Benjamin Britten

War Requiem

Quest’interpretazione del Requiem è semplicemente un tesoro. Il contributo di tutti gli artisti coinvolti nella rappresentazione è da brividi, straziante, eccitante e appassionante, a partire dal direttore Erich Leinsdorf sul podio della Boston Symphony Orchestra.

Particolarmente intensa è stata l’esibizione della soprano Phyllis Curtin. Senza segni di ostentazione o teatralità, la signora Curtin ha interpretato la sua parte con chiarezza di intenti e una tecnica vocale eccellente. Nell’ascoltatore sorgono attente riflessioni su come il pacifista Britten abbia fatto fronte al testo originale latino e come lo metta in contrasto con le parole inglesi della testimonianza del poeta Wilfred Owen.

Anche l’esecuzione del tenore Nicholas Di Virgilio e del baritono Tom Krause è molto bella ed estremamente toccante, in particolar modo il loro duetto. Nonostante le loro voci siano molto differenti in tono e stile, la combinazione dei due ha creato un timbro ricco e un veicolo complesso di comunicazione per l’arte della poesia.

Un plauso alla VAI per aver reso disponibile questa magnifica registrazione. Altamente raccomandato.

War Requiem.

Per un uomo come Britten, la cui “vita intera” di artista, come ebbe a dire, era stata “dedicata ad atti di creazione”, era inconcepibile “prendere parte ad atti di distruzione” come la guerra: la commissione del War Requiem si presentò come fattore di connessione fra queste due distanti pulsioni, con l’ovvio vantaggio che la creazione musicale doveva sì adattarsi a cantare una dimensione di annichilimento, ma aveva la possibilità di dire la sua sulla guerra e sulle sue implicazioni. L’evento doveva essere simbolico sotto tutti i punti di vista. La prima esecuzione del 30 maggio 1962 celebrava la riconsacrazione di un edificio religioso distrutto dagli eventi bellici; lo faceva poi con la presenza dei solisti Peter Pears e Dietrich Fischer-Dieskau, tenore inglese l’uno e baritono tedesco l’altro, che rappresentavano la ritrovata armonia tra Inghilterra e Germania. Sfortunatamente il soprano russo Galina Visnevskaja, che doveva incarnare anche la pacificazione con l’universo sovietico, non potè essere scritturata e fu sostituita da Heather Harper. Britten decise di affidare al coro, alla voce di soprano e all’orchestra a pieno organico la parte del testo latino tratto dalla tradizionale “Messa da Requiem”, mentre fece intonare quello di Owen alle due voci maschili accompagnate da una compagine strumentale ridotta a dimensioni cameristiche. In questo modo egli rendeva nitida e percepibile la differenza tra i due universi poetici, fattore che costituisce una delle maggiori novità del War Requiem, soprattutto lì dove si evidenzia l’affiancamento dei due livelli semantici rinnovando il rapporto tra tutti e solisti, fino a farlo diventare quasi teatrale. Infatti, nel Requiem ufficiale sembra innestarsi un altro Requiem al quale la poesia di Owen, inevitabilmente, trasfonde il suo senso critico; anzi, il testo latino e il testo inglese potrebbero essere letti in chiave conflittuale, come se offrissero due prospettive divergenti,
una eterna e l’altra secolare, sul problema della distruzione e della morte. La seconda prospettiva sembra comunque interessare di più Britten, perché al centro del War Requiem non c’è la promessa della salvezza o la consolazione della fede: c’è la guerra, con l’immensa pietà che essa genera. La partitura si apre quasi sussurrando in modo indistinto e lontano: il coro scandisce in pianissimo, quasi fosse un bisbiglio, il motto “Requiem aeternam”. Il tema enunciato dall’orchestra è simile a una marcia lenta e pesante; con essa si materializza l’atmosfera funebre della messa.

Erich Leindorf

L’entrata del coro di voci bianche (“Te decet hymnus”) tinge di purezza l’incedere mesto del tutto, simboleggiando uno stato di innocenza che sembra appartenere a una dimensione trascendente: le voci diafane dei ragazzi diventano emblema dell’incoscienza atemporale in cui le anime dei defunti sono immerse. Le campane presenti in questa sezione d’apertura anticipano quelle evocate nel testo di Owen intonato nel brano seguente (“What passingg-bells for these who die as cattle?”, “Quali campane a morto per chi muore come un animale?”). Lo scarto tra la dimensione trascendente dell’inizio e questa nuova sezione affidata al tenore è forte: nel trattamento della voce si avverte subito il passaggio da una dimensione corale sublimata a una di natura più teatrale, verosimile e quasi recitata. Nell’accompagnamento serpeggia tuttavia lo stesso intervallo presente all’inizio dell’opera, quello che in inglese viene chiamato “the bell interval” (l’intervallo della campana), ovvero il tritono. La dimensione funebre evocata dalla sonorità della campana, utilizzata in tanto teatro musicale come in molte produzioni cinematografiche, si affianca così a quella del tritono, intervallo che attraversa tutta l’opera, e che nel War Requiem è spesso lasciato allo stato di pura dissonanza, ovvero senza risoluzione armonica. Con l’uso di tale intervallo Britten intende simboleggiare l’essenza stessa della guerra, un processo le cui tensioni minacciano di trovare soluzione solo in nuovi conflitti.

Avvertiamo uno scarto notevole anche tra la fine dell’intervento del tenore e il ritorno alla dimensione corale astratta che intona il “Kyrie eleison”. Si comincia così a capire come questa strategia compositiva che alterna due piani poetici, funzioni in modo suggestivo evocando piani temporali diversi: i testi di Owen sembrano immergerci nel presente della guerra, ce la fanno vivere come se un telecronista la narrasse dal vivo; i testi latini ci portano invece in una dimensione atemporale, non umana. Nel “Dies irae” questi due piani sembrano però toccarsi: Britten non intende evocarvi il terrifico sconvolgimento che l’ira di Dio provoca, ma l’incerta e impaurita condizione di chi si trova a vivere una situazione senza scampo. La tromba del giudizio diventa così la chiamata a una rappresaglia bellica e il frammentato coro mima una folla militare incerta e dubbiosa. Ad aprire il “Tuba mirum” troviamo dei colpi che sembrano cannonate: è quello il suono della guerra, questo sì davvero spaventevole; e la morte non ne sembra poi così stupita (“Mors stupebit”).

Le trombe serpeggiano più innocue anche nella sezione affidata al baritono (“Bugles sang, saddening the evening air”, “La tromba ha suonato, rattristando l’aria della sera”), ma l’atmosfera è più tranquilla, crepuscolare. A questo momento di pace, segue l’intervento del soprano e del coro (“Liber scriptus proferetur”). Il piglio marziale che lo caratterizza costituisce però solo un sarcastico sipario alla sezione seguente, affidata al tenore e al baritono, dove il testo di Owen ricorda, con ironia macabra, come i soldati camminino a braccetto con la morte, che mai fu loro nemica (“Oh Death was never enemy of oursl”) e con profetico accento afferma: “Ridemmo, sapendo che verranno uomini migliori e guerre più grandi” (“We laughed, knowing that better men would come, /and greater Wars”). Si noti quanto complesso e intenso sia il taglio psicologico di questo passo, reso unico dalla combinazione agghiacciante di falsa goliardia e orrore.

Sopra un tessuto armonico dissonante, forse consequenziale al clima sarcastico precedente, fiorisce il coinvolgente “Recordare Jesu pie”, caratterizzato da una tenera nebulosa sonora, e sorge il minaccioso “Confutatis maledictis”, dove,
accanto alla citazione delle fiamme infernali che ricorda altri celebri Requiem, troviamo nel coro una concitazione simile al “Dies irae” precedente.

Benjamin Britten

L’immagine celeste, se non proprio celestiale, del “Recordare” e quella pittorica del “Confutatis” è seguita da quella evocata dal testo di Owen, molto più terrigna: un’arrogante mitragliatrice troneggia verso il Paradiso, quasi fosse maledizione. Tale sezione, affidata al baritono, è quasi la controparte macabra delle figure oranti presenti nel precedente “Voca me cum benedictis”. Il breve ritorno del “Dies irae”, nuovamente musicato, sembra materializzare la precedente maledizione che Owen aveva gettato sulla mitragliatrice: la speranza è che Dio possa abbatterla al suolo e mozzarle l’anima. Il pezzo corale si chiude però in modo evanescente, dando spazio a uno spigoloso e addolorato “Lacrimosa” interpretato dal soprano e dal coro. Il cielo sembra ora guardare con infinita pietà l’uomo comune che compare nella sezione successiva, dove il testo di Owen (“Move him into the sun”, “Portatelo al sole”) ci offre un’intensa visione poetica nella quale il protagonista pare contemplare in modo interrogativo l’universo. Cielo e terra sembrano qui toccarsi, anche grazie all’intervento del coro e del soprano collocato fra i versi del tenore.

Nella parte seguente del Requiem, tuttavia, essi si dividono nuovamente: la promessa di Abramo (“Quam olim Abrahae”) intonata in un clima fugato dissonante privo di gioia e solennità (una deviazione evidente rispetto alle intonazioni tradizionali), non è mantenuta: nei seguenti versi di Owen (“So Abram rose”, “Così Abramo si alzò”), affidati al tenore e al baritono, Abramo massacra suo figlio e nessun angelo ferma la sua mano. La guerra fa dunque scempio della vita, in barba alla sua sacralità e a qualunque prospettiva trascendente.

Da queste brevi descrizioni si può dedurre come Britten sia riuscito a far interagire testo e musica creando una partitura potente per impatto semantico e sonoro. Il testo liturgico entra in proficuo contrasto con le dense immagini di Owen, generando un fenomeno di rafforzamento espressivo che vede sprofondare la dimensione trascendente del divino negli oscuri abissi della storia umana. Per questo la preghiera di fede del “Sanctus” diventa grandiosa ma sconsolata, vibra in ogni dove ma sembra anche dissolversi nel nulla, e l’Agnus Dei”, che possiede una mesta linea melodica è invece cantato dal tenore su versi di Owen che possiedono tratti quasi brutali (la rima tra “priest” e “Beast”, per esempio).

Con il “Libera me” approdiamo musicalmente su un campo di battaglia. Rulli di tamburo, voci che intonano grida; il significato di questo “Libera me” è chiaro: ciò di cui l’uomo si deve liberare è la guerra stessa. Britten riesce in questa sezione intonata dal soprano e dal coro, a darci l’impressione che le voci diventino spettatori, in preda a un dolore incontenibile, della strage che la guerra provoca. Il brano inizia con un ritmo lugubre, marcatissimo, e quando la voce del soprano intona le parole “Tremens factus” il disegno orchestrale si configura come uno “scherzo” sinistro, al termine del quale Britten colloca una citazione tratta dal “Dies Irae” del Requiem verdiano.

Un ampio silenzio separa tale buia visione dalle parole dei due soldati che, nel brano successivo, si riconoscono e, chiamandosi “amici” (“I am the enemy you killed, my friend”, “lo sono il nemico che hai ucciso, amico mio”), pronunciano una parola di conciliazione che si oppone all’insensatezza della guerra. Tale parola apre nuove possibilità all’essere umano: in modo commovente e inaspettato, alla fine del War Requiem le vittime chiedono di riposare, (“Let us sleep now”, “Lasciateci dormire ora”), mentre dall’orchestra emergono i dolci timbri dei legni e dell’arpa. Ad accompagnarli nel loro ultimo viaggio sono le voci bianche, immagine di una candida purezza; dormono ora come bambini, sull’onda cullante del coro che svanisce ripetendo in pianissimo, senza orchestra, “Requiem aeternam dona eis Domine”.

Epilogo

“Non mi interesso di poesia: / il mio tema è la guerra, la pietà della guerra. / La poesia è nella pietà. […] Tutto ciò che il poeta può fare oggi è ammonire”: questi i versi di Owen che Britten mise sulla pagina iniziale del War Requiem. Essi ci dicono chiaramente che anche il soggetto della musica di Britten è la pietà verso l’uomo e, soprattutto, che l’arte può essere utile alla società. L’arte può infatti riportare alla vita le emozioni di chi è scomparso lasciandoci un messaggio, ne permette l’approfondimento, ne prolunga l’esistenza oltre la morte fisica del suo creatore.

Boston Symphony Orchestra

Il War Requiem trasforma in musica anche un nuovo concetto di patriottismo: quello che vede nella memoria della sofferenza e degli errori passati il mezzo essenziale per continuare a costruire un futuro per sé e per gli altri.

L’opera, essenzialmente anticelebrativa, vive su un piano laico, denuncia gli orrori della guerra e sembra non contenere una visione trascendente sulla realtà; tutt’al più potrebbe echeggiare l’insegnamento di Cristo, nella cui divinità Britten disse chiaramente di non credere ma il cui esempio, sostenne, sarebbe stato utile comprendere e seguire. La speranza è quella che le scintille dell’amore e dell’amicizia, da qualunque parte provengano, possano sovvertire quel tragico gioco della morte che è la guerra, rivendicando sopra ogni interesse privato le ragioni comuni della pace.