Bela Bartok

Concerti per pianoforte e violino

Questi Concerti sono stati registrati tra il 1976 e il 1983, periodo in cui la DECCA viveva il momento più alto del suo sviluppo. Sir Georg Solti (1912 – 1997) e Béla Bartók (1881-1945) erano entrambi ungheresi. Generalmente Bartók è visto come uno dei grandi compositori della musica del XX secolo e fu il maestro di pianoforte di Solti negli anni trenta, il quale affermò nel 1987: “nella mia vita ho avuto la fortuna di incontrare molti grandi musicisti, compositori, direttori d’orchestra, pianisti. Ma se guardo indietro alla mia lunga vita fino ad oggi e mi chiedo quale sia il musicista che ammiro di più, è a Bartók che penso”. Solti ha amato questa musica, ma si ricordava anche di come a volte le partiture del compositore non venivano accolte molto positivamente, soprattutto in riferimento a quella degli anni trenta. Nelle sue memorie raccontava che aspettava la prima di una nuova composizione di Bartók a Budapest nel 1938, dove avrebbero suonato lui e sua moglie. Quando il pezzo finì, la maggior parte del pubblico rimase in silenzio, poi ci fu qualche applauso sbrigativo. Solti disse di essersi sentito triste e imbarazzato per Bartók.
Vladimir Ashkenazy è un solista splendido e la sua esibizione è energica ed incisiva. Kyung Wha Chung esegue un’esibizione appassionata dei due entusiasmanti Concerti per violino. Bartók compose il Primo concerto per violino nel 1908 e il Secondo nel 1938. Il grande virtuosismo di Chung sembra per lui naturale. Registrazioni effettuate dal 1977 al 1984 e
rimasterizzazione effettuata nel 2003. Altamente raccomandato.

Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 Sz 83

Bartók è una personalità di spicco nel panorama della musica del Novecento e la sua ricerca artistica ha una originalità che gli deriva dalla estrema mobilità e variabilità tematica e dall’uso di accordi dissonanti di gusto espressionistico, rielaborati dal materiale folclorico magiaro e balcanico, in funzione anche di contestazione della tradizione “colta” europea. Egli stesso nella sua autobiografia ha spiegato il significato e il valore dello studio e della scoperta “in forma scientifica” della musica contadina della sua terra, che lo «portò decisamente all’emancipazione dallo schematismo dei sistemi allora in uso, basati esclusivamente sui modi maggiore e minore».
I musicologi dividono per comodità critica di analisi musicale in tre periodi la produzione bartokiana, comprendente opere teatrali, balletti, pantomime, poemi sinfonici e rapsodie, pezzi concertanti, pianistici e corali, musiche da camera varie e quartetti e suites, senza contare le numerosissime raccolte di melodie, canzoni e danze ungheresi, rumene, serbe, croate, slovene, boeme, bulgare e greche. Nel primo periodo si avverte l’influenza impressionistica e debussiana, oltre alla presenza di ritmi e danze di derivazione popolare e nazionalfolclorica. In tale ambito vanno collocati il poema sinfonico Kossuth (1903), ispirato alla lotta dell’eroe nazionale ungherese contro gli Asburgo, la Rapsodia op. 1 e i Tre canti popolari ungheresi (1907), i pianistici Dieci pezzi facili, le Quattordici bagatelle op. 6 e il Quartetto n. 1 op. 7 per archi (1908), oltre alle Due elegie, alle Due danze romene, al celebre Allegro barbaro e all’opera in un atto Il castello del principe Barbablù: l’uno e l’altra, l’Allegro e Barbablù, recanti la data del 1911, anno nel quale si esauriscono le ultime fiammate impressionistiche del musicista transilvano, che mostra peraltro una evidente preferenza per i ritmi irregolari e le modulazioni sia impetuose che cantilenanti dell’antico canzonismo popolare.
Il secondo periodo di Bartók, quello espressionistico, è compreso nel decennio della prima guerra mondiale e dei successivi rivolgimenti politici europei. Viene avviato con la Sonatina per pianoforte (1915), trascritta per orchestra nel 1931 con il titolo di Tre danze transilvane e si amplia e si consolida con il balletto Il principe di legno, presentato nel 1917 all’Opera di Budapest dal direttore d’orchestra romano Egisto Tango, e con l’altro balletto ben più famoso Il mandarino miracoloso, composto nel 1918-’19.

Béla Bartók con la seconda moglie Edith Pastory

E ancora vanno citati per le esperienze atonali e politonali il Quartetto n. 2 op. 17 per archi (1915-’17), la Suite op. 14 per pianoforte (1916), le due Sonate n. 1 e n. 2 per violino e pianoforte (1921-’22), senza voler dimenticare i Quartetti n.
3 e n. 4 per archi (1927-’28), che insieme al Primo e al Secondo Concerto per pianoforte e orchestra, rispettivamente del 1926 e del 1930-’31, lasciano intravedere un richiamo a modelli neoclassici e di gusto bachiano, anche se intesi con sensibilità moderna. Nel pieno di questa stagione espressionistica gravi avvenimenti incisero nella vita di Bartók: dalla caduta dell’impero asburgico, in seguito alla quale il musicista, con Erno Dohnànyi, Kodàly e altri aderenti al governo popolare di Bela Kun, costituisce una specie di direttorio inteso a rinnovare le istituzioni musicali d’Ungheria, al crollo dello stesso Bela Kun, che portò all’estromissione di Bartók dal vertice dell’ambiente artistico budapestino e al suo isolamento e alla sua crisi familiare con il divorzio dalla moglie Marta Ziegler e il secondo matrimonio con una giovane allieva, Edith Pastory, eccellente pianista, che lo spinge a riprendere la carriera del concertista e a farsi valere anche sul piano internazionale, fuori dei confini ungheresi, propiziando l’avvento del terzo periodo creativo, il più importante di tutti, generalmente collocato fra il 1934 e il 1939, allorché vengono alla luce, dopo la cantata profana I nove cervi fatati, del 1930, improntata ad un nobile impegno civile il Quartetto n. 5 per archi (1934), la Musica per archi, celesta e percussione (1936), la Sonata per due pianoforti e percussione (1937), il Concerto per violino e orchestra (1937-’38), il Divertimento per archi (1939), contemporaneo al Quartetto n. 6 pure per archi, ultimo della serie iniziata più di trent’anni prima.
A questi lavori si aggiungono come ultimo messaggio della creatività di Bartók la Sonata per violino solo scritta su richiesta di Yehudi Menuhin e il Concerto per orchestra, ambedue del 1943-’44, il Concerto per viola e orchestra (1945) e il Terzo concerto per pianoforte e orchestra, dello stesso anno, lasciati incompiuti dal musicista stroncato dalla leucemia a New York il 26 settembre 1945 e morto in povertà, tanto che le spese dei funerali furono sostenute dalla Società americana per i diritti d’autore.
Il Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra fu scritto da Bartók tra l’agosto e il novembre del 1926 e la prima esecuzione ebbe luogo il 1° luglio 1927 a Francoforte con l’orchestra diretta da Wilhelm Furtwaengler e lo stesso autore al pianoforte, senza grande successo per lo stile essenzialmente ritmico e tagliente affidato alla parte del solista, lontana da qualsiasi abbandono melodico e di stampo romantico. Nella struttura e nel linguaggio tale Concerto risente una certa influenza del Concerto per pianoforte e orchestra a fiati composto nel 1924 da Stravinsky: infatti il discorso musicale punta in prevalenza sui fiati e sulla percussione e presenta un carattere rapsodico ed estremamente vario nella tessitura timbrica e ritmica. Una pulsazione secca e precisa si avverte sin dall’Allegro moderato, in cui il pianoforte si esprime con sonorità nette e ben marcate, secondo una concitazione vivace e senza respiro, sorretta da una solida tessitura strumentale. L’Andante del secondo tempo è caratterizzato da una progressione insistente e ripetitiva indicata dal pianoforte e rafforzata in un rapporto dialogante sempre dai fiati e dalla percussione. Si respira un’atmosfera di marcia funebre e alla fine tutto si dissolve tra accordi sfumati e delicatamente pensosi. L’Allegro molto del terzo tempo si snoda tra brillanti sfaccettature ritmiche e festosi accenti folclorici, con timpani e batteria dialoganti con il pianoforte, che assume un ruolo di travolgente e serrato virtuosismo, quasi a richiamarsi in un certo senso alla migliore tradizione dei concerti per strumento a tastiera e orchestra.

Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 Sz 95

Soprattutto nei primi anni della sua carriera internazionale Bartók praticò il pianoforte sia come virtuoso sia come insegnante, avvalendosene spesso anche nella sua opera creativa in funzione solistica. Il binomio compositore-pianista, dopo il sensazionale esordio con il Primo Concerto per pianoforte e orchestra, tenuto a battesimo a Francoforte sul Meno da Wilhelm Furtwängler nel 1927, si ripeté pochi anni dopo con un Secondo Concerto, composto tra il 1930 e il 1931 ed eseguito per la prima volta il 23 gennaio 1933 sotto la bacchetta di Hans Rosbaud, sempre a Francoforte e sempre con l’autore al pianoforte.
Opera della piena maturità artistica, esso indica un notevole mutamento di rotta rispetto al radicalismo fortemente innovativo del lavoro precedente. Pur se vi permangono alcuni tratti specifici, individuabili nel serrato impulso ritmico che lo percorre da un capo all’altro, nella sicura e audace scrittura polifonica e orchestrale, nella sensibilità timbrica di un pianismo ricco e fantasioso, il gesto espressivo si fa più composto ed essenziale, traendo un ordine unitario dall’equilibrio e dalla spiccata personalità espressiva degli elementi tematici. Anche dal punto di vista formale il profilo si orienta su una maggiore chiarezza e simmetria; la struttura in tre tempi si riverbera qui in un’ulteriore tripartizione del tempo centrale, ma a termini invertiti: due sezioni in tempo “Adagio” incorniciano al centro un “Presto”, con funzioni di scherzo. Nei due tempi esterni, in tempo “Allegro”, la prospettiva tonale si stabilizza attorno all’asse di sol, mentre la scrittura si arricchisce di frequenti episodi contrappuntistici.
Nel primo movimento l’orchestra è rappresentata dai soli fiati, legni ed ottoni, unitamente alla percussione. L’inizio si presenta tanto agile e mosso quanto denso e complesso. Vengono enunciati dapprima, sovrapposti, due temi: uno ritmico di accordi, al pianoforte; l’altro di fanfara, quasi con carattere di motto, agli ottoni, presto coinvolto in capriccioso sviluppo tra le varie sezioni dei fiati. Dopo un serrato canone a cinque, condotto su un clamoroso sfondo pianistico di veloci semicrome, viene introdotto dal clarinetto un nuovo tema, inarcato su una linea fittamente ondulata, che presto svelerà un pretto carattere ungherese.

Vladimir Ashekenazy

Su questi elementi e su altri più o meno palesemente da essi dedotti si svolge la fitta e lucente trama di un procedere orchestrale pregnante e concettoso, al quale ora consente, ora si contrappone l’ostinata, altisonante ritmica pianistica. Alla fine, una cadenza del solista porta alla ripresa riassuntiva e semplificativa delle idee svolte, e quindi speditamente alla conclusione franca e calorosa.
Gli archi, che avevano taciuto durante tutto il primo movimento, sono i protagonisti dell’ “Adagio”, con calcolata preparazione del nuovo clima espressivo. Su un tessuto sonoro vaporoso e freddo, questi svolgono una lunga frase, come di corale; il pianoforte risponde sostenuto da qualche sommesso rullo di timpano: l’alternanza dialogica dei due elementi si diffonde nella atmosfera estatica e rarefatta di una evocazione spettrale, inquieta, che improvvisamente si sospende. Attacca l’episodio centrale, “Presto”, dominato dal virtuosismo toccatistico del pianoforte: un lieve turbinio di note, commentato da isolate notazioni orchestrali, in un ambiente sonoro fantastico, irreale. Pochi arpeggi evanescenti congiungono questo episodio alla ripresa dell”`Adagio”. Alla fine, dopo un tragico grido del pianoforte, quasi urlo nella notte, sulla persistenza ossessiva di un suono di timpano perduto nello sfondo dei bassi orchestrali gli archi riprendono un’ultima volta il loro tema iniziale. Una breve, dolcissima risposta del pianoforte, e il pezzo si chiude, trasfigurato.
Il terzo movimento, “Allegro molto”, è avviato dal pianoforte: un arpeggio ascendente, cui segue, tra un fatidico martellare di timpani, il tema principale, aspro e barbarico. La sua vicenda, nell’alternanza con diversi e nuovi episodi, si fa veemente, incalzante, concitata. Il ritorno, in mutata veste ritmica, del tema di fanfara del primo tempo apre la via a una giubilante progressione. L’opera si conclude in un gioioso trasvolare di arpeggi, mentre l’orchestra mantiene la vigorosa scansione.

Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 Sz 119

Béla Bartók è stato uno dei massimi compositori-pianisti del Novecento, con Rachmaninoff e Prokof’ev, anzi a giudizio di qualcuno che li aveva ascoltati tutti e tre egli era il più energico, il più incisivo, il più autorevole, insomma il più grande. Nelle sue esecuzioni, non solo delle sue musiche ma anche dei classici del pianismo (Liszt, naturalmente, ma anche Zarathustra di Strauss, in una sua trascrizione per pianoforte!), il rigore tecnico e la concentrazione espressiva erano impressionanti senza che mai dessero neppure un’idea di esibizione. Si comprende, dunque, che tra i suoi lavori la musica pianistica abbia per noi oggi un carattere speciale, si direbbe biografico, nel senso che ci è lecito pensare a una naturale corrispondenza di attitudini e di forze tra il creatore e la sua creazione oggettiva, quasi che egli l’avesse sentita in sé e subito scritta senza mediazioni tecniche, cioè non solo con il suo genio creativo ma anche per la propria attitudine interpretativa: e infatti Bartók era un interprete eccelso della sua musica. Lo stesso vale, è logico, per tutti i grandi compositori-pianisti, per Liszt (Chopin è isolato e unico), per Prokof’ev, per Rachmaninoff, ma nel caso di Bartók la severità dei mezzi e l’asciutto rapporto tra pensiero, contenuti emotivi, assai ricchi, e linguaggio ci suggeriscono nella sua musica per pianoforte una specie di identità tra l’artista e il suono, tra l’invenzione e l’esecuzione, o addirittura tra l’improvvisazione del grande pianista e l’elaborazione del musicista (elaborazione che poi nella realtà era accuratissima).

Edith Pastory

Anche se questa musica non è quasi mai ideata e scritta nei modi del pianismo tradizionale, ha ben poco di consueto nel lessico e nella sintassi, e dunque non è musica per pianisti (Bartók, avendo le capacità tecniche che aveva, non componeva al pianoforte), proprio per questo, ripeto, il nesso tra l’immaginazione dell’artista, la sua indole e la pagina creata ci appare intrinseco e necessario. Cittadino di un paese ‘intermedio’, l’Ungheria, Bartók col suo genio accolse in sé, elaborò, anzi conquistò due culture musicali con la loro quasi opposta natura, l’europea occidentale, e in particolare la novecentesca di tradizioni colte e individualistiche, e la danubiana-balcanica, spontanea, collettiva, rurale (che egli studiò con metodo, interessandosi anche alle culture
non europee). Furono in lui due istinti e due ‘passioni’, la sperimentazione d’avanguardia e il primitivismo, che crearono la sua personalità di artista, il suo credo poetico, il tipicissimo linguaggio e l’inconfondibile modernità del suo stile, che quasi non conosce segni di eclettismo. Insomma, il rigore, l’energia, l’originalità della musica ci arrivano come la trasposizione sonora di un ritratto, morale ma anche fisico. E questo è un carattere che appartiene tra i moderni soprattutto, direi, alla musica di Bartók e specialmente alla pianistica.
Non desta stupore, tuttavia, che uno stile così personale sia poi maturato anche sottraendosi allo sviluppo comune della musica radicale. E sebbene tra il 1910 e il ’35 circa egli abbia sperimentato ascetismi espressionistici (per esempio, il Terzo Quartetto e il Quarto) e aggressività barbariche nelle sue composizioni più avanzate, Bartók non fu mai un artista astratto. Anzi, col tempo e con i sovvertimenti politici e sociali egli, antifascista convinto, si esiliò prima dall’Ungheria, poi dall’Europa trasferendosi negli Stati Uniti: e nell’ultimo decennio della sua vita la sua musica, per il bisogno, si direbbe, di parlare a tutti, di contrastare la storia peggiore con l’arte più umana e di poter comunicare anche in una società, l’americana, che non gli era familiare – la sua musica, dunque, divenne più semplice, più cordiale (anche nel pessimismo), più lirica. Ne è esempio significativo il Terzo Concerto per pianoforte e orchestra.
Nel passaggio tra uno e l’altro dei due Concerti precedenti, scritti molto prima, nel 1927 e nel 19339, era già evidente la disposizione a una maggiore semplicità. Nel Terzo Concerto manca del tutto il dinamismo turbolento e la tensione di molti lavori del passato, l’architettura è chiara, rigorosa, quasi ‘classica’, sostenuta dalle simmetrie costruttive (e anche da celate relazioni numeriche) che Bartók prediligeva. Perfino gli assetti tonali sono precisi e i loro rapporti evidenti.
Il primo tema dell’Allegretto lo propone, asciutto e agile, il pianoforte insieme a una quieta pulsazione dei timpani, su un brusio degli archi: da una penombra spicca la forma precisa di un cantabile popolare che via via si espande sempre più rapido e nervoso. Con ammirevole fluidità virtuosistica il pianoforte allaccia al primo il breve e brioso secondo tema (la partitura prescrive: scherzando), il cui scattante schema ritmico passa dal pianoforte a ogni settore dell’orchestra. Nello ‘sviluppo’ sembra prevalere il primo tema ampiamente rielaborato, ma tocca al secondo tema concludere gioiosamente l’Allegretto sotto un fulmineo sberleffo del flauto.
L’Adagio religioso, in forma tripartita ABA’, è una delle pagine maggiori scritte da Bartók, una meraviglia di quiete e raccoglimento. In pianissimo gli archi, sostenuti dal clarinetto, cantano con grande respiro un tema polifonico, al quale risponde, dopo un breve silenzio, il pianoforte con un corale di accordi solenni e fermi che avanzano, sostano, avanzano con una calma che sembra non finire mai. Ma la pace è drammaticamente turbata (B) da singulti, scintille e bagliori, con un crescendo di angoscia che all’improvviso si estingue, misteriosamente come era apparsa. Oboi, clarinetto, fagotti riprendono il corale (A”) prima suonato dal pianoforte, in una progressione maestosa a cui lentamente partecipa tutta l’orchestra.

Béla Bartók con la prima moglie Marta Ziegler

L’Allegro vivace è nella forma del Rondò, nel quale a un tema di estrema eccitazione ritmica, tutto costituito com’è da note in sincope, si alterna un ilare disegno fugato. La bizzarria di questo movimento sta nell’intervento solistico, intenzionalmente buffonesco, dei timpani.
Bartók avviò già gravemente ammalato la composizione del Concerto, che per poche battute, le ultime quindici, non potè strumentare. Morì a New York il 26 settembre 1945 e il fedele amico e collaboratore Tibor Serly completò la poca parte mancante.

Concerto per violino e orchestra n. 1 Sz 36

Il Primo Concerto per violino e orchestra è un lavoro giovanile di Bartok riportato alla luce soltanto recentemente. Esso fu composto dal musicista fra il 1907 e il 1908 e fu dedicato alla violinista ungherese Sten Geyer, nelle cui mani il manoscritto rimase, mentre l’opera non veniva registrata né nel catalogo bartokiano compilato da Kodaly, né in quello compilato dal Dille e riveduto dallo stesso Bartok. Dopo la morte della Geyer, il Concerto è riemerso ed è stato eseguito per la prima volta il 30 maggio 1958 al Festival bartokiano di Basilea sotto la direzione di Paul Sacher e con la partecipazione solistica di Hans-Heinz Schneeberger. Oscillante fra un estremo cromaticismo e il caratteristico diatonismo a base modale di cui Bartok si varrà abbondantemente in seguito, il Concerto consta di due tempi: un monotematico Andante sostenuto di introduzione ed un esteso Allegro giocoso rapsodicamente intramezzato da episodi di andamento più lento (Meno allegro e rubato – Poco più sostenuto – Molto sostenuto). Il materiale del primo tempo fu in seguito utilizzato da Bartok per il primo dei suoi Due Ritratti.

Concerto per violino e orchestra n. 2 Sz 112

Preceduto da un Concerto n. 1 per violino, scritto trent’anni prima per Stefi Geyer, in due soli movimenti, e pubblicato come opera postuma Sz. 36, il Secondo Concerto Sz. 112 inaugura il terzo periodo dell’opera creativa di Bartók, periodo caratterizzato da una straordinaria maestria tecnica, da un’esemplare essenzialità d’espressione e dalla proporzione assoluta degli schemi formali tramite una sagace simmetria costruttiva.
Il Secondo Concerto si colloca anche negli anni in cui Bartók compose i lavori in cui si riassume la pienezza della sua maturità artistica in una sintesi creativa in cui confluirono il retaggio ideale mutuato da Bach e da Beethoven, l’influsso che su di lui aveva avuto Debussy, nonché la costante attenzione alle vicende delle avanguardie contemporanee e il modo, peculiarmente bartokiano, di intendere la tonalità, l’armonia, il contrappunto, il ritmo, anche alla luce della conoscenza del folclore ungherese e balcanico e delle esperienze conseguenti.
Determinante era stato infatti per Bartók l’insieme delle indagini esperite nella ricerca delle tradizioni contadine e folcloriche del suo paese perché l’analisi del repertorio popolare lo condusse ad assimilare caratteri melodici, armonici e ritmici del tutto estranei alle tradizioni della musica colta d’Occidente, assimilandone i connotati fondamentali in maniera da rinnovare il proprio linguaggio in una prospettiva che non coincideva né con la scelta neoclassica stravinskiana, o francese, né con l’espressionismo della Seconda Scuola di Vienna. Allo stesso tempo Bartók affermava anche una propria scelta etica e politica, in correlazione con una solidarietà morale nei confronti dei valori che egli riconosceva in una cultura, come quella popolare ungherese, differente rispetto a quella della classe dominante che era condizionata dall’influenza della cultura germanica.

Stefi Geyer

In varie occasioni nella prima metà del 1937 il violinista e compositore magiaro Zoltan Szekely, discepolo di Hubay, s’era rivolto a Bartók per chiedergli di scrivere un Concerto per violino ma, a quanto riferiscono vari passi del suo epistolario, Bartók si mostrava tutt’altro che incline al riguardo, offrendosi invece di stendere una vasta Suite in forma di variazioni. Szekely però ambiva a cimentarsi in un Concerto vero e proprio e così, cedendo alle reiterate sue istanze, Bartók si decise in proposito: iniziato in Svizzera, a Braunwald, nell’agosto 1937, il Secondo Concerto fu completato e condotto a termine a Budapest il 31 dicembre 1938.
Il Concerto per violino fu eseguito per la prima volta ad Amsterdam il 23 aprile 1939 con Székely come solista e con la Concertgebouw-Orchestra diretta da Willem Mengelberg. Già all’inizio della primavera Bartók aveva provato a lungo con Székely il Concerto, cominciando anche a curarne una versione per violino e pianoforte, pubblicata due anni dopo. Alla première olandese Bartók non potè assistere perché, dopo lunghe perplessità, s’era deciso a visitare gli Stati Uniti, già prevedendo l’emigrazione in quel paese per continuare a comporre in libertà: non da poco tempo infatti la sua produzione veniva etichettata come “arte degenerata” e la sua ferma opposizione al fascismo dilagante in Europa (ed in Ungheria con l’ammiraglio Horthy) gli aveva reso impossibile la sopravvivenza in Patria.
Nell’ottobre del 1943 però Bartók potè ascoltare il suo Concerto per violino in un’esecuzione a New York e nel gennaio del 1944, scrivendo a Joseph Szigeti, gli partecipò con le seguenti parole le sue emozioni al riguardo: “Ciò che maggiormente mi ha soddisfatto è stata la constatazione che la parte dell’orchestra non abbisognava di alcuna revisione, non era necessario che cambiassi neanche una nota o una qualsiasi indicazione espressiva. Certo, non pochi critici mi hanno frainteso e c’è stato chi ha scritto che questo lavoro non avrebbe surrogato i Concerti di Beethoven o di Mendelssohn o di Brahms…. Ma chi mai potrebbe soltanto pensare un’idiozia simile? Chi osasse volere una cosa del genere meriterebbe di essere ricoverato d’urgenza in manicomio…”
Dedicato a Székely, il Concerto è caratterizzato da un particolare virtuosismo di scrittura sia violinistica sia orchestrale: la peculiare, non meno che assoluta conoscenza delle risorse tecniche ed espressive del violino è contemperata, in questo lavoro della maturità di Bartók, da un costante riferimento al senso della misura, delle proporzioni e dell’equilibrio tra il solista e l’orchestra. Una precipua singolarità del Concerto è data dai “modi orientali” che sottendono l’invenzione melodica e si aggiungono alla varietà ritmica, da sempre una costante del compositore magiaro. E le sinuose e lunghissime linee del canto del violino si muovono con magistrale sagacia tra i più imprevedibili incastri orchestrali, partecipando ad inconsueti ed ingegnosi impasti timbrici. Per il finale Bartók, almeno stando ai suoi scritti, lascia agli interpreti la scelta tra due distinte versioni: normalmente è eseguita la seconda, in ordine cronologico di composizione, che permette al violinista di esibire il suo virtuosismo sino all’ultima battuta: tale versione fu espressamente richiesta da Székely che voleva “un Concerto, non una Sinfonia”, e Bartók, dopo qualche perplessità, accondiscese alla richiesta, vista come una concessione alla realtà della vita, pur se nel suo intimo rimase legato alla stesura originaria che faceva concludere l’opera alla sola orchestra, tra fiammeggianti glissandi degli ottoni, un Finale abbastanza consono alla sua concezione estetica.

Béla Bartók

Dalle varie fasi di realizzazione del Concerto per violino emerge un precipuo aspetto della personalità di Bartók, nella fedeltà di fondo ai suoi intenti originari: egli aveva in mente, come si è detto innanzi, di comporre una Suite in forma di variazioni ma accondiscese alla richiesta di Székely di scrivere un vero e proprio “Concerto” in ossequio ai moduli tradizionali.
Ciò nondimeno, all’interno dello schema formale tripartito, il principio della variazione domina incontrastato, permeando totalmente il secondo movimento e condizionando anche i tempi esterni, il materiale motivico del primo movimento ricompare infatti, in una forma variata, nel Finale. Uno studioso
della produzione bartokiana come Halsey Stevens ha notato che questo Concerto segna “l’approfondimento e l’esaurimento definitivo del principio della variazione, su cui Bartók non ritornerà più”. Stevens ha notato ancora “la presenza nel Concerto per violino della forma ad arco che aveva già costituito la struttura portante del Terzo Quartetto nel 1927, in cui il primo e il terzo movimento hanno in comune lo stesso materiale motivico e fungono da pilastri dell’arco la cui volta è costituita dal secondo movimento. Inoltre il disegno formale complessivo prosegue deliberatamente in una simmetrica forma ad arco anche nel Quarto e nel Quinto Quartetto, nel Secondo Concerto per pianoforte e orchestra e particolarmente, appunto, nel Concerto per violino” (1953).
L’avvio del primo movimento, Allegro non troppo, è con sei battute introduttive di arpe, pizzicato dei bassi e corno nella tonalità di si minore. L’intero tempo è costruito secondo la forma sonata, con due idee motiviche principali e diversi temi sussidiari. Il solista presenta il tema principale, una frase cantabile in tempo rubato che attinge accenti di carattere eroico. Alcuni incisi motivici di transizione conducono alla seconda idea principale, ove si fa notare una successione di dodici suoni, il cui senso in un lavoro essenzialmente tonale è stato oggetto di varie opinioni – Halsey Stevens, per esempio, ha accennato ad un probabile intento satirico. A questo tema, proposto dal solista, seguono robusti interventi dell’orchestra, sin quando il violino solista porta a termine l’esposizione con un’ampia e serena cantilena, derivata dall’idea introduttiva. Una breve sezione di sviluppo offre all’ascolto un momento assai interessante quando si ode l’inversione del primo tema principale sul trasparente, quasi diafano accompagnamento di arpa, celesta ed archi. Nella ripresa ritornano in veste differente gli spunti tematici dell’esposizione. Si perviene quindi alla cadenza, che prende l’avvio con un passaggio in quarti di tono del violino solista e, dopo un vasto svolgimento strumentale, si approda alla coda, permeata da un affabile e gradevole ritmo popolaresco.
Il secondo movimento, Andante tranquillo nella tonalità di sol maggiore, si articola in un tema con sei variazioni e una ripresa. L’intera scrittura orchestrale impone all’attenzione una particolare e delicata trasparenza, pur se un ruolo importante è affidato alle percussioni.

Sir Georg Solti

L’idea principale, in parlando rubato, appare segnato da un innocente carattere bucolico, calmo e tenero: a tale connotato si adeguano nella struttura le variazioni, differenziandosi nel trattamento strumentale. La variazione n. 1 si sostanzia in un’elaborazione del tema da parte del violino solista mentre si ode l’accompagnamento soffuso dei timpani e dei contrabbassi in pizzicato. Nella variazione n. 2 ampi incisi del tema si alternano con rapidi disegni dell’arpa sull’accompagnamento di legni e di violini, divisi in tremolo. Aspre semicrome “al tallone” del violino solista pervadono la variazione n. 3, increspandone la superficie sull’accompagnamento sommesso di legni, corni e timpani. Nella variazione n. 4 si ascolta una versione semplificata del tema nel canto degli archi nel registro più basso mentre il violino solista si scatena in un andamento rapsodico in trilli e scale; verso la conclusione, il tema riemerge in un canone multiplo, cui prendono parte, assieme al solista, viole, violoncelli e contrabbassi. Una sorta di Scherzo caratterizza la variazione n. 5, ove il solista è in primo piano sugli interventi di legni, arpa, triangolo e tamburo laterale. La variazione n. 6 prende l’avvio con una versione fantasiosamente ornata del tema, affidata al violino solista, mentre gli archi ne enunciano una più lineare in un canone a tre voci; il canto del violino solista accentua il carattere lirico mentre le voci a canone dell’accompagnamento strumentale salgono a quattro e poi a cinque.
La ripetizione conclusiva del tema è proposta un’ottava più in alto rispetto all’iniziale esposizione; a metà del tracciato musicale, il violino solista viene affiancato da tre viole sole in imitazione; infine il movimento approda alla conclusione in un’atmosfera espressiva d’estrema rarefazione sonora, su cui si
inserisce, con gli archi all’unisono, il brusco motivo introduttivo dell’ultimo tempo.

Kyung Wha Chung

Il profilo architettonico del terzo movimento, Allegro molto, di nuovo nella tonalità di si minore, riproduce nelle varie sue sezioni, quella del primo movimento, mentre sostanzialmente affine è l’impiego del materiale tematico. All’apparenza l’idea introduttiva ha una connotazione differente, con il suo carattere tempestoso, rispetto al primo tempo, ma in realtà trae origine dalla medesima matrice. L’idea principale è la stessa, trasformata e variata però nella scansione ritmica per l’apporto d’una più decisa impronta popolare. Si nota per contro una minore somiglianza fra gli accenti eroici individuabili nel primo movimento e quelli del terzo che sono marcatamente pungenti e corrosivi, e senz’altro analogo è il diffuso impiego di arpeggi. Egualmente nel profilo ritmico si differenziano i temi sussidiar! di transizione. Si rinvengono affinità e analogie pure nel materiale motivico del secondo gruppo tematico, in cui l’idea delle dodici note risulta abbellita con varie ripetizioni nel corso della frase. Nella versione definitiva, essa pure pubblicata da Boosey & Hawkes, Bartók rinunciò all’originaria sua chiusa per sola orchestra, riscrivendola su suggerimento di Székely con l’inserimento di passaggi virtuosistici del violino solista, approdando ad una travolgente esplosione di vitalismo popolare.