravel scrisse questa musica durante l’inverno 1919-1920, nel villaggio di Lapras, in Ardèche, dove si era stabilito a casa d’un amico per riprendersi dall’abbattimento fisico e morale in cui era caduto dopo la guerra e la morte della madre («Sono terribilmente triste. Soffro sempre più», scriveva nel dicembre 1919): privato dalla stagione particolarmente rigida anche dello svago delle sue passeggiate quotidiane, si dedicò esclusivamente alla composizione e scrisse La valse. Dunque questa musica sfolgorante e vorticosa nacque nel raccoglimento di quei mesi grigi e gelidi.
Sembra che in questo “poema coreografico” Ravel abbia ripreso un suo precedente progetto d’un poema sinfonico intitolato Wien: amava la capitale austriaca per la sua gentilezza e la sua frivolité ormai appartenenti ad un’epoca trascorsa, e parimenti prediligeva il valzer, simbolo musicale di quel vecchio mondo. Già nel 1910 aveva reso omaggio alla danza viennese per eccellenza con le Valses nobles et sentimentales, eleganti e delicate: ma la bufera della guerra aveva spazzato via quelle atmosfere, lasciando un segno indelebile sul grande valzer del 1920, il cui slancio danzante proteso verso un culmine parossistico di sonorità orchestrale rivela, nonostante la leggerezza dei temi ispirati a quelli di Johann Strauss jr, un tormento e un’angoscia palpabili.
Ravel stesso, che per le Valses nobles et sentimentales aveva invocato «il piacere delizioso e sempre nuovo d’una occupazione inutile», ha messo in rilievo questa tensione oscura e drammatica della Valse quando la descrisse come un «turbinio fantastico e fatale». In vista della realizzazione scenica in forma di balletto era stato in realtà previsto un soggetto che di fatale aveva ben poco, perché La Valse avrebbe dovuto essere l’apoteosi del valzer viennese, il sogno d’un mondo sfavillante che riappare per un istante dalle nebbie del passato: «Nubi tempestose lasciano intravedere, a sprazzi, delle coppie che danzano il valzer: quando lentamente si diradano, si distingue un’immensa sala popolata da un folla volteggiante. La scena s’illumina progressivamente, finché, raggiunto il fortissimo, si accendono i grandi lampadari. La scena si svolge alla corte imperiale, verso il 1855». Ma la musica composta da Ravel non si adattava facilmente ad una rievocazione della Vienna di Francesco Giuseppe e degli Strauss, quindi, dal suo punto di vista, Diaghilev non ebbe tutti i torti a rifiutarla. Il sussurrare misterioso dell’inizio, col suo fremito sordo che pulsa sotterraneo ma chiaramente avvertibile, indica che sta per venire alla luce qualcosa di luminoso: ma allo stesso tempo c’è un senso d’inquietudine, serpeggia l’ombra del dubbio. Ecco che, dopo parecchi tentativi d’emergere dalla bruma, il tema appare: è leggero, frivolo e frizzante e porta con sé un senso di felicità. Con movenze feline e voluttà cromatiche questo tema sale, scoppia e trionfa, poi cade, si dissolve, riappare ancora più esasperato, sale di nuovo in un frenetico crescendo fino al più parossistico fortissimo. Allora lo scatenamento orgiastico del ritmo e il bagno voluttuoso di suoni s’impossessano irresistibilmente dell’ascoltatore, ma non si deve dimenticare il lato demoniaco della Valse e considerarla soltanto un rassicurante pezzo di bravura orchestrale.

Rhapsodie espagnole

Una fotografia dell’epoca di Daphnis et Chloè (1909), ritrae Ravel al pianoforte accanto a Nijinskij, che incrocia le mani in un passaggio. Stravinskij sosteneva che il ballerino adorato da Diaghilev – e primo coreografo del Sacre – non possedesse nemmeno i rudimenti della musica. Stava in posa? In effetti, Ravel in quella foto sorride.
E ancora in un quattro mani Maurice viene colto da un visitatore di rispetto mentre suona la Rhapsodie espagnole e le da gli ultimi ritocchi prima di eseguirla in pubblico. E, nel 1907, Manuel de Falla, appena arrivato a Parigi, prega l’amico Ricardo Vines di fargli conoscere la giovane promessa che considera la Spagna sua “seconda patria”, non fosse altro che per essere nato (Ravel) a Ciboure, paese basco a pochi chilometri dal confine.
Arrivato a casa di Vines, Falla ascolta in anteprima il nuovo pezzo e commenta: «La Rhapsodie mi confermò subito l’enorme impressione già avuta dalla Sonatine, ma mi sorprese per il suo autentico carattere spagnolo. In perfetto accordo con ciò che io penso (e all’opposto di quanto aveva fatto Rimskij nel suo Capriccio), l’ispanismo di Ravel non era affatto ottenuto mediante una pedissequa utilizzazione di documentazioni popolari, ma con un libero impiego di ritmi, melodie modali ed evoluzioni proprie della nostra lirica popolare; elementi che non alteravano affatto le caratteristiche musicali dell’autore, anche se in questo caso egli adoperava un linguaggio melodico totalmente diverso da quello usato nella Sonatine».
Falla, spagnolo autentico e al di sopra di ogni sospetto, corrobora l’opinione diffusa e non controversa: Ravel, come Bizet, non fu un turista. La sua Spagna, anche nella Rhapsodie, non è un acquerello di maniera. I caratteri “folk” della musica che adorava – riflesso condizionato della lingua che la madre parlava in casa – erano elementi strutturali dell’invenzione, soprattutto quelli ritmici, presi come spunti e utilizzati come elettroshock per riplasmare la Forma.
La Rhapsodie espagnole non sfugge alla regola raveliana generale: la prima veste in cui venne concepita e presentata al pubblico, nonché edita, è quella pianistica; l’orchestrazione seguirà di due anni. Il che, a suo modo, l’apparenta al Concerto in re – e al Concerto in sol – che nasceranno vent’anni dopo.
Le quattro parti in cui è articolata sono la conversione della Sonata nella plasticità dell’immagine. Nel Prelude a la nuit, con la ripetizione di un disegno quasi minimalista di quattro note – fa, mi, re, do diesis – emerge una delle strutture mentali (pianistiche) di Ravel. L’iterazione non era per lui solo colore e passione, ma eco di riti tribali destinati a entrare nella musica del nostro secolo, così pesantemente condizionata dal ritmo, come prolungamento ma anche come antidoto: la sospensione del tempo. Nel disegno persistente e misterioso, da thriller, c’è Rave una verità musicale antica – l’immobilità attraverso il movimento, come nel Bolèro -, su cui l’orchestra si riversa con onde debussiane.
La Malaguena stacca la seconda parte di netto, con un intreccio di ritmi sfalsati, scale e note ribattute. Ma l’idea che sembra aver generato tutta la Rhapsodie è troppo bella per essere abbandonata. Verso la fine della Malaguena riappare la magnifica ossessione: fa-mi-re-do diesis, fa-mi-re-do diesis.

Sergej Diaghilev

Come Andante di questa corporea anti-Sonata, Ravel introdusse di peso la Habanera composta dodici anni prima (nei Sites auriculaires), anch’essa piena di stranezza e di mistero nelle pause insistite. Ravel non negò l’autoimprestito,
anzi scrisse chiara la data, 1895, come messaggio a Debussy, che nella sua Soirée dans Grenade del 1903 si era ispirato alla Habanera. Non viceversa.
La Feria, su cinque idee intrecciate fra loro, non cita ma fa letteralmente divampare, accesi dall’orchestra, lo spirito della danza e l’anima della Spagna nella loro dimensione più autentica. Uno splendido gioco di finti finali trascina l’orchestra in plasticità questa volta non impressionistiche, e si apre così nel primo Ravel quella vena esotica che riapparirà spesso, senza bisogno di preavviso o giustificazione, in brani come la Chanson espagnole, Don Quichotte à Dulcinèe, lo stesso Bolèro, e con riferimenti diversi nella Tzigane, nelle Chansom madécasses. Influenzato, Ravel, da Saint-Saëns. Influenzati, da lui, anche il Debussy di Ibéria e lo spagnolissimo Falla.

Valses nobles et sentimentales

Ispirandosi da vicino ai modelli di Schubert, che ne aveva scritti in gran numero contribuendo a consolidare la tradizione «viennese» di questa forma di danza, Ravel compose nel 1911 una serie di otto valzer per pianoforte, intitolandoli, schubertianamente appunto, «Valses nobles et sentimentales». Quanto intenzionale e operante sul piano compositivo fosse stato l’accostamento al Maestro viennese, Ravel stesso lo sottolineò in uno scritto autobiografico: «Il titolo “Valses nobles et sentimentales” indica sufficientemente la mia intenzione di derivare da Schubert una serie di valzer. Il virtuosismo, principale caratteristica di «Gaspard de la nuit» (1908), è stato qui sostituito da una scrittura decisamente piú chiarificata e lineare». Scritti dunque originariamente per pianoforte, gli otto brani furono orchestrati in occasione di uno spettacolo di balletto a cui partecipava la celebre ballerina russa Natascia Trouhanova, ed eseguiti sotto la direzione dello stesso Ravel in una serata che rimase memorabile nella pur densa storia artistica della Parigi di quegli anni, il 22 aprile 1912.
Nonostante il richiamo dichiarato a Schubert, le «Valses nobles et sentimentales» sono tipicamente raveliane per quanto riguarda l’atteggiamento di fronte alla tradizione viennese, che qui appare come rivisitata sotto cieli squisitamente parigini, secondo canoni di eleganza e di «décor» salottiero in cui tuttavia, dietro l’apparente disinvoltura di piacevoli atmosfere e la stessa lucentezza dello stile, emerge il fondo malinconico e amaro della poetica raveliana.
L’autore stesso, d’altra parte, ha avvalorato l’interpretazione di quest’opera come frutto di un sereno e disimpegnato gioco intellettuale apponendo all’inizio della partitura come epigrafe i versi di Henri de Régnier: « … le plaisir délicieux et toujours nouveau d’une occupation inutile».

E in tutto e per tutto raveliane esse sono sul piano propriamente creativo, nella raffinatezza armonica che trova risorse nuovissime negli accostamenti politonali, nel ritmo che varia continuamente dall’interno la metrica fissa della misura ternaria del valzer con pause, sincopi, accenti spostati, contrasti di tempo fra gli stessi strumenti dell’orchestra. Timbricamente, poi, Ravel raggiunge una varietà di colori e di caratterizzazioni tale da far suonare del tutto legittima l’affermazione di Debussy subito dopo l’esecuzione dell’opera: «L’udito di Ravel è il piú raffinato che sia mai esistito»; e che trova ampia conferma, per fare solo due esempi, nel trattamento sulla struttura-base dell’orchestra sinfonica delle due arpe e della vasta, originale famiglia di strumenti a percussione.
Gli otto pezzi si susseguono senza soluzione di continuità con questi tempi: «Moderato», «Molto lento», «Moderato», «Molto animato», «Quasi lento», «Molto vivo», «Meno vivo», «Lento» (Epilogo); e per lo piú è una forma libera a trovare espressione con sottili relazioni soprattutto timbriche (come nel secondo, nel quarto e nel quinto valzer), mentre il terzo adombra la classica forma ternaria con Trio e ripresa e il sesto è imperniato sull’alternanza ritmica di 3/2 e 6/4. Il primo brano è caratterizzato dallo slancio ritmico e melodico che si ripete con vigore sempre crescente ma quasi ironicamente contraddetto da pungenti armonie; il settimo, «il piú caratteristico» secondo le parole di Ravel, è anche il piú complesso, presentando sezioni organicamente contrastanti in una sapiente disposizione di pieni e di vuoti, di tensioni e di distensioni, e introduce nell’atmosfera raccolta dell’epilogo, in cui vengono ripresi e portati a conclusione i temi piú importanti dei valzer precedenti.
Nel 1920 Ravel stesso immaginò un adattamento coreografico per la versione orchestrale delle «Valses», su un esile racconto dal titolo «Adelaide, o il linguaggio dei fiori», che accentuava ancora di piú i caratteri di garbo e di piacevolezza un poco increspata di questa affascinante partitura.

Menuet Antique

Numerose opere di Ravel hanno un titolo che rimanda alla danza. Si rifanno a modelli antichi (pavana, minuetto, forlana), al romanticismo (valzer), alla cultura popolare di paesi esteri (habanera, malagueña, jota), o, ancora, a ritmi moderni (foxtrot). Il compositore ha appena vent’anni quando compone il Menuet antique che risale al novembre 1895. Lo dedica a Ricardo Viñes, che ne presenta la prima esecuzione: dapprima in privato nel gennaio 1898, quindi in pubblico nella Salle Érard il 18 aprile dello stesso anno. La versione orchestrale verrà realizzata più di trent’anni dopo nel 1929. Partitura giovanile, il Menuet

antique presenta nondimeno molteplici tratti raveliani. Concepito in origine come omaggio al Menuet pompeux di Chabrier (1881), se ne discosta volutamente per una scrittura leggera e trasparente. Viene allora da pensare ai futuri minuetti della Sonatine e di Le Tombeau de Couperin. “Antica” questa musica? Certo, i colori armonici evocano talvolta tempi antichi. Ma sono disseminati di taglienti dissonanze, meno numerose nella parte centrale che offre una relativa distensione. L’adozione di un ritmo di danza? È solo per snaturarlo meglio. Invano l’ascoltatore cercherà il familiare riferimento alla misura in tre tempi tipica del minuetto; sarà turbato dalle numerose sincopi, dagli accenti sui contrattempi o sui tempi deboli. C’è già tutto Ravel in questa propensione ad alterare archetipi fissati nella memoria collettiva.

Pavane pour une infante défunte

Nell’ultimo anno del secolo scorso RaveI scrisse per il pianoforte la più celebre pavane del repertorio concertistico. Il riferimento compositivo e ideale è a una danza lenta cinquecentesca, popolare anche nel Seicento, in 4/4, dall’andamento composto e solenne, normalmente contrapposta a una veloce gagliarda a lei accoppiata.
L’impiego di questa forma remota da parte di Ravel rientra nella tendenza arcaicizzante fin de siècle cui il catalogo del compositore si dimostra debitore (col Menuet antique, Le tombeau de Couperin e i due Epigrammes de Marot). Non a caso l’eco di questa danza giungeva a Ravel attraverso la mediazione dei virginalisti inglesi come Dowiand e Morley, ed evocava sonorità lontanissime dal pianismo romantico e prossime invece al venerando clavicembalo, importante fonte d’ispirazione per la generazione di Ravel. Il perseguimento di un «colore» storico si somma qui all’inseguimento di un «esotismo» geografico altamente suggestivo: quella Spagna che, nei decenni attorno alla svolta del secolo, ispirò tutti i maggiori autori francesi, da Saint-Saëns a Chabrier, dal Bizet di Carmen a Debussy. Una Spagna immaginaria che divenne catalizzatore delle esperienze compositive più moderne, come avrebbe dimostrato lo stesso Ravel in una serie impressionante di lavori, dalla Habanera giovanile al Boléro, dalla commedia musicale L’heure Eupagnole All’Alborada del Gracioso, dalla Rhapsodie espagnole all’estrema fatica le tre mélodies di Don Quichotte à Dulcinée. Nella Pavane il compositore evoca l’immagine di un’Infanta rinascimentale: la figura doveva godere di una fortuna non episodica se esattamente dieci anni prima, nel 1889, Oscar Wilde le aveva dedicato una toccante fiaba, The Birthday of the Infanta (dal 1891 nella raccolta The House of Pomegranates), da cui Zemlinsky avrebbe tratto la propria «favola tragica per musica» Der Zwerg (Il nano).

Oscar Wilde

Queste le coordinate culturali che danno ragione del titolo di questa composizione, salutata da un’immediata popolarità (anche al di là delle volontà dell’autore, che nel corso degli anni giudicò severamente la semplicità di struttura di questa pagina – un rondò -, giungendo a riconoscere al titolo solo l’interesse di un’allitterazione!), e chiamano in causa una poetica di estraniazione dal rumore del mondo – dalla Francia all’epoca sconvolta dall’Affaire Dreyfus: l’art pour l’art insomma. La Pavane è un incantevole lavoro giovanile, nato per il salotto dei principi di Polignac ed espressamente dedicato alla principessa Edmond de Polignac (ospite di Fauré a Venezia nel ’91, avrebbe commissionato a Stravinskij Renard), all’ombra di due grandi maestri della musica francese: Chabrier – l’influsso del suo Idylle dalle Pièces pittoresques verrà indicato dallo stesso Ravel – e Fauré, insegnante di composizione della giovane promessa e a sua volta autore di una celebrata Pavane, op. 50 orchestrale, scritta a ridosso del Requiem (1887) e ridotta per pianoforte nel 1889. L’orchestrazione dell’opera di Ravel (realizzata nel 1910, ai tempi di Daphnis et Chloé, e presentata al pubblico da Alfredo Casella), lungi dall’offuscare la caratteristica limpidezza dei temi e il loro squisito lirismo, esalta quella scrittura da melodia accompagnata, che già in origine rendeva la Pavane una sorta di serenata per orchestra.
L’apertura è affidata al corno solista, che canta il caldo tema, prevalentemente per grado congiunto, sull’accompagnamento degli archi con sordina, dell’altro corno e dei fagotti, mentre i legni intervengono solo nella seconda parte, cosi come l’iridescenza passeggera dell’arpa. Il primo episodio contrastante è affidato proprio a uno dei legni, l’oboe, seguito come un’ombra dal fagotto, nel silenzio degli archi punteggiato dallo staccato dei clarinetti.
L’episodio viene replicato dagli archi, finché un ritenuto non porta alla ripresa del tema principale, trasfigurato coloristicamente con la sua assegnazione a flauti e clarinetti. Di sapore cajkovskijano,il secondo episodio divagante, in sol minore, esordisce con l’inerpicarsi del flauto nelle regioni acute, sul sostegno dei soli primi violini divisi: la chiarezza tematica delle altre sezioni viene qui frantumata nel contrappunto orchestrale. Ripreso variato anche quest’ultimo episodio tra i glissandi dell’arpa, e concluso col forte a organico completo, giunge l’ultima ripresa del rondò, non clamorosa bensì in pianissimo, eppure esaltata dall’unisono di flauti e violini sull’accompagnamento di archi, arpa, fagotti e corni. Per la seconda sezione del tema,dopo il rituale glissando dell’arpa, il canto spetta ai violini e al corno I, mentre flauti e clarinetti abbozzano un leggero staccato, imitazione forse d’un immaginario liuto o una spagnola vihuela nell’accompagnamento dell’antica pavane.

Le tombeau de Couperin

Le tombeau de Couperin, è uno dei primi brani di Ravel ascrivibili, come si vedrà, all’ambito neoclassico, e fu fra l’altro l’ultima pagina concepita dal compositore direttamente per lo strumento a tastiera (La valse, composta subito dopo, fu pensata contemporaneamente nella versione pianistica e in quella orchestrale). Ravel attese alla stesura del brano negli anni della prima guerra mondiale, e la gestazione si rivelò estremamente travagliata; sia per le vicende belliche, che videro il compositore arruolarsi volontario nell’esercito francese, sia per le vicende private, incentrate sulla perdita della madre, fonte di una grave crisi depressiva. Così, sebbene lo spartito pianistico venisse iniziato nel 1914 e costituisse il principale impegno di quegli anni, la sua definitiva conclusione si potè realizzare solamente nel novembre 1917.
Si trattava, secondo le parole dell’autore a un amico, di una “suite francese”, composta di sei movimenti, ciascuno dei quali dedicato alla memoria di un amico scomparso in guerra: Prelude, Fugue, Forlane, Rigaudon, Menuet, Toccata. L’omaggio ai defunti si realizza non attraverso pagine di intonazione luttuosa, ma attraverso forme consacrate della tradizione francese. Il titolo chiarisce il secondo intento del brano. Il termine tombeau, che non ha alcuna allusione funebre, è inteso nella antica accezione di “omaggio a”. Dunque anche un omaggio alla civiltà strumentale del barocco francese, identificata nella persona di Francois Couperin le Grand, il sommo clavicembalista presso la corte di Luigi XIV. A scanso di equivoci è bene precisare che l’omaggio a Couperin è puramente nominale, senza alcuna citazione testuale di musiche del cembalista. Ravel si inserisce, insomma, in modo personale nella corrente “neoclassica” – che si affermerà compiutamente e vivrà la sua grande stagione fra le due guerre – e insieme si contrappone all’avanguardia francese, capeggiata da Cocteau e Satie, che teorizzava polemicamente il ricorso a una “musica d”uso”.
Due anni più tardi Ravel accolse l’invito dei Concerts Pasdeloup di curare una versione orchestrale del lavoro (che venne poi eseguita il 20 febbraio 1920 sotto la direzione di Rhené-Baton). Espunse il secondo e il sesto brano dalla suite e mutò la disposizione dei rimanenti (Prelude, Forlane, Menuet, Rigaudon). Il passaggio dalla versione pianistica a quella orchestrale era quasi implicito nella ricchezza di colori della scrittura pianistica del compositore. A questo proposito sono illuminanti le parole dell’amico Roland-Manuel: «Questa metamorfosi dei pezzi pianistici in lavori sinfonici era un gioco per Ravel, un gioco giocato alla perfezione, cosicché la trascrizione superava il fascino dell’originale. L’abilità ha raggiunto il suo vertice in Le tombeau de Couperin. Questa trascrizione sortisce un effetto che è virtualmente mozartiano. Una severa necessità governa ogni movimento; con estrema semplicità ed economia Ravel ottiene brillantezza e varietà di colori nel corso di tutto il lavoro, una precisione, infatti, che eguaglia e forse sorpassa i più brillanti successi del suo virtuosismo orchestrale». Nella versione pianistica, ad esempio, Ravel ricorre spesso all’intreccio fra le due mani per evocare, con una modificazione timbrica, le due tastiere del cembalo. Questo gioco viene tradotto, nella versione orchestrale, con l’alternanza continua degli strumenti a fiato, uno dei principi che innerva da cima a fondo la ricchissima partitura.
La successione dei vari movimenti, nell’ultima versione, non si richiama ai principi barocchi, quanto piuttosto alla sinfonia classica, con un primo movimento bitematico, un tempo lento, un minuetto e un tempo brillante. Il Prélude (Vif) è interamente percorso da un incessante scorrere di sestine, soprattutto fra i legni, con un ruolo preminente dell’oboe. Segue una Forlane (Allegretto) dalle movenze eleganti, con una sezione centrale contrastante ma legata tematicamente e affidata ancora ai legni, guidati dalla coppia di flauti. Il Menuet (Allegro moderato), fra i più raffinati esempi consimili di Ravel, viene seguito da una Musette (così definita nella versione pianistica) e da una ripresa che coniuga elementi di entrambe le danze. Il Rigaudon (Assez vif), infine, interrotto da una malinconica sezione centrale affidata a oboe e corno inglese, conclude l’omaggio alla civiltà francese con una impostazione brillante molto incisiva dal punto di vista ritmico.

Ma Mère l’oye

Attirato ripetutamente dalle tematiche infantili e dal mondo delle fiabe – un interesse culminato nel 1925 con l’opera L’enfant et les sortilèges – Ravel diede nel 1908 un proprio contributo alla letteratura pianistica per l’infanzia; Ma mère l’Oye, una raccolta di cinque brevi brani per pianoforte a quattro mani, ispirati ad alcune celebri fiabe tratte da celebri e meno celebri letterati del Sei- Settecento: Charles Perrault (La belle au bois dormant e Le Petit Poucet), Marie Catherine d’Aulnoy (Serpentin Vert) e Marie Leprince de Beaumont (La Belle et la Bȇte). Il titolo dell’intera raccolta deriva dall’antologia di Perrault, Contes de ma Mère l’Oye.
L’album pianistico fu dedicato ai piccoli Jean e Mimie Godebsky, figli dei coniugi Ida e Xavier-Cyprien, detto Cipa, forse i più cari amici che Ravel abbia avuto; venne scritto a Valvin, nella casa di campagna dei Godebsky. Il lavoro si rivelò però troppo difficile per i piccoli Jean e Mimie, e la prima esecuzione avvenne due anni dopo ad opera di due allieve di Marcel Chadeigne e Marguerite Long, la quattordicenne Génévieve Durony e l’undicenne Jeanne Leleu, futura “Prix de Rome”, che Ravel ringraziò con una delicata lettera.
Tuttavia le vicissitudini della raccolta erano ben lungi dall’essere terminate. Sedotto egli stesso dal fascino dello spartito pianistico, Ravel cedette ben volentieri alla richiesta del suo editore, e approntò una versione orchestrale, eseguita nel 1910 con esito trionfale; d’altronde molte opere sinfoniche di Ravel nascono in realtà come lavori per pianoforte. Ma la partitura doveva subire una ulteriore trasformazione; il direttore del Théàtre des Arts convinse Ravel a convertire in un balletto questa musica, che di intrinsecamente coreografico non aveva molto.

Sergej Diaghilev

Ciò nonostante, arricchita con un Preludio, una Danse de Rouet, alcuni brevi intermezzi di collegamento fra i cinque brani originari (il cui ordine fu peraltro modificato), Ma mère l’Oye approdò il 21 gennaio 1912 al palcoscenico, ottenendo un successo assai più lusinghiero di quello conseguito, a distanza di pochi mesi, da Daphnis et Chloe, commissionato da Djagilev. Ma in sede concertistica si preferisce eseguire solo i Cinq pièces enfantines – non a torto, se si considera che le ultime aggiunte hanno una eccellente funzionalità coreografica, ma appesantiscono un poco la sobrietà dell’assunto iniziale.
Sobrietà che invece è probabilmente la principale ragion d’essere dell’album pianistico. Non è forse un caso che Ma mère l’Oye sia stata scritta quasi contemporaneamente a un altro capolavoro pianistico, Caspard de la nuit, improntato però a una scrittura virtuosistica e a un contenuto di incubi visionari. Diametralmente opposto l’album a quattro mani, nel quale il compositore si propose di attingere “la poesia dell’infanzia”; la destinazione a due esecutori in verde età è da sola rivelatrice della limitata difficoltà tecnica dello spartito, pensato per mani dalle dimensioni ridotte e dalla tecnica non troppo sviluppata. Eppure, mostrandosi ancora una volta splendido ricercatore delle potenzialità della tastiera, Ravel compì il piccolo miracolo di ottenere il massimo dell’effetto dalle minime risorse; quella di Ma mère l’Oye, infatti, è una scrittura pianistica per principianti, propensa alla esposizione di semplici linee melodiche, con una fantasia armonica contenuta, ma il risultato mostra una estrema ricchezza di soluzioni coloristiche, il cui senso fiabesco è dato proprio dall’esiguità dei mezzi impiegati e dalla ricerca di una eufonia di calibrato edonismo.
D’altronde, anche nello strumentare lo spartito, Ravel riuscì a trasporre la purissima ariosità pianistica in una scrittura orchestrale che raramente fa ricorso alla piena compagine strumentale, ma più spesso sfrutta l’avvicendamento di timbri sapientemente selezionati. Dunque proprio dalla peculiarità della scrittura Ma mère l’Oye trae il proprio fascino, anche se i cinque brani che la compongono sono costruiti con un senso delle proporzioni e avvicendati con un gusto del contrasto che non possono stupire in un compositore, come Ravel, dalla smaliziata esperienza.
Con il suo lungo tema dolce e malinconico nel modo eolico, la Pavane de la “Belle au bois dormant” vede la vecchia trasformarsi in una fata benigna che culla il sonno della bella addormentata, e lascia presto il posto a Petit Poucet, dove una lunga cantilena per terze gira e rigira su se stessa, come Pollicino alfa ricerca delle molliche di pane, ed è facile cogliere l’improvvisa allusione strumentale agli uccelli del bosco. Laideronnette, Impératrice des Pagodes è il brano più lungo e complesso, nel quale una misteriosa sezione centrale è incorniciata da due sezioni gemelle, divertenti e spigliate nell’evocazione dell’oriente: non vi mancano gli esotismi della scala pentatonica e i giochi di ottavino, xilofono, arpa e celesta, per evocare i gamelan orientali. Garbatamente nostalgico, il valzer che accompagna Les entretiens de la Belle et de la Bète – un omaggio a Erik Satie e alle sue Gymnopédies – vede il colloquio a distanza fra la candida melodia della Bella e il gorgoglio cromatico della Bestia, e, alla fine, il magico istante sonoro che trasforma la bestia in principe. In Le jardin féerique, infine, la sommessa melodia iniziale viene progressivamente condotta, attraverso sonorità sempre più sgargianti, verso una vera apoteosi dell’immaginario, compiacimento estremo della fantasia dell’autore.

Alborada del gracioso

Nato all’arte nel momento del passaggio dall’Ottocento al Novecento Ravel è riuscito a cristallizzare assai presto nel suo lessico espressivo certi aspetti essenziali della musica francese della sua epoca, legandoli ad alcuni grandi modelli del passato per approdare ad una definizione stilistica, autonoma ed esclusiva, della sua opera, cogliendo in maniera originale una perfezione inimitabile.
Tredici anni intercorrono tra la data di nascita di Debussy e quella di Ravel, e questa osservazione non è senza importanza quando si voglia considerare la formazione musicale di Ravel, anche se non assume un rilievo determinante la dichiarazione che quest’utimo ebbe a fare, prossimo a morire, dopo aver riascoltato un’esecuzione dell’Après-midi d’un faune: – «è sentendo per la prima volta questo lavoro che ho compreso cosa fosse la musica». In realtà Ravel, pur sfiorando il mondo incantato di Debussy, ha sempre battuto vie diverse, sia nell’aspetto armonico sia nel versante espressivo, nonché nella scrittura strumentale. Del tutto estraneo al retaggio romantico, ed anche a Wagner, Ravel giovanissimo orientò le sue predilezioni a Chabrier e Satie e, oltre a questi, ai claviccmbalisti francesi del Seicento e Settecento. L’inequivoca tendenza raveliana alla linearità architettonica delle forme classiche, il controllo misuratissimo esercitato sempre sulle emozioni soggettive, vennero a collocare Ravel al di fuori dello stile e dell’ambiente dell’impressionismo, pur se dall’estetica di questo movimento artistico il musicista ebbe ad assumere certe trasparenti sonorità, l’esatta individuazione dei colori e, sovente, la raffinata sfumata variabilità delle trame e degli impasti fonici.
Come ha intelligentemente scritto Francis Poulenc, «mentre in Debussy gli sviluppi musicali si sciolgono in continue fluttuazioni di macchie sonore che si innestano e si sfrangiano liberamente per creare mobilissime atmosfere, in Ravel le immagini sonore sono sempre circoscritte da contorni taglienti, da una netta e quasi razionale precisazione melodica. Alle eleganze evanescenti di Debussy, Ravel oppone cadenze armoniche elementari che semplificano al massimo la struttura compositiva, un dinamismo ritmico ben definito, dure insistenze timbriche che squadrano gli sviluppi musicali con razionale geometria, spesso accentuata dall’adozione di certi schemi crudi e ossessivi della musica iberica» (1972). E, secondo lo Jankelevitch, nella produzione di Ravel «tanta finezza unita a tanta intelligenza presuppongono secoli di civiltà ed una sensibilità che non è concepibile se non in Francia. Soltanto un Ravel poteva concepire l’opera di Ravel: soltanto la sua musica può restituircelo».

Nel 1905 videro la luce la Sonatina e i Miroirs, due lavori che risultano essere l’espressione di due distinti e autonomi aspetti del gusto e del pianismo raveliani. Nella misurata sua concisione la Sonatina è il prezioso documento dì una féerie impressionistica: entro proporzioni formali miniaturizzate ma rigorose nella struttura, l’eloquio musicale sembra delicato e sfumato, sfavillante di impressioni armoniche e ritmiche, vergate in punta di penna, nelle quali l’elemento motore è lo spirito dei settecenteschi clavicembalisti francesi. L’opposto, in una parola, di quanto offre l’ascolto di Miroirs che, nella loro aggressività, splendente di un pianismo luminoso e virtuoslstico, sembrano specchiarsi in Chopin, in Liszt e in Schumann. I Miroirs, come precisò l’autore, «formano una raccolta di pezzi per pianoforte che segnano nella mia evoluzione armonica un mutamento abbastanza considerevole per aver sconcertato anche i musicisti più assuefatti alla mia maniera manifestata fino a quel momento».
Il 1905 fu anche l’anno in cui la terza bocciatura di Ravel al Prix de Rome aveva visto levarsi in favore del musicista numerosi estimatori, da Alfred Edwards, direttore generale del quotidiano “Le Matin”, ai coniugi Godebski, ai pittori Leprade e Bonnard, agli amici della giovinezza che, tre anni prima, nell’atelier del pittore Paul Sordes, avevano dato vita ad un sodalizio d’ostentato anticonformismo al punto da esser denominati “Les Apaches”. I nomi di alcuni di questi compagni, tra cui in primo luogo il poeta Leon-Paul Fargue e il pianista Ricardo Viries, si ritrovano fra i dedicatari dei cinque pezzi di Miroirs che si intitolano Noctuelles, Oìseaux tristes, Une barque sur l’Ocean, Alborada del gracioso e La Vallèe des cloches: pubblicati da Demets, furono eseguiti per la prima volta il 6 gennaio 1906 da Vines alla parigina Salle Erard della Societé Nationale des Concerts.
Con l’eccezione della giovanile Habanera per orchestra (1895), l’Alborada del gracioso è il primo titolo spagnolo dell’opera di Ravel. “Alborada”, termine corrispondente al francese “aubade” e all’italiano “mattinata”, è una mattutina chitarrata d’amore in forma di serenata d’antica origine, probabilmente galiziana, riconducibile forse alla pratica trovadorica. Il “Gracioso”, a sua volta, è un personaggio buffo della commedia tradizionale spagnola di Calderon e di Lope de Vega.

André Cluytens

Come efficacemente ha notato Alfred Cortot, «con Alborada del gracioso Ravel abborda un genere pittoresco d’altra specie rispetto agli episodi precedenti di Miroirs. La discorsività musicale è guidata dalla nervosa cadenza di un ritmo spagnolo; lo sviluppo della composizione è definito da una forma ben precisa, con scene di danza che si alternano al canto, a somiglianzà della maggior parte dei pezzi che formano l’Iberia di Albeniz. In questa pagina, però, la valenza timbrica raveliana non ha nulla del languore sensuale o dell’evocazione nostalgica, tipici del musicista catalano, privilegiando per contro una asciuttezza di tocco, tra lo staccato e il martellato, che restituisce a meraviglia l’effetto delle strappate alle corde metalliche della chitarra, il crepitio ostinato delle nacchere, il battito cadenzato dei piedi dei ballerini. Ed anche l’amarezza malinconica della sezione centrale, che si rifà alla copla nell’improvvisazione del cantore, appare marcatamente stilizzata, prosciugata e ridotta ai suoi tratti essenziali, come un disegno a punta secca» (1930).
La genialità di tale nervosa scrittura strumentale suscitò ben presto l’ammirazione di Manuel de Falla, ma provocò anche la sua meraviglia allorché apprese dalla viva voce dell’autore che con la Spagna non aveva avuto allora alcun rapporto se non quello del suo luogo di nascita, prossimo alla frontiera. Falla concluse la sua osservazione in merito con le seguenti parole: «La Spagna di Ravel era una Spagna conosciuta idealmente attraverso la madre, la cui conversazione, in un eccellente spagnolo, divenne affascinate quando evocò gli anni di gioventù trascorsi a Madrid. Compresi, in quell’occasione, come il figlio fosse rimasto impressionato dagli accenti della madre nelle rimembranze ravvivate da quella forza che lega indissolubilmente, ad ogni ricordo, un tema di canzone, un tema di danza».
L’Alborada del gracioso fu trascritta dall’autore per orchestra nel 1918 ed eseguita per la prima volta il 17 maggio 1919 ai parigini Concerts Pasdeloup sotto la direzione di Rhené-Baton; la pubblicazione, a cura delle Editions Eschig, porta la data del 1923. Secondo il musicologo Roland-Manuel, «aujourd’hui encore les pianistes, plus intimidés que séduits par ces miroirs magiques, n’entretiennent que l’Alborada del gracioso, ou la virtuosité mordante et sèche contraste, à l’espagnole avec les élans pàmés de la mélopée amoureuse qui vient interrompre le bourdonnement furieux de guitars. Pièce admirable d’ailleurs, et dont une orchestration magnifìque a doublé le succès».
La scrittura strumentale, nella sua connotazione virtuosistica, appare assai complessa ed elaborata sia nell’organico prescelto (con xilofono, due arpe, tre timpani, percussioni, crotali, nacchere, archi) sia nella ricerca, portata all’estremo, degli impasti timbrici, anche nell’articolazione degli archi. L’esito è una partitura di diabolica brillantezza e di virtuosismo di scrittura non meno che sensazionale, tale da esaltare alla valenza più elevata tutte le risorse più smaglianti di una compagine sinfonica moderna, nonché la sensibilità, l’intelligenza e l’estro di un direttore carismatico. Specialmente i due pannelli esterni sembrano evocare la fantasmagoria frenetica di mille chitarre ma non meno suggestiva appare l’atmosfera misteriosa ed incantatoria dell’episodio centrale. Al punto che, al confronto con questa versione orchestrale, la stesura originaria può sembrare d’esserne una mera riduzione per pianoforte.

Une barque sur l’océan

Brano dedicato al pittore Paul Sordes; tecnicamente molto impegnativo, è il pezzo più lungo della suite. Un fluido arpeggio descrive l’iniziale tranquillo ondeggiamento di una barca in mezzo all’oceano; viene interrotto bruscamente da un “fortissimo” con note a cascata che richiamano l’incalzare del moto ondoso e l’impeto del vento. Melodia e accompagnamento sono sempre più insistenti, poi la tensione lentamente svanisce e si va a chiudere con il tranquillo tema d’apertura.

Boléro

All’origine di Boléro di Maurice Ravel c’è la richiesta al compositore, nel 1927, da parte di Ida Rubinstein, di una partitura per un breve balletto di ambientazione spagnola. Personaggio centrale nella vita teatrale parigina dei primi decenni del secolo, Ida Rubinstein si era imposta come artista di grande fascino all’interno della celebre compagnia dei Ballets russes, dalla quale si era poi presto staccata fondando una propria compagnia autonoma. Nonostante mancasse, come ballerina, di una tecnica veramente solida, e fosse afflitta, come attrice, da un forte accento russo, la sua avvenenza e il suo carisma stimolarono la creatività di molti compositori (Debussy, Stravinskij, Honegger, Sauguet), letterati (D’Annunzio, Gide, Valery) e coreografi (Fokine, Massine, Bronislava Nijinska). Nei confronti di Ravel i suoi meriti risiedono anche nell’aver montato per la prima volta in versione coreografica – nel maggio 1929, pochi mesi dopo Boléro – La valse, partitura che Diaghilev aveva respinto, giudicandola inadatta alla danza, e che era stata eseguita, dal 1920 in poi, solo in forma di concerto.
Che l’idea del balletto spagnolo piacesse a Ravel non c’è da stupirsi; le sue origini basche lo avevano portato in più occasioni a rifarsi a stilemi spagnoleggianti; basterebbe pensare a lavori come Raphsodie Espagnole (1907), L’heure espagnole (1911), Alborada del Gracioso (1923). Boléro nacque, peraltro, quasi come un ripiego rispetto a una idea primitiva scartata per motivi di forza maggiore. In un primo momento il progetto di Ravel era quello di orchestrare alcune pagine pianistiche tratte da Iberia, celebre raccolta pianistica di Albeniz, compositore protagonista della rinascita musicale spagnola, scomparso nel 1909. Questa scelta, di profilo tutto sommato modesto, era legata certo ad altri pressanti impegni del compositore, inclusa la lunga tournée concertistica negli Stati Uniti e nel Canada conclusasi nel maggio 1928. Occorre osservare però che anche gli altri musicisti coinvolti nello spettacolo della Rubinstein si impegnarono in un lavoro di trascrizione e orchestrazione; Honegger trascrisse pagine di Bach, Milhaud orchestrò pagine di Schubert e Liszt.

Ida Rubinstein e Gabriele D’Annunzio

Ad ogni modo il progetto di sfruttare i brani pianistici di Albeniz risultò impossibile, poiché i diritti per la trasformazione in balletto di Iberia erano già stati ceduti ad altri dagli eredi. Di qui la scelta del compositore di orchestrare una propria melodia di carattere spagnolo, forse annotata durante un viaggio
nella regione dei Pirenei; nelle lettere scritte nel corso della stesura Ravel si riferisce al brano chiamandolo Fandango; ma il titolo definitivo fu poi Boléro.
La prima esecuzione avvenne, il 22 novembre 1928, all’Opera di Parigi, con la direzione di Walther Straram e la coreografia di Bronislava Nijinska; la stessa Rubinstein era protagonista, nei panni di una ballerina gitana danzante sopra un tavolo, mentre, intorno a lei, altri gitani venivano progressivamente coinvolti nel vortice della danza. Fu Ravel a dirigere poi la sua partitura in forma di concerto, l’11 gennaio 1930 ai Concerts Lamoureux. In entrambi i casi un grande successo arrise alla composizione; ma Boléro era destinato a traguardi imprevedibili. Numerosissime le versioni coreografiche che si sono succedute, e converrà citare almeno quelle di Aurelio Milloss, Serge Lifar, Filar Lopez e Maurice Béjart. Ma la melodia di Boléro doveva diffondersi molto oltre i confini degli ambienti della danza e della musica colta; innumerevoli sono state le trascrizioni di vario tipo e per tutti gli strumenti, le trasposizioni nell’ambito della musica jazz (il Jacques Loussier Trio, fra gli altri), gli impieghi come colonna sonora cinematografica (Boléro di Claude Lélouche, il più celebre).
Tutto questo per una composizione che si avvale di elementi, tutto sommato, estremamente semplici. Innanzitutto, il ritmo della danza spagnola; nella sua versione iberica, diffusa nella seconda metà del XVIII secolo, il Bolero è una danza in tempo ternario e di andamento moderato, con un ritmo peculiare spesso scandito dalle nacchere e con due melodie principali, ciascuna delle quali ripetuta. Come danza caratteristica aveva avuto, a livello colto, numerose stilizzazioni soprattutto in Francia, da parte di Auber (La muette de Portici), Berlioz (Benvenuto Cellini), Verdi (Les Vêpres siciliennes). Insomma uno stilema che rientrava perfettamente nell’esotismo ispanico della Francia ottocentesca, sviluppato soprattutto alla fin du siècle, dove spesso il folklore spagnolo diviene evocazione di sensualità lascivia.
Ravel si richiama a questo fiorentissimo filone della musca francese. Propone così un lungo tema diviso in due frasi, ciascuna di 16 misure, accompagnato dal ritmo ben scandito dalle percussioni. La grande idea è quella di procedere non già, a partire dal tema, verso una libera composizione, ma di ripetere il semplice tema per 18 volte consecu,tive, ciascuna delle quali diversa dalla precedente perché proposta a un livello dinamico via via superiore; insomma un progressivo crescendo, dal pianissimo al fortissimo, basato su diverse “terrazze” sonore, ciascuna delle quali si distingue per l’aggiunta di nuovi stumenti, sia nella linea melodica che nel supporto ritmico. Si parte dal flauto solo, accompagnato da tamburo, viole e violoncelli; si passa poi via via ad altri strumenti – clarinetto, fagotto, clarinetto piccolo, corno inglese – quindi a vari gruppi strumentali, mentre, nel contempo, anche l’accompagnamento acquista un progressivo spessore. L’approdo è al coinvolgimento dell’intera orchestra. Insomma un magistrale cimento di strumentazione da parte di Ravel.
L’idea del crescendo a terrazze, di per sé, non era nuova. Era stata intensamente impiegata nell’opera italiana del primo Ottocento, e Rossini ne aveva fatto uno dei propri segni distintivi, sempre collegandola a un processo di progressiva animazione, che sfociava direttamente nello smarrimento dell’identità, nell’irrazionale. Ravel si spinge però ancora oltre, sia moltiplicando il numero delle ripetizioni del tema, sia portando il prodigioso crescendo verso un esito imprevedibile: dopo diciotto ripetizioni tutte inanellate nella medesima tonalità di do maggiore, Boléro opera una brusca transizione, che ha la funzione e l’effetto di liberare la eccezionale energia accumulata: il tema vira bruscamente verso la tonalità di mi maggiore, modificando il proprio profilo melodico, e ritornando poi, dopo solo otto misure, al do maggiore per una rapida conclusione.
A ben vedere la fortuna dello schema di Boléro non è poi così difficoltosamente spiegabile. Da una parte la grande diffusione di massa è legata proprio al principio della iterazione, che, anche nella musica commerciale, è la formula del facile successo; e non a caso proprio nelle iterazioni e trasformazioni di questa partitura sono stati indicati, talvolta, i principi costruttivi della minimal music. Ma soprattutto il calibratissimo processo di accrescimento strumentale, realizzato da Ravel con infallibile razionalità, si rivolge poi direttamente ai sensi di chi ascolta, a una ricezione non razionale, e forse perché è esso stesso metafora dell’ebbrezza dei sensi, dell’atto sessuale. La piccola commissione per la ballerina, nata in fretta come soluzione di ripiego, da parte di un autore che non la tenne mai in eccessiva considerazione, aveva così le connotazioni giuste per essere veicolata agevolmente attraverso i circuiti di comunicazione di massa, per imporsi all’immaginazione dell’ascoltatore, per affermarsi come uno dei pochi veri grandi classici del Novecento.

Altra incisione di tutto rispetto. Charles Munch sul podio dell’Orchestra di Parigi ci dona una lettura memorabile di questa compilation ravelliana. Boléro e Pavane pour un infante défunte sono i due spartiti che preferisco, il primo estremamente ritmico, il secondo dolce e melodico. Registrazione eseguita nel 1968 e rimasterizzazione effettuata nel 1979. Nonostante la datazione l’audio è più che buono. Altamente raccomandato. CD di difficile reperibilità.

Karajan, con i Berliner, ha inciso due volte i “Quadri”e “La Mer: nel 1966 e nel 1986. Sul CD in questione (ADD) ci sono tutti i brani che a suo tempo vennero pubblicati su due LP separati: da una parte i “Quadri” ed il “Boléro”, dall’altra “Debussy e Ravel”. E’ un disco che ascolto sempre volentieri per la qualità interpretativa/esecutiva e la bellezza della registrazione.
L’incisione rimasterizzata con tecnologia 24-bit, appartiene alla categorie delle ottime registrazioni della etichetta tedesca. Qui Karajan si produce in una lettura superba per attenzione ai particolari e per capacità introspettiva. L’orchestra dei Berliner Philharmoniker dimostra le sue inaudite capacità tecniche ed esecutive. Registrazioni eseguite dal 1965 al 1966 e rimasterizzazione effettuata nel 1995. Altamente raccomandato.

Maurice Ravel Boléro

È difficile, ed è forse superfluo, commentare una musica universalmente nota, verso la quale chiunque di noi ha in sé una disposizione istintiva (quella dei molteplici ascolti e dei ricordi) e riflessa, che non coincide né sempre né in tutto con l’idea che abbiamo della musica di Ravel. Qui mi sembra stia “il problema” del Bolèro. La popolarità corrente, e consunta alquanto, di questa musica non corrisponde, si direbbe, al successo chiaro e giustificato di tutte le altre musiche di Ravel, che hanno il privilegio rarissimo di non mostrare mai una ruga per
quante volte siano ripetute. Si sa, Ravel non ha scritto una battuta che sia sciatta o distratta, e questo vale anche per il Bolèro, che in sé ostenta un’originalità di stile e di mezzi e una fantasia formidabili.

Herbert von Karajan

Ma l’idea prima dell’artista di creare una forte pagina sinfonica (che essa sia nata come musica di balletto per la Rubinstein, ha qui poca importanza) sottratta del tutto allo sviluppo tematico e costretta alla ripetizione ossessiva di un solo disegno, si è rivoltata contro la composizione stessa: che è diventata nell’opinione comune l’espressione della trasgressione esotica, dell’erotismo eccessivo e sognato, da vacanza iberica o in un’impossibile avventura gitana (molte interpretazioni sceniche e coreutiche, anche famose e ripetutamente teleproiettate, hanno confuso l’immagine anche di più).
Che il carattere e il valore di una musica non dipendano dalle convinzioni correnti, è indiscutibile; ma nel caso del Bolèro ciò che crediamo di aver sempre ascoltato e ciò che dagli ascolti passati speriamo o ci attendiamo di sentire, limita e definisce la nostra percezione e forza probabilmente le esecuzioni stesse. Forse l’istintiva aristocrazia di Toscanini aveva percepito il pericolo della banalizzazione del significato, quando staccò nel Bolèro un tempo più secco e più rapido del previsto (che dice «Tempo di bolero moderato assai»), attenuando molto la sensualità della pagina (come si sa, Ravel ne fu irritato, ma poi si scusò col maestro).
La sensualità, dunque, l’ossessione erotica, il dionisismo estatico, sono tutte energie accolte nella concezione originaria e messe in azione nella musica – ma messe in azione da Ravel, dunque da uno degli artisti del Novecento più raffinati, sapienti, e più diffidenti di eccessi e di trasporti. È bene ormai, perciò, che prima del significato celato e sinistro, si gusti di questa musica la magnifica forma sonora.