Ludwig Van Beethoven

Sonaten

“Il favore di cui godono queste Sonate è dovuto certo alla predilezione del pubblico per i titoli; infatti le Sonate con titolo sono tra le più popolari”. Nelle sue osservazioni sulle Sonate per pianoforte di Beethoven, così il pianista Edwin Fischer richiamava l’attenzione su un fenomeno che dagli esperti viene per lo più considerato – ingiustamente – con ironia o con disprezzo. Infatti i titoli procurano una notevole chiarezza ed impediscono quell’eventuale confusione che potrebbe generarsi ad un’arida menzione dei numeri d’opera. Il tutto diviene discutibile solo quando i titoli non siano stati dati dallo stesso compositore. I titoli delle tre Sonate qui registrate da Emil Gilels hanno un’origine differente: se le denominazioni “Grande Sonate Pathétique” per l’op. 13 e “Sonata quasi una fantasia” per le due Sonate op. 27 risalgono a Beethoven, l’appellativo “Chiaro di luna” per l’op. 27 n. 2 è di Ludwig Rellstab (1799-1860), autore di romanzi e di scritti di argomento musicale.
“Patetico” è un termine caduto per noi in discredito, soprattutto per gli atteggiamenti vacui di una teatralità che ha avuto le sue origini nel secolo 19o e che poi ha improntato di sé anche l’estetica ufficiale tedesca negli anni Trenta e Quaranta di questo secolo.
La “Patetica” di Beethoven, compiuta negli anni 1798/99, è la sintesi di momenti sublimi (per così dire oggettivi) e di elementi personali (soggettivi) – la sintesi che contraddistingue anche le altre composizioni in do minore di Beethoven, come la Quinta Sinfonia e le Sonate op. 10 n. 1 e op. 111.
Lo “stile sublime” si rivela nei ritmi puntati dell’introduzione al primo movimento, che richiamano alla memoria gli inizi tipici delle Ouvertures in stile francese dell’età barocca. I tratti soggettivi che spiccano soprattutto nelle parti in allegro del primo movimento affascinarono i contemporanei di Beethoven – prima tra tutti gli altri compositori – oppure furono giudicati negativamente e rifiutati: vi fu chi criticò decisamente quanto c’era di “ricercato” e violento in questa musica. Il flusso emozionale e costruttivo della “Patetica” si configura a grandi e chiare linee. Ai momenti così ricchi di contrasto del primo movimento fa seguito la semplice cantabilità dell’Adagio (che è stato purtroppo oggetto di numerosi arrangiamenti sentimentalistici); infine nel Rondò-Allegro ritorna il pathos del primo movimento, ma in maniera percettibilmente smorzata – solo sporadicamente si possono udire degli accenti rudi.

Emil Gilels

Già all’età di dodici anni, nel suo primo recital, Emil Gilels eseguì questa Sonata che, nonostante la sua intelligibilità emozionale, ha una tale ricchezza strutturale da mantenere intatta la sua vitalità, anche dopo uno studio di decenni.
Le “Sonate quasi una fantasia” op. 27 (1801) devono questa denominazione principalmente alla successione non ortodossa dei loro movimenti, ma anche al colorito “fantastico”, eccentrico dei singoli movimenti. Il primo movimento della Sonata in mi bemolle maggiore è vivificato dal contrasto tra l’Andante di carattere liederistico e la sezione centrale (Allegro) dalle rudi accentuazioni. Gilels ritiene che Beethoven, soprattutto nell’Andante, sia stato stimolato dalla sonorità tipica del Quartetto d’archi – il fatto che Beethoven abbia rielaborato la Sonata op. 14 n. 1 in un Quartetto indica che un simile collegamento non è affatto fuori del comune. Le figure che nel secondo movimento si incalzano indistintamente fanno pensare al mondo spirituale di E.T.A. Hoffman; la parte centrale è di una asprezza provocante e vigorosa. Dopo uno stringato Adagio appare nel quarto movimento, per la prima volta in questa Sonata, un atteggiamento energico e risoluto che poco prima della conclusione viene interrotto ancora una volta da una reminiscenza dell’Adagio.
L’associazione della Sonata in do diesis minore con il “Chiaro di luna”, per quanto discutibile, ha avuto conseguenze storiche significative. Infatti il primo movimento divenne il progenitore di tanti Notturni nel secolo 19o. Il mutamento di direzione che la figura in terzine subisce nel mezzo di questo movimento, che è come una trenodia, è avvertito da Gilels come un momento di straordinaria tensione nella assoluta regolarità che altrimenti vi predomina.
Dagli schizzi beethoveniani risulta evidente che il compositore in origine voleva mantenere anche qui la direzione ascendente all’interno delle terzine, ma poi riesaminò questo suo proposito, modificando il passaggio nella forma attuale. Il secondo movimento è stato caratterizzato da Franz Liszt come un “fiore tra due abissi”; il terzo movimento è dominato da una forza irrequieta, quasi furiosa, che è destinata al fallimento. Trenodia – idillio – furore: dietro questa successione di movimenti potrebbe celarsi un luogo topico volentieri impiegato da Beethoven in questa fase creativa – la composizione dello “stato d’animo di un malinconico”. Registrazione in DDD eseguita nel 1981. Audio eccezionale. Altamente raccomandato.

Hartmut Fladt
(traduzione: Gabriele Cervone)

Sonata per pianoforte n. 8 in do minore, op. 13 “Patetica”

Nessun dubbio che, nel frenetico lavoro di sperimentazione sulle sonorità e sulle forme pianistiche compiuto da Beethoven negli ultimi anni del secolo, la
Sonata in do minore op.13 – composta nel 1798-99 e pubblicata da Eder nell’autunno 1799 – costituisca una vera pietra miliare; essa dischiude inedite e profonde prospettive alla ricerca dell’autore.

Principe Lichnowsky

Vi troviamo innanzitutto la prima manifestazione matura di quello che è un nuovo orientamento sulla concezione del genere della»Sonata; l’opera 13 è infatti in soli tre movimenti; ma, a differenza di altri precedenti esempi di
Sonate tripartite – ovvero le prime due Sonate dell’opera 10 – in questo caso l’abolizione del Minuetto/Scherzo non avviene per ottenere un lavoro di dimensioni contenute, ma per donare una maggiore coerenza e coesione a un lavoro di vaste proporzioni. La Sonata tende dunque a qualificarsi sempre più come un tutto organico, ad acquisire un profilo personale e inconfondibile. Nel caso dell’opera 13 a definire questo profilo c’è anche un nomignolo, per una volta non apocrifo ma voluto dallo stesso autore: “Patetica”, termine che allude alla categoria del pathos come tensione tragica, così come era stato descritto da Schiller in alcuni saggi del 1792-93. È appunto questa tensione tragica la protagonista della Sonata, manifestata nel movimento iniziale secondo differenti procedimenti; vi è innanzitutto una introduzione lenta, un Grave di undici battute caratterizzato dal timbro scuro del registro medio-grave della tastiera, dal ritmo giambico, ripreso da appassionate perorazioni in ottava; questa introduzione subisce una singolare vicissitudine strutturale; riappare cioè, in forma abbreviata, nel corso del movimento. L’Allegro di molto e con brio che succede senza soluzione di continuità rappresenta l’esplosione del conflitto già prefigurato (il tema iniziale infatti deriva da quello delll’ introduzione); la contrapposizione fra temi, già peculiare di altre Sonate, acquista qui un preciso senso, quello del conflitto fra due opposti principi, descritti di Schindler – il fedele amico e confidente degli ultimi anni del maestro – come il principio che prega (“das bittende”) e quello che contrasta (“das widerstre bende”); qui esposti peraltro in ordine inverso. Ma verso la tensione tragica convergono anche tutte le “tecniche” messe il campo dall’autore: il tremolo del basso nel primo tema, il brusco salto di registri della mano destra nel secondo tema e le continue modulazioni di questo, la contrapposizione serrata dei due temi nello sviluppo, la fulminea conclusioni dopo una ultima riapparizione del Grave iniziale.
Di fronte a tanta temperie, più dimessi appaiono gli altri due movimenti. L’Adagio cantabile è una pausa contemplativa, avviata da una tornita e serena frase melodica, con una plastica successione dei diversi periodi e una strumentazione finissima. Il Rondò torna all’ambientazione del primo movimento con una “corsa tragica” scandita dalle incalzanti riapparizioni del refrain; l’idea fissa del tema principale acquista dunque un carattere ineluttabile, secondo una prospettiva che Beethoven saprà poi magistralmente sviluppare in molti altri lavori cameristici e sinfonici.

Sonata per pianoforte n. 13 in mi bemolle maggiore, op. 27 n. 1

La Sonata op. 26 e le due Sonate op. 27, composte fra il 1800 e il 1801, appartengono al momento in cui Beethoven esce dagli schemi consueti per sperimentare forme nuove di organizzazione della Sonata.

 

Principessa von Liechtenstein

Lo shock che questa avventura poteva rappresentare per il pubblico era tale da indurre Beethoven a intitolare Sonata quasi una fantasia l’op. 27 n. 1 e la sua sorellina, l’op. 27 n. 2. Il titolo insolito si addice in verità più alla prima che alla seconda delle due Sonate. Nell’op. 27 n. 2 manca in pratica il tradizionale primo movimento in tempo mosso, ma i tre movimenti restanti sono normali e indipendenti.
Nell’op. 27 n. 1 i quattro movimenti sono collegati e il primo è un tema con variazioni in tempo moderato, che comprende due intermezzi, il secondo dei quali in tempo mosso (si tratta cioè, in pratica, di un Rondò un po’ anomalo). Il tema, semplicissimo, popolaresco, è seguito dal primo intermezzo e da una variazione.
Il secondo intermezzo, più ampio e in una tonalità inattesa, irrompe come una ventata d’aria impetuosa, interrompendo l’andamento un po’ cantilenante del tema principale. Seguono un’altra variazione ed una brevissima coda. Il secondo movimento è uno Scherzo, misterioso, sfuggente, con il suo bravo “Trio”, la parte di mezzo, bizzarro ed umoristico.
Il terzo movimento, lento e molto ornato, serve da introduzione al finale e verrà ripreso prima della conclusione.
E il finale, sebbene in forma di primo movimento di Sonata, è nettamente neobarocco, con giochetti tecnici ispirati alle caratteristiche del clavicembalo con due tastiere. Sperimentazione del nuovo? Sì, ma nel senso di Verdi: “Torniamo all’antico, e sarà un progresso”. Le Sonate op. 101, 106 e 110, e le Variazioni op. 120 avrebbero poi sviluppato alla grande questo principio.

Sonata per pianoforte n. 14 in do diesis minore, op. 27 n. 2 “Al chiaro di luna”

Nel 1802, a Vienna, Beethoven dà alle stampe cinque nuove Sonate per pianoforte: le opere 22, 26, 27 n. 1 e 2, 28. Mentre la prima e l’ultima si strutturano ancora secondo gli schemi formali tradizionali, le altre Sonate se ne affrancano, manifestando una ricerca di novità che si fa addirittura esplicita nel titolo che accomuna le due dell’op. 27: «Sonata quasi una fantasia». Ma se ancora l’op. 27 n. 1 in mi bemolle maggiore coniuga l’eccezionale frantumazione agogica con un geniale ripensamento del passato, recuperando nella moderna dimensione pianistica anche certi tratti stilistici e persino tecnici che erano stati del clavicembalo e del clavicordo, la Sonata in do diesis minore op. 27 n. 2 «Chiaro di luna», nella inconsueta disposizione dei suoi movimenti, celebra invece il pianoforte – ha scritto nel 1802 la Allgemeine Musikalische Zeitung – «in ciò ch’esso ha di eccellente e di suo particolare».

Contessa Giulietta Guicciardi

E in effetti non solo la Sonata inizia con un Adagio sostenuto, ma si apre con una indicazione rivelatrice del modo nuovo di pensare il suono del pianoforte. Quando Beethoven scrive «si deve suonare tutto questo pezzo delicatissimamente e senza sordino», non dice semplicemente che il pezzo va suonato facendo uso del pedale di risonanza, ma anche che l’uso del pedale deve combinarsi con un certo modo di attaccare il tasto. La scelta, rarissima in Beethoven, della tonalità di do diesis minore, la posizione manuale eterodossa (pollice e mignolo sui tasti neri), la stessa particolare disposizione delle idee musicali che favorisce il rafforzamento di certe risonanze armoniche interne e la felicissima invenzione melodica condotta secondo libere asimmetrie, ancora una volta assai rare in Beethoven, fanno del Chiaro di luna un’opera di tale novità da giustificarne l’enorme fortuna presso il pubblico e da spiegarne, in ragione della eccezionaiità della concezione, la sua deformazione postuma in chiave di estenuato sentimentalismo. Del primo movimento della Sonata e della sua peculiare sonorità pianistica, Hector Berlioz fa cenno in un articolo del 1837 poi raccolto in A travers chants: «La mano sinistra dispiega dolcemente larghi accordi di un carattere solennemente triste, la cui durata consente alle vibrazioni del pianoforte di spegnersi gradualmente su ognuno di loro; sopra, le dita inferiori della mano destra eseguono un disegno arpeggiato di accompagnamento ostinato la cui forma quasi non muta dalla prima all’ultima battuta, mentre le altre dita fanno sentire una specie di lamento, efflorescenza melodica di questa oscura armonia». Il gentile ritmo ternario dell’Adagio trova il suo naturale respiro cantabile all’interno d’una semplice forma tripartita, A – B – A’, in cui la sezione centrale, variando il movimento delle terzine di crome dell’accompagnamento, suona come un delicato svolgimento modulante della sezione principale. La ripresa del tema avviene all’insegna di impercettibili mutamenti di luce e di una lieve intensificazione dell’espressione, mentre la breve coda conclusiva insiste sull’inciso iniziale della melodia eseguito al basso a guisa di un pedale da cui si stacca e su cui ricade per due volte il movimento delle terzine, così come si era ascoltato nell’episodio centrale.
Definito una volta da Liszt «un fiore fra due abissi», l’Allegretto in re bemolle maggiore ha le dimensioni e il carattere espressivo rasserenato di un intermezzo che, con la grazia danzante del suo tema e la simmetria della forma, sembra rievocare certo stile galante del Settecento.
Sulla fragilità crepuscolare dell’Allegretto sì abbatte invece con inaudita violenza l’impetuoso dilagare del Presto agitato conclusivo, in cui quanto di represso era nei tempi precedenti, e nell’Adagio sostenuto in ispecie, sembra erompere con un empito di rabbiosa energia. Costruito in forma-sonata, il Presto agitato si basa su due temi di carattere fra loro contrastante. Al primo tema in do diesis minore – un energico arpeggio che sale fino a schiantarsi su un accordo violentemente ribattuto – segue (sempre in modo minore) un secondo tema dal profilo ansiosamente incalzante. Tre codette portano dapprima alla ripetizione letterale dell’Esposizione, quindi allo Sviluppo, nel quale entrambi i temi vengono ripresentati e opportunamente trasfigurati.

Emil Gilels

Nella Ripresa Beethoven, fra il prolungamento del primo tema e la ripresa del secondo, omette la ripetizione del ponte modulante, sortendo l’effetto, invero mirabile, di avvicinare, fino a toccarsi, i principi opposti d’opposizione e di implorazione di cui i due temi sono espressione. Necessità retorica vuole quindi che le tre codette conducano alla sua naturale conclusione il discorso musicale. Conclusione che Beethoven però allontana con una coda estremamente audace in cui, all’ennesima violenta ripercussione dell’accordo del primo tema, la stessa materia musicale sembra frantumarsi in una impressionante serie di accordi arpeggiati di settima diminuita. La ripresa del secondo tema ha un effetto straniante e rinvia ulteriormente la conclusione del movimento. Una nuova serie di arpeggi e una scala cromatica aventi carattere di cadenza approdano a due battute con l’indicazione «Adagio», in cui il precipitoso moto del finale sembra arrestarsi, per quindi finalmente dar luogo all’ultima, impetuosa volata del tema principale, che la Sonata conclude con la perentoria violenza del suo accordo ribattuto.