Ludwig Van Beethoven

Sinfonia n. 9 “Corale”

Preziosa incisione della più nota sinfonia beethoveniana eseguita magistralmente da Ferenc Fricsay sul podio dei Berliner Philharmoniker. Da annoverare nella vostra collezione. Registrazione eseguita nel 1958 e rimasterizzazione effettuata nel 2001. Altamente consigliato.

Sinfonia n. 9 in re minore, op. 125 “Corale”

Per quanto qualche abbozzo rudimentale della «Nona» rimonti al 1815 (in un quaderno di tale anno accanto ai definitivi nuclei tematici della «Sonata in re maggiore op. 102, n. 2 per violoncello e pianoforte» figura un embrione di fuga, il cui germe si convertirà, più tardi, nel tema dello «Scherzo» della sinfonia corale) essa non fu strutturata, nell’attuale forma, che nel 1823, ricevendo gli ultimi ritocchi nel febbraio del 1824. La prima esecuzione ebbe luogo, in Vienna, al teatro della «Porta di Carinzia», il 7 maggio 1824, sotto la direzione di Umlauf, affiancato da Beethoven, già sordo e malaticcio, essendo interpreti, nel Finale, il soprano Enrichetta Sontag, il contralto Carolina Unger, il tenore Haitzinger e il basso Seipelt. Il successo fu strepitoso, ma gli incassi irrisori senza la minima possibilità di alleviare la miseria del maestro.
La Nona sinfonia per ampiezza di forme, precorritrici di nuovi climi musicali, per vigore e gigantismo d’ispirazione, per l’attitudine dello spirito beethoveniano che in essa si solleva in un’atmosfera di sovrano distacco da tutto ciò che è individuale e contingente, s’incurva, realmente, come è stato asserito, come cupola gigantesca sulle ampie navate delle sinfonie precedenti. Tale immagine è efficacemente esatta, solamente se assunta come espressione della preminenza della «Nona» sulle consorelle, ma distoglierebbe la mente dalla vera comprensione del capolavoro, se venisse intesa quale simbolo di elemento conclusivo di tutto l’immenso complesso musicale beethoveniano.
La «Nona», invero, a giudizio dei critici più sensibili ed avveduti, non rappresenta, come afferma il Mila «il coronamento di opere precedenti», ma appare foriera di nuovi regni dell’espressione musicale che avranno ripercussioni non lontane nella produzione sinfonica di Mahler e Bruckner. L’individualismo macerato e dolente del Maestro cede, nella sinfonia, a sentimenti e moti dell’animo, assunti in zone transterrene dove imperano, solamente, valori di modulo universale o religiosi.
Camille Mauclair afferma che «La messa in re» e la «Nona» sono, in tutta l’opera di Beethoven i due conflitti del suo genio con l’incommensurabile», rappresentando le due composizioni «due momenti ciclopici ed eccezionali» per cui «un titano è uscito dall’umanità per fare un passo più avanzatato verso l’Enigma, straordinario, illimitato dell’universo» ed elevandosi «allo smisurato, verso una religione a cui nessun capolavoro umano oserebbe ambire».
I quattro tempi della sinfonia non vanno considerati staccati, ma intimamente collegati, quasi quattro momenti dello spirito umano, inconcepibili senza la dialettica dei rimandi e delle fecondazioni reciproche. Allo stato d’animo tragico ed appassionato corrisponderebbe — secondo il Biamonti — I’«Allegro non troppo, un poco maestoso », al «molto vivace» un momento fantastico e mutevole. L’«Adagio molto cantabile» sarebbe l’espressione di uno stato dell’essere contemplativo ed estatico, mentre l’intervento della voce umana, attraverso la concretezza della parola darebbe sfocio alia gioia, intesa come vincolo ed affratellamento universale tra gli uomini. È noto che l’introduzione della voce umana non ha trovato consenzienti tutti gli uomini di musica. Riserve sull’ultimo tempo furono avanzate dal nostro Verdi e — ciò che è tutto dire — da Mendelssohn che, per quanto di origine ebraica, era munito di sacro ossequio verso tutto quello che era germanico e, più particolarmente, per tutto ciò che apparteneva al regno della creatività beethoveniana. Più d’un critico parlò di forzatura delle voci, trattate strumentalmente (lo stesso Maestro aveva confessato che l’apparizione d’ogni idea musicale assumeva, immediatamente, nella sua fantasia veste strumentale) e pare che il Maestro non fosse rimasto totalmente soddisfatto della sua innovazione se lo Czerny e Sonnleitner assicurano che il Maestro, anche dopo l’esecuzione del 1824, pensava di chiudere la «Nona» con un Finale puramente strumentale.

Ferenc Fricsay

Il primo tempo, «Allegro, ma non troppo, un poco maestoso» s’apre con le famose quinte vuote sullo sfondo, in pianissimo, di arpe e corni che sembrano provenire da un mondo vacuo ed amorfo (a Nietzsche suggerivano l’immagine del caos primigenio). A poco a poco, quasi con sforzo doloroso che potrebbe ricordare, per analogia, quello, titanico dei prigioni di Michelangelo per sfuggire all’amplesso bruto della materia informe, le sonorità, attraverso un crescendo, si determinano, con foga rapinosa, quasi a vendetta della faticosa gestazione, nell’aspetto preciso del tema principale in re minore. Siffatto tema, gravido di ribellione e sfida contro un destino tragico, è destinato a signoreggiare tutto il primo tempo. Dopo una parentesi, caratterizzata dal fitto divincolio di sonorità dolorose, riemergono le quinte spettrali con i loro guizzi da fuoco fauto, che richiamano per l’equilibrio della dialettica fonica, la riapparizione dell’indomito e ribelle tema principale. Durante lo sviluppo, momenti di mortale angoscia s’alternano a impeti di volontà di resurrezione con interposti, sui legni, frammenti di motivi improntati a pietà consolatoria per il miserabile destino degli uomini. Segue una perorazione in cui spicca l’inesorabile «ostinato» degli archi cui s’innesta, concludendo il primo tempo, il parossistico martellamento del tema fondamentale.
Il secondo tempo, «molto vivace», è uno scherzo che trabocca, con una carica di propulsione ritmica incontenibile, dagli archi ai timpani, martellato all’infinito dalle varie famiglie di strumenti. Siffatto tema viene travolto nella ridda d’una immensa fuga, rianimata, quando a quando, nel suo impulso motorio senza requie, dai sussulti esplosivi dei timpani.
>Emerge dal tessuto sonoro un sanguigno motivo paesano, tipico d’una kermesse da villaggio (vien da pensare alle danze scatenate e grottesche di contadini di Breugel il vecchio), finché l’inesausta vitalità ritmica precipita nel vortice di un «Presto» che «ne scarica quasi istantaneamente la forza viva, per introdurre — nota il Biamonti — nell’atmosfera di assoluta limpidità» del Trio che evoca, con le sue preziosità, incanti di paesaggi agresti e di pace rasserenante.
Il bacchico impulso ritmico si rigenera, ancora una volta, spazzato via da un’improvvisa interruzione con la quale il secondo tempo è concluso. Il terzo tempo, «Adagio molto e cantabile» ci trasporta, addirittura, in un’atmosfera trascendentale, remota dalla contingenza terrena; qui l’ispirazione fluisce allo stato naturale, purificata da ogni scoria e totalmente trasfigurata in sublime poesia. Il tempo inizia con una melodia, religiosamente raccolta, risonante, a mezza voce, sul timbro ombroso degli archi, cui fanno eco clarinetti, fagotti e corni che della melodia, però, sussurrano i soli frammenti terminali. Alla prima melodia ne sussegue una seconda, sui violini secondi e viole, dal tono più intenso e dalla linea più rilevata che esprime calma e distensione interiori, il gaudio proprio di un’anima rifugiata in zone inaccessibili ai turbamenti umani. Due tentativi in effetti di disturbo brutale (dovuti al risonare nella parte mediana del tempo di minacciose fanfare dei fiati) non riescono a dissipare l’atmosfera di orante fervore che caratterizza l’«Adagio» il cui flusso, attraverso libere variazioni dei due temi, continua ininterrotto fino alla smorzatura pacata della chiusa. Poche misure precipiti ed esplosive dei fiati e timpani, nel Finale, fanno da introduzione a un recitativo dei contrabbassi e violoncelli cui rispondono alcune battute riassuntive dei tre tempi precedenti, respinti, impetuosamente, ogni volta, dalla frase perentoria degli archi bassi. Sugli stessi contrabbassi e violoncelli, risuona, sussurrato a mezza voce, quasi per essere più intimamente assaporato, il tema della gioia, spinto fino all’incandescenza, specie quando si ripercuote sui fiati, nella successiva elaborazione orchestrale. Nel silenzio dell’orchestra, in una atmosfera gravida d’attesa, tuona, poi la voce del basso invitante a «nuovi e più gioiosi accenti» espressi subito dopo, sulla stessa linea melodica degli archi bassi, con le strofe dell’ode di Schiller, «Alla gioia», invocata come liberatrice di ogni angoscia, sollievo ad ogni male e quale divina effulgurazione dell’Eliso in terra. Siffatte strofe vengono, poi, riprese dal coro e dal quartetto di voci con impeto sempre più ebbro e trascinante, seguite da un intermezzo strumentale, «Allegro assai vivace, alla marcia» risonante sui fiati, sostenuti dai ritmi esotici «turchi» di grancassa cimbali e triangoli sul cui motivo la voce del tenore inneggia alla fraternità degli uomini, invitati, in un raptus d’entusiasmo, a percorrere il cammino della vita, come «gli astri percorrono le smisurate aree dei cieli».
All’intermezzo s’innesta il coro con le stesse parole.
Dopo un dinamico episodio strumentale e dopo una nuova ditirambica scansione delle prime strofe dell’ode, il coro, dimettendo la foga irrefrenabile dei suoi accenti, si distende in suoni allungati, esprimenti prosternazione adorante sulle parole « – Siate avvinte o turbe – Amore abbraccia il mondo intero – Prosternatevi o turbe – Senti il Creatore – O Mondo? Cercalo sopra la volta celeste – Egli deve abitare sopra le stelle».
L’ulteriore sviluppo ed articolazione del «Finale» è affidato alle entrate dei solisti e dell’insieme corale che, ora, s’abbandonano al vortice di un delirio collettivo, ora s’allentano in momenti di rapita contemplazione finché, dopo un improvviso blocco su una cadenza, le voci, «stringendo il tempo», sfociano, in un avvitamento mulinante, nel «Prestissimo», la cui veemenza, esaltata dal tumulto conclusivo dell’orchestra, potrebbe, veramente, far pensare — come qualcuno ha detto — ad un rito d’iniziazione bacchica.