Ravel Maurice

Daphnis et Chloe Suite n. 2 – Pavane

È un disco favoloso in tutti i sensi! Musica meravigliosa, grande conduzione e grande registrazione. L’audio è veramente realistico e spettacolare. Mi sono piaciute molto le selezioni di Debussy e Ravel. Skrjabin mi ha lasciato indifferente. Non mi è mai interessata più di tanto questa composizione. Acquistate questo CD prima che qualcuno decida di toglierlo dal catalogo. Registrazioni eseguite dal 1970 al 1971 e rimasterizzazione effettuata nel 1986. Altamente raccomandato per non dire imperdibile!

Debussy . Ravel . Skrjabin

Dafni e Cloe di Maurice Ravel è uno dei capolavori dell’Impressionismo francese. È la musica per un Balletto che Serge Diaghilev, impresario dei “Ballets Russes”, aveva commissionato a Ravel nel 1909 – La prima esecuzione si ebbe a Parigi nel 1912. Il libretto di Michail Fokine, allora coreografo di Diaghilev, si basa sul famoso romanzo pastorale della tarda classicità. Dafni e Cloe di Longo è ambientato in una Grecia bucolica: la vita idilliaca è spezzata dall’incursione dei pirati che rapiscono le fanciulle dal santuario del dio Pan, tra le quali è Cloe, l’amata di Dafni.
I rapitori festeggiano la vittoria, ma a questo punto Pan li scaccia con l’aiuto di un incantesimo e di esseri favolosi; Cloe è salvata e ritorna da Dafni. La cosiddetta Seconda Suite, qui registrata, costituisce il terzo e ultimo quadro del Balletto: dopo la notte tumultuosa in cui Pan ha messo in fuga i rapitori spunta un meraviglioso mattino, si sente il canto degli uccelli, arrivano i pastori, Dafni e Cloe si ritrovano e tutto finisce in un estatico baccanale di gioia.

La Pavana per una infanta morta di Ravel – la versione per pianoforte del 1899 fu orchestrata nel 1910 – mostra un altro aspetto dell’Impressionismo. Manifestamente sotto l’influsso della musica di Erik Satie, il pezzo gioca con una melanconica arcaicità (così come il titolo originale, per diretta ammissione di Ravel, presenta un gioco di parole e di suoni vocalici “infante – défunte”), ma anche con la tradizione musicale: il ritmo della “pavana”, una danza di andamento lento, era diventato nell’Ottocento un tratto caratteristico delle marce funebri.

L’etichetta di “Impressionismo”, che si connette immancabilmente soprattutto con la musica di Debussy, fa facilmente dimenticare – essendo oggi associata con un raffinato senso di benessere – che agli inizi del Novecento questo compositore ha impresso alla storia della musica una svolta decisiva e rivoluzionaria; l’Impressionismo è una tappa importante nella costituzione di un linguaggio musicale moderno. I Nocturnes, un Trittico sinfonico in tre movimenti, che non si rifà però a forme tradizionali, sono una delle prime opere per orchestra di Debussy (1897 – 99).

L’idea di Nuages gli era venuta, come lo stesso compositore riferì ad un amico, a Parigi, in un giorno di bufera, un ponte sulla Senna; le nuvole spazzavano il cielo, una chiatta passando faceva sentire la sua sirena. Tuttavia ogni reminiscenza diretta di avvenimenti esterni, ogni intenzione programmatica è cancellata nella composizione.
Per la prima esecuzione (Nuages, Fetes, 1900) Debussy scrisse il seguente commento: “Il titolo Nocturnes va inteso qui in un senso generale e decorativo. Non si tratta pertanto della consueta forma del notturno, bensì di tutto ciò che questo concetto è in grado di destare quanto a impressioni e giochi di luce. Nuages è lo spettacolo del cielo immoto in cui passano lente e malinconiche le nuvole, per svanire poi in un grigio in cui si mescolano delicate tonalità di bianco. Fetes è il ritmo danzante dell’atmosfera, rischiarato per alcuni istanti da vividi fasci luminosi. Un corteo di figure fantastiche si avvicina alla festa e in essa si perde. Lo sfondo resta sempre lo stesso: la festa con il suo scompiglio di musica e luci che danzano in un ritmo cosmico. Sirènes è il mare e il suo movimento inesauribile; sulle onde, su cui scintilla la luce della luna, il misterioso canto delle sirene risuona come un riso e si perde nell’infinità”.

Claudio Abbado

Alexander Skrjabin, nato un decennio dopo Debussy, è una delle figure artistiche più singolari del suo tempo. Associando influenze delle idee wagneriane (l’idea dell’opera d’arte totale, in cui sono inclusi anche effetti di luce e profumi), della teosofia e del misticismo orientale, Skrjabin si costruì una religione personale.
Nel corso degli anni essa caratterizzò in modo sempre più rilevante il suo pensiero e la sua attività compositiva fino a culminare nel disegno di un gigantesco “Mistero” che, unendo la religione e le arti tutte, doveva essere celebrato un giorno in India sotto la guida del “profeta”, Skrjabin stesso. (Tuttavia questo progetto non è andato oltre la stesura di singole parti del testo e di schizzi musicali per un “atto preparatorio”).
Se tutto non è un inganno, la monomania dell’idea di Skrjabin trova il suo pedant anche nella musica: nelle ripetizioni ostinate di timbri e figurazioni uguali o simili, che sembrano ruotare tutti attorno allo stesso centro.
Il Poema dell’estasi fu chiaramente parte di questo ambito di idee. Negli anni dal 1904 al 1906 Skrjabin scrisse un poema con questo titolo, lungo parecchie centinaia di versi, che descrive degli eventi ideali: la perpetua lotta di forze oscure contro lo spirito, che però alla fine in un’estasi straordinaria riesce ad imporsi vittorioso sul mondo intero.
Contemporaneamente nacque la composizione Il poema dell’estasi (1905 – 08). Il poema non rappresenta un programma esplicito per la musica, pur tuttavia per ampie sezioni dell’opera si possono instaurare delle correlazioni plausibili.

Wolfgang Domling
(Traduzione: Adriano Cremonese)

Daphnis et Cloé Suite per orchestra n. 2

Nel 1904 il grande coreografo russo Michel Fokine, allora giovane artista colto e curioso, aveva proposto alla Direzione dei teatri di Pietroburgo un balletto tratto dagli Amori pastorali di Dafni e Cloe, il breve romanzo dello scrittore greco Longo Sofista (abbiamo la sua delicata e raffinatissima narrazione, ma di lui sappiamo solo il nome: si pensa che sia vissuto alla fine del II secolo d.C.). L’idea di Fokine, sorta per un gusto estetistico e classicheggiante, era forse un po’ in anticipo per i tempi e i luoghi, e, infatti, i funzionari di Pietroburgo la respinsero. Ma non l’abbandonò Fokine, che pochi anni dopo, forse nel 1908, e in differenti condizioni culturali (si era infatti trasferito a Parigi), ne parlò con Djagilev; e il genialissimo impresario la accettò senza esitare e affidò la musica a Ravel (ma sulle date del progetto e delle decisioni c’è confusione nei ricordi degli interessati).
Ravel era giovane (nel 1908 aveva trentatré anni), ma era già molto noto (aveva scritto il Quartetto, i Miroirs per pianoforte, la Rhapsodie espagnole, per citare solo alcuni capolavori). La grazia poetica dell’argomento, la sua novità, le proporzioni spettacolari del proposito scenico, la collaborazione di tre intelligenze superiori (anzi quattro, che Djagilev, naturalmente, scelse subito per protagonista Nijinskij) lasciavano prevedere un lavoro sereno e un’agevole conclusione. Non fu così.
Nel suo Dafni e Cloe Longo Sofista altera non poco e semplifica lo schema consueto dei romanzi greci (innamoramento di due giovani, promessa di nozze, impedimenti e peripezie con inganni, rapimenti, viaggi, delusioni, nuovo incontro e felice soluzione: è, come si sa, anche lo schema dei Promessi sposi di Manzoni) perché la vicenda si svolge tra i pastori, in un’Arcadia ideale e stilizzata, e perché Longo descrive il sorgere dell’amore tra i due pastorelli poco più che bambini. In questa prosa levigata e sottile più che le solite avventure e disavventure dei protagonisti (però, c’è anche qui il rapimento), più che la tecnica narrativa, dunque, contano il lirismo panico o languido delle descrizioni bucoliche, e un’accortezza psicologica teneramente attenta ai caratteri di una virginea, infantile sensualità. Noi italiani abbiamo, o avremmo, la fortuna di poter leggere il romanzo di Longo Sofista nella splendida traduzione rinascimentale di Annibal Caro, incomparabilmente superiore alla traduzione francese di Amyot (quella che lesse Ravel) e perfino superiore, forse, all’originale greco per eleganza e chiarezza (ma non credo che la meravigliosa prosa di Caro interessi oggi qualcuno).
Mondo della fanciullezza e delle sue fantasie, trasfigurazione letteraria di paesaggi, sogno di un’umanità serena, primitiva, perfetta, naturalmente bella e cortese noi non stupiamo che Ravel abbia dato il meglio di sé in questa grande partitura, a concepire la quale egli fu ispirato e guidato da emozioni fondamentali nella sua visione dell’arte. «È stata mia intenzione comporre un vasto affresco musicale, meno attento all’arcaismo che alla fedeltà verso una Grecia dei miei sogni, che volentieri si congiunge alla Grecia che hanno immaginato e dipinto gli artisti francesi della fine del XVIII secolo» (Ravel, nell’Esquisse biographique, dettata a Roland-Manuel). E scrisse un capolavoro che gli costò non poche amarezze e che per qualche anno ebbe scarso favore (il manoscritto fu terminato il 5 aprile 1912).
Le sfortunate vicende finali della creazione del balletto sono complicate e per qualche aspetto confuse. Improvvisamente Djagilev perse interesse per il lavoro, già molto avanzato: o perché tra Ravel e Fokine c’erano state divergenze, o perché qualche anticipo di ascolto della musica lo aveva deluso (chissà perché: quella musica!), o perché stava tramontando la moda dei grandi balletti tradizionali a intreccio (i ballets d’action), con danza, mimica e sostanzioso sostegno orchestrale (con le loro idee estetiche, snobistiche e digiune, Satie e il Cocteau di allora credevano di poter giudicare dall’alto in basso perfino il Daphnis di Ravel e impressionavano Djagilev. Infine, a completamento, durante le prove ci furono furiosi contrasti tra Djagilev e Nijinskij da una parte e Fokine dall’altra (anche Ravel era insoddisfatto delle scene di Leon Bakst, per altro magnifiche in sé e per sé). Si mise in mezzo perfino il corpo di ballo, che trovava serie difficoltà a tenere il tempo di 5/4 rapidissimo nella Danse generale dell’ultima scena (si arrangiarono poi, scandendo ognuno tra sé le cinque sillabe: Djà-gi-lev-Sèrgiei). Sì che un lavoro così limpido, colorito, gioioso nacque tra rancori e scontenti, che guastarono la prima serata (Théàtre du Chàtelet, 8 giugno 1912, con Nijinskij e la Karsavina, direttore Pierre Monteux): quella sera il vero successo toccò a Nijinski, ma per la replica del suo sensualissimo, lascivo Après-midi d’un faune; e alla ripresa dell’anno successivo, il 1913, al Daphnis non andò meglio perché il 29 maggio esplose lo scandalo del Sacre di Stravinskij, che spinse nell’ombra ogni altro balletto. Però Stravinskij affermava che il Daphnis et Chloé è «una delle opere più belle della musica francese».
Maurice Ravel

Ma se sulla scena il Daphnis non ha avuto, né allora né poi, un successo paragonabile a quello dei grandi balletti romantici o di altri pochi novecenteschi, le due Suites che Ravel ne ha tratto, sono giustamente un brano tra i più eseguiti del repertorio sinfonico e prediletto dai grandi direttori per il colorismo della prodigiosa strumentazione. La musica della II Suite è quella del terzo dei tre quadri del balletto.
I pirati hanno rapito Cloè e Dafni accusa le ninfe e, sfinito, si assopisce nella loro grotta. Ma esse lo compatiscono e chiamano a soccorso Pan. E il dio con una sua prodigiosa apparizione salva Cloè dalle mani dei pirati e la riporta ai suoi pastori. Qui s’inizia il terzo Quadro (e la II Suite). All’alba, in un quieto paesaggio arcadico, lo spazio è colmo di voci, di echi, dei ruscelli, delle brezze mattutine, degli uccelli. Negli estatici accordi del coro muto, che morbidamente si fonde con l’orchestra, sentiamo il canto delle creature naturali, delle ninfe, dei satiri, dei sileni. In lontananza passa un pastore col suo gregge, poi un altro (ascoltiamo gli acuti arabeschi del loro flauto campestre). Entrano altri pastori, destano Dafni e gli gettano tra le braccia la fanciulla salvata. La luce del mattino rifulge, la musica si espande in una grande melodia di felicità («È solo un accordo di re maggiore con la sesta aggiunta», diceva con compiaciuta modestia Ravel!). Dafni comprende che la salvezza di Cloè e la loro felicità sono un dono di Pan. Istruiti e sollecitati dal vecchio Lammon (impersonato la sera della prima dal glorioso ballerino e coreografo Enrico Cecchetti, ormai anziano), i due ragazzi mimano la storia degli amori di Pan e della ninfa Syrinx: ella prima lo rifiuta, il malinconico dio strappa una canna, si crea un flauto, e, su un ritmo molle, suona un’acuta, languida serenata. Syrinx-Cloe balla sulla musica di Pan, prima lentamente poi con animazione sempre più viva. I due ragazzi terminano la loro recita graziosa, cadendo l’una nelle braccia dell’altro: l’orchestra ripete con pathos crescente il tema di Dafni. Irrompono in scena alcune fanciulle vestite da baccanti, poi giovani pastori esultanti. Nella musica si scatena un ritmo frenetico (la Danse generale, il famoso 5/4) da cui tutti sono inebriati e travolti.

Pavane pour une infante défunte

Nell’ultimo anno del secolo scorso RaveI scrisse per il pianoforte la più celebre pavane del repertorio concertistico. Il riferimento compositivo e ideale è a una danza lenta cinquecentesca, popolare anche nel Seicento, in 4/4, dall’andamento composto e solenne, normalmente contrapposta a una veloce gagliarda a lei accoppiata.
L’impiego di questa forma remota da parte di Ravel rientra nella tendenza arcaicizzante fin de siècle cui il catalogo del compositore si dimostra debitore (col Menuet antique, Le tombeau de Couperin e i due Epigrammes de Marot). Non a caso l’eco di questa danza giungeva a Ravel attraverso la mediazione dei virginalisti inglesi come Dowiand e Morley, ed evocava sonorità lontanissime dal pianismo romantico e prossime invece al venerando clavicembalo, importante fonte d’ispirazione per la generazione di Ravel. Il perseguimento di un «colore» storico si somma qui all’inseguimento di un «esotismo» geografico altamente suggestivo: quella Spagna che, nei decenni attorno alla svolta del secolo, ispirò tutti i maggiori autori francesi, da Saint-Saëns a Chabrier, dal Bizet di Carmen a Debussy. Una Spagna immaginaria che divenne catalizzatore delle esperienze compositive più moderne, come avrebbe dimostrato lo stesso Ravel in una serie impressionante di lavori, dalla Habanera giovanile al Boléro, dalla commedia musicale L’heure Eupagnole All’Alborada del Gracioso, dalla Rhapsodie espagnole all’estrema fatica le tre mélodies di Don Quichotte à Dulcinée.
Nella Pavane il compositore evoca l’immagine di un’Infanta rinascimentale: la figura doveva godere di una fortuna non episodica se esattamente dieci anni prima, nel 1889, Oscar Wilde le aveva dedicato una toccante fiaba, The Birthday of the Infanta (dal 1891 nella raccolta The House of Pomegranates), da cui Zemlinsky avrebbe tratto la propria «favola tragica per musica» Der Zwerg (Il nano).

Maurice Ravel

Queste le coordinate culturali che danno ragione del titolo di questa composizione, salutata da un’immediata popolarità (anche al di là delle volontà dell’autore, che nel corso degli anni giudicò severamente la semplicità di struttura di questa pagina – un rondò -, giungendo a riconoscere al titolo solo l’interesse di un’allitterazione!), e chiamano in causa una poetica di estraniazione dal rumore del mondo – dalla Francia all’epoca sconvolta dall’Affaire Dreyfus: l’art pour l’art insomma. La Pavane è un incantevole lavoro giovanile, nato per il salotto dei principi di Polignac ed espressamente dedicato alla principessa Edmond de Polignac (ospite di Fauré a Venezia nel ’91, avrebbe commissionato a Stravinskij Renard), all’ombra di due grandi maestri della musica francese: Chabrier – l’influsso del suo Idylle dalle Pièces pittoresques verrà indicato dallo stesso Ravel – e Fauré, insegnante di composizione della giovane promessa e a sua volta autore di una celebrata Pavane, op. 50 orchestrale, scritta a ridosso del Requiem (1887) e ridotta per
pianoforte nel 1889. L’orchestrazione dell’opera di Ravel (realizzata nel 1910, ai tempi di Daphnis et Chloé, e presentata al pubblico da Alfredo Casella), lungi dall’offuscare la caratteristica limpidezza dei temi e il loro squisito lirismo, esalta quella scrittura da melodia accompagnata, che già in origine rendeva la Pavane una sorta di serenata per orchestra.
L’apertura è affidata al corno solista, che canta il caldo tema, prevalentemente per grado congiunto, sull’accompagnamento degli archi con sordina, dell’altro corno e dei fagotti, mentre i legni intervengono solo nella seconda parte, cosi come l’iridescenza passeggera dell’arpa. Il primo episodio contrastante è affidato proprio a uno dei legni, l’oboe, seguito come un’ombra dal fagotto, nel silenzio degli archi punteggiato dallo staccato dei clarinetti.

Claude Debussy

L’episodio viene replicato dagli archi, finché un ritenuto non porta alla ripresa del tema principale, trasfigurato coloristicamente con la sua assegnazione a flauti e clarinetti. Di sapore cajkovskijano,il secondo episodio divagante, in sol minore, esordisce con l’inerpicarsi del flauto nelle regioni acute, sul sostegno dei soli primi violini divisi: la chiarezza tematica delle altre sezioni viene qui frantumata nel contrappunto orchestrale. Ripreso variato anche quest’ultimo episodio tra i glissandi dell’arpa, e concluso col forte a organico completo, giunge l’ultima ripresa del rondò, non clamorosa bensì in pianissimo, eppure esaltata dall’unisono di flauti e violini sull’accompagnamento di archi, arpa, fagotti e corni. Per la seconda sezione del tema,dopo il rituale glissando dell’arpa, il canto spetta ai violini e al corno I, mentre flauti e clarinetti abbozzano un leggero staccato, imitazione forse d’un immaginario liuto o una spagnola vihuela nell’accompagnamento dell’antica pavane.

Debussy Nocturnes

In una lettera al principe Andre Poniatowski del settembre 1892 Debussy parla di una nuova composizione intitolata Trois scènes au crepuscule, che secondo Leon Vallas avrebbe dovuto comprendere tre brani per violino e orchestra, dedicati al famoso violinista belga Eugène Ysaye. Questi pezzi prevedevano un violino solista accompagnato prima dai soli archi, poi da un piccolo complesso di fiati e due arpe, infine dai due complessi riuniti insieme. L’intenzione di Debussy, come è spiegato in una lettera allo stesso Ysaye, era di compiere «una ricerca tra le diverse possibilità che offre un solo colore; quello che sarebbe in pittura uno studio di grigi». Il lavoro non fu portato a compimento; il materiale venne però utilizzato, a partire dal dicembre del 1897, per la stesura dei tre Nocturnes, completati nel dicembre del 1899. I primi due brani dei Nocturnes vennero presentati in prima esecuzione il 9 dicembre 1900 ai “Concerts Lamoureux” sotto la direzione di Camille Chevillard, mentre l’esecuzione integrale avvenne nella stessa sede il 27 ottobre 1901.
Contrariamente alle sue abitudini, Debussy scrisse, in occasione della prima esecuzione dei Nocturnes, una nota esplicativa per sottolineare le sue intenzioni nel comporre questo trittico. «Il titolo Nocturne – dice l’autore – assume qui un significato più generale e soprattutto più evocativo. Non si tratta dunque dell’abituale forma di Notturno, ma di tutto ciò che questa parola suscita come impressioni e come effetti luminosi. Nuages: è l’aspetto immutabile del cielo, con il trascorrere lento e malinconico delle nuvole, che finisce in un’agonia di grigi, dolcemente sfumati di bianco. Fètes: è il movimento, il ritmo danzante dell’atmosfera con dei bruschi lampeggiamenti di luce; è anche l’episodio di un corteo (visione abbagliante e chimerica) che passa attraverso la festa, confondendosi in essa; ma lo sfondo persiste, ostinato, ed è sempre la festa con la sua mescolanza di musica, di pulviscolo luminoso, che partecipa ad un ritmo totale. Sirènes: è il mare e il suo ritmo incessante; poi, tra le onde inargentate dalla luna, si ode, vive e passa il canto misterioso delle sirene».
Nuages (Modéré – Un peu anime) ha l’andamento di un preludio dai colori morbidi e incerti, senza un vero e proprio sviluppo tematico. L’atmosfera piuttosto monotona dominata dalle nubi spazzate dal vento di temporale è lievemente mossa dal suono della sirena di un battello sulla Senna, indicato nella partitura dal breve inciso cromatico del corno inglese, più volte variato e ripreso poi da altri compositori. Fètes (Anime et très rythmé – Modéré mais toujours rythmé – De plus en plus sonore et en serrant le mouvement) ha la forma tipica dello scherzo, con un trio costituito dalla fanfara annunciata in distanza dalle trombe in sordina, evocanti la guardia repubblicana che suona la ritirata durante le feste popolari nel Bois de Boulogne. Tutto il pezzo ha un ritmo sostenuto e vigoroso fino al martellante incedere del tamburo legato alle luminose sonorità dei fiati.
Sirènes (Módérément animé) è contrassegnata da una tessitura armonica mutevole e cangiante di straordinario effetto impressionistico, anche per l’intervento del coro femminile con i suoi vocalizzi. È una pagina di notevole freschezza emotiva, sostenuta da una invenzione musicale semplice e lineare, ricca di una penetrante forza di suggestione.

Scriabin Le poème de l’estase
Sentire l’universo

Nei quaderni di appunti che Skrjabin tenne a partire dal 1905, il nodo teosofico dell’estasi, come stato spirituale nel quale si fonde anima ed universo, occupa un posto di assoluto primo piano. Dagli scritti si comprende come il problema fondamentale del compositore non fosse solo provare nell’intimo questo stato, ma anche renderlo a livello di scrittura fìlosofica, poetica e musicale.
Non a caso la composizione del Poema dell’estasi, che prese gli anni dal 1905 al 1908, fu preceduta da un breve poemetto che Skrjabin fece pubblicare a sue spese nel 1905 e distribuì solo agli amici e ai collaboratori più stretti. I versi del poema innalzano un inno alla forza invincibile dell’animo umano; vi si possono leggere frasi come «e tu sarai un’onda di gioia e di libertà dal molteplice generata. / O legioni di sentimenti / o pure sensazioni / io creerò / in complessa unità / la sensazione di beatitudine che tutte vi rapisce». Tutto è pervaso da una cocente visionarietà, da un’estatica esaltazione.

Alexander Scriabin

L’autore però non volle mai che il componimento poetico e quello musicale si integrassero a vicenda. Lontano da qualunque volontà di dare vita a un’opera di “musica a programma”, ebbe spesso a sottolineare che un direttore d’orchestra desideroso di eseguire il Poema dell’estasi non avrebbe dovuto conoscere lo scritto (anche se poi chiese al direttore Modest Altschuler di pubblicarne una sintesi nel programma della prima americana a New York, il 10 dicembre 1908). La pubblicazione poetica è comunque solo uno stadio verso il componimento musicale. Come tale può servire per fare luce su un percorso che ha però un’evoluzione ulteriore, che troverà solo nel mondo ‘fusionale’ dei suoni la sua realizzazione ultima.

Estasi e desiderio

Tormentato dall’esigenza di esprimere un crogiolo di sensazioni sorretto da un potente impeto espressivo, Skrjabin affidò alla speculazione teosofica il suo bisogno di inesprimibile, la sua sete di conoscere ciò che trascende la mera quotidianità. Portando a maturazione ultima la convinzione romantica della musica come fonte di conoscenza dell’infinito, egli tende a trasfondere nella creazione sonora quella parte di sé che partecipa ancora alla sintesi primigenia di ogni cosa. Detto in termini filosofici, ciò che Skrjabin cerca è l’astrazione dell’identità assoluta (il motore primo da cui deriva la realtà e lo spirito) tramite
una smisurata fiducia nell”io’ creativo, e facendo dell’arte l’atto continuamente replicante la ‘creazione’.
Skrjabin amava moltissimo parlare di questi argomenti; ce lo ricorda Georgij Plechanov, primo traduttore in Russia di Marx ed Engels, padre del marxismo russo, autore assai stimato da Lenin. Nel 1905 i due, in vacanza a Bogliasco sulla riviera ligure, si incontrarono divenendo presto amici. Plechanov, che stimava enormemente Skrjabin, sceglieva spesso di rimanere in silenzio, lasciando parlare liberamente il musicista; in un suo scritto lo avrebbe poi definito “un mistico incorreggibile”.
In ogni modo, per quanto il pensiero voli alto, la musica con cui Skrjabin costruisce il suo Poema dell’estasi ha evidenti punti di contatto con la tradizione. La macrostruttura del Poema è in fondo una gigante ‘forma sonata’ in cui si susseguono un’introduzione, l’esposizione dei temi, il loro sviluppo, la ripresa variata e la coda finale. La mastodontica orchestra mette a disposizione del compositore risorse coloristiche enormi, che insieme alla fervida immaginazione ritmica e melodica costituiscono il vero elemento di interesse dell’opera. Per Skrjabin l’estasi è ‘stasi’, immobilità: l’introduzione è caratterizzata da un motivo che ruota intorno a una singola nota, enunciato dal flauto e ripreso da altri strumenti a diverse altezze. Ma è anche trasporto appassionato e sorprendente: l’inquieta armonia, striata in ampi voli ascensionali, lanciata in percorsi senza consequenzialità apparente, sostiene un’invenzione lirica assolutamente eccentrica. Skrjabin sa dipingere con sapienza, tragicità e rapimento. Il caotico rincorrersi dei temi, la saturazione del tessuto sonoro tramite il cromatismo, simboleggiano una ricerca inquieta, così come i trilli vaporosi e la diafana tessitura dei soli archi alludono, prima della coda, a un piacere celestiale.
Il Poema dell’estasi intende guidare l’ascoltatore nei meandri di un viaggio sonoro assolutamente anomalo ed eccezionale, perturbante e grandioso. Il successo espressivo della composizione, più che nell’aver dipinto lo stato dell’estasi, sta nella potenza con cui ha saputo dare suono al desiderio travolgente di raggiungerla.