Mozart Wolfgang Amadeus
The Great Piano Concertos 1 & 2
Concerto n. 19 in fa maggiore K. 459 – Concerto n. 20 in re minore K. 466 – Concerto n. 21 in do maggiore K. 467 – Concerto n. 23 in la maggiore K. 488 – Concerto n. 24 in do minore 491 – Rondò in la maggiore K. 382 – Rondò in la maggior K. 386
Concerto n. 9 in mi bemolle maggiore K. 271 – Concerto n. 15 in si bemolle maggiore K. 450 – Concerto n. 22 in mi bemolle maggiore K 482 – Concerto n. 25 in do maggiore K. 503 – Concerto n. 27 in si bemolle maggiore K. 595
Alfred Brendel, Neville Marriner, e l’impareggiabile orchestrale dell’ Accademia di San Martino in Campo eseguono questi concerti spesso considerati la parte della maturità delle composizioni di Mozart. Queste partiture mozartiane, forse più di quelle di qualsiasi altro compositore, modellano il fraseggio dello strumento solista in modo che le sue entrate e uscite rispetto allo spartito orchestrale risultano quasi senza soluzione di continuità. Due cofanetti da acquistare ad occhi chiusi.
Registrazioni eseguite dal 1972 al 1982 e rimasterizzazione effettuata nel 1994. Audio ottimo come di consueto in casa Philips. Altamente raccomandati per non dire imperdibili!
Geniali, esaltanti e inconfondibili
I concerti per pianoforte e orchestra di Mozart di Gloria Staffieri
Per importanza e quantità, i concerti per pianoforte e orchestra di Mozart occupano un posto privilegiato nell’ambito della produzione strumentale del
musicista salisburghese, nonché nella storia stessa di tale genere.
Innanzitutto, come veicolo di esibizione virtuosistica da utilizzarsi nelle sue tournées di bambino prodigio prima, nelle accademie viennesi poi, il concerto per pianoforte e orchestra si rivela uno dei generi più frequentati e amati dal compositore, abbracciando questi lavori quasi tutto l’arco della sua carriera.
Se diamo un’occhiata al catalogo mozartiano, scopriamo infatti che i 27 numeri d’opus elencati sotto tale genere sono compresi in un compasso temporale che dal 1767 (concerti K 37, 39, 40, 41) si apre fino all’anno della sua morte (concerto K. 595), con un addensarsi della loro presenza soprattutto negli anni viennesi (17 concerti tra il 1782 e il 1791).
Di essi, tuttavia, solo 23 concerti possono considerarsi autenticamente mozartiani, essendo i primi quattro dei semplici arrangiamenti di sonate per tastiera di altri compositori allora in voga (Raupach, Honauer, Schobert, Eckard): è come se Mozart, al momento di cimentarsi con un idioma strumentale per lui nuovo, avesse voluto prima impadronirsi del linguaggio musicale corrente, cioè di quello stile galante che, a partire dalla metà circa del Settecento, si era affrettato a trasformare la densa e severa scrittura barocca in una gradevole arte della conversazione e del puro intrattenimento mondano. Ora, è proprio confrontando i concerti mozartiani con lo standard produttivo della sua epoca che balza agli occhi la caratteristica principale di tali composizioni: la loro squisita fattura, che li rende decisamente degli unica nella storia della musica orchestrale, e non solo del suo tempo.
È infatti a partire dal Concerto K. 271 – composto a Salisburgo nel 1777 e, per comune riconoscimento, primo autentico capolavoro in questo genere – e poi soprattutto con i concerti viennesi, che Mozart inaugura un nuovo tipo di composizione che, per originalità d’impianto e ricchezza d’invenzione, appare ormai sganciato da tutto ciò che fino ad allora era stato composto in tale settore, e che rimarrà ineguagliato anche rispetto alla produzione del secolo successivo. Di più: i concerti per pianoforte e orchestra di Mozart, mentre costituiscono per lui un chiaro strumento di auto-affermazione sia artistico che sociale (soprattutto nel nuovo sistema viennese di “libero mercato”), diventano altresì il baricentro dell’intera produzione orchestrale del compositore, rappresentando il terreno privilegiato, il banco di prova delle sue principali innovazioni linguistiche (soprattutto sotto il profilo della forma e dell’orchestrazione), spesso anticipando gesti compositivi che poi germineranno, in particolare, su un terreno sinfonico ed operistico.
In che consiste, dunque, questa originalità mozartiana? In altre parole, è possibile scoprire il segreto di fabbricazione dei suoi concerti per pianoforte e orchestra? Se con questo si intende l’individuazione di uno stampo formale che può rinvenirsi identico in ciascuna composizione, la risposta è senz’altro negativa, in quanto ogni concerto mozartiano appare estremamente originale e in sé irripetibile; anzi, proprio questa estrema varietà di articolazione è il motivo principale del suo fascino.
È tuttavia possibile enucleare alcuni principi costruttivi, di carattere generale, che sembrano presiedere alla sua tecnica compositiva. Dei tre movimenti in cui si suddivide il concerto – due tempi veloci che ne incorniciano uno lento – , il primo è quello strutturalmente più complesso e che imprime all’opera la sua inconfondibile fisionomia.
Neville Marriner

Esso può considerarsi la geniale fusione di due tipi strutturali: la forma a ritornello, tipica del concerto tardo-barocco (in particolare, quello vivaldiano), fondata sostanzialmente sul principio dell’alternanza tra solista e orchestra (con il relativo sfoggio virtuosistico dello strumento protagonista) e sulla ripetizione, esatta o variata, di sezioni orchestrali con chiara funzione architettonica; e la forma-sonata – il procedimento compositivo ormai dominante a fine Settecento – , basata invece sul principio del contrasto tonale e tematico, sulla sua relativa intensificazione (mediante la modulazione e la frantumazione motivica) e sulla finale ricomposizione, che non significa tuttavia ripresa letterale del materiale dell’esposizione, quanto sua superiore sintesi. Ora, questi due modelli apparentemente contraddittori, in quanto uno sostanzialmente statico e l’altro dinamico, coesistono nel concerto mozartiano in un miracoloso quanto irripetibile equilibrio.
Pertanto, invece del tradizionale aspetto di un movimento in forma-sonata caratterizzato da doppia esposizione (una per l’orchestra e una per il solista) – sviluppo – ripresa, come avverrà per il concerto ottocentesco, il tempo iniziale del concerto mozartiano presenta, grazie al recupero del principio del ritornello, una maggiore articolazione interna, potendosi suddividere in sei sezioni: 1) preludio orchestrale; 2) esposizione solistica; 3) primo ritornello; 4) sezione centrale modulante; 5) ricapitolazione; 6) ritornello finale. Si tratta in particolare, di tre sezioni orchestrali (nn. 1, 3 e 6) e tre concertanti, in cui il pianoforte dialoga, si sovrappone o contrasta con il tutti orchestrale o con alcune sue parti (nn. 2, 4 e 5).
All’interno di questa articolazione, geniale è il modo con cui Mozart combina i procedimenti tematici propri dello stile classico con un tipo di tecnica compositiva che potremmo definire “a mosaico” (anch’essa di ascendenza vivaldiana), tecnica che risulta la vera responsabile della più ampia e variegata struttura del concerto mozartiano. Fulcro di tale procedimento è il ritornello orchestrale introduttivo (n. 1) che, rispetto alla produzione a lui precedente, diviene ora più grandioso e sinfonico, ampliandosi soprattutto sotto l’aspetto tematico: esso risulta infatti formato da più temi (o, forse, sarebbe meglio definirli “episodi” musicali), ciascuno caratterizzato, oltre che da differente materiale melodico, spesso anche da diversa dinamica e tipo d’orchestrazione. Questo ampio preludio non ha tanto, o non solo, la funzione di introdurre il materiale dell’esposizione solistica (a questo ruolo di semplice cornice lo relegherà il concerto ottocentesco), quanto di presentare la maggior parte o tutte le idee principali del pezzo: tali temi infatti ricompariranno nelle diverse sezione del brano (sia orchestrali che concertanti), ora singolarmente ora in gruppi, ora variamente condensati ora invertiti nel loro ordine sequenziale, rappresentando così la vera unità di base – in quanto liberamente articolabile – del movimento.
Anche l’entrata solistica (n. 2) avviene in maniera sempre diversa e ingegnosa: essa può riallacciarsi all’idea principale del preludio orchestrale, seppure variandola secondo l’idioma tastieristico, o presentare temi suoi propri, caratterizzati perlopiù da passaggi brillanti, scale rapide, arpeggi, trilli ecc. (temi che poi verranno combinati con alcuni altri dell’orchestra); in entrambi i casi, tuttavia, l’entrata del solista viene “drammatizzata” mediante la modulazione – che solo in questo momento (e non quindi nel preludio orchestrale) ha luogo – dall’area di tonica a quella di dominante.
In tal modo, tra il pianoforte e l’orchestra si instaura un rapporto di perfetta parità, evitando che l’uno sia il mero riflesso dell’altra, o quest’ultima la semplice cornice del primo. Dopo il primo ritornello (che presenta, ma questa volta alla dominante, alcuni dei temi del preludio), la sezione modulante (n. 4) è forse quella che più risente della contaminazione tra le due concezioni – una statica, l’altra dinamica – del concerto mozartiano: infatti, più che in un vero e proprio sviluppo, con la tipica frantumazione dei materiali tematici dell’esposizione, si tratta, il più delle volte, di un semplice slittamento armonico, di una digressione modulante, dove spesso compaiono nuovi temi (com’era nella vecchia concezione barocca e pre-classica), allentando in questo modo, invece di intensificare, il contrasto stabilitosi nelle sezioni precedenti tra solista e orchestra.
Con la ricapitolazione (n. 5) vengono ripresentati i materiali, o alcuni di essi, non solo del preludio orchestrale ma anche dell’esposizione solistica, risolvendoli ora alla tonica. Se questa sezione così come la seconda del movimento, è abitualmente conclusa da passaggi virtuosistici del solista, il luogo privilegiato per far emergere l’alto tecnicismo dell’esecutore è tuttavia la cadenza, collocata all’interno del ritornello finale: qui, prima che il tutti concluda il movimento, l’orchestra si ferma e il pianista esegue un esteso episodio solistico, dove vengono liberamente elaborati elementi desunti dal materiale tematico precedentemente esposto, con passaggi di bravura che permettono al solista di far sfoggio della propria abilità improvvisativa.
Lo slancio sinfonico e il gesto virtuosistico nel primo movimento vengono ripresi poi nel brillante tempo conclusivo, il più delle volte in forma di rondò (caratterizzata dal ritorno periodico del tema principale nella tonalità principale) o, più raramente, in forma di variazione. Il luogo dell’effusione lirica e della più ampia cantabilità è invece il movimento centrale, prevalentemente in forma di Lied: qui più che il contrasto tematico o il gesto virtuosistico ad emergere è l’unità dell’atmosfera, nonché la seduzione sonora e melodica, in gran parte sostenuta dal solista.
Le composizioni per pianoforte e orchestra qui raccolte, tra le opere più significative e conosciute del compositore, appartengono tutte al periodo viennese, cioè alla più matura stagione creativa mozartiana: in particolare, il Concerto K. 459 è del dicembre del 1784; i Concerti K. 466 e 467 sono rispettivamente del febbraio e del marzo del 1785, quelli K. 488 e 491 ambedue del marzo dell’anno successivo. (Ad essi vengono affiancati i due Rondò K. 382 e K. 386 composti da Mozart nel 1782, come finali alternativi al suo Concerto giovanile K. 175 il primo, e probabilmente al Concerto K. 414 il secondo). Partendo dai principi costruttivi sopra richiamati, è interessante notare come ogni composizione mostri un suo originale modo di organizzare i materiali, risolvendo in maniera sempre nuova e inattesa il problema dell’equilibrio sonoro tra solista e orchestra, variando senza posa la conformazione dei temi e la loro combinazione, creando tra i corpi sonori (archi, fiati, pianoforte) effetti
coloristici sempre cangianti, sì da realizzare organismi dotati di un loro autonomo e inconfondibile profilo.
Anzi, come ha spesso sottolineato la critica, la peculiarità dei concerti mozartiani, almeno di quelli della maturità, sembra risiedere proprio in questo superiore equilibrio tra l’esaltazione del concerto, inteso ancora come “genere” funzionale alle aspettative del pubblico e alle esigenze della cosiddetta musica di società, e l’individualità specifica dell’opera singola, rispondente ormai solo alla volontà dell’artista, individualità che già sembra approssimarsi all’ideale beethoveniano della sua infungibilità assoluta.
Concerto per pianoforte n. 9 in mi bemolle maggiore “Jeunehomme Konzert”, K 271
Ventuno concerti per pianoforte e orchestra, più uno per tre pianoforti e orchestra, un altro per due pianoforti e orchestra e un rondò per pianoforte e orchestra, rispettivamente K. 242, 365 e 382, rappresentano la summa della produzione strumentale e pianistica di Mozart e in essi avverte l’evoluzione dello stile da concerto del salisburghese, che passa da una libera forma sinfonica, dove lo strumento solista svolge un ruolo brillante e virtuosistico, ad un linguaggio sonoro più intimo e raccolto nell’ambito di un rapporto più misurato ed equilibrato tra il pianoforte e l’accompagnamento orchestrale. Del resto lo stesso Mozart espresse in una lettera che porta la data del 28 dicembre 1782 le sue idee sul modo di concepire i concerti per pianoforte e orchestra della prima maniera. «I concerti – egli scrive a suo padre – sono una via di mezzo fra il troppo difficile e il troppo facile, sono molto brillanti e piacevoli all’udito, naturalmente senza cadere nello stravagante e nella vuotaggine. Qua e là anche gli intenditori possono ricevere una soddisfazione, ma in modo che i non intenditori devono rimanere soddisfatti, senza sapere perché».
Negli anni successivi egli approfondì e arricchì la struttura tecnica del concerto, conferendo all’orchestra una personalità timbrica più spiccata, pur lasciando intatte allo strumento solista le fioriture, le variazioni e le cadenze tipiche della parte pianistica. Questa trasformazione si può cogliere nell’intero arco della produzione concertistica viennese: nel 1782-83 Mozart scrisse tre concerti per pianoforte (K. 413, 414, 415); nel 1784 ne scrisse sei (K. 449, 450, 451, 453, 456, 459); nel 1785-86 compose tre concerti per anno (K. 466, 467, 482, 488, 491 e 503). Negli ultimi cinque anni Mozart scrisse solo due concerti; nel 1788 il Concerto in re K. 537 per l’incoronazione di Leopoldo II a Francoforte e nel 1791, anno della sua morte, l’ultimo Concerto in si bemolle K. 595, con il quale il musicista prese congedo come pianista dal pubblico di Vienna (4 marzo 1791).
Bisogna dire però che anche il Concerto in mi bemolle maggiore K. 271, composto nel gennaio 1777 da un Mozart ventunenne, è un lavoro di notevole
valore per la freschezza e la varietà dell’invenzione melodica e per l’armonica fusione espressiva tra solista e orchestra, come attestano nei loro libri su Mozart sia Bernhard Paumgartner che Alfred Einstein.
Wolfgang Amadeus Mozart

Scritta per la pianista francese mademoiselle Jeunehomme, conosciuta dal musicista a Salisburgo e poi incontrata di nuovo a Parigi, questa composizione presenta una straordinaria ricchezza tematica sin dal primo movimento, un Allegro caratterizzato da un senso ampio e possente della costruzione tematica nel rapporto dialogante tra il pianoforte e l’orchestra, formata da due violini, viola, due oboi, due corni, violoncello e contrabbasso. Il momento di maggiore purezza lirica è l’Andantino in do minore, considerato come un grande arioso teatrale, sullo stesso piano estetico di analoghe pagine composte da Rameau e da Gluck. La melodia è carica di nobile eloquenza nel suo stile cantabile e la malinconia mozartiana sembra proiettare intorno a sé un’ombra piena di triste presagio. Nel Rondò finale, improntato ad una misurata gaiezza spirituale, si inserisce quanto mai elegante ed espressivo un minuetto in la bemolle con quattro variazioni che serve a spegnere gli umori virtuosistici del pianoforte, la cui parte presenta un impegno tecnico di indubbia difficoltà in tutti e tre i movimenti, dove non mancano uscite solistiche ornamentali.
Concerto per pianoforte n. 15 in si bemolle maggiore, K 450
Due Concerti per pianoforte e orchestra Mozart condusse a termine a Vienna nel marzo 1784: quello in si bemolle K. 450 e quello in re maggiore K. 451, undicesimo e dodicesimo dei ventitré compresi nel catalogo delle sue opere. «Fra questi due concerti – egli scriveva al padre – non saprei quale scegliere. Li ritengo entrambi tali da far sudare; e in fatto di difficoltà quello in si bemolle supera ancora quello in re». Il Concerto K. 450 è invero una composizione eminentemente brillante, nella quale il virtuosismo del solista ha ampio modo di emergere, mentre l’orchestra, formata da archi, oboi, fagotti e corni, con l’aggiunta di un flauto nell’ultimo tempo, ha un elaborato trattamento sinfonico. Creato in un periodo in cui Mozart godeva il massimo favore della società viennese, il Concerto è uno di quelli ohe, a quanto osserva l’Abert, il musicista scrisse parte per sé e parte per il pubblico: «E’ come se Mozart volesse testimoniare a che punto lo spirito della musica di società poteva essere unito con il sentimento personale dell’artista».
L’Allegro iniziale si apre con un tema assai cromatico presentato dai fiati, ai quali rispondono lievemente i primi violini; dopo un tutti orchestrale, appare, presentato dagli archi, il secondo tema, caratterizzato da sincopi di un effetto tenero e cattivante; si ha quindi un altro tutti. Il pianoforte entra con un ampio passaggio libero, che porta a un punto coronato, e riprende poi da solo il materiale tematico precedentemente esposto, introducendo anche nuovi temi e approdando ad una chiusa orchestrale rifacentesi al primo tutti. Nello svolgimento si hanno passaggi modulantì del solista, imitazioni fra gli strumenti dell’orchestra, la riapparizione del tema iniziale in orchestra sotto il trillo del pianoforte. La ripresa ha numerose varianti rispetto all’esposizione e perviene alla conclusione attraverso una grande cadenza.
L’Andante, in mi bemolle, è concepito nello spirito della variazione. Un tema semplice e cantabile, con ripetizioni distribuite fra il solista e l’orchestra, è seguito da due variazioni e da una libera coda. Accenti da cantico religioso sono stati rimarcati da alcuni studiosi nello svolgimento del discorso musicale.
L’Allegro finale è un rondò con una intonazione di caccia (e il Saint-Foix vi sottolinea anzi una certa atmosfera francese che lo avvicina al Quartetto soprannominato appunto La caccia). Il ritornello, spigliato e grazioso, è introdotto dal pianoforte ed è immesso in uno svolgimento originale per varietà di episodi e modulazioni inaspettate. Anche qui una cadenza precede la conclusione: va segnalato al riguardo che di questo, come di parecchi Concerti mozartiani, ci sono pervenute le cadenze composte dall’autore per uso proprio o di altri esecutori.
Concerto per pianoforte n. 19 in fa maggiore, K 459
Durante il Settecento i concerti per strumento solista e orchestra divennero un veicolo privilegiato per i compositori-esecutori; erano stati i figli di Bach (in particolare Cari Philipp Emanuel e Johann Christian) a dare a questa forma una felice sintesi tra la parte solistica e l’orchestra. Fu proprio il Bach “inglese” (Johann Christian) ad esercitare un’influenza diretta su Mozart negli anni decisivi della sua formazione: il piccolo compositore era a Londra nell’aprile del 1764, e tutte le sue prime composizioni, sinfonie e musica da camera, rivelano tracce di quel tipo di scrittura che si trova a metà fra lo “stile galante” e quello “sentimentale” (empfindsamer). Le caratteristiche del primo (frasi brevi e simmetriche, ritmi uniformi, armonia semplice, incisivi temi d’apertura con specifiche caratteristiche ritmiche) si arricchiscono di più forti tensioni emotive che vanno dall’espressione della malinconia all’eccesso eroico (e musicalmente si traducono in uno stile più rapsodico dei temi, frequenti passaggi dal fortissimo al pianissimo, scatti ritmici e improvvise modulazioni). La produzione dei Concerti per pianoforte di Mozart, 23 lavori completi, mostra, oltre all’evoluzione personale del compositore, anche quella di questo genere musicale verso gli esiti beethoveniani.
I Concerti della maturità mozartiana sono esemplari per la straordinaria fusione della forma sinfonica e del Concerto, mentre è bandito ogni virtuosismo solistico fine a se stesso (ad eccezione delle cadenze scritte di proprio pugno, come nel caso del Concerto in programma, dove si nota un’attenzione privilegiata al solista). Anche per ciò che riguarda l’orchestrazione, tanta è la naturalezza delle soluzioni e degli impasti, che spesso non ci rendiamo conto che Mozart ha emancipato l’orchestra dal semplice ruolo di accompagnamento, trasformandola in un fattore melodico, coloristico e formale determinante, in cui gli strumenti a fiato (specie in combinazione col pianoforte) giocano la parte principale. In questi lavori degli ultimi dieci anni di produzione musicale, colpisce anche la libertà formale, una libertà non casuale o sperimentale ma frutto di un lavorìo continuo in grado di conferire ad ogni Concerto un contenuto emozionale diverso (anche per quelli nella stessa tonalità). Se il pianoforte non è “solista” nel senso tradizionale, è comunque lui a segnare il momento di maggior evoluzione: si stabilisce infatti la tecnica del nuovo strumento e si vanno esaurendo le tracce del clavicembalo. Sono proprio questi, infatti, gli anni dello sviluppo del pianoforte e, se è vero che i ritratti giovanili del compositore ce lo presentano sempre al cembalo (strumento dunque della formazione), il compositore venne senz’altro influenzato dal pianoforte come si evince dalle sue composizioni più mature che presentano passi decisamente pianistici. Fino al 1777, quando incontrò il costruttore di organi e pianoforti Johann Andreas Stein, la tastiera del cembalo era l’unico punto di riferimento (anche se in una lettera del 20 agosto 1763, il padre Leopold dice di aver acquistato un “piccolo, delizioso clavier da Stein”), medium perfetto per una musica chiara ed elegante, grazie alla nettezza dei suoni. Il pianoforte si dimostrerà più adatto agli accordi e a tutti gli effetti dinamici dei piano e forte dello stile “sentimentale”, uno strumento flessibile e in grado di riempire di suono una sala da concerto.
Con la permanenza stabile di Mozart a Vienna inizia la serie di diciassette Concerti nei quali il compositore raggiunge la piena maturità: ne scrisse tre fra il 1782-3, sei nel 1784 (tra cui il K. 459), tre nel 1785, tre nel 1786, e gli ultimi due nel 1788 e nel 1791). Non deve tanto sorprendere l’alto numero di lavori in un periodo così breve (era cosa abituale per l’epoca) quanto, come si è detto, l’estrema varietà di forme e stili in uno stesso genere. Il Concerto in fa maggiore K. 459 (diciannovesimo della serie), venne composto nel 1784 (prima edizione, 1794) ed eseguito, secondo quanto ci dice il primo editore, insieme al K. 537 il 15 ottobre 1790 nel concerto per la celebrazione dell’incoronazione dell’Imperatore Leopoldo II a Francoforte.
Il primo movimento si apre con un tema semplice nel disegno melodico e ritmico; nonostante la somiglianzà con molti altri temi di sinfonie e concerti dell’epoca, questo si imprime nella memoria dell’ascoltatore per l’originale fusione tra le caratteristiche marziali (tempo 4/4, note ribattute e ritmo puntato) e quelle più intime (attacco in piano, accattivante combinazione di archi e flauto solo).
Alfred Brendel

Anche all’ingresso del solista, Mozart sottolinea l’unione dei due elementi facendo leva sulla strumentazione che prevede oboe e fagotto (sempre in piano) come accompagnamento del pianoforte. Il ritmo puntato segna lo sviluppo passando dagli archi ai fiati, mentre il pianoforte percorre la tastiera dall’acuto al grave con veloci terzine. Un’incursione nella tonalità di la minore spezza la simmetricità del meccanismo formale e la ripetitività dell’incipit tematico, colorando la partitura di una piccola nota drammatica prima della ripresa solenne del tema.
Il secondo tempo, come in molte altre composizioni, è caratterizzato da una grande fantasia formale e armonica, ed è soprattutto qui che si coglie il carattere sinfonico del Concerto mozartiano. Il tema, brevi incisi esposti dall’orchestra al completo, ha un qualcosa di frammentario anche per certi cromatismi che movimentano il disegno melodico. Il solista non primeggia ma partecipa alla forma generale, e con le sue possibilità tecniche (ad esempio quella di suonare accordi che non svaniscono in un attimo come nel cembalo) contribuisce ad arricchire le sfumature armonico-tonali che sono l’elemento portante di questo movimento.
Il terzo tempo era di solito un Rondò, qui però Mozart ha scritto un finale che è qualcosa di più: una sintesi di fuga, rondò-sonata e, addirittura, stilemi operistici. Il primo, semplice piccolo tema presentato dal pianoforte è bilanciato da un secondo che è di carattere fugato, e troveremo poi i due combinati in una sorta di doppia fuga; tutto è suggellato, dopo la cadenza, da una conclusione che, per il ritmo estremamente vivace (le linee melodiche e gli strumenti si inseguono freneticamente), ricorda l’ouverture dell’opera buffa. È interessante come Mozart presenti materiali in modo nettamente distinto e poi li fonda nel modo più naturale. Il tema della fuga, ad esempio, è completamente nuovo, con uno sviluppo lungo e autonomo che però finisce per diventare il logico contrappeso (nel Tutti in re minore) del tema iniziale del Rondò. Il pianoforte è assente in questo grande episodio contrappuntistico ma a lui spetta il delicato ruolo di ripristinare una forma meno severa e riportare il movimento verso atmosfere più consuete. «La forma di questo movimento, ad un tempo concisa ed estesa, rappresenta la sintesi dell’esperienza e dell’ideale formale mozartiani. Tutto ha qui il proprio ruolo: lo stile operistico, il virtuosismo pianistico, la conoscenza mozartiana del contrappunto barocco, e di quello di Bach in particolare, e l’equilibrio simmetrico e le tensioni drammatiche dello stile sonatistico. Il primo movimento, militare sì, ma tranquillamente dominato da calme progressioni, e l’inesauribile e lirico Allegretto mostrano una uguale sensibilità. L’intero concerto è, in conclusione, uno dei più originali che Mozart abbia scritto» (Rosen).
Concerto per pianoforte n. 20 in re minore, K 466
Il Concerto per pianoforte K.466 fu composto da Mozart nel 1785, ed è il decimo dei Concerti scritti dopo il trasferimento a Vienna, avvenuto nel 1781. Nei quattro anni successivi alla rottura con la corte salisburghese Mozart si era affermato rapidamente presso il pubblico della capitale dell’impero, nella veste però non tanto di compositore quanto di pianista, come virtuoso alla moda. Il ristretto circolo di aristocratici e facoltosi borghesi che onorava della sua presenza le “accademie” organizzate dal giovane salisburghese veniva irresistibilmente attratto dagli aspetti di novità del pianismo mozartiano, dalla scorrevolezza brillante e non cembalistica, dalle inedite escursioni dinamiche, dai controllati effetti percussivi del tocco. Tali caratteristiche infatti rispondevano perfettamente al gusto effimero e disimpegnato della maggior parte degli ascoltatori; e il Concerto per pianoforte e orchestra era considerato come genere di intrattenimento e svago per eccellenza.
Non deve stupire dunque che nei primi Concerti viennesi preoccupazione prioritaria dell’autore fosse quella di confezionare dei prodotti in cui egli stesso potesse figurare, come solista, nel modo più accattivante possibile; ma poi, progressivamente, Mozart trasformò il genere del Concerto in un vero e proprio laboratorio di sperimentazioni formali, linguistiche, contenutistiche. L’esito fu quello di una nuova concezione del rapporto fra pianoforte e compagine orchestrale come confronto di diverse individualità, in una ottica che precorre quella del Concerto beethoveniano e poi romantico.
Proprio in questa prospettiva il Concerto K. 466, eseguito e diretto dall’autore l’11 febbraio 1785, apre nuove frontiere, forzando il virtuosismo verso una “drammatizzazione” che tende a un coinvolgimento emotivo dell’ascoltatore (e non è certo un caso se questo Concerto fu l’unico fra quelli di Mozart a rimanere in repertorio durante il secolo scorso). La stessa tonalità minore esclude a priori la componente più facilmente brillante ed esteriore del virtuosismo. L’intero brano è improntato ad una tragicità quasi teatrale, splendidamente calibrata su una dialettica di contrasti interni, formali, tonali, fra “solo” e “tutti”. Nel primo movimento la drammaticità del primo tema, subito evidenziata dal ritmo sincopato che agita l’introduzione orchestrale, viene attenuata da un secondo tema cantabile; l’ingresso del pianoforte avviene però con un terzo tema che, nel corso del tempo, verrà ripreso solo dallo strumento solista; il conflitto fra quest’ultimo e l’orchestra assume insomma una veste anche tematica (la cadenza che, come di consueto, precede la coda del movimento, non ci è stata lasciata dall’autore; per tradizione si usa eseguire quella appositamente, scritta da Beethoven per le proprie esecuzioni della partitura). Forte è il contrasto con il secondo tempo, una Romance basata su una melodia semplicissima, intonata dal pianoforte e ripresa dall’orchestra; e un nuovo contrasto viene a crearsi con la sezione centrale del movimento che, ricca di esiti drammatici e complessi equilibri strumentali, ottiene l’effetto di evidenziare il carattere del tema principale quando questo si ripresenta. Con il Finale, in forma di Rondò, torniamo all’ambientazione iniziale, accentuata dall’incalzare del ritmo e dalla frequente oscillazione fra minore e maggiore; questo clima si converte però nella coda, che suggella il Concerto con un sorprendente re maggiore. Si tratta di una conclusione che è stata variamente interpretata, ed anche aspramente criticata come concessione al pubblico; ma essa costituisce in realtà, con coerenza estrema, l’ultima risposta a quella logica di contrapposizioni che anima la drammaticità dell’intera partitura.
Concerto per pianoforte n. 21 in do maggiore, K 467
Il Concerto in do maggiore K. 467 fu pubblicato da Mozart nel 1785 ma era stato presentato al pubblico durante la quaresima dell’anno precedente. Erano passati appena cinque anni dal soggiorno salisburghese di cui abbiamo parlato a proposito della Messa dell’Incoronazione ma la vita di Mozart era definitivamente e radicalmente mutata. Licenziato dal servizio dell’Arcivescovo Colloredo, aveva scelto la vita del libero artista a Vienna e l’anno della composizione del concerto lo trova sulla cresta dell’onda dopo il recente successo del Ratto al Serraglio, intimo dell’ambiente di corte, in relazioni di fraterna amicizia con il grande Joseph Haydn – cui aveva in quel periodo dedicato anche una serie di Quartetti – e felicemente sposato con la sorella di Aloysia, Costanza. Una lunga anche se rapida strada che lo aveva portato al centro della vita musicale viennese facendolo diventare – ma sarà per poco – un musicista alla moda. E’ in questo contesto che egli decise allora di organizzare di propria iniziativa una serie di concerti per sottoscrizione che avrebbero dovuto insieme rafforzare la sua fama ed il suo benessere. Ma ecco come Mozart descrive il suo successo in quegli anni in una lettera al padre: « … eccovi l’elenco di tutti i miei abbonati. Io da solo ne ho circa trenta di più che Richter e Fischer insieme. Il primo concerto il 17 scorso è andato benissimo. La sala era piena zeppa e il nuovo concerto da me eseguito è piaciuto straordinariamente. Ovunque si sente lodare questa accademia… ». E il padre Leopoldo, recatosi a Vienna proprio in occasione della prima esecuzione di questo Concerto in do maggiore che si esegue stasera scrive alla figlia Nannerl « … tuo fratello ha incassato 559 fiorini e cioè assai di più di quanto immaginassimo poiché ha ancora 150 abbonati – ognuno dei quali paga una sterlina – per altri sei concerti alla «Mehlgrube». Ha poi suonato moltissime altre volte in teatro per pura cortesia. Finissero soltanto questi concerti! Non posso descriverti le seccature, le agitazioni… ».
Neville Marriner

E’ in questo periodo che Mozart scrive una serie di quattordici Concerti per pianoforte e orchestra – dal 1783 al 1787 – che hanno in comune numerosi caratteri espressivi e formali così caratterizzati dallo stesso Mozart in una lettera di quegli anni: « … sono esattamente una via di mezzo tra il troppo difficile e il troppo facile; brillanti, gradevoli all’orecchio, naturali senza cadere nel vuoto. Qua e là potranno soddisfare gli intenditori ma sempre in modo tale che anche gli incompetenti ne provino piacere senza sapere perchè ». E il Paumgartener nota come questo gruppo di concerti «… pur senza scostarsi dall’antica struttura formale in tre tempi sostanzialmente evolvano i precedenti saggi del genere… Uno degli obiettivi principali quello di conseguire l’«effetto» – non si dimentichi che Mozart li scriveva per eseguirli personalmente in pubblico – risulta ingentilito dalla profondità e dalla nobiltà dell’invenzione e portato con sublime maestria al di sopra di ogni contingenza di tempo e di moda… ». E lo stesso Paumgartner così prosegue: « … il concerto mozartiano si differenzia dagli antichi modelli essenzialmente per la concezione fonica e psicologica moderna della forma intesa come spigliata contrapposizione di due individualità – la massa orchestrale e il pianoforte a martelli dalle enormi risorse timbriche e dinamiche – e potenziata da un’inesauribile varietà di atteggiamenti… Pur essendo riservata al virtuosismo del pianista una parte preminente, protagonistica, anche l’orchestra si muove con indipendenza. Allo strumentatore geniale agguerrito alle scuole di Vienna e di Mannheim… queste partiture furono magnifiche occasioni di mettere in luce così ricche esperienze. Nelle parti pianistiche profuse i tesori della propria originalissima tecnica, le magistrali figurazioni fiorite di interessanti abbellimenti, gli squisiti levissimi passaggi, i cambiamenti di posizione timbricamente così suggestivi, la dolce cantabilità della mano destra sui canovacci trasparenti e morbidi degli
accompagnamenti; ma non meno si preoccupò di dare all’orchestra lo stesso grado di interesse timbrico e musicale… ».
Ed è un giudizio che pienamente si attaglia al Concerto in programma stasera. Il primo tempo «Allegro maestoso» si presenta come una sorta di marcia solenne, intervallata da silenzi, che presto concede ai priimi violini il privilegio di presentare il primo tema; poi, dopo un dialogo tra archi e fiati, spetta ai legni di presentare un secondo tema finchè, dopo una drammatica modulazione in minore, si apre la strada all’intervento del «solo» il quale, su una tonalità di sol maggiore, più che presentare un tema si lancia in un tentativo di «cadenza» che dà l’avvio al lungo dialogo tra solista e orchestra. E’ abbastanza interessante notare a proposito di questo primo tempo l’assoluto parallelismo che si viene a creare tra il «solo» e i «tutti», dove al primo è negato ogni intervento sul materiale tematico affidato all’orchestra e viceversa. Al punto che Mozart volendo affidare il secondo soggetto del tempo al solista ha inventato una specie di secondo soggetto fittizio per completare l’introduzione orchestrale. Sicchè il rapporto dialettico tra il pianoforte e l’orchestra è soprattutto un rapporto espressivo per il quale «solo» e «tutti» sono chiamati nelle loro rispettive sfere ad esprimere sì lo stesso pensiero ma con parole programmaticamente diverse.
Il secondo tempo «Andante» è scritto nella tonalità di fa maggiore ed è certo tra i più alti movimenti lenti composti da Mozart. Il De Saint-Foix ne mette in, risalto l’atmosfera di «alta poesia», a proposito della quale qualche critico ha fatto addirittura il paragone con i Notturni di Chopin. Una cantilena del pianoforte preceduta da un preludio dei «tutti» è la caratteristica fondamentale di questo movimento nel quale sembrano addensarsi e risolversi uno nell’altro numerosi stati d’animo ora tristi, ora angosciati, ora sereni. Ma i temi si distinguono appena; quasi si trattasse di un fiume sonoro lento e costante. Ma non si tratta di una «fantasia», anche se una gran parte del fascino di questo movimento si basa sul suo colorito sempre cangiante e sulle straordinarie sonorità frutto di una ricchissima e sapiente strumentazione. Ma se l’orecchio non riesce a distinguere i diversi temi, pure riconosce accenti che ritornano, strade già percorse.
Strutturalmente si riconoscono in questo movimento tre parti distinte: un preludio orchestrale, una parte centrale nella quale è il solista a prevalere ed una «coda». Nè sarà inutile notare che questa magica atmosfera è costruita da Mozart cambiando continuamente la tonalità del pezzo che comincia in fa maggiore e conclude, naturalmente, nella stessa tonalità ma che contiene in 102 battute ben 20 modulazioni verso tonalità diverse.
Il terzo tempo «Allegro vivace assai» è da un punto di vista espressivo un rondò caratterizzato dal dialogo costante tra «solo» e «tutti» basato sulla utilizzazione sapiente di frammenti del tema principale che passa continuamente da una famiglia all’altra dell’orchestra per preparare parentesi di carattere dichiaratamente virtuosistico al pianoforte, nello spirito generale del movimento che sembra essere quello di una gioiosa atmosfera che cancella definitivamente la intima e triste meditazione dell’«Andante».
Concerto per pianoforte n. 22 in mi bemolle maggiore, K 482
Questo concerto porta la data del 16 dicembre 1785 e fu eseguito a Vienna la prima volta il 23 dicembre dello stesso anno ottenendo un grande successo da parte del pubblico che volle la replica dell’Andante. Si trattava del resto di un periodo – forse il solo periodo – fortunato nella vita viennese del musicista. Le poche lettere di quegli anni giunte fino a noi rispecchiano uno stato d’animo sollevato ed euforico, vivaci istantanee dell’ambiente musicale viennese in quell’epoca in cui gli artisti lavoravano personalmente a contatto col pubblico. «Ora come potete immaginare – scrive Mozart al padre – devo necessariamente suonare – e quindi scrivere cose nuove. L’intera mattinata la dedico agli allievi e quasi tutte le sere ho da suonare». E in un’altra lettera a Leopoldo dice: «Eccovi l’elenco di tutti i miei abbonati. Io da solo ne ho trenta di più che Richter e Fischer insieme. Il primo concerto è andato benissimo. La sala era piena zeppa e il nuovo concerto da me eseguito è piaciuto straordinariamente. Ovunque si sente lodare questa accademia…».
Ed è per queste accademie – concerti a sottoscrizione – che Mozart scrisse quattordici Concerti per pianoforte e orchestra, tra i quali quello in mi bemolle che si esegue stasera.
A proposito di questi Concerti scrive il Paumgartner nella sua biografia mozartiana: «Concerti stupendi, vari per agogica, linguaggio espressivo e livello tecnico. Pur senza scostarsi dalla antica struttura formale in tre tempi essi sostanzialmente evolvono i precedenti saggi del genere. Da questo momento il Concerto per pianoforte prenderà il posto predominante nella produzione del Maestro. Uno degli obbiettivi principali, quello di “conseguire l’effetto” (non si dimentichi che Mozart li scriveva per eseguirli personalmente in pubblico) risulta ingentilito dalla profondità e dalla nobiltà dell’invenzione e portato con sublime maestria al di sopra di ogni contingenza di tempo e di moda. La mano dell’autore degli Haydn Quartetto e della Sonata in do minore risulta spessissimo; talvolta è il fosco demone dell’artista che parla incurante delle superficiali pretese del pubblico; tanto è grande il numero di questi concerti, tanto geniali e varie le soluzioni dei problemi formali per mezzo del dialogismo sinfonico tra solista e orchestra nell’ambito di quella più vasta forma sonatistica. L’artistica struttura del primo tempo così ricca di possibili ripartizioni del materiale tematico tra il “Tutti” e il “Solo” offrì al Maestro un campo illimitato per lo spiegamento della sua formidabile potenza. Il concerto mozartiano si differenzia dagli antichi modelli essenzialmente per la concezione fonica e psicologica moderna della forma, intesa come spigliata contrapposizione di due individualità – la massa orchestrale e il pianoforte a martelli, dalle enormi risorse timbriche e dinamiche – e potenziata da un’inesauribile varietà di atteggiamenti. E’ la stessa vivezza individuale della nuova era quartettistica che si ripresenta in altro, campo e con altri valori espressivi ».
Queste caratteristiche sono comuni anche al Concerto in mi bemolle maggiore con in più che esso sembra concepito sotto il segno di un malinconico «ritorno» alla giovinezza espressa con il «ritorno» alla maniera dei primi concerti specialmente quello per due pianoforti e orchestra e l’altro nella stessa tonalità che porta il numero di catalogo K. 271, che è del 1777; un «ritorno» soprattutto evidente nel motivo dei corni dell’Allegro iniziale e nell’episodio centrale (Andantino cantabile) del Rondò che si richiama al finale di quel concerto più giovanile ed insieme prefigura il canone con cui si concluderà l’opera Così fan tutte.
Tra i due tempi così segnati da questo ricordo della non lontana ma ormai conclusa giovinezza si pone l’Andante nella tonalità di do minore che è di certo tra le pagine esistenzialmente più sconvolgenti lasciateci dal maestro salisburghese per la sua immediatezza espressiva così facilmente leggibile nella chiave di un arco di sentimenti che porta dal dolore e la disperazione fino alla rassegnazione: una prefigurazione dei drammatici temi che saranno al centro delle opere degli ultimi anni mozartiani.
Uno sguardo sul futuro tanto più intenso in quanto legato sembra al rimpianto di un non lontano passato che si esprime anche sul piano del linguaggio sia con la decisione di sostituire gli oboi dei precedenti Concerti con i clarinetti – è il primo caso nella produzione mozartiana – sia per il contrasto nuovissimo e già romantico che si realizza tra i modi maggiore e minore.
Concerto per pianoforte n. 23 in la maggiore, K 488
Tra il 1773 e il 1791 Mozart compose la bellezza di ventiquattro grandi Concerti per pianoforte e orchestra, buon numero dei quali, oltre a fondare la sua fama di virtuoso della tastiera, sono entrati a far parte stabile del repertorio classico. Fra questi alcuni spiccano però in modo particolare e godono di un favore straordinariamente esteso: è il caso del Concerto in la maggiore K. 488, che contende a quello in re minore K. 466, prediletto da Beethoven, la palma del Concerto di Mozart più universalmente noto ed eseguito.
Orchestra Academy of Saint Martin in the fields

Messo al mondo con un certo travaglio all’inizio del 1786 (la data di registrazione nel catalogo delle sue opere è quella del 2 marzo 1786: siamo nel pieno del lavoro alle Nozze di Figaro), il K. 488 è caratterizzato da una speciale brillantezza e vivacità strumentale, ma presenta anche tratti intimamente poetici e preziosi, distribuiti in modo equilibrato, con rara fusione, tra solista e orchestra. A proposito di quest’ultima va notato che l’organico rinuncia ai timbri marziali ed eroici di trombe e timpani, mentre impiega i clarinetti in luogo degli oboi per creare un colore di fondo più dolce e pastoso, insieme morbido ed evocativo. Anche la tonalità di la maggiore ad essi collegata (in la sono tagliati appunto i clarinetti) contribuisce a conferire al Concerto una trasparenza luminosa e velata, e apre orizzonti espressivi inediti nel movimento centrale, impiantato nel relativo di la, fa diesis minore.
Il primo movimento, preceduto da una lunga ed elaborata introduzione orchestrale, è giocato dapprima sull’esposizione dei due temi assai affini tra loro e poi sul loro sviluppo, con vertici di straordinaria potenza rappresentativa. Con un materiale elementare, anche se individualmente definito soprattutto dal punto di vista melodico, Mozart intesse un Allegro che ha un respiro sinfonico intenso e una forte tensione drammatica sfociante nella grande cadenza interamente scritta, e non lasciata all’improvvisazione del solista.
L’Adagio, aperto da un tema in ritmo di siciliana del pianoforte solo, oscilla tra una pensosità accorata che tende a farsi quasi dolorosa e una serenità trasfigurante, affermata decisamente dalla inattesa sezione centrale in la maggiore. La ripresa vede il pianoforte ergersi a protagonista di un dialogo con l’orchestra di profondo lirismo e di assoluta eleganza formale.
Al versante brillante e virtuoslstico appartiene invece l’Allegro assai conclusivo, basato su un continuo rincorrersi e sovrapporsi di frasi tra pianoforte e strumenti, ora spinti anch’essi quasi al rango concertante di solisti: da un tono appassionatamente concitato nasce la fluidità di un discorso lieto e rasserenato, che verso la conclusione tocca anche le sponde dell’umorismo, avvicinandosi allo spirito esilarante della commedia.
Il Concerto in la maggiore K. 488 fu eseguito per la prima volta a Vienna il 7 aprile 1786 in una delle consuete Accademie che vedevano Mozart acclamato protagonista nella duplice veste di autore e interprete: fu quella la sua ultima apparizione come solista sul palcoscenico del Burgtheater.
Concerto per pianoforte n. 24 in do minore, K 491
Mozart scrisse soltanto due Concerti per pianoforte in tonalità minore, quello in re minore K. 466 e quello in do minore K. 491. Il primo risale al febbraio del 1785 e costituisce l’opera forse più drammatica composta da Mozart per il suo strumento. Poco più d’un anno dopo, il 24 marzo 1786, il Concerto in do minore veniva aggiunto al catalogo dei lavori dell’autore. Sebbene il ritorno al modo minore crei una certa affinità di sentire tra i due lavori, il loro carattere diverge in maniera netta.
Il secondo Concerto infatti ha un carattere più tragico che drammatico, rispetto al precedente. Il calore della lotta sembra ormai raffreddato e lo sguardo si distende con compassione sul campo di battaglia intcriore. Fino all’ingresso del solista, l’orchestra brancola in mezzo a una selva di domande senza risposta. L’organico, più ampio del solito, impiega contemporaneamente una coppia di oboi e una di clarinetti, rendendo più sostanziosa la presenza dell’orchestra. Il tema principale, esposto prima dagli archi e poi dilatato nel forte dall’intera orchestra, si ritorce in maniera cromatica su se stesso, come un serpente. Il Mozart maturo s’allontana dalle forme squadrate dello stile galante e aspira a uno stile più organico. La forma trova espressione compiuta soltanto nella dialettica unitaria tra solista e orchestra. Il pianoforte, per esempio, manifesta il desiderio di trasformare in maniera significativa i temi musicali proposti dall’orchestra. L’intervallo di settima minore conferisce al soggetto principale, di stampo contrappuntistico, una tensione espressiva, che il solista s’incarica poi d’amplificare allargando il raggio del salto fino a raddoppiare la misura dell’intervallo (da settima a quattordicesima). L’interrogativo drammatico formulato all’inizio diventa nelle mani del pianista una sorta di dubbio esistenziale. Alla stessa maniera, l’area del secondo tema acquista nella parte solistica una complessità ancora ignota all’orchestra. La tonalità di mi bemolle maggiore si arricchisce infatti di nuove idee musicali, articolate in un percorso armonico più ampio e fantasioso. Il breve sviluppo è condotto dal pianoforte con identico e inquieto attivismo, traendo dal materiale tematico i succhi vitali con potente virtuosismo. Dopo aver toccato il culmine dell’intensa espressione drammatica, la ripresa suona fresca e originale come un nuovo inizio. Il secondo soggetto viene trasformato in maniera nostalgica dalla nuova luce della tonalità di do minore. Il tema dei fiati scivola verso le profondità di suono dell’orchestra, mentre il solista, dopo la cadenza, si concede il lusso di un’ultima divagazione.
Il Larghetto in mi bemolle costituisce un momento di ricreazione spirituale, ma non è del tutto innocente. Il tema proposto dal pianoforte si rispecchia nell’orchestra, che ripartisce la frase tra gli strumenti ad arco e quelli a fiato. La parte centrale del movimento scaturisce da un’elegante Serenata, strumentata in maniera splendida e ripresa con molta espressione dal solista. La ricchezza di suono procurata all’orchestra dalla presenza dei clarinetti viene sfruttata da Mozart soprattutto nella parte conclusiva del Larghetto.
Per il finale del Concerto Mozart adotta la forma del tema con variazioni. L’Allegretto infatti si articola in otto variazioni, su un tema generato in maniera ben riconoscibile dal soggetto iniziale grazie alla presenza dell’intervallo di settima minore. Il pianoforte s’appropria subito della prima variazione, fornendo la chiave di lettura del movimento. Diviene evidente in breve tempo come il contrasto tra il mondo della natura, evocato dalle sonorità pastorali dei fiati, e il carattere cromatico del virtuosismo solistico costituisca la forza espressiva di questo finale. La musica, nei momenti più intensi, si copre d’un rumore di ferraglia e procede a ritmi marziali, mentre la scrittura pianistica si addensa fino a toccare in alcuni punti un contrappunto a quattro voci.
A differenza del Concerto in re minore, questo lavoro non schiude le porte a un futuro luminoso e di speranza. Il pianoforte indugia a liberarsi del cromatismo che ne aveva ossessionato l’espressione fin dall’inizio, mentre l’orchestra mette la parola fine al Concerto nella maniera più scarna, con una brusca e violenta fiammata spenta con tre accordi secchi.
Concerto per pianoforte n. 25 in do maggiore, K 503
Il Concerto in do maggiore K. 503 per pianoforte è il terz’ultimo dei Concerti pianistici di Mozart terminato, secondo l’autografo, il 4 dicembre 1786, nel periodo di intervallo fra la prima esecuzione delle Nozze di Figaro (1 maggio 1786) e la commissione del Don Giovanni (gennaio 1787). Proprio Le nozze di Figaro segnano una sorta di spartiacque nella produzione pianistica mozartiana. Dopo l’abbandono del servizio presso la corte arcivescovile di Salisburgo e il trasferimento a Vienna del 1781, Mozart aveva scritto quattordici Concerti per pianoforte fra la fine del 1782 e la primavera del 1786; appena tre Concerti (K 503, 537, 595) vedono invece la luce fra la fine del 1786 e l’inizio del 1791. Questa netta diminuzione di Concerti pianistici negli ultimi anni di vita del compositore non può essere spiegata semplicemente con una intrinseca diminuizione di interesse verso questo genere compositivo: né con le opportunità di dedicarsi finalmente al prediletto genere operistico (a Don Giovanni seguiranno, com’è noto, Così fan tutte, La clemenza di Tito e Die Zauberflöte). Si tratta piuttosto del segno più tangibile della crisi del rapporto fra Mozart e il pubblico viennese, crisi che si manifesta appunto nel periodo successivo alle Nozze di Figaro.
Nei primi anni viennesi, infatti, Mozart si era valso del Concerto pianistico come del “grimaldello” per affermarsi presso la società cittadina. Nelle interminabili serate concertistiche per sottoscrizione (“Accademie”), frequentate da un ristretto circolo di aristocratici e facoltosi borghesi, accanto alle Sinfonie, alle Arie per voce e orchestra, alle brevi improvvisazioni e composizioni pianistiche, il Concerto per pianoforte era atteso come l’appuntamento immancabile e prediletto. Tutta la musica per pianoforte era peraltro considerata come genere di intrattenimento e di svago, ed era destinata agli esecutori dilettanti, che si dedicavano al pianoforte in quanto strumento di rapide soddisfazioni. Le Accademie viennesi, non a caso, avevano non solo una funzione ricreativa ma anche commerciale: l’ascoltatore infatti, se aveva ritenuto di suo gradimento le composizioni udite nel corso del Concerto, poteva acquistare, perle proprie private esibizioni, una copia degli spartiti, fatta appositamente incidere dall’autore a proprie spese.
Appunto come pianista Mozart si conquistò rapidamente la considerazione di virtuoso “alla moda”. Il pianoforte, strumento di recente diffusione, aveva potenzialità in gran parte ancora da scoprire e la scrittura pianistica mozartiana, con le sueinedite escursioni dinamiche, i controllati effetti percussivi del tocco, la scorrevolezza brillante, presentava degli aspetti di eclatante novità. I primi Concerti viennesi ( K. 413/415) sono scritti appositamente per mettere in luce queste qualità, come testimonia una celebre lettera al padre del 28 dicembre 1782: “che anche i non intenditori restino contenti, pur senza sapere il perché”.
Orchestra Academy of Saint Martin in the fields

Dunque un contenuto musicale disinvolto e disimpegnato, improntato a un concetto semplicemente decorativo della scrittura pianistica, un ruolo accessorio della compagine strumentale (nei primi Concerti viennesi gli strumenti a fiato sono considerati ad libitum), una estrema nitidezza nell’impianto strutturale. Negli interessi del compositore non tardò tuttavia ad imporsi una nuova tendenza; la scrittura solistica esorbita dai margini decorativi, l’orchestra riveste un ruolo “integrato” e non subalterno rispetto al solista, la concezione formale acquista una più vasta articolazione interna. Insomma il Concerto per pianoforte diviene progressivamente nelle mani di Mozart un vero e proprio laboratorio di sperimentazioni formali e linguistiche. E questa complessità è senz’altro uno dei motivi che portarono al declino della fortuna di Mozart presso il pubblico viennese.
Non a caso il Concerto K. 503 nacque come opera isolata in circostanze poco chiare; potrebbe essere stato destinato a un ciclo di Accademie nel periodo dell’Avvento; o eseguito nel viaggio a Praga nel gennaio 1787. La partitura ha una orchestrazione estremamente ricca (flauto e coppie di oboi, fagotti, corni, trombe, più timpani; anche se mancano i clarinetti) e infatti è fra quelle che mostrano in modo più pronunciato la tendenza “sinfonica” della maturità mozartiana. Già la tonalità di do maggiore viene impiegata spesso da Mozart per lavori di contenuto aulico; il lavoro si richiama sotto questo aspetto ai Concerti K. 415 (in do) e K. 459 (in re), ma secondo una complessità ben maggiore di quella mostrata dai modelli.
Così il primo tempo, Allegro maestoso, si apre con una imponente introduzione orchestrale; il materiale tematico mostra però una certa “neutralità” espressiva: troviamo degli accordi spezzati, delle note ribattute (alle quali è stato talvolta attribuito un significato massonico) e delle scale, nonché qualche elemento contrappuntistico; come dire che il materiale trae interesse, più che dalla sua fisionomia, dal trattamento rigoroso e consequenziale che riceve. Il secondo tema si presenta, inconsuetamente, nel modo minore e presenta un inciso ritmico che percorrerà internamente tutto il tempo. Il pianoforte fa il suo ingresso con un tema del tutto diverso, dal carattere decorativo; e appare solo in un secondo momento il primo tema dell’esposizione orchestrale. Poi viene introdotta un’altra idea tematica diversiva per il pianoforte, di carattere ingenuo, in mi bemolle; e quando il pianoforte arriva al secondo tema, questo è del tutto nuovo rispetto a quello in minore dell’esposizione orchestrale (che invece viene ampiamente sfruttato nella sezione dello sviluppo). Queste indicazioni offrono da sole un’idea della eccezionale complessità del movimento, che è segnato anche dalla perfetta integrazione fra la scrittura orchestrale e quella pianistica.
Rispetto al tempo iniziale, quasi dimesso appare l’Andante, aperto da una introduzione orchestrale che presenta due temi, il primo di carattere “affettuoso”, il secondo più galante; e questa esposizione viene ripresa ed ampliata dal pianoforte. La sezione centrale non si pone in contrasto ma in perfetta continuità espressiva, e lascia ampio spazio all’elegante virtuosismo del solista, prima della ripresa. Il finale segue la forma del Rondò e viene aperto dall’orchestra piuttosto che dal pianoforte (come avviene più di consueto); il refrain è di carattere popolaresco, formato da due elementi distinti, infantile (archi) e contadino (fiati); si alterna poi con episodi ben distinti che non conservano un carattere così ingenuo ma sono estremamente sofisticati, sia nell’invenzione melodica che nell’elaborazione; così avviene, ad esempio, nello sviluppo, in minore, che accoglie un complesso intreccio dei fiati sull’accompagnamento del pianoforte. Il solista trova modo soprattutto in questo tempo di impegnarsi in un brillante cimento tecnico, ma questo impegno non è così accattivante e appariscente come in altri concerti. Il gusto “popolare”, dunque, cede al “sofisticato” e viene assorbito in un movimento che contraddice fortemente ogni concessione al pubblico. Una distanza incolmabile rispetto a quella “via di mezzo fra il troppo difficile e il troppo facile” che aveva segnato i primi Concerti viennesi.
Concerto per pianoforte n. 27 in si bemolle maggiore, K 595
Uno dei luoghi comuni della letteratura dedicata ad un qualsiasi grande artista è quello, irresistibile, di conciliare nell’ultimo suo anno di vita il vertice più alto della produzione col presagio tormentoso della morte imminente. Anche Mozart ne è stato ovviamente contagiato: anzi, nessun musicista più di lui ha autorizzato una vasta letteratura romantica a rinvenire, nella parte liminare della sua esistenza, inquietanti ed angosciose premonizioni; ma per converso, nessun compositore, si incarica, quanto lui, a smentire questa pronta quanto indiscreta agiografia umana. Niente di più parziale, di più romanzato ed aleatorio è infatti il definire il 1791 essenzialmente come l’anno del conclusivo «Requiem»; opera struggente ed enigmatica, per di più rimasta in-compiuta: almeno per Mozart (ma anche per uno Schubert) il disordine esistenziale della vita quotidiana si incarica di scompigliare salutarmente questo appuntamento con la morte, la quale è un caso, così come la vita è una continua occasione. Ad esse è sottomessa ogni pretesa «logica» interiore della creazione.
Si vuol dire che se il 1790 era stato per Mozart l’anno nero degli insuccessi, delle incertezze, perfino dei turbamenti spirituali più funerei (espressi ad Haydn in partenza per Londra, contrattuato dall’impresario Salomon, che pensava di scritturare anche lo stesso Volfango, ma non fece a tempo), ecco che invece il 1791, l’anno di addio al mondo, si apriva sereno, così nelle circostanze creative come in quelle economiche. Gli vengono infatti commissionate le opere «Il Flauto magico» e «La clemenza di Tito» (la prima, aperta alla futura fantasia romantica, l’altra ancora consegnata al vecchio cliché dell’opera italiana), gli viene chiesta una vera inflazione di danze orchestrali e pezzi per organo meccanico, che dispiegano un clima di allegria carnevalesca, futile ed un po’ disperata. Ma proprio lui, Mozart, è sereno: l’ultimo suo «Quintetto» per archi (K. 614) è pieno di gioia fanciullesca, il sublime mottetto «Ave Verum» è tutto beatitudine pacata ed anche il celebre «Concerto» per clarinetto è ricco di luminosa dolcezza. La nascita dell’ultimo figlio Franz è accompagnata da alcuni briosi «Lieder» per bambini e vari pezzetti per pianoforte. Il passaporto a questa creazione intensa e fluida era stato proprio il suo ultimo «Concerto» per pianoforte, questo in si bemolle maggiore K. 595, terminato il 5 gennaio, con quel «Finale» così raramente allegro, fondato su un motivetto popolaresco che gli ronzava sbarazzino in testa e che torna nella canzoncina «Komm, lieber Mai» (K. 596), composta pochi giorni appresso. Lo schianto vero, l’unica modulazione tragica di quell’esistenza avviata a ricuperare un alacre ottimismo perduto negli anni precedenti, è il solo «Requiem», con l’ossessione del misterioso committente che scatena ad una tratto l’angoscia, il sospetto di veleno, la malattia finale di Mozart. È come la comparsa improvvisa del convitato di pietra, il Commendatore, che venga a riscuotere il pegno più grande allo spensierato ed irresponsabile Don Giovanni. Che tosto esce di scena.
Dunque, pressoché nulla della produzione rigogliosa e felice dell’ultimo anno di Mozart, ne fa presagire la prossima fine. Nulla, o tutto? Certo, vedendo controluce quella serenità quasi irresponsabile, certa improvvisa saggezza di vita (anche nei migliorati rapporti con la moglie Costanza), quella letizia inconsulta che; di proposito rinuncia al lamento ed al dramma, anche certa voluta ingenuità che avvertiamo nel «Larghetto» ed in non pochi altri passi di quest’ultimo «Concerto» per pianoforte, tutto ciò può anche apparire consapevolezza di congedo, disimpegno giovanile e fin sfrontato nei confronti di una fine che si avverte infallibilmente vicina. C’è chi scherza con la morte, appunto come Don Giovanni, e c’è chi licenzia, davanti alla morte, il dato troppo umano, preparandosi a salpare in assoluta quiete, in un gioco di finzioni abilissime anche con se medesimo. Ed allora, proprio la mancanza di quella tensione e di tragedia che sempre aveva insidiato la felicità del Mozart passato, ecco che ora può costituirsi a controprova di dramma: e cosi il musicista, rasserenato, compone alacremente, fin ottimisticamente, oppure leva invece tanti ormeggi?
La grandezza sterminata di Mozart sta proprio in questa sua alternativa ovvero ambivalenza spirituale, in questo suo continuo gioco di maschera che lo fa imprendibile, sfuggente, divinamente ambiguo: cosa che non sapranno più fare gli artisti romantici (escluso Schubert, ripetiamo), con quel loro ineludibile peso esistenziale che ha finito di in-oraggiare proprio la letteratura agiografica cui innanzi s’accennava: pronta a preparargli, nel 1791, solo corone di feretro, come per un personaggio d’opera od eroe ottocentesco. Proprio per questo, l’incompiuto di Mozart (il «Requiem», ma altresì il ritratto che solo gli iniziò Joseph Lang) riesce più inquietante di ogni analoga situazione romantica, sempre cosi umana, cosi cronologicamente invadente, cosi fisiologicamente indiscreta: altro di lui non sappiamo che della «febbre miliare» che gli aveva enfiate le mani e la povera grossa testa; ma poi, orgogliosamente, Mozart si sottraeva ad ogni verità di autopsia, ad ogni verifica di malattia o di veleno, confinando il suo esile corpo in una fossa comune. Assicurandosi cosi una delle ultime leggende dei tempi moderni.
Ma tutto questo discorso si conforta anche con una precisa considerazione storica. Quando il musicista si era stabilito a Vienna, nel 1781, si era affermato soprattutto come pianista; ed in poco più di tre anni (dalla fine dell’82 all’inizio dell’86} erano infatti nati ben quindici «Concerti» per pianoforte ed orchestra, coi quali aveva conquistato stabilmente i favori del volubile pubblico viennese, riuscendo altresì ad assicurarsi parecchi allievi che gli consentivano una certa tranquillità economica. A questo punto, allettanti prospettive teatrali («Le Nozze di Figaro» e «Don Giovanni») nonché la successione a Gluck come compositore di corte, gli fecero trascurare questa clientela, pronta subito a concedere i suoi favori ad alcuni pianisti virtuosi quali Kozeluch e Gelinek. Rivelatosi non più che temporaneo il successo teatrale e limitandosi l’impiego a corte alla composizione di futili pezzi di circostanza, ecco Mozart far marcia indietro, tentando senza esito di ricuperare il vecchio pubblico o di farsene uno nuovo. In questa tragica situazione di fallimento professionale, Mozart limitò la sua produzione concertistica a due opere, create per circostanze occasionali: il «Concerto» K. 537 fu infatti scritto per l’incoronazione di Leopoldo II e questo K. 595 per un concerto del clarinettista Joseph Beer. Che quest’ultima opera in si bemolle sia stata composta per un qualche dilettante si può anche arguire da alcuni suoi caratteri: le limitate difficoltà tecniche rispetto ài precedenti Concerti, la stesura rapida (fu scritto in meno di due mesi, tra il novembre 1790 ed il 5 gennaio 1791), e l’immediata pubblicazione da parte dell’editore Artaria, come già altre opere destinate ad amatori.
L’ambiguità stilistica che si diceva prima, si coglie in questo che è l’ultimo ma non certo il maggiore dei «Concerti» pianistici della maturità, ove non ritroviamo gli scatti impetuosi cosi di allegria come di drammaticità: piuttosto, questa è opera retrospettiva, priva di ardori come di tensioni, ove solo certa intima stanchezza insidia qua e là la tranquilla compostezza, ove il quasi compiaciuto ritrovar la facilità dei primi modelli consente a Mozart rarefazioni assorte, presagi di grande futuro. Caratteri, questi, che si avvertono nell’affabilità del primo tema dell’«Allegro» iniziale, dall’orchestrazione trasparente e leggera (priva di clarinetti, trombe e timpani), ove i corni, pur citando lontane scansioni sinfoniche, come quelle della celebre «Sinfonia» in sol minore, le restituiscono, nel secondo tema col suo motivo discendente subito sensibilizzato in modo minore, intonazioni incantate e leggiadre.
Orchestra Academy of Saint Martin in the fields

Tuttavia, un esame dell’organizzazione tematica di questo movimento rivelerebbe complessità inattese: per i frammenti melodici che arieggiano Lieder ad intonazione popolare, per gli echi di fanfara ripresi dalle Sinfonie «Haffner» e soprattutto «Jupiter», per certe riposte citazioni operistiche (ad es. l’aria di Osmino «Ha! Wie will Ich triumphiren» del «Ratto dal Serraglio»): a chiarire insomma i contrassegni di quel «tardo stile» mozartiano che per Robbins Landon si colgono nella passività lontana ed astrattiva del pensiero musicale e nel crescente interesse armonico. Non più drammaticità, quindi, ma rarefazione: ove la leggiadria viene dalla melanconia retrospettiva restituita ad una serenità rassegnata, a stabilire un «puzzle» complicato di citazioni che significa sincretismo riassuntivo. Né il gioco insistito delle pause accresce di tensione questo tessuto discreto, né incrina siffatta compiutezza formale. Anche il pianoforte, riprendendo con belle modulazioni i temi, abolisce il virtuosismo per peregrinazioni non più che vaghe, per accentuazioni intime ma sempre saggiamente calibrate. Tale tendenza alla semplificazione si avverte ancor più nella ripresa pianistica del secondo tema, ricco di scansioni tipicamente austriache, ad esempio per la presenza di accenti di corale, affidati ai fiati. Sono tutte modulazioni inquietanti ma mai inquiete, a sfondo cameristico (come poi nel «Concerto» per clarinetto): ed allora ecco che il Romanticismo si fa ambiente vicino, in questo gioco di attenuazione dei temi maggiori e di accentuata pregnanza degli incisi minori. Anche la cadenza (originale di Mozart) è semplice e raccolta, prima della chiusa orchestrale che congeda la musica quasi con un inchino, provvisoria conclusione di una scena di vita.
L’ingenuità si fa poi quasi provocatoria nel «Larghetto cantabile», ove il pianoforte ricupera cristallini echi di una qualche Sonatina. E l’orchestra, ancor più decantata nei timbri, sta pienamente al gioco, dialogando sommessa e
seguendo il solista nelle continue varianti del piccolo tema. Nella sua dimensione mnestica, questo movimento è una successione, più che di temi, di episodi sfibrati, di rievocazioni esauste, non senza certa autunnale elegia che anticipa Schubert. Ma in tale semplificazione appare in tutta evidenza la sfinge mozartiana e scompare invece il dèmone; non solo, ma in questa nuova dimensione spiritualmente e temporalmente distaccata ed incantata esce la virtualità mozartiana, ovvero un dato clamorosamente moderno, una sorta di dimensione «al quadrato» capace di anticipare il «Concerto» in sol di Ravel.
Necessaria poi l’opposizione di un Finale che colmi con l’utopia pastorale del ritmo di caccia questo solco aperto sulla vita che dilegua. L’«Allegro scherzando» conclusivo è poco vivace ma in cambio molto popolaresco (il tema a rondò già dicevamo che è fondato sulla canzoncina «Sehnsucht nach dem Frühling»), quasi un ricordo a danza, che chiarisce la dimensione retrospettiva di tutto il «Concerto». Anche qui, la matrice classica pretende porti futuri, per poco che si noti l’analogia tra la ripresa orchestrale e l’attacco del «Finale» del secondo «Concerto» di Brahms; anche qui Mozart dispone di materiali esperiti innanzi ma come decantati ed attenuati di forza, pur in decorso a tratti fluente. Più vivace ed in pretto clima di sonata il secondo tema, che il pianoforte appena concita nella cadenza, di chiara anticipazione beethoveniana. Infine, il contesto si ricompone ed il solista chiude dimesso, laddove anche la resa orchestrale è consegnata all’amabile discrezione.
Un congedo senza addii, quindi, quale si avverti alla prima esecuzione di quest’opera a Vienna, il 4 marzo 1791, in un concerto organizzato dal clarinettista Joseph Beer nel salone di una casa situata, quasi simbolicamente, nella Himmelpfortgasse: la via alla Porta del Cielo.