Benjamin Britten

War Requiem

Benjamin Britten oltre ad essere il più grande compositore britannico era anche un pacifista e cinquanta anni dopo la prima presentazione di quest’opera epica il mondo è ancora tormentato dalle guerre combattute sui campi di battaglia, o a scuola, nei concerti, nei centri commerciali, nelle maratone….. Tutto questo rende quest’immensa opera ancora più rilevante. Questa registrazione è un rifacimento dell’originale su vinile del 1963 e il trasferimento è eccellente. Ogni movimento di questa composizione pulsa come un cuore, come solo un convinto pacifista poteva fare. Le parole sono prese dalla Missa Pro Defunctis così come dalla splendida poesia di Wilfred Owen la cui vita finì nella prima guerra mondiale. Il The Bach Choir, la London Symphony Orchestra e Choir Melos Ensemble, Highgate School Choir, e l’organista, Simon Preston, tutti danno il massimo. Il tenore Peter Pears, compagno di vita di Britten, il baritono Dietrich Fischer-Dieskau, e il soprano Galina Vishnevskaya sono un gruppo ben selezionato e perfetto. Il finale di questa partitura è molto emozionante. In questo cofanetto è incluso un bonus con le prove di registrazione e la voce dello stesso Britten , autore e conduttore. Registrazione eseguita nel 1963 e rimasterizzazione effettuata nel 1999. Altamente raccomandato.

Benjamin Britten

Il 14 novembre del 1940 la città inglese di Coventry fu attaccata dalla Luftwaffe nazista. In una notte di plenilunio le incursioni aeree tedesche seminarono morte (1236 vittime civili) e distruzione. La cattedrale del XIV secolo simbolo della città fu colpita da 12 bombe incendiarie. Restarono in piedi solo alcune pareti annerite dal fumo. La città era stata totalmente rasa al suolo, tanto da aver dato addirittura origine al verbo “to coventrize” (passato anche in italiano: “coventrizzare”), come sinonimo di “radere al suolo con bombardamenti aerei”. Nel 1962 Benjamin Britten fu incaricato di comporre un brano per la cerimonia che segnava il completamento della nuova cattedrale, progettata da Basil Spence, costruita accanto alle rovine dell’edificio originale. La “Messa da Requiem per la Guerra” (War Requiem) non intendeva essere un brano a gloria della Gran Bretagna e dei suoi soldati, ma una pubblica affermazione delle convinzioni del compositore contro la guerra. Si trattava di una denuncia della malvagità della guerra. Il fatto che Britten avesse composto il brano per tre solisti specifici – il baritono tedesco Dietrich Fischer-Dieskau, la soprano russa Galina Višnevskaja e il tenore britannico Peter Pears, dimostrava che per l’autore, non contavano soltanto le perdite e le sofferenze del suo paese, ma voleva essere un simbolo di riconciliazione. Il brano voleva essere anche un monito per le future generazioni sull’insensatezza di prendere le armi contro i propri simili.

Wilfred Owen

War Requiem

A mezzogiorno circa dell’11 novembre 1918, durante i festeggiamenti che celebravano anche in Inghilterra l’armistizio che aveva messo fine al primo conflitto mondiale, arrivò a casa di Tom e Susan Owen, nel Shrewsbury, un telegramma. Lo scritto li informava che il mattino del 4 novembre, durante un’operazione militare nel nordest della Francia, loro figlio Wilfred Edward Salter Owen, matricola 4756, era stato ucciso. La notizia aveva impiegato una settimana esatta per giungere dalla Francia all’Inghilterra. Circa lo stesso tempo
impiegarono a tornare a casa le cose di Wilfred: tra queste i genitori trovarono un piccolo corpus di poesie scritte dal figlio in quel periodo. Il loro tema era la durezza e l’insensatezza dell’esperienza bellica che egli aveva vissuto. Il suo corpo era perduto ma la civiltà delle sue emozioni era salva e continuava a vivere.
Molti anni dopo, l’8 novembre 1940, durante un’operazione in codice crudelmente definita “Sonata al chiaro di luna”, la Luftwaffe tedesca rase al suolo la cittadina inglese di Coventry. Ci vollero undici ore di bombardamento, dalle sette di sera alle sei di mattina, per attuare un’operazione aerea tra le più inutili, crudeli e insensate delle tante che dobbiamo alla Seconda Guerra Mondiale.
Sventrata dalle bombe di quella notte, la cattedrale di Coventry tornò a suonare le proprie campane solo ventidue anni dopo: la sua ricostruzione e la sua riapertura fu celebrata con una cerimonia che intendeva essere simbolo di pacificazione e fratellanza. La musica vi doveva avere un ruolo fondamentale: una nuova partitura fu commissionata a Benjamin Britten. Il compositore optò per un Requiem ma decise presto di non utilizzare solamente il testo latino tradizionale. Voleva una testimonianza. Dopo alcune ricerche scelse di utilizzare i testi poetici di Wilfred Owen, uomo che la guerra l’aveva vissuta, pensata, scritta e subita. E che, a suo modo, l’aveva sconfitta.
Ciò che Britten avvertì nei versi di Owen, più che un vero e proprio pacifismo, fu un tormento autentico e una forza d’animo straordinaria. Animato da un fervente amor patrio, desideroso di rendersi utile alla causa del suo paese anche come testimone degli eventi, il poeta si arruolò il 21 ottobre 1915 iscrivendosi al The Artists’ Rifles, un corpo speciale dell’esercito Britannico che all’epoca attirava molti volontari. Ma ben presto si rese conto di quanto poco gli ideali avessero a che fare con la guerra. Gli interessi dei potenti, il sangue e la carneficina, gli stenti e le fatiche disumane, rivelarono al giovane militare ciò che realmente la guerra porta nella vita di chi la combatte e di chi la subisce. Eppure, dopo essere rimasto intrappolato per tre giorni in una buca durante la Battaglia della Somme, dopo essere stato ricoverato per nevrastenia presso il Craiglockhart War Hospital, e nonostante il poeta Siegfried Sassoon, che egli stimava e forse amava, glielo avesse quasi vietato, il giovane volle tornare sul campo di battaglia e insistere nella ricerca di qualcosa. Quella di Owen è infatti una visione ambigua sulla guerra: egli sembra non rifiutarla eppure la aborrisce, pare non fuggirla eppure la odia con tutte le forze. Per lui, educato al culto anglicano-evangelico da una madre severa, animato da una pulsione omoerotica più o meno sublimata (molto materiale biografico utile ad approfondire fu distrutto dalla madre e dalla cognata), il servizio militare fu inteso come estremo sacrificio equivalente a una denuncia, come una protesta attuata tramite la propria autodistruzione. Da questo crogiolo di sensazioni contrastanti deriva il fascino tragico e magnetico della poesia di Owen; una poesia che mira a coinvolgere i sentimenti di coloro che la guerra l’hanno rifiutata e odiata ma anche di quelli che l’hanno accettata e combattuta. La prospettiva che Owen dà sul problema è dunque la più coinvolgente, la più ampia possibile, perché chiama in causa i sentimenti di tutti e non solo quelli di una parte.
La produzione poetica di Wilfred Owen, con le sue sottili screziature di senso, tornava dunque utile a Britten per denunciare il volto camaleontico della guerra, una tra le piaghe sociali più difficili da estirpare. Espressione di quella pulsione distruttiva che abita la parte più primitiva del nostro essere, essa minaccia di comparire ogniqualvolta le società umane entrano in fibrillazione e diventano instabili. Paura, ingiustizia, immobilismo dei beni e grave sofferenza dei diritti sono il terreno su cui attecchisce quel generalizzato senso di impotenza che a sua volta innesca, come unica via di uscita correlata e contraria, la cieca onnipotenza della distruzione e l’ottundimento del senso critico. La cultura e, nello specifico, la musica, possono solo far leva sulla maturazione delle risorse emozionali dei singoli per combattere questa illusione onnipotente; possono tentare di favorire quel senso di immedesimazione e quell’intelligenza percettiva che spinge a prefigurare, prima che la situazione si comprometta, le sofferenze dei molti e le convenienze dei pochi che la guerra porta sempre con sé.
Questo è anche il compito del War Requiem: un Requiem scritto per commiserare le vittime ma anche per denunciare la follia e l’ottusità della devastazione. Un Requiem inteso come canto di morte per la guerra stessa oltre che per i suoi caduti.

Il War Requiem

Per un uomo come Britten, la cui “vita intera” di artista, come ebbe a dire, era stata “dedicata ad atti di creazione”, era inconcepibile “prendere parte ad atti di distruzione” come la guerra: la commissione del War Requiem si presentò come fattore di connessione fra queste due distanti pulsioni, con l’ovvio vantaggio che la creazione musicale doveva sì adattarsi a cantare una dimensione di annichilimento, ma aveva la possibilità di dire la sua sulla guerra e sulle sue implicazioni. L’evento doveva essere simbolico sotto tutti i punti di vista. La prima esecuzione del 30 maggio 1962 celebrava la riconsacrazione di un edificio religioso distrutto dagli eventi bellici; lo faceva poi con la presenza dei solisti Peter Pears e Dietrich Fischer-Dieskau, tenore inglese l’uno e baritono tedesco l’altro, che rappresentavano la ritrovata armonia tra Inghilterra e Germania. Sfortunatamente il soprano russo Galina Visnevskaja, che doveva incarnare anche la pacificazione con l’universo sovietico, non potè essere scritturata e fu sostituita da Heather Harper. Britten decise di affidare al coro, alla voce di soprano e all’orchestra a pieno organico la parte del testo latino tratto dalla tradizionale “Messa da Requiem”, mentre fece intonare quello di Owen alle due voci maschili accompagnate da una compagine strumentale ridotta a dimensioni cameristiche. In questo modo egli rendeva nitida e percepibile la differenza tra i due universi poetici, fattore che costituisce una delle maggiori novità del War Requiem, soprattutto lì dove si evidenzia l’affiancamento dei due livelli semantici rinnovando il rapporto tra tutti e solisti, fino a farlo diventare quasi metateatrale. Infatti, nel Requiem ufficiale sembra innestarsi un altro Requiem al quale la poesia di Owen, inevitabilmente, trasfonde il suo senso critico; anzi, il testo latino e il testo inglese potrebbero essere letti in chiave conflittuale, come se offrissero due prospettive divergenti, una eterna e l’altra secolare, sul problema della distruzione e della morte. La seconda prospettiva sembra comunque interessare di più Britten, perché al centro del War Requiem non c’è la promessa della salvezza o la consolazione della fede: c’è la guerra, con l’immensa pietà che essa genera. La partitura si apre quasi sussurrando in modo indistinto e lontano: il coro scandisce in pianissimo, quasi fosse un bisbiglio, il motto “Requiem aeternam”. Il tema enunciato dall’orchestra è simile a una marcia lenta e pesante; con essa si materializza l’atmosfera funebre della messa.
L’entrata del coro di voci bianche (“Te decet hymnus”) tinge di purezza l’incedere mesto del tutto, simboleggiando uno stato di innocenza che sembra appartenere a una dimensione trascendente: le voci diafane dei ragazzi diventano emblema dell’incoscienza atemporale in cui le anime dei defunti sono immerse. Le campane presenti in questa sezione d’apertura anticipano quelle evocate nel testo di Owen intonato nel brano seguente (“What passingg-bells for these who die as cattle?”, “Quali campane a morto per chi muore come un animale?”). Lo scarto tra la dimensione trascendente dell’inizio e questa nuova sezione affidata al tenore è forte: nel trattamento della voce si avverte subito il passaggio da una dimensione corale sublimata a una di natura più teatrale, verosimile e quasi recitata. Nell’accompagnamento serpeggia tuttavia lo stesso intervallo presente all’inizio dell’opera, quello che in inglese viene chiamato “the bell interval” (l’intervallo della campana), ovvero il tritono. La dimensione funebre evocata dalla sonorità della campana, utilizzata in tanto teatro musicale come in molte produzioni cinematografiche, si affianca così a quella del tritono, intervallo che attraversa tutta l’opera, e che nel War Requiem è spesso lasciato allo stato di pura dissonanza, ovvero senza risoluzione armonica. Con l’uso di tale intervallo Britten intende simboleggiare l’essenza stessa della guerra, un processo le cui tensioni minacciano di trovare soluzione solo in nuovi conflitti.

Avvertiamo uno scarto notevole anche tra la fine dell’intervento del tenore e il ritorno alla dimensione corale astratta che intona il “Kyrie eleison”. Si comincia così a capire come questa strategia compositiva che alterna due piani poetici, funzioni in modo suggestivo evocando piani temporali diversi: i testi di Owen sembrano immergerci nel presente della guerra, ce la fanno vivere come se un telecronista la narrasse dal vivo; i testi latini ci portano invece in una dimensione atemporale, non umana. Nel “Dies irae” questi due piani sembrano però toccarsi: Britten non intende evocarvi il terrifico sconvolgimento che l’ira di Dio provoca, ma l’incerta e impaurita condizione di chi si trova a vivere una situazione senza scampo. La tromba del giudizio diventa così la chiamata a una rappresaglia bellica e il frammentato coro mima una folla militare incerta e dubbiosa. Ad aprire il “Tuba mirum” troviamo dei colpi che sembrano cannonate: è quello il suono della guerra, questo sì davvero spaventevole; e la morte non ne sembra poi così stupita (“Mors stupebit”).
Le trombe serpeggiano più innocue anche nella sezione affidata al baritono (“Bugles sang, saddening the evening air”, “La tromba ha suonato, rattristando l’aria della sera”), ma l’atmosfera è più tranquilla, crepuscolare. A questo momento di pace, segue l’intervento del soprano e del coro (“Liber scriptus proferetur”). Il piglio marziale che lo caratterizza costituisce però solo un sarcastico sipario alla sezione seguente, affidata al tenore e al baritono, dove il testo di Owen ricorda, con ironia macabra, come i soldati camminino a braccetto con la morte, che mai fu loro nemica (“Oh Death was never enemy of oursl”) e con profetico accento afferma: “Ridemmo, sapendo che verranno uomini migliori e guerre più grandi” (“We laughed, knowing that better men would come, /and greater Wars”). Si noti quanto complesso e intenso sia il taglio psicologico di questo passo, reso unico dalla combinazione agghiacciante di falsa goliardia e orrore.
Sopra un tessuto armonico dissonante, forse consequenziale al clima sarcastico precedente, fiorisce il coinvolgente “Recordare Jesu pie”, caratterizzato da una tenera nebulosa sonora, e sorge il minaccioso “Confutatis maledictis”, dove, accanto alla citazione delle fiamme infernali che ricorda altri celebri Requiem, troviamo nel coro una concitazione simile al “Dies irae” precedente.
L’immagine celeste, se non proprio celestiale, del “Recordare” e quella pittorica del “Confutatis” è seguita da quella evocata dal testo di Owen, molto più terrigna: un’arrogante mitragliatrice troneggia verso il Paradiso, quasi fosse maledizione.

Benjamin Britten

Tale sezione, affidata al baritono, è quasi la contoparte macabra delle figure oranti presenti nel precedente “Voca me cum benedictis”. Il breve ritorno del “Dies irae”, nuovamente musicato, sembra materializzare la precedente maledizione che Owen aveva gettato sulla mitragliatrice: la speranza è che Dio possa abbatterla al suolo e mozzarle l’anima. Il pezzo corale si chiude però in modo evanescente, dando spazio a uno spigoloso e addolorato “Lacrimosa” interpretato dal soprano e dal coro. Il cielo sembra ora guardare con infinita pietà l’uomo comune che compare nella sezione successiva, dove il testo di Owen (“Move him into the sun”, “Portatelo al sole”) ci offre un’intensa visione poetica nella quale il protagonista pare contemplare in modo interrogativo l’universo. Cielo e terra sembrano qui toccarsi, anche grazie all’intervento del coro e del soprano collocato fra i versi del tenore.
Nella parte seguente del Requiem, tuttavia, essi si dividono nuovamente: la promessa di Abramo (“Quam olim Abrahae”) intonata in un clima fugato dissonante privo di gioia e solennità (una deviazione evidente rispetto alle intonazioni tradizionali), non è mantenuta: nei seguenti versi di Owen (“So Abram rose”, “Così Abramo si alzò”), affidati al tenore e al baritono, Abramo massacra suo figlio e nessun angelo ferma la sua mano. La guerra fa dunque scempio della vita, in barba alla sua sacralità e a qualunque prospettiva trascendente.
Da queste brevi descrizioni si può dedurre come Britten sia riuscito a far interagire testo e musica creando una partitura potente per impatto semantico e sonoro. Il testo liturgico entra in proficuo contrasto con le dense immagini di Owen, generando un fenomeno di rafforzamento espressivo che vede sprofondare la dimensione trascendente del divino negli oscuri abissi della storia umana. Per questo la preghiera di fede del “Sanctus” diventa grandiosa ma sconsolata, vibra in ogni dove ma sembra anche dissolversi nel nulla, e l’Agnus Dei”, che possiede una mesta linea melodica è invece cantato dal tenore su versi di Owen che possiedono tratti quasi brutali (la rima tra “priest” e “Beast”, per esempio).
Con il “Libera me” approdiamo musicalmente su un campo di battaglia. Rulli di tamburo, voci che intonano grida; il significato di questo “Libera me” è chiaro: ciò di cui l’uomo si deve liberare è la guerra stessa. Britten riesce in questa sezione intonata dal soprano e dal coro, a darci l’impressione che le voci diventino spettatori, in preda a un dolore incontenibile, della strage che la guerra provoca. Il brano inizia con un ritmo lugubre, marcatissimo, e quando la voce del soprano intona le parole “Tremens factus” il disegno orchestrale si configura come uno “scherzo” sinistro, al termine del quale Britten colloca una citazione tratta dal “Dies Irae” del Requiem verdiano.
Un ampio silenzio separa tale buia visione dalle parole dei due soldati che, nel brano successivo, si riconoscono e, chiamandosi “amici” (“I am the enemy you killed, my friend”, “lo sono il nemico che hai ucciso, amico mio”), pronunciano una parola di conciliazione che si oppone all’insensatezza della guerra. Tale parola apre nuove possibilità all’essere umano: in modo commovente e inaspettato, alla fine del War Requiem le vittime chiedono di riposare, (“Let us sleep now”, “Lasciateci dormire ora”), mentre dall’orchestra emergono i dolci timbri dei legni e dell’arpa. Ad accompagnarli nel loro ultimo viaggio sono le voci bianche, immagine di una candida purezza; dormono ora come bambini, sull’onda cullante del coro che svanisce ripetendo in pianissimo, senza orchestra, “Requiem aeternam dona eis Domine”.

Epilogo

“Non mi interesso di poesia: / il mio tema è la guerra, la pietà della guerra. / La poesia è nella pietà. […] Tutto ciò che il poeta può fare oggi è ammonire”: questi i versi di Owen che Britten mise sulla pagina iniziale del War Requiem. Essi ci dicono chiaramente che anche il soggetto della musica di Britten è la pietà verso l’uomo e, soprattutto, che l’arte può essere utile alla società. L’arte può infatti riportare alla vita le emozioni di chi è scomparso lasciandoci un messaggio, ne permette l’approfondimento, ne prolunga l’esistenza oltre la morte fisica del suo creatore.
Il War Requiem trasforma in musica anche un nuovo concetto di patriottismo: quello che vede nella memoria della sofferenza e degli errori passati il mezzo essenziale per continuare a costruire un futuro per sé e per gli altri.
L’opera, essenzialmente anticelebrativa, vive su un piano laico, denuncia gli orrori della guerra e sembra non contenere una visione trascendente sulla realtà; tutt’al più potrebbe echeggiare l’insegnamento di Cristo, nella cui divinità Britten disse chiaramente di non credere ma il cui esempio, sostenne, sarebbe stato utile comprendere e seguire. La speranza è quella che le scintille dell’amore e dell’amicizia, da qualunque parte provengano, possano sovvertire quel tragico gioco della morte che è la guerra, rivendicando sopra ogni interesse privato le ragioni comuni della pace.