Anton Bruckner

Le Sinfonie

Il cofanetto della Deutsche Grammophon comprende 9 CD e contiene l’integrale delle sinfonie di Anton Bruckner diretta da Herbert con Karajan, alla guida dei Berliner Philarmoniker, nell’arco di tempo dal 1975 al 1981.
Si notano subito due particolarità: nonostante la costante frequentazione di Bruckner da parte del direttore salisburghese, Karajan affronta per la prima e ultima volta l’integrale delle sinfonie solo nell’ultima parte della sua lunga carriera, intorno ai settant’anni; inoltre la registrazione dell’intero ciclo dura oltre sei anni, un periodo ben lungo considerando la frenesia che solitamente caratterizzava l’agire di Karajan.
Dunque, un Bruckner affrontato in tarda età e assai meditato anche nel corso delle registrazioni, anche probabilmente per la scelta delle edizioni di riferimento, essendoci numerose versioni delle diverse sinfonie, da quella abbozzata in origine dal compositore, alle varianti aggiunte dal compositore stesso, alle versioni più o meno modificate (anche sensibilmente) dai successivi esecutori, in taluni casi anche per renderle più accessibili al grande pubblico e più o meno avallate da Bruckner: in tale ginepraio la scelta di Karajan cade generalmente (ad eccezione che per la terza e per la nona sinfonia) sulle edizioni Haas, che con poche limitate varianti riprendono le prime versioni originali.
Ma certo questa affermazione non basta a spiegare il lungo arco di tempo occorso per le registrazioni: evidentemente durante tale periodo Karajan visse un vero e proprio travaglio spirituale, riscoprendo la grande spiritualità di Bruckner e riaccostandosi, a sua volta, alla grande tradizione della chiesa cattolica austriaca.
Passando al commento musicale, sembra che le suddette considerazioni possano trovare conferma nell’interpretazione data da Karajan al ciclo bruckneriano: da un lato momenti di contemplazione e di meditazione, decisamente più intensi di quanto avvenuto in passato e per altri autori, dall’altro tempi lenti e molto dilatati.
Tali approfondimenti si percepiscono bene anche nelle prime sinfonie, in precedenza scarsamente affrontate da Karajan: nelle prime due si avvertono frequenti reminiscenze schubertiane, nella quarta (impropriamente definita “Romantica”) Karajan riscopre momenti di serenità e afflati pastorali, la quinta e la sesta sono una vera polifonia religiosa, nella settima prevalgono echi wagneriani.
Infine vengono le ultime due sinfonie, viceversa affrontate più e più volte da Karajan e che sarebbero ancora state eseguite fino al termine della sua carriera. In conclusione: un cofanetto da non perdere che testimonia, ancora una volta, la grande versatilità di Herbert von Karajan.

La fede nel linguaggio dell’orchestra
Karajan interpreta le Sinfonie di Bruckner – di Luigi Bellingardi

L’eclettismo del repertorio e la estrema versatilità dell’arte della interpretazione hanno costituito i caratteri più evidenti della personalità di Herbert von Karajan nell’arco di un cinquantennio del nostro secolo, dalla fine cioè degli anni Trenta alla fine degli Ottanta. Nel copiosissimo elenco dei concerti da lui diretti, specialmente alla guida della Filarmonica di Berlino, e nel vasto catalogo delle sue registrazioni, si rinvengono, a questo riguardo, numerose testimonianze inoppugnabili.
Nella letteratura ottocentesca, in particolare, il maestro salisburghese ha offerto, come ognuno ben sa, in sala pubblica come nello studio d’incisione, le lezioni del più elevato significato e del profilo più marcato sia nell’ambito del romanticismo mitteleuropeo sia al di fuori della produzione orchestrale tedesca. E ha imposto un modello, un punto di riferimento quasi paradigmatico di una concezione del tutto aggiornata dell’arte del dirigere. Non si può cogliere la vera
essenza del gusto interpretativo di Herbert von Karajan se non si valuta in maniera appropriata il formarsi ed il precisarsi dello specifico suo retroterra culturale, ove assume una netta evidenza il retaggio della tradizione viennese. Nella capitale austriaca infatti il giovanissimo maestro entrò a contatto con la letteratura musicale internazionale di maggior nome, frequentando con assiduità i concerti al Musikverein, le prove e gli spettacoli alla Staatsoper oltre alla didattica direttoriale di Franz Schalk, già sul finire degli anni Venti.
E tra le partiture più amate figuravano già allora quelle delle Sinfonie di Bruckner. Al legame così instauratosi, nello stadio formativo di Karajan come direttore d’orchestra, con le esecuzioni viennesi, vennero a ricollegarsi l’esempio, la lezione di maestri come Richard Strauss e Clemens Krauss, fondamentali nel determinare una certa linea interpretativa nel tracciato della tradizione che a Vienna tra le due guerre trovò la sua più esplicita definizione. E Karajan da quegli anni ebbe a condividere con Strauss l’equilibrio della misura espressiva e con Krauss la predilezione per le iridescenti trasparenze strumentali.

Nei confronti però di Strauss e di Krauss, nonché della tradizione musicale viennese, Karajan cominciò ben presto a far valere l’originalità della sua concezione artistica che non poteva prescindere da una rigorosa disciplina esecutiva.
Rispetto a questi maestri, e, in particolare rispetto, a Richard Strauss che considerava la direzione d’orchestra come un evento magnetico che si realizzava nello hic et nunc con la viva presenza del pubblico.
Karajan affermò l’orientamento, e poi la necessità in senso del tutto moderno di una esecuzione musicale pianificata in ogni dettaglio, nella sottolineatura del ruolo creativo non meno che tecnocratico e centralizzate dell’artista sul podio. Di conseguenza, è soprattutto in tale prospettiva che Karajan poté essere ritenuto, per alcuni aspetti, il diretto erede di Toscanini, specialmente nella vastissima gamma nella tecnica di comunicativa orchestrale esperita sino alla maturità.
Ma nel fraseggiare con ariosa fluidità e sciolta duttilità espressiva, il maestro salisburghese fece ben presto intendere quanto egli fosse insofferente di qualsiasi rigido condizionamento metronomico.
L’originalità della sua lezione interpretativa, in qualsiasi ambito musicale, Karajan la affermò principalmente nella dimensione timbrica. E sin dall’inizio degli anni Cinquanta non esitò ad alleggerire la densità dello spessore sonoro delle compagini orchestrali da lui dirette, in primis della Filarmonica di Berlino, per attingere, anche all’interno di una struttura compositiva complessa, le trasparenze strumentali di una formazione cameristica, nel dare una marcata evidenza a taluni momenti nodali dell’una come dell’altra partitura.
In tale sua scelta esecutiva Karajan venne a collocarsi all’antitesi di una specifica concezione germanica della direzione d’orchestra, quella che privilegiava la monumentalità del volume sono, l’incedere solenne, accentuatamente drammatico a tutti i livelli.

Anton Bruckner

In una parola, all’antitesi delle concezioni di maestri come Furtwangler, Klemperer, Knappertsbusch. E questa particolare sua predilezione per la chiarificazione dell’eloquio sinfonico la si coglie all’ascolto delle pagine fondamentali di numerosi musicisti, da Beethoven e Schubert a Brahms e Wagner.
Ma la si percepisce con spiccato risalto anche nelle interpretazioni del sinfonismo bruckneriano. Il riscontro biografico permette di seguire la continuità della frequentazione delle partiture bruckneriane che Karajan ebbe ad esperire sin dall’avvio della sua attività ad Aquisgrana nel 1934, dove l’anno seguente risultò esser il più giovane Generalmusikdirektor tedesco dell’epoca. Diversamente che a Ulma, ad Aquisgrana Karajan aveva a disposizione un complesso orchestrale di prim’ordine e di solida tradizione, operistica non meno che concertistica.
Prima di lui si erano succeduti sul podio direttori come Strauss, Weingartner, Schillings, Muck all’inizio della loro carriera e poi Blech, Fritz Busch e Klemperer. E ad Aquisgrana, neanche trentenne, Karajan impose all’attenzione di tutti il marchio perentorio della sua personalità. Oltre ad esibire una capacità non comune nel trasmettere agli orchestrali la qualità del fraseggio che più gli stava a cuore, Karajan si segnalò già allora per una ferrea disciplina che pretendeva e riusciva ad ottenere dagli esecutori.
Nel contempo, sin dallo scrupoloso rigore delle prove prendeva le mosse di quello che sarebbe diventato il leggendario suo “perfezionismo”. Se non si conoscono testimonianze esaurienti sulle interpretazioni bruckneriane di Karajan negli anni Quaranta, si hanno dati probanti sulle esecuzioni dei primi anni Cinquanta con la Philharmonia londinese di Walter Legge, in seguito a Vienna e poi a Berlino, dopo la scomparsa di Furtwangler.
Nel corso della stagione 1956/57, proprio a Berlino, accanto a Brahms, Strauss, Ciaikovskij, Schubert, Mozart, Debussy, Mahler, Sibelius, figura anche Bruckner con l’Ottava Sinfonia.
Nelle stagioni successive, comprese le tournées, altre Sinfonie bruckneriane vennero ad aggiungersi nella programmazione di Karajan con la Filarmonica di Berlino.

Nel 1975 ebbero inizio, proprio con l’Ottava, le incisioni del presente box, concluse nel gennaio 1981 con la Prima Sinfonia. L’ascolto di queste registrazioni suggerisce alcune considerazioni che fissano le coordinate estetiche del disegno interpretativo di Karajan nell’ambito del sinfonismo bruckneriano. Non meno stimolante appare, al riguardo, il confronto con le interpretazioni di altri maestri, specie della tradizione tedesca, da Jochum a Knappertsbusch a Klemperer.
La linea di tendenza di questi direttori era quella di identificare le partiture bruckneriane con le immagini di monumentali cattedrali di suoni che venivano edificate sull’abbrivio di una pronunciata sottolineatura del “sacro”, secondo una dimensione religiosa che trova il suo pendant nella prassi organistica di Bruckner.
Di tale linea di tendenza il principale esponente fu Jochum, non per nulla il più venerato dai bruckneriani “ortodossi”.
Orientata a privilegiare una prospettiva esecutiva del tutto autonoma fu la concezione di un Furtwangler, per il quale sembrò non esservi limite al drammatismo della musica nell’articolazione del respiro sinfonico, in particolare nel prolungamento delle risonanze strumentali bruckneriane in una sorta di lacerato soliloquio interiore. Sia quest’ultima sia le precedenti linee di tendenza hanno indubbiamente piena cittadinanza nell’interpretazione della cosmogonia bruchneriana, ma risultano del tutto estranee alla concezione di Karajan.

Una concezione maturata a lungo ed alla quale il maestro salisburghese rimase sostanzialmente fedele, almeno nella sua maturità.
In confronto al costruttivismo di un Klemperer o di un Knappertsbusch, fondato, quasi in maniera paradigmatica, sulla solennità di un evento rituale, per non parlare della sottolineatura cattolica di un Jochum, Karajan orientò diversamente le sue scelte esecutive. E pose in primo piano la realtà sonora della grande orchestra tardo-romantica, quale la Filarmonica di Berlino poteva pienamente esprimere. Naturalmente una Filarmonica plasmata da Karajan con tutti i poteri di un “sire nibelungico”, secondo l’osservazione di Stuckenschmidt. Dal 1960 innanzi Karajan considerò questo complesso orchestrale come “il naturale prolungamento delle proprie braccia”, tale era l’intesa stupefacente che si era precisata tra il direttore musicale e artistico a vita e gli strumentisti, associati da una strettissima esperienza di lavoro in comune.

Anche nei confronti di Furtwangler, Karajan prese le distanze nelle esecuzioni bruckneriane. Ricusò radicalmente sia il drammatismo sia la trascendenza mistica di Furtwangler per esaltare, al contrario, l’espressione di un estetismo angelico che, nell’anelito dell’assoluto, si sostanzia primieramente in una vera e propria fede nel linguaggio dei suoni. Alla base delle esecuzioni berlinesi e, naturalmente, delle realizzazioni discografiche coeve, vi è sempre stata la concretezza artigianale del “far musica” a lungo insieme nelle indimenticabili prove di concertazione.
I tratti essenziali delle interpretazioni bruckneriane di Karajan nell’arco di un cinquantennio hanno conosciuto scarse oscillazioni sui vari parametri musicali, pur se hanno tratto beneficio da un approfondimento esecutivo ininterrotto e costante. Un’idea-forza segna in maniera inconfondibile la sostanza di questa sua concezione interpretativa, quella che ancora e incardina il lessico bruckneriano non allo spiritualismo della tradizione cattolica austriaca ma al
contesto delle affermazioni musicali del tardo romanticismo europeo, in un ambito che sta tra Ciaikovskij e Strauss.
Di conseguenza, è la più grande orchestra tardo-romantica, con le mille sue voci strumentali e con i mille suoi colori, a cantare nell’opera sinfonica di Bruckner. Mai viene da Karajan trascurato il maestoso profilo architettonico delle composizioni né è posto in ombra il senso della forma, ma, prima di tutto, il nucleo infiammato del divenire musicale si esplicita nelle brucianti accensioni dell’orchestra e in una gamma amplissima di interventi che trascorrono dalle abbaglianti intuizioni dell’intero organico strumentale alle sfumature soffuse di un intimismo cameristico.

Kerbert von Karajan

All’ascolto senza diaframmi delle esecuzioni berlinesi raccolte in questo box si evidenziano alcune sorprendenti illuminazioni di Karajan che, a volte, non si erano percepite dal vivo, nell’immediatezza della sala da concerto.
Nella Prima Sinfonia quasi il senso di un lever de rideau di un preludio alla cosmogonia della produzione maggiore, con un’accentuata spaziosità dei movimenti esterni e con una suasiva gravità del tempo lento.
Nella Seconda balza in primo piano la luminosa trasparenza del gioco degli archi e la vivacità delle sortite dei legni. Nella Terza la misura dell’eloquenza che mai rinuncia allo smalto superbo e rilucente della realizzazione orchestrale. A cuore delle interpretazioni bruckneriane di Karajan stanno gli esiti raggiunti nella Quarta, Quinta, Settima, Ottava e nella Nona.

Sempre la massima evidenza viene conferita alla varietà timbrica della scrittura strumentale, all’equilibrio e alla euritmia dell’insieme ove le oasi estatiche affermano perentoriamente la loro presenza con la ricerca di sonorità raffinate, curatissime nel particolare fonico. Una certa sorpresa la si prova all’ascolto della Sesta che, a differenza delle lezioni di altri direttori, trova nel maestro salisburghese un interprete sereno e pacato, nobile, specie nell’Adagio.
E in ogni momento si avverte quanto l’opera sinfonica di Bruckner abbia contato nella definizione della personalità artistica di Karajan, e quanto importante sia stato il ruolo da lui svolto nella storia dell’interpretazione musicale del nostro secolo.

Le nove sinfonie di Bruckner non sono musica di facile ascolto nè di rapida metabolizzazione, ma una volta assimilate costituiscono un vero pilastro nella discografia di molti appassionati di musica classica. Lo stile tardo romantico e magniloquente di Bruckner, quel suo modo di lasciare “sospese” le frasi musicali più importanti, quella sua (apparente) mancanza di sviluppo delle idee musicali, quelle sue ripetizioni che sembrano ridondanti: sono tutti elementi che possono allontanare chi ascolta queste opere per la prima volta. Ma con un lavoro di avvicinamento progressivo, poco alla volta, si scopre in Bruckner una visione quasi “cosmica” della musica e quasi religiosa.

Di interpretazioni delle 9 sinfonie, integrali o meno, ce ne sono davvero tantissime. E devo dire, a mio giudizio, quasi tutte di livello medio-alto, forse anche perchè chi dirige Bruckner in genere è un buon direttore. Questa raccolta mette insieme le incisioni eseguite dal grande Eugen Jochum per la DG fra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, sia con i Berliner che con l’orchestra Bavarese. Sono incisioni preziose perché fondono con misura la grandezza della visione bruckneriana con la cura per il dettaglio orchestrale. E sono incisioni di riferimento assoluto. Questa raccolta di Eugen Jochum rimane una pietra di paragone per valutare tutte le altre, quindi da conoscere e da ascoltare attentamente.
La qualità tecnica di incisione, sempre in stereo, è datata, con un leggero fruscio e scarsa dinamica, ma comunque sempre godibile e con un bel suono.
In conclusione un cofanetto consigliassimo a chi si avvicina a Bruckner per la prima volta, così come agli ascoltatori più navigati che amano confrontare interpretazioni diverse. Registrazioni eseguite dal 1958 al 1967. Audio buono. Buon ascolto a tutti.

Eugen Jochum

Era auspicabile la pubblicazione di questo cofanetto che testimonia il contributo di Klemperer all’esegesi bruckneriana. Non che la discografia di questo compositore sia scarna, anzi come per il coevo Mahler sembra che finalmente il disco si stia accorgendo della grandezza di questo compositore ma si sa, i grandi del passato spesso hanno quel “quid pluris” nelle loro interpretazioni che li differenzia da certi contemporanei “tiepidi budini sonori” spacciati per grandi (e definitive) letture interpretative. Lungi da me l’intenzione di voler fare confronti con i direttori che oggi vanno per la maggiore (ma, attenzione! Essere popolari e magari “sostenuti” da certi pseudo critici intellettualmente “aperti…” o dalle case discografiche non significa essere per davvero dei grandi interpreti).
Klemperer, polacco di nascita ed ebreo, non potè purtroppo per lungo tempo esercitare la sua arte in Germania, ma la sua impostazione direttoriale è senz’altro di stampo teutonico, e si iscrive nella linea della gloriosa ars direttoriale tedesca. Invano si cercheranno qui le meraviglie sonore di un Karajan, la sottolineatura spirituale e cattolica di uno Jochum, il fuoco ed il pathos furtwengleriano, ma la capacità di creare impressionanti masse di suono, che sembrano travolgere a tratti l’ascoltatore,(e che tanto lo fanno rassomigliare da vicino a quel gigante di nome Knappertsbusch) ci permette di conoscere se non l’unico, quantomeno uno degli aspetti più evidenti della musica di Bruckner. E l’incipit della quarta, l’adagio della quinta e della settima, l’afflato mistico della nona, la coda dell’ottava, la bellezza anche di suono della sesta (della quale fu probabilmente il più autorevole interprete) permettono all’ascoltatore di capire perchè questo cofanetto è così importante e direi fondamentale nella collezione di ogni bruckneriano che si rispetti. Registrazioni eseguite dal 1967 al 1990 e rimasterizzazioene effettuata nel 2012. Audio ottimo. Altamente raccomandato.

Concludendo abbiamo tre mostri sacri del podio: a voi la scelta.

Otto Klemperer

Sinfonia n. 0 in re minore “Die Nullte” (n. Zero)

La produzione di Bruckner, come quella di Brahms, esclude il teatro e comprende in prevalenza lavori, sinfonici e opere corali sacre e profane, con o senza accompagnamento. Le sue sinfonie sono nove, di cui la Nona – che egli chiamò “decima” sostenendo che di nove non ne poteva esistere che una, quella di Beethoven – restò incompiuta. Altra sinfonia composta alle spalle della Seconda, ma forse iniziata prima delle altre, è la Sinfonia n. 0 in re minore, la “Nullte”, a sua volta preceduta da una giovanile e mutila Sinfonia in fa minore (1863). Anche la Nullte, come tante composizioni di Bruckner, appartiene alla fama postuma del musicista austriaco, in quanto fu eseguita per la prima volta il 12 ottobre 1924 a Klosterneuburg sotto la direzione di Moissl. Essa fu scritta e rielaborata tra Vienna e Linz nel periodo che va dal 24 gennaio al 12 settembre del 1869 e reca sull’autografo la seguente annotazione: «Manoscritto originale di una sinfonia non datata in re minore, contrassegnata come Seconda Sinfonia che in seguito il maestro annullò». Non si conoscono precisamente le ragioni di questo ripudio della sinfonia da parte dell’autore, ma probabilmente il musicista, spinto da un esame autocritico, non era rimasto soddisfatto della sua stesura, che gli sembrava non pienamente rispondente alla sua concezione di un sinfonismo magniloquente e robusto, tematicamente ricco di idee e di sviluppi strumentali.
In realtà la “Nullte” contiene in nuce alcuni aspetti essenziali del linguaggio bruckneriano sulla linea della forma sinfonica tracciata da Beethoven e da Schubert, anche se ampliata e dilatata sotto il profilo armonico e orchestrale. I movimenti di marcia e di danza di gusto viennese, i disegni melodici a note ribattute, le perorazioni strumentali di tipo corale, gli scatti improvvisi e illuminanti negli scherzi, così caratteristici dell’invenzione creatrice bruckneriana, sono già presenti in questa sinfonia, il cui recupero è molto significativo per una più approfondita conoscenza di un musicista, a suo tempo falsamente contrapposto a Brahms dalla corrente artistica capeggiata dal severo e antiwagneriano Hanslick e più giustamente accostato a César Franck per alcune rassomiglianze di vita e di arte. Infatti, se l’ascendente esercitato da Liszt sul compositore belga attivo a Parigi venne sostituito a Vienna da quello di Wagner sul maestro austriaco, elementi comuni si riscontrano in entrambi i musicisti, come ad esempio certe ardite modulazioni armoniche, il largo impiego della polifonia cromatica, l’uso di procedimenti contrappuntistici sostenuti da una base tonale schiettamente romantica, l’enfasi dell’ispirazione melodica, soprattutto rilevante negli allegri sinfonici bruckneriani, che risentono dell’entroterra culturale e musicale di scuola tedesca. Anche l’ingenuo Bruckner, come il devoto e pacifico Franck, ebbe pochi amici che lo aiutarono a farsi strada nel difficile cammino del mondo della musica, così da pensare addirittura al suicidio in un momento di grave delusione e scoraggiamento. Solo un piccolo gruppo di estimatori, comprendente Mahler, Levi, Nikisch, Motti e Löwe, lo mise a contatto con il pubblico contemporaneo, specialmente a Monaco. Né i brahmsiani, acerrimi oppositori della sovrabbondante musicalità bruckneriana, né l’influente Liszt e tanto meno l’autorevole direttore d’orchestra Hans von Bülow mostrarono simpatia e comprensione per l’arte antiletteraria di autentico “absoluter Musiker” del compositore austriaco.
La Sinfonia si apre con un ritmo di marcia ben marcato e di tono ascensionale, come piaceva tanto a Bruckner. Si affaccia quindi un motivo più lirico e frantumato, di gusto schubertiano, prima che esploda con vigore e impeto un episodio di andamento corale sorretto e potenziato dagli ottoni. Di straordinaria forza espressiva è l’Andante, dove si dispiega quella religiosità contemplativa del musicita, dettata innanzitutto da un amore profondo per la natura. È vero che certi passaggi e certi coloriti strumentali riecheggiano l’esperienza wagneriana, ma non si può disconoscere a questo Adagio una precisa sigla stilistica di pungente sentimento neoromantico. Lo Scherzo è brillantissimo e fosforescente con quell’attacco a note ribattute, non lontano dal notissimo modello del mendelssohniano Midsummer Night’s Dream nel gioco timbrico dei legni. Il Trio dall’inflessione cantabile, quasi rossiniana, ha la forma del ländler austriaco con il caratteristico salto di ottava spesso riproposto nelle sinfonie bruckneriane. Lo stesso intervallo di ottava si riascolta nel tema fugato dell’Allegro finale, dopo il poderoso corale degli archi in tempo 12/8 del Moderato introduttivo, che suggella con freschezza inventiva questa singolare e troppo dimenticata composizione di un artista tutto dedito, come egli disse, a Dio e alla musica.

Sinfonia n. 1 in do minore

Tra le sinfonie più largamente e giustamente note, anche perché più distaccate dalle influenze schubertiane, mendelssohniane e schumanniane che invece sono ancora presenti dettagliatamente nella Sinfonia “Nullte” (Zero) e nella “Seconda” in do minore, di cui l’autore lasciò addirittura quattro versioni, con una dedicata a Liszt, vanno segnalate la “Terza” in re minore, chiamata anche la “Wagner-Symphonie”, in quanto fu dedicata a Wagner, musicista idolatrato e venerato da Bruckner: la “Quarta” in mi bemolle, detta “Romantica”, fatta conoscere in quattro versioni successive, di cui la seconda con un nuovo “Jagd- Scherzo” e la terza, diretta a Vienna da Hans Richter nel 1881 con un nuovo finale; la “Settima” in mi maggiore, dedicata a Luigi II di Baviera e il cui celebre Adagio in tempo di marcia funebre sarebbe stato scritto in parte nel presentimento della morte di Wagner e in parte dopo il doloroso avvenimento; e i tre tempi completi della “Nona” in re minore, non terminata nel finale: tre tempi eseguiti postumi a Vienna l’11 febbraio 1903 sotto la direzione di Felix Loewe, che ne fece anche la revisione.
Natura senza pretese intellettualistiche, ingenua e profondamente religiosa, Bruckner si riallaccia sotto il profilo sinfonico al pensiero e alla tradizione classica austriaca e non a caso quando si parla dei suoi componimenti sinfonici ci si riferisce spesso a Schubert, ma con una sensibilità di strumentazione più appariscente e robusta, dato che il musicista di Ansfelden assorbì da Wagner una tecnica armonica più ricca e colorita ed anche l’uso di strumenti, come la tuba bassa o il corno-tuba, più adatti ad esprimere una forma architettonica improntata a grandiosità e magniloquenza. Per tale ragione i seguaci e gli ammiratori di Bruckner, guidati dal critico viennese Theodor Helm, contrapposero il compositore austriaco alla schiera ben più nutrita e influente dei brahmsiani, capeggiati dall’autorevole e cattedratico Herr Professor antiwagneriano Hanslich, arrecando più danni che favori al serafico e pacifico organista di Sankt Florian. Tanto è vero che una parte delle sinfonie di Bruckner cominciarono ad essere apprezzate soltanto verso la fine della vita del compositore, la cui fama di artista fu postuma, soprattutto per merito dei cenacoli bruckneriani diffusi e moltiplicatisi dentro e fuori i paesi di cultura germanica. Nell’ultimo periodo della sua esistenza, Bruckner fu compreso e sostenuto soltanto da una ristretta cerchia di musicisti e direttori d’orchestra di prestigio, come Mahler, Levi, Nikisch, Motti e Loewe che cercarono di imporlo al pubblico contemporaneo. Ma né i brahmsiani (Brahms ebbe per lui parole sprezzanti e anche offensive), né l’onnipotente Liszt e nemmeno il patriarca del mondo musicale tedesco Hans von Bülow mostrarono molta disponibilità per capire e far capire le sinfonie del compositore austriaco, il quale più di una volta espresse la sua amarezza per questo stato di cose e in un’occasione di particolare scoramento accarezzò perfino l’idea di suicidarsi.

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La Prima Sinfonia di Bruckner fu composta tra la metà di maggio del 1865 e la fine di luglio del 1866. Venne eseguita a Linz il 9 gennaio 1868 sotto la direzione dello stesso autore che, più tardi, tra l’ottobre del 1890 e la metà di gennaio del 1891, rimise le mani sull’intera partitura, dedicandola all’Università di Vienna, città in cui fu eseguita con maggiore successo il 13 dicembre del 1891 nella interpretazione di Hans Richter. Questo lavoro segue dal punto di vista cronologico la Sinfonia in fa minore, considerata più che altro uno studio sinfonico, e i primi schizzi della Sinfonia in re minore, la «Nullte», che risalgono al 1863-’64. Certo l’influenza di Beethoven, di Schubert e soprattutto di Wagner (il compositore austriaco aveva ascoltato e studiato attentamente nel 1863 e nel 1864 il Tannhäuser e il Lohengrin) si avverte nella Sinfonia n. 1, ma bisogna dire che in essa sono presenti in modo chiaro e preciso certe caratteristiche dello stile bruckneriano, a cominciare dalla poderosa costruzione polifonica e dagli impetuosi crescendo, che esplodono come una forza della natura nel primo e nell’ultimo movimento.
Si sa che Bruckner considerò negli ultimi anni della sua vita la Sinfonia n. 1 tra le opere migliori e più difficili da lui scritte per l’arditezza di alcune idee e di alcuni passaggi strumentali, tanto è vero che nella Sinfonia n. 2 in do minore, come egli stesso disse, volle scrivere una musica «più accessibile», lontana dalla concitazione drammaticamente tesa della Prima. Tali arditezze si sentono sin dal movimento iniziale (Allegro) con quel ritmo di marcia che converge verso un vertice dinamico e assume nel vigoroso motivo dei tromboni un tono quasi eroico, rendendo certamente più dolce il passaggio al secondo tema di carattere lirico. Solenne e grave è il motivo principale dell’Adagio nella tonalità di la bemolle maggiore; il tema si allarga e si sviluppa con una ricchezza melodica affiorante dal tessuto orchestrale con una densità e una precisione plastica di notevole effetto psicologico. Carico di energia ritmica vigorosa è lo Scherzo in sol minore, dove esplode con aggressiva baldanza il senso popolaresco e contadino della musica di Bruckner. Il Trio successivo è arioso e aperto ad un idillio di impronta rustica e rievocante un’atmosfera danzante di gusto viennese. Ritorna poi il tema dello Scherzo con gli sbalzi dinamici e certe impennate umoristiche che preannunciano invenzioni strumentali di tipo mahleriano. Imponente e straordinariamente drammatico è il Finale, in cui la seconda frase cantabile viene travolta dalla cadenza entusiasmante di un severo e massiccio fugato; l’orchestra raggiunge il massimo della sua espansione su un ritmo di ostinata forza sonora.

Sinfonia n. 2 in do minore

Come gran parte delle sinfonie di Bruckner, anche questa Seconda (ma, a rigore, Quarta contando anche la «scolastica» Sinfonia in fa minore e la declassata Sinfonia n. Zero) ha conosciuto diverse versioni. Realizzata fra l’ottobre 1871 e il settembre 1872, nel 1875 – 76 fu sottoposta a revisione radicale con l’aiuto di Johann von Herbeck; una terza versione fu ancora apprestata nel 1877 ed è in quest’ultima veste che l’opera viene normalmente eseguita. Nel momento in cui fu concepita, comunque, tale sinfonia segnava il ritorno ad una fase creativa più impegnata, dopo alcuni anni in cui Bruckner si era applicato a lavori di modeste dimensioni e di scarso significato. Rispetto alla Prima Sinfonia (1865 – 66), per certi aspetti questa Seconda rappresenta un passo indietro. L’influenza degli ambienti intellettuali viennesi, il timore di agire in contraddizione con lo spirito conservatore che governava gli esponenti della cultura accademica, la preoccupazione di rendere il proprio linguaggio eccessivamente difficile con una scrittura strumentale alla quale gli orchestrali del tempo non erano ancora abituati (l’esecuzione della Prima Sinfonia era

risultata pessima proprio per le difficoltà tecniche che gli strumentisti avevano dovuto affrontare): tutto ciò deve aver contribuito, se non in misura determinante, certo in un modo abbastanza sensibile a paralizzare un poco il graduale movimento ascensionale dello stile bruckneriano. È caratteristico, ad esempio, il fatto che Bruckner si sia preoccupato di semplificare la logica del discorso strumentale ricorrendo all’espediente di ampie pause nel corso della suddivisione dei singoli elementi o apparati tematici (di qui il nome di Pausen- symphonie attribuitole). Ma una volta dichiarato il limite tecnico e giustificato in sede pratica l’espediente, l’artificio, Bruckner ha saputo egualmente agire in piena libertà, senza mortificare la sostanziale originalità del suo discorso. Si potrebbe dire, tutt’al più, che con la Seconda Sinfonia Bruckner ha scoperto un nuovo stato di equilibrio, un nuovo elemento calibratore del quale egli farà anche ampio uso in seguito.
Dal punto di vista costruttivo interessa particolarmente l’impiego di una larga periodizzazione tematica. Si osservi, ad esempio, l’ampia arcata del tema di apertura (che troverà una contropartita nella proposizione iniziale della Settima Sinfonia). Il tema non è soltanto concepito come idea fissa, che in seguito dovrà essere sviluppata seguendo un determinato ordine a discrezione del compositore, ma è subito enucleato nella sua fase di sviluppo, di permutazione, di logica amplificazione. In tal modo, la prospettiva tematica si allarga notevolmente, poiché è l’enunciazione stessa che nella sua ampiezza offre lo spunto per uno ‘svolgimento’ di proporzioni eccezionali.
L’atteggiamento generale della Seconda Sinfonia tende al lirico, al ‘devozionale’ con una predilezione quasi costante per elementi di derivazione popolare. Tale è il caso del secondo tema del primo movimento, un tema che è concepito in funzione polimelodica: il giuoco dei secondi violini ha sapore nettamente popolare e si riallaccia al tipo dello Jodel dell’Alta Austria, caro anche ad Haydn e a Schubert: nella sequenza ostinata di questo curioso ondeggiamento melodico s’inserisce il canto – o controcanto – dei violoncelli. Da questo secondo tema ne scaturisce quasi subito un terzo, sostenuto da una insistente formula ritmica degli archi. Ma l’esposizione non è ancora terminata, poiché dopo l’enunciazione dei tre temi compare inaspettatamente un episodio di toccante delicatezza sonora. Lo sviluppo è frutto d’una vistosa elaborazione tematica che, pur nella solennità di certi suoi atteggiamenti, è ancora ben lontana dalle drammatiche risultanze delle ultime sinfonie.
L’Andante è forse la pagina più interessante della sinfonia. La forma adottata è quella del rondò, il cui impiego diverrà sistematico negli adagi delle ulteriori sinfonie bruckneriane. La particolarità più spiccata di questo lirico brano è data dalle variazioni tematiche che ne occupano la parte centrale. La condotta strumentale è raffinata e ad un certo punto compare una citazione tematica tratta dal Benedictus della Messa in fa minore (1868), inserita da Bruckner «in ringraziamento per la riacquistata forza creativa».
Lo Scherzo, come al solito, incamerato in una possente struttura all’unisono, presenta un quadro di natura folkloristica in tutte le sue parti, nelle quali si alternano motivi principali ed ausiliari. Specifico della Bassa Austria è il tema fondamentale dello Scherzo, mentre il Trio, che è un piccolo capolavoro di ricerca strumentale e dì venatura cromatica, prelude a quei risultati di «melodia dei timbri» che da Mahler e Schoenberg in avanti si svilupperanno con sempre crescente intensità.
Il Finale è condotto secondo la forma del rondò combinata con quella della sonata, con un primo tema che è chiararamente derivato dal primo tema del movimento iniziale; l’architettura generale della pagina si regge su tre temi e su una citazione; la citazione questa volta è ricavata dall’Eleison finale della Messa in fa minore. L’organizzazione tematica esercita, per così dire, una notevole forza d’urto e s’impone attrverso copiose fluttuazioni dinamiche che in più punti denotano l’applicazione di un’eccitante concezione organistica, quale del resto era perfettamente connaturata a Bruckner, a quel tempo noto soprattutto per le sue qualità di organista ed, anzi, appena reduce da una trionfale tournée a Londra.

Sinfonia n. 3 in re minore “Wagner-Symphonie”

Anche della Sinfonia n. 3 Bruckner elaborò più versioni tra il 1873 e il 1889. In origine essa conteneva alcune citazioni di temi dal Tristano, dalla Walkiria e dai Maestri cantori che Bruckner tolse successivamente, forse per consiglio dello stesso Wagner: questa prima versione non venne mai pubblicata. Rimase però la dedica «al Maestro Richard Wagner in profondissima venerazione». La Sinfonia n. 3 venne eseguita per la prima volta a Vienna (nella prima versione stampata) il 16 dicembre 1877, direttore lo stesso Bruckner.
In questa sinfonia il messaggio comune che sembra presente in tutte le sinfonie di Bruckner si accentua, intensificando il suo aspetto eroico, manifestato da squilli e perorazioni. Il primo tempo inizia con l’ormai tipico sfondo (mormorio di archi con suoni tenuti di legni) che sorregge un incisivo, baldanzoso tema della tromba formato da intervalli dell’accordo perfetto (qui di re minore). Il tema si sviluppa poi in crescendo (corni, legni), scandisce in unisono una seconda frase, proseguita poi nell’ampio, variegato dialogo: da qui già si percepisce il più vasto orizzonte dell’intera Sinfonia n. 3, e un presagio della n. 4. Solo alla centesima battuta appare il soave, sinuoso secondo tema (archi, corni), ricco di controcanti, esteso attraverso un crescendo per giungere, dopo altre cento battute, a un grandioso tema di corale (ottoni) con ritorno al tema d’inizio. Una simile complessa esposizione richiede un adeguato sviluppo e una non meno adeguata ripresa dei temi: tuttavia soltanto nell’ampio respiro e in qualche particolare armonico si può rintracciare l’influsso di Wagner, dal quale Bruckner rimane lontano per ritmo, orchestrazione e struttura del discorso. La ripresa delle due prime cellule tematiche, sottilineate da un ostinato, chiude il movimento. L’Adagio (mi bemolle maggiore) disteso e quasi devoto, con pause meditate, elabora anch’esso tre temi, tocca alcune punte di sonorità e di slancio eroico per sfumare poi in un pianissimo che prelude a Dvorak e al primo Strawinskij. Lo Scherzo passa da un’idea rotante premahleriana a un clima danzante austriaco vicino al Ländler nel Trio, elaborato tuttavia in eleganti contrappunti. Il finale Allegro aperto da un ribollente crescendo degli archi, oppone uno scandito elemento eroico a una deliziosa, accattivante, sinuosa polka sovrapposta a un corale (corni e tromboni): secondo Bruckner un simbolo della vita (danza) opposto alla sua fine (corale). Dopo episodi contrastanti, con echi vagamente wagneriani (fortissimo degli ottoni) la ripresa termina in una sfolgorante trasformazione in re maggiore del primo, squillante elemento del primo tempo, che appare quasi un presagio del tema iniziale della Sinfonia n. 4.

Sinfonia n. 4 in mi bemolle maggiore “Romantica”

Anton Bruckner scrisse la sua Quarta Sinfonia a Vienna nel 1874. I quindici anni successivi videro nascere un’intricata serie di revisioni e modifiche (alcune delle quali estranee alla volontà del compositore) che confusero e disorientarono esecutori, storici e studiosi bruckneriani. Soltanto nel 1953, con la pubblicazione dell’edizione critica di Leopold Nowak, la storia delle versioni della Sinfonia divenne chiara. Una prima revisione generale avvenne ad opera del suo autore nel 1878 con modifiche al primo, al secondo e al quarto movimento e una riscrittura integrale del terzo; nel 1879 Bruckner ritornò sulla partitura modificando profondamente il movimento finale, ora più intenso e drammatico rispetto al precedente. Il 20 febbraio 1881 Hans Richter a capo dei Wiener Philharmoniker diresse questa versione della Sinfonia (conosciuta come “seconda versione”, quella qui presentata); ma dopo questa data Bruckner mise mano ancora alla partitura scorciando l’Andante e modificandone la strumentazione.

Anton Bruckner

La storia delle versioni della Quarta discende direttamente dalla storia delle sue edizioni a stampa (Lõwe e Schalk 1887-88, Gutmann 1889, Eulenburg 1895, Wõss 1927, Redlich 1954, Nowak 1953 e 1975), alcune fedeli alle modifiche volute da Bruckner, altre più inclini a raccogliere le revisioni di amici e allievi del musicista.
Nell’intera produzione sinfonica di Bruckner la Quarta Sinfonia “Romantica” è l’unica ad avere un titolo; furono gli amici e gli intimi di Bruckner a insistere perché lo stesso autore fornisse delle indicazioni programmatiche alla Sinfonia, che sono piuttosto generiche ma aiutano l’ascoltatore a entrare nel giusto clima musicale: una città medievale, l’alba, il richiamo delle trombe, il galoppo dei cavalieri nella foresta (Primo movimento); una marcia funebre (Secondo movimento); una caccia alla lepre seguita dal pranzo dei cacciatori (Terzo movimento); una festa popolare (prima versione del quarto movimento, poi completamente riscritto). Ma forse la chiave di comprensione per la musica di Bruckner è da cercare nelle parole di Giacomo Manzoni: «Nelle sue partiture sinfoniche il tempo a volte sembra arrestarsi nella contemplazione, come se volesse tornare all’armonia della natura, all’infinita armonìa dell’universo: primo e secondo tema, esposizione e sviluppo, tutto si fonde in un vasto affresco sonoro dove non c’è più lotta ma solo adorazione e fede, olocausto di gioie e di dolore umani all’Ente supremo».
La forma del primo movimento, Bewegt, nicht zu schnell (Mosso, non troppo veloce) è quella impiegata da Bruckner in tutti i suoi lavori sinfonici, ovvero la forma-sonata, costituita da una sezione di esposizione (192 misure), dalla sezione elaborativa (172 misure), dalla ripresa (136 misure) e dalla coda finale (72 misure). La prima area tematica è articolata in due temi entrambi in mi bemolle maggiore: una specie di lontano richiamo dei corni introdotto da un tremolo misterioso degli archi e una solenne scala discendente affidata agli ottoni. Il richiamo dei corni, basato sull’intervallo di quinta giusta, è il vero e proprio nucleo fondante dell’intero lavoro sinfonico: dalle misteriose brume sonore rappresentate dal tremolo degli archi sorge, solenne ed eroico, questo semplice ma intenso motivo che garantisce unitarietà a tutto l’impianto sinfonico (circa un’ora di musica).
La seconda area tematica si apre con una sensuale movenza di danza affidata ai violini primi (re bemolle maggiore) sulla quale si innesta il morbido controcanto delle viole: è un richiamo musicale al verso della cinciallegra (chiamato da Bruckner zizi-be); il suo sviluppo, intenso e incalzante, conduce a un secondo motivo (sempre in re bemolle maggiore) formato da una serie di scale discendenti presentate in imitazione da violini e legni. Nella terza area tematica (in si bemolle maggiore) è presente un solo tema, esposto in fortissimo da tutta l’orchestra e chiaramente derivato dalla solenne scala discendente della prima area tematica: è il richiamo dei cavalieri in groppa ai loro destrieri. La coda dell’esposizione, annunciata da una sorta di fanfara degli ottoni, vede il ritorno del tema di danza che si spegne lentamente in pianissimo.
Lo sviluppo può essere diviso in quattro sezioni: la prima è annunciata da una dolente scala cromatica discendente degli archi cui rispondono oboi e clarinetti col tema principale. La seconda si apre col tremolo degli archi e col richiamo dei corni (tema principale) che, in un poderoso crescendo orchestrale, conducono alla terza sezione dello sviluppo, interamente basata sul tema della terza area tematica: qui si raggiunge il climax emotivo e sonoro del movimento. Un improvviso pianissimo (tremolo dei violini) apre l’ultima sezione di sviluppo, nella quale udiamo ancora il richiamo dei corni seguito da un solenne corale degli ottoni, momento di raccoglimento interiore dopo le “battaglie” musicali precedenti.
La ripresa si differenzia dall’esposizione per il delicato controcanto col quale il flauto accompagna il tema principale dei corni; per il resto corre parallela all’esposizione, con i dovuti aggiustamenti tonali (seconda area tematica in do bemolle maggiore = si maggiore; terza area tematica in mi bemolle maggiore). La coda, che parte quasi misteriosamente con un più che pianissimo degli archi, elabora fino al parossismo il tema principale (richiamo dei corni) col quale si conclude il movimento in fortissimo.
Anche l’Andante quasi Allegretto è scritto in forma-sonata; il primo tema (in do minore), presentato dai violoncelli, è una melodia struggente ma dolente che contiene al suo interno riferimenti motivici al primo movimento (l’intervallo di quinta giusta, il ritmo puntato); un breve episodio affidato agli archi, sorta di preghiera corale, conduce al secondo tema (in sol minore), costituito da una lunga melodia delle viole sorrette dal pizzicato dei violini. La fine dell’esposizione è affidata a un nuovo motivo, anch’esso dal carattere di corale, esposto agli archi. Lo sviluppo si apre in tonalità maggiore e combina magistralmente elementi dei due temi principali. Nella ripresa del primo tema ai violoncelli si unisce ora l’oboe con un delicato controcanto; Bruckner omette la ripresa della preghiera corale degli archi e passa direttamente al secondo tema delle viole (ora in la minore). Ma, anziché passare alla coda (come prevede la forma sonata canonica), Bruckner riprende ancora il primo tema, ora esposto con passione da flauti, oboi, clarinetti e corni e arricchito dalle inquiete scale di semicrome dei violini. È un passaggio di grande intensità emotiva che culmina in un grandioso crescendo orchestrale; la coda finale si spegne in pianissimo sui rintocchi quasi funebri dei timpani.
Un tremolo di violini e viole in pianissimo (simile a quello che avevamo udito all’inizio della Sinfonia) apre lo Scherzo tripartito (Bewegt), uno dei movimenti sinfonici più famosi di Bruckner, che qui racconta in musica una movimentata scena di caccia, coi richiami dei cacciatori, la concitazione della muta, l’incertezza dei cacciatori e infine la gioia del successo finale. Nella prima parte, sopra il tremolo degli archi, si staglia solenne una gioiosa fanfara nella quale si rispondono, in un gioco di echi tipici della musica di caccia, i corni e le trombe. Il secondo tema, più delicato e sereno, è invece affidato agli archi. Da notare che entrambi i temi dello Scherzo sono costruiti sull’intervallo di quinta giusta, il nucleo fondante della Sinfonia. La seconda parte, Etwas langsamer (Un poco più lento) riutilizza i due temi, alternandoli e combinandoli variamente; la ripresa integrale della prima parte conclude lo Scherzo. Il Trio è un delizioso Ländler popolare che si apre con un delicato tema esposto da oboi e clarinetti sorretto ritmicamente dal pizzicato degli archi; il tema passa poi ai violini che lo sviluppano e lo elaborano. Regolare la ripresa dello Scherzo che conclude il movimento.
Il Finale Bewegt, doch nicht zu schnell (Mosso, ma non troppo veloce) in forma-sonata è formato da un’ampia introduzione, dall’esposizione (con tre aree tematiche, come nel primo movimento), dallo sviluppo (diviso in cinque parti) e della ripresa. L’introduzione in si bemolle maggiore (dominante di mi bemolle maggiore, tonalità d’impianto) è una pagina piena di attesa e di trepidazione che, attraverso un grandioso crescendo orchestrale, sfocia nell’esposizione, Langsamer (Più lento). La prima area tematica è costituita da un solo motivo, esposto da tutta l’orchestra all’unisono in fortissimo (mi bemolle minore), quasi brutale nella sua durezza. La seconda area tematica contiene due temi: il primo (in do minore), Noch langsamer (Ancora più lento), ha il carattere della marcia funebre (tema ai violini, sostegno ritmico a celli e bassi in pizzicato), il secondo (in do maggiore) ha carattere “arabeggiante” e viene affidato ai legni, sempre sul sostegno ritmico dei bassi in pizzicato, e poi ripreso dagli archi ed elaborato dall’intera orchestra in un gioco continuo di ambiguità fra tonalità maggiore e tonalità minore. La terza area tematica contiene un solo tema (in si bemolle minore), robusto, violento, drammatico, quasi urlato a piena voce dalla sezione degli ottoni sopra le ribollenti sestine di fiati e archi.
Lo sviluppo, enorme nelle proporzioni, è diviso in cinque sezioni: la prima si apre in pianissimo con le stesse figurazioni che avevano aperto il movimento, la seconda ripropone il tema “arabeggiante” in drammatica opposizione fra ottoni e archi, la terza è basata sulla marcia funebre (ora in fa minore) mentre l’ultima, la più estesa, è tutta dedicata al terzo tema violento e drammatico. La ripresa presenta alcune differenze rispetto all’esposizione, sia dal punto di vista armonico-tonale che da quello strutturale (la più evidente è la mancanza della terza area tematica). Nella coda ritorna il clima musicale misterioso e brumoso dell’introduzione che mano a mano si “apre” alla tonalità maggiore in un finale mistico e quasi visionario.

Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore

La prima versione della Sinfonia n. 5 venne terminata da Bruckner il 9 agosto 1877, ma fu eseguita solo l’8 aprile 1894, a Graz, sotto la direzione di Franz Schalk. Bruckner ne fece successivamente una revisione nel 1878, e questa venne eseguita nel 1935, a Monaco, direttore Hausegger.

Ritornando per una volta alla consuetudine di molte sinfonie classiche (Haydn, Mozart, Beethoven), Bruckner apre questa Sinfonìa con una introduzione lenta prima dell’Allegro caratterizzata da un pizzicato dei bassi, da una distesa linea i centrale degli archi, da un breve unisono e corale di ottoni. L’Allegro entra quasi senza cesura con un altro corale cui succede il primo tema (archi, poi fiati, in progressione) e un secondo in pizzicato. Questi due temi e un terzo (più altri elementi) vengono in seguito alternati o elaborati con materiale dell’introduzione, lungo un discorso ricco di contrasti e di diversioni: procedere, questo, tipico in Bruckner e che da questa sinfonia in poi si accentuerà sempre più, mostrando un allontanamento dalla abituale dialettica sonatistica, apparentemente soppiantata da ripetizioni, cesure, disarticolazioni, unisoni clamorosi e progressioni. Pizzicati anche in apertura dell’Adagio introducono a una melopea dell’oboe (poi di altri legni e degli archi); segue la larga melodia (archi) del secondo tema che spazia dal centro al sopracuto, liricamente, prendendo poi aspetto quasi di corale con sempre più accesa sonorità. Questi elementi si alternano assumendo vari aspetti, a volte di rude sonorità, attraverso progressioni modulanti, fino alla conclusione rarefatta in pianissimo, simile all’inizio. Lo Scherzo accelera il primo tema dell’Adagio dandogli un affanno quasi tragico con asimmetrie ritmiche; un Trio, che costituisce piuttosto un’idea supplementare, si distende con carattere danzante e agreste (fa maggiore), e sfocia poi nella ripresa dello Scherzo senza cesure. Segue un breve secondo Trio, più crepuscolare (corni, legni), con inattesa perorazione di ottoni. Il motivo dello Scherzo e del primo Trio si alternano poi variamente, contrastando, fino a una chiusa in rapido crescendo. Il Finale inizia ripetendo l’Adagio iniziale della sinfonia e il primo tema dell’Allegro e dell’Adagio successivo; quindi scandisce un motivo quasi di marcia (Allegro moderato), seguito subito da un motivo rapidamente contrappuntato. Il contrappunto, già elemento fondante in Bruckner, trova in questo finale grandioso una vera apoteosi: dopo accelerazioni e rarefazioni del primo tema, un solenne corale modulante degli ottoni sfocia in un vasto procedimento fugato con pause iniziali spaziate: ne nasce una estesissima fuga a due soggetti cui segue uno slanciato episodio su motivi cantabili, luminosi e una ripresa del tema principale del primo tempo, con movimento trascinante. Il corale ritorna poi, sovrapposto al primo tema, per dominare in una imponente, raggiante conclusione.

Sinfonia n. 6 in la maggiore

Ancora oggi la Sesta Sinfonia in la maggiore non è tra le più conosciute ed eseguite di Bruckner, forse perché non risponde in pieno a quella idea di grandiosità e di potenza strumentale cui è affidata l’immagine più rilevante di questo autore. Non è che nella sinfonia manchino momenti di densa polifonia e di solida disposizione contrappuntistica; soltanto che il tono generale appare più controllato e dimesso e si avverte una intelaiatura strutturale più frastagliata e spezzettata rispetto alla Quarta e alla Quinta Sinfonia, con molti ripiegamenti e ripensamenti intimistici e a volte dispersivi. La Sinfonia in la maggiore, con lo stesso massiccio organico della Quarta, ebbe una gestazione a più riprese: il primo tempo fu composto tra il 27 settembre 1879 e il 9 giugno 1880; il secondo venne terminato il 22 novembre 1880; il terzo fu scritto tra il 17 dicembre 1880 e il 17 gennaio 1881; il quarto tempo fu composto tra il 28 giugno e il 3 settembre 1881. La prima esecuzione parziale (il secondo e il terzo tempo) ebbe luogo a Vienna l’11 febbraio 1883 sotto la direzione di Wilhelm Jahn: tra il pubblico c’erano Brahms, che si unì agli applausi di molti ascoltatori, e Hanslick, che rimase muto e freddo come una sfinge, secondo il racconto di un allievo di Bruckner.
Un insistente e prolungato battito ritmico caratterizza il primo movimento (Majestoso), in cui il tema iniziale molto vigoroso si sovrappone al moto uniforme di una insistente reiterazione. Ogni pesantezza viene fugata in virtù di un disegno ritmico vivace e nervoso, anche quando la pienezza fonica si dilata nella riesposizione della frase iniziale, toccando momenti di straordinaria energia sonora. Il secondo tema, liricamente delicato, si insinua tra le varie sezioni strumentali e determina una linea espressiva più affannosa, interrotta da un breve corale di stampo organistico, prima di sfociare nel terzo tema, energico ed imperioso. A questo punto il discorso musicale si allarga e si anima progressivamente e i vari temi sembrano travolti dalla figurazione ritmica di attacco, riemergente da una solenne riproposta del primo soggetto, esaltato in modo entusiasmante nella coda finale.
L’Adagio ha un tono affettuosamente riflessivo è si articola in tre gruppi tematici: il primo tema in si bemolle minore ha un andamento pensoso e dolente; il secondo tema in mi maggiore è più effusivo e liederistico, mentre il terzo tema si presenta come una marcia funebre anticipatrice del grande Adagio della Settima sinfonia. Secondo alcuni studiosi tale marcia lascia presagire alcuni squarci sinfonici mahleriani: non per nulla il nome di Mahler è legato alla prima esecuzione integrale della Sesta Sinfonia che il musicista diresse a Vienna il 26 febbraio 1899. Dopo laripresa degli altri temi il secondo tempo si conclude in un rarefatto clima sonoro.
Lo Scherzo evoca nel suo incantato fantasticare sensazioni e immagini derivanti dalla mitologia nordica del tipo Notte di Valpurga. Infatti, secondo Sergio Martinetti, il brano sembra accostarsi ad una concezione romantica che da Mendelssohn giunge sino ad un modo di sentire di Berlioz per certe annotazioni strumentali e per i timbri espressivamente cangianti. Il Trio è il classico Ländler bruckneriano con le pastose armonie dei corni immerse in un clima di trasognata e lunare contemplazione.
Nel Finale vivo e tempestoso Bruckner ricapitola situazioni tematiche e atteggiamenti psicologici esposti in precedenza. La tensione, resa più acuta e tagliente dall’intervento concitato degli ottoni, si impone all’ascolto per gli sbalzi dinamici e le impennate sonore che interrompono il fluente discorso orchestrale su una materia densamente contrappuntistica. Improntata ad esultante festosità giunge la conclusione della Sesta Sinfonia, definita da Bruckner la più impertinente («Die Sechste ist die Kechste») tra quelle da lui composte nell’intero arco creativo.

Sinfonia n. 7 in mi maggiore

In preda a quella «genuina febbre della Sinfonia» che perfino il suo grande rivale Brahms non esitava a riconoscergli, Anton Bruckner pose mano a quella che sarebbe divenuta la sua Settima sinfonia (in realtà la nona, se si contano le due giovanili rimaste nel cassetto) il 23 settembre 1881, a soli venti giorni di distanza dal completamento della Sesta. La composizione del primo tempo (del cui primo tema, disse, aveva avuto in sogno l’ispirazione, sotto l’aspetto di un assolo di viola) si intersecò con quella di altri lavori di minore importanza; poi Bruckner si interruppe, avviando il 14 luglio 1882 la stesura dello Scherzo, per terminarla il 16 ottobre: durante l’estate, a Bayreuth, aveva assistito alla prima rappresentazione del Parsifal (il cui assunto mistico andò del tutto perduto per il pur piissimo Bruckner, che badò soltanto alla musica). Tornò quindi al primo tempo, che fu pronto il 29 dicembre. Dal 22 gennaio al 21 aprile 1883 lavorò all’Adagio: il 13 febbraio, quando già Bruckner aveva composto 180 delle 219 misure di cui esso consta oggi, moriva a Venezia Richard Wagner; e Bruckner, che più tardi avrebbe dichiarato di aver composto tutto l’Adagio quasi presago della scomparsa del grande musicista da lui venerato, terminò il movimento con una Coda stupenda, la trenodia intonata dalle quattro tube wagneriane. In meno di un mese, dal 10 agosto al 5 settembre 1883, nasceva il Finale. La partitura sarebbe stata pubblicata nell’85, con la dedica al re Luigi II di Baviera.
Si trattava ora di far eseguire la nuova Sinfonia: fu, ancora una volta, un calvario, con tutto che Bruckner, dopo il grande successo riportato nel febbraio ’81 dalla Romantica, proprio in quella Vienna che tanto gli era ostile perché dominata dai circoli antiwagneriani raccolti nel nome di Brahms intorno al critico della «Neue freie Presse» Eduard Hanslick, gli avesse aperto le vie della celebrità e almeno di un certo rispetto da parte degli avversari. Prima ancora che Bruckner avesse terminato l’adagio, nel febbraio ’83, c’era stata alla Bösendorfer-Saal di Vienna un’esecuzione del primo tempo della riduzione per due pianoforti, a opera del fedele Josef Schalk e di Franz Zottmann. Un anno dopo, il 27 febbraio 1884, Schalk e Ferdinand Löwe eseguivano nella stessa sala tutta la Sinfonia, sempre nella riduzione per due pianoforti; versione nella quale la Settima venne presentata altre volte, sempre destando grandissimo interesse. Finalmente il già celebre Artur Nikisch, che era stato allievo di Bruckner, si disse disposto a dirigerla: dopo molti tentennamenti si fissò la data del 27 giugno 1884, ma continuarono a insorgere difficoltà; solo il 30 dicembre la Sinfonia ebbe la prima esecuzione allo Stadt Theater di Lipsia, con grande successo di pubblico e quasi unanime consenso della critica. La riprese a Monaco Hermann Levi nel marzo dell’85; in maggio Felix Motti ne eseguiva l’Adagio a Karlsruhe alla presenza di Liszt. A Vienna fu possibile darla solo il 21 marzo 1886, con Hans Richter sul podio della Filarmonica: il grande successo (Johann Strauss, il re del Valzer, dichiarò in un telegramma essere stata quella la più grande impressione della sua vita) ripagò Bruckner del furibodo boicottaggio messo in opera da Hanslick; che era giunto a protestare pubblicamente contro l’esecuzione delle Sinfonie di lui ed era riuscito a far sì che il concerto avesse luogo di domenica, a mezzogiorno e mezzo, in modo da scoraggiare l’affluenza del pubblico, e che dopo riempì la sua recensione alla Sinfonia di insulti grossolani. Poi la Settima andò sempre più affermandosi come la più fortunata composizione dì Bruckner, insediandosi nel repertorio dei maggiori direttori di tutto il mondo: da noi fece capolino già il 20 dicembre 1896, quando il ventinovenne Arturo Toscanini ne diresse a Torino l’Adagio; e dovè essere la prima volta che in Italia risuonasse la musica di Bruckner, scomparso da poco più di due mesi.
La Settima è dunque la più nota fra le nove Sinfonie bruckneriane, ed è probabilmente il suo capolavoro in senso assoluto. In essa trovano espressione quanto mai compiuta, equilibrata e alta tutte le istanze, anche contraddittorie, che informano il complesso della sua opera sinfonica: misticismo, sensualità del suono, candore, dottrina, fede e nostalgie; il tutto come in una «estrema, maturata spiritualizzazione dell’esperienza romantica» (Rognoni), assunta nello spirito dell’ascesi, dilatata in trasumananti immagini della fantasia, in strutture compositive beatamente sterminate, quasi sospendendo il tempo nella contemplazione di una composita armonia naturale e universale. Nella Settima tutto ciò si traduce in musica sotto il segno di una fluida e distesa discorsività. Si è parlato a questo proposito, ma a sproposito, di un tentativo di emulare Brahms, con il suo fraseggio parentetico, la sua eloquenza maestosamente effusiva: in realtà la chiarezza spirituale che regola anche i momenti più grandiosamente complessi della Settima, ove non mancano quelle apocalissi sonore che in altre composizioni del nostro possono apparire perfino retoriche o smoderate, è da ricondursi a una interna maturazione del mondo espressivo di Bruckner, riprodotta sul piano esterno da un più sicuro intuito formale; maturazione certamente consumata in un’opera in tante cose disuguale e traballante come la Sesta, come s’è visto nata immediatamente prima. I ripiegamenti interiori e segreti che formano il fascino della Sesta (Sinfonia «intima e teologale, fantastica e solare», come ben la identifica Gianandrea Gavazzeni) sono appunto la fase di preparazione delle solenni e purificate meditazioni della Settima, dove nostalgia e cordoglio convivono con un pacificato vitalismo (quasi un ossimoro: ma del resto tutto Bruckner è fatto di contraddizioni, proprio per quella dimensione ecclesiastica, più che non puramente religiosa, della spiritualità di lui, trascendente e mondana al tempo stesso, non meno sinceramente raccolta che esteriorizzata).
Non per caso, Sesta e Settima furono le uniche Sinfonie compiute che Bruckner non tormentasse di rifacimenti e revisioni: l’una, probabilmente, proprio perché «superata» dal capolavoro che la seguì; e questa perché nulla v’era da mutare o migliorare. Un soio problema filologico sussiste, per la Settima, quel colpo di piatti e triangolo che marca il culmine dell’Adagio, al termine del grande crescendo che prelude alla Coda in memoria di Wagner: i due strumenti non figurano in nessun altro luogo della partitura, ed è certo che Bruckner li aggiunse a cose fatte, dietro insistenza di Schalk, che voleva evidentemente sottolineare il carattere dirompente del grandioso cataclisma che corona la monumentale ascesa armonica e dinamica di questa perorazione. Accolto nelle edizioni critiche, questo tocco di strumentazione è però soppresso da molti direttori.

Anton Bruckner

Armoniosamente la Settima fonde in sé i mondi più disparati: dalle torturanti locuzioni armoniche di Wagner alla «divina lunghezza» del sinfonismo di Schubert, costruito sulla cosmica ingenuità delle iterazioni, dalla religiosità domestica di espressioni musicali che sanno di parrocchia di campagna alla
grandeur sonora di maestose liturgie controriformistiche e imperiali, dai semplici abbandoni lirici al possente anelito all’infinito; cucendo insieme tutte queste suggestioni in un disegno formale che non è meno solido e logico per esser dilatato fino al limite di guardia, profeticamente. Un passo oltre, e sarebbe stato il principio della fine: i tempi di Bruckner erano già maturi per il caos che solo Mahler avrebbe avuto il coraggio di rappresentare, obbligando la Sinfonia a farsi metafora dell’abisso. Qui, invece, la grande avventura dello spirito si appoggia ancora a incrollabili certezze; donde la solennità che nella Settima sembra avvolgere anche gli slanci più arditi. Solenne è infatti l’avvio del primo movimento, con il primo tema che sale quasi parsifalianamente, contro la fascia luminosa del tremolo che con tipico stilema bruckneriano apre la Sinfonia; completano l’impalcatura tematica del movimento altri due motivi, organistico l’uno, esposto dai fiati, balzante e incisivo l’altro. Il tempo si dipana con distesa continuità, attraverso massicce elaborazioni contrappuntistiche ed elastiche alternanze di tensione e distensione, fino alla luminosa magniloquenza della conclusione. Tutto concentrazione il lungo Adagio, con due soggetti, gonfio di commossa espressività il primo, l’altro tenero e sereno: oscillando fra questi due poli emotivi il brano esplora le zone più riposte della meditazione, toccando l’innocenza più candida come la più profonda riflessività. Poi il lunghissimo e faticoso crescendo, avvolto dalle tormentate spire del contrappunto degli archi, fino all’esplosione, al punto di rottura (che resta tale con o senza la sciabolata dei piatti): una folgorazione che introduce l’epica luttuosa dell’omaggio funebre a Wagner, nei timbri unici di quelle quattro tube che Bruckner mutuò dalle partiture dell’autore della Tetralogia. La semplicità costruttiva dello Scherzo giustifica il rimando a Beethoven che è d’obbligo per questo come per tanti altri Scherzi bruckneriani; e beethoveniano, degno dell’Eroica, è l’afflato epico che ne informa lo scalpitante impulso ritmico, determinando un momento di olimpica positività, attestata sul movimento di poderose masse sonore, e aperta a oasi pastorali nel Trio. Nel Finale l’unità tematica della Sinfonia appare in evidenza, particolarmente nei richiami al primo movimento: secondo la prassi consueta di Bruckner, questo tempo si svolge secondo un ininterrotto crescendo di tensioni, verso un’ultima vigorosa affermazione, privilegiando sempre di più, nell’ampio panorama emotivo, la dimensione eroica, fusa con l’anelito mistico sotto il segno di uno slancio a tratti perfino irruento, che culmina in granitico addensarsi di sonorità.

Sinfonia n. 8 in do minore

L’ultimo decennio della vita di Bruckner fu di lento declino ma di gloria crescente: e la sua fama, che già giungeva in America (con Theodore Thomas che dirigeva la Settima a New York nel 1886), lentamente conquistava anche Vienna, patria gloriosa e ingrata. Fuori dall’ambiente viennese la sua musica veniva accolta con favore dalla nuova intelligenza europea; così lo scrittore tedesco Paul Heise (futuro premio Nobel) gli scriveva dopo un concerto a Monaco: “Per voi, trascurato e misconosciuto per lunghi anni, l’omaggio della nostra buona città di Monaco è senz’altro un tenue risarcimento. Voi sapete che io appartengo a quelli che sono tutt’orecchio e tutt’anima quando uno dei grandi vati della musica viene a dire la parola necessaria. La vostra Sinfonia [la Settima] fa nascere nella sala quella specie particolare di raccoglimento che costituisce l’atmosfera esclusiva delle supreme manifestazioni del genio…”.
A Vienna Hanslick, indeciso sulla Settima Sinfonia, elogiava il suo Te Deum; l’imperatore gli conferiva la croce di cavaliere dell’ordine di Francesco Giuseppe (9 luglio 1886); Brahms finiva di riconciliarsi con lui in un incontro conviviale all'”lstrice rosso” (25 ottobre 1889, quando Bruckner sblocca l’iniziale imbarazzo con una franca battuta di spirito: “C’è almeno un punto in cui ci capiamo!” disse vedendogli portare un piatto di Knödel). Ma i rapporti tra l’isolato compositore (“chiuso nella sua torre d’avorio” noterà il giovane Sinigaglia giungendo di lì a poco a Vienna) e il superbo direttore della “Gesellschaft der Musikfreunde” non hanno seguito, per i loro caratteri aspri e leali, per le loro tendenze artistiche troppo divergenti.
Bruckner si serba solitario, secondo un anacronismo umano che poi vale fedeltà alla vecchia provincia (a cui infatti sa tornare spesso), sede per eccellenza del pio e fedele patriottismo austriaco, confortato da un ideale feudale ormai decaduto che costituisce l’altra Stimmung del “filisteo” Biedermeier austriaco.
Il profilo generico di lui, la sua qualità umana quasi postuma, contrassegnata da una cifra personale quantomeno curiosa se non eccentrica, da un comportamento ingenuo ma oltretutto stupefacente, dall’invadenza quasi fastidiosa di un garbo manierato (che affascinava e poi indispettiva Liszt e Wagner, omaggiati d’una devozione esagerata dall”‘umilissimo servitore” Bruckner), garbo evidente anche nell’antiquato stile epistolare (ma il tutto sempre a patto di una franca immediatezza); e insomma il suo ritratto di uomo tra immaturo e disimpegnato nonché di musicista ingenuo quello che corrivamente accetta o vuol ignorare consigli e modifiche di allievi o di “intermediari” (come benevolmente li chiama il Furtwängler) alla propria opera, se certo trae motivo di una passiva acquiescenza conseguita alla lunga frequentazione giovanile di cerchie ecclesiastiche, tuttavia trova ragione in quell’età precisa di rilassamento sociale che caratterizzava la crisi del mito absburgico.
Da questa visuale, la testarda insistenza e fiducia nei confronti dell’attestato professionale, che gli accresceva ufficialità ma non prestigio (da perfetto figlio, in ciò, della burocrazia austriaca) e più ancora certa sua meticolosa lentezza operativa, pare specchiare come nessun’altra espressione d’arte la sua patria nell’età giuseppina, retta da persone attempate e indugiante in una quiete priva di provocazioni: senza contare che in Bruckner (o meglio nelle sue opere) l’insicurezza, la suggestione, l’ansia di decadenza venivano dalla sua stessa formazione individuale, ritardata e come apprensiva, nonché dalla sua lunga informazione culturale, intenta alla ricognizione retrospettiva di gloriose età musicali passate, prima dell’adesione convinta e consentanea al neo- romanticismo europeo dei suoi tre “numi” (Berlioz, Liszt e Wagner).
Due momenti dunque si possono cogliere nell’umanità di Bruckner: l’uscire come stupefatto da un mondo stabilizzato ma arretrato, salvaguardato dall’autorità ecclesiastica, e poi il penetrare in una società cittadina, sì maliziosa e viva, ma tutta votata alla felicità immobile e fittizia, al benessere senza ambizioni, al legittimismo paternallstico e conservatore (il quadro fattone da Stefan Zweig in Die Welt von Gestern, Il mondo di ieri, ci aiuta, è chiaro); per questo, il suo spirito non muta ed il mondo non lo intacca.
Solo inquadrato in questo suo tempo, situato in questo clima, Bruckner giustifica quella mancanza di una cifra artistica veramente stabile e reverenziale, quella sorta di irresolutezza piena di continui domani (le copiose revisioni di sue opere!), così innaturale proprio a confronto col modello di precoce maturità (anche e proprio fisica), fatto di tanti oggi, esibita dal più giovane eppur coevo Brahms, presto irrigidito ed imprigionato in una sorta di dignitosissima “maschera storica”, in un’immagine d’autorità che la rispettabilità e l’investitura artistica invecchiavano anzitempo, pianificando anche differenze anagrafiche vistose, custodi di anime riservate di garbati idealisti. Ma in quel contesto, Bruckner, anche senza averci lasciato illuminati aforismi e pensieri, giustifica, con la forza evocativa e la spazialità interiore della sua arte, quell’evasione ormai congenita in un passato feudalistico tramandato e difeso, quel rimpianto di un mondo sicuro e saldo, confuso, nella rievocazione, con la nostalgia di ricordi ed età quotidiane (in cui risulta elemento essenziale la componente mistica, tra decadente e morbida, sia nella devozionalità umana contrita e rassegnata, sia proprio nella sua stessa proiezione naturalistica e geografica), perfino quell’odore “erariale”, insomma, che ancora Zweig assegnava al lindo paesaggio della rustica provincia d’Austria. È vertigine, dietro l’accorata o rumorosa gioia di vivere, anche dietro l’ottimismo nativo, che può pretender molto spazio interiore e ridurre molto tempo fisico: vicenda che diverrà letteraria con Werfel e con Musil; ma, nella musica, itinerario all’innocenza che Mahler apprenderà da Bruckner per giungere alla poetica leggendaria della parola, nella dimensione sinfonica del suo Lied.
Tra le esecuzioni che si moltiplicano, Bruckner segue con interesse le corrette interpretazioni di Mahler che dal 1891, con la Prima Messa e la Terza Sinfonia (1895) ad Amburgo e poi le altre sinfonie a New York, prende a dirigere opere del maestro, mentre biasima l’allievo Franz Schalk che senza interpellarlo ha irriverentemente rimaneggiata (come farà anche Loewe) la sua Quarta Sinfonia a Monaco: tuttavia il compositore, consapevole della complessità delle sue opere, dà anche precisi consigli ai direttori, come quando scrive a Weingartner il 27 gennaio 1891: “Come va l’Ottava? Avete già fatto le prove? Per cortesia raccorci il Finale… perché sarebbe troppo lungo ed è riservato per il futuro e per una cerchia di amici e di conoscenti…”. Ove sembra di cogliere l’eco dell’ultimo Beethoven. Ma Bruckner è altresì preciso nelle indicazioni espressive: e ancora nella lettera a Weingartner specifica il carattere di questa sinfonia detta “Tragica”: «Nel primo movimento la parte delle trombe e dei corni esprime l’annuncio della morte che procede sempre più forte, prima di calare nella rassegnazione della chiusa».
Il 7 novembre 1891 è nominato dall’Università di Vienna dottore honoris causa, diploma ambitissimo perché già toccato a Brahms; e 11 dicembre i docenti (ma Hanslick è assente) e gli allievi organizzano un ricevimento in suo onore. Nel 1892 compie un altro congedo, con l’ultima visita a Bayreuth, nel decennale della morte di Wagner. A Vienna le ultime sue gioie: Joseph Eberle gli propone la pubblicazione delle sue opere inedite, mentre Richter, ora che Brahms si è ritirato da qualche anno dalla competizione sinfonica, gli programma l’Ottava Sinfonia. Hanslick, che se n’è andato prima del Finale, scrive il 23 dicembre: “Peculiare anche nella nuovissima sinfonia… è il tentativo di fusione di una asciutta erudizione contrappuntistica con una squilibrata esaltazione sonora. Così gettati qua e la tra ebbrezza e deserto, non raggiungiamo mai un’impressione stabile, un vero godimento artistico. Tutto scorre via senza sosta, disordinatamente, prolissamente… In ciascuna delle quattro parti, soprattutto nella prima e nella terza, c’è qualche spunto interessante, qualche lampo geniale che attrae, se non ci fosse tutto il resto! Può anche darsi che il futuro appartenga a questo frenetico stile… un futuro che certo non invidiamo».
I molteplici commenti di questo autorevole critico in fondo presentano sempre qualche motivo di validità, ad onta dell’avversione sistematica verso contenuti che nega aprioristicamente: vedi la fusione di spirito beethoveniano e wagneriano nella Terza Sinfonia, vedi l’individuazione di Bruckner come enigma di uomo pacifico e di artista progressivo, dopo il Quintetto e la Quarta Sinfonia: vedi ora questo spiraglio di “futuro” che indubbiamente prospetta un indirizzo estetico proseguito da Mahler. Per contro, Hugo Wolf scrive all’amico Kauffmann il 28 dicembre: “Questa Sinfonia è la creazione di un gigante e supera per afflato mistico, abbondanza di idee e grandezza tutte le altre opere del maestro. Il successo fu quasi senza confronto, nonostante la funesta voce di Cassandra. Fu una completa vittoria della luce sulle tenebre e con elementare potenza prorompeva la tempesta dell’entusiasmo, quando le singole parti finivano. In breve, un trionfo che un imperatore romano non poteva augurarsi più bello”.
In questa opposizione di concezioni, ossia tra la denunciata incoerenza e disordine (ovvero eccessiva libertà) formale da un lato, e la fantasia e la forza inventiva dall’altro (anche Mahler, con Wolf, diceva che Bruckner era il musicista che sapeva ancora «esultare» dopo le tenebre, ossia esprimere una certezza che l’imminente espressionismo doveva sconfessare, proprio muovendo dalla dialettica espressiva di Wagner e di Bruckner), in questo divario valutativo si intuisce e si definisce tutta la saliente fortuna artistica del nostro musicista. La cui vantazione si può compendiare presso i paesi tedeschi ed anglosassoni con l’ormai celebre definizione di “quarto B” della storia musicale, dopo Bach, Beethoven e Brahms; e nei paesi latini come epigono wagneriano. Per quanto riguarda l’Italia, ove era sconosciuto prima che misconosciuto fino al sessantesimo anniversario della sua morte (quando fu fondata a Genova una associazione aderente alla “Internationale Bruckner- Gesellschaft” di Vienna), il musicista austriaco, da poco uscito alla ribalta concertistica, ha superato due luoghi comuni, recati dall’abbondante letteratura soprattutto germanica e mutuati convenzionalmente: vale a dire la definizione di sinfonista “wagneriano” e la natura unicamente religiosa riconosciuta alla sua musica. Due referenze, a ben vedere, limitative e pregiudiziali, giacché a Bruckner viene così negata la personalità prima ancora del valore musicale, e ciò dietro una deduzione gratuita ed un’illazione impropria: che cioè a quella umiltà umana che siamo venuti ora evidenziando debba necessariamente conseguire una mediocrità artistica, ed inoltre che dalla sua forzata solitudine operativa derivi un’inattualità, quindi una mancata “presa di coscienza” storica ed espressiva. La musica di Bruckner fu invece esperienza geniale, anche se corredata da una vita senza storia, anche se attuata da un uomo semplice, antiintellettuale ma non inintelligente che, nella sua tozza figura contadina contraddetta dal profilo da “imperatore romano”, rimase umile, mai orgoglioso di investigare realtà spirituali misteriose ed eterne: come ansiosamente sorpreso della sua stessa dote primaria di musicista, fervido ed acceso di mistica gratitudine, conscio che la complessità e la contraddittorietà non andavano disgiunte dalla semplicità del suo spirito.

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L’Ottava Sinfonia, la più vasta ed ambiziosa opera concepita da Bruckner, gli richiese l’impegno creativo più strenuo: sei anni, dal 1884 alle revisioni del 1887 e del 1890 (significativa l’annotazione apposta sullo schizzo del Finale: “Alleluja!”). Era forse la concomitanza di Brahms nell’ambiente artistico viennese a sollecitargli cimenti più meditati, ma lo spingeva altresì l’ambizione nei confronti di un’opera che voleva e sentiva grande (anche dal punto di vista tecnico: bisognerà arrivare a certo Mahler per sorpassare questo gigantesco organico strumentale).
La caratteristica essenziale dell’Ottava consiste proprio in questa dilatazione e quindi nello smantellamento di una concezione sinfonica esperita nelle opere precedenti. Da cui questa Sinfonia non si allontana quanto ad impostazione formale: ma ne esaspera anzi tutto la suddivisione dei tre temi, che qui prendono a configurarsi in gruppi, in coordinazioni motiviche atte a cementare maggiormente il discorso musicale, ad accrescerne anche l’intensità espressiva, nonché, innegabilmente, a debilitarne la logica costruttiva. Ma questo frazionamento minuto del materiale tematico, questa sorta di mosaico che accerta le vecchie simmetrie strutturali, tende a superare nettamente l’impiego del Leitmotiv wagneriano: i recuperi incessanti del materiale musicale si fanno cifre quasi gestuali, condotte su continue “varianti”, come poi avverrà nel sinfonismo di Mahler. Le innovazioni tematiche avvengono così all’interno di battute costantemente uguali, ove la simmetria è simbolo di libertà, anche se spesso attentata da infiltrazioni fin onomatopeiche, come nel passo regolare del “Michele tedesco” (nello Scherzo) o nel fastidioso ansito dell’Adagio.
Proprio in questa costanza, in questo ordinato inserimento nella tradizione, Bruckner attua una prassi liberatoria dei temi e quindi della forma: ove è chiaro che l’ampiezza non deriva da un eccesso esasperato di retorica narrativa né da inceppi ed arresti inventivi: anzi, tutto pare svolgersi in un campo più vasto, in un disteso clima creativo, elementare e logico. Ancor più che nella Nona Sinfonia, qui notiamo il trapasso da una sensibilità prettamente romantica (presente nella Settima) ad un’espressione liberamente primigenia, impietrita o lacerata, ma sempre generosamente aperta, come conscia di un tramonto: avvertibile nell’incantato favoleggiare (nei primi due movimenti) o meglio in certe estenuazioni (nell’Adagio e nel Finale) che rispecchiano l’entropia cosmica, ma anche in certi minuti ritmi naturali, quali il battito cardiaco che chiude il primo tempo: insomma, tutti distacchi verso il “negativo”, salvo che la musica crea sempre distanze, dischiude sempre attese, oltre le conclusioni pacificate o vittoriose, ma provvisorie. Proprio perché Bruckner non risolve l’aporia formale della Sinfonia, non la compromette: l’aggrava semmai di pesi dottrinali (scientia inflat, si sa), ma la sua incorruttibile sincerità non gli consente intonazioni uniformi, così egli articola il fatale fondo “tragico” (uno degli appellativi correnti di quest’Ottava) con cadenze ottimistiche, discrete od effusive. Quindi rappresenta integralmente il suo temperamento come non mai: secondo coscienza e proprietà di giudizio veramente nuovi, quasi inattesi. Una dimensione spirituale, questa, ben colta da Hugo Wolf dopo la prima esecuzione viennese di Hans Richter nel dicembre 1892, impressionato da questa “creazione di un gigante”.
Il primo Allegro moderato enuncia un tema fosco e minaccioso, proposto sommessamente dai bassi sotto un tremolo di violini, ove il vuoto delle pause accentua questo avvio contrastato e tormentoso, tosto ripreso dal violento peso drammatico di tutta l’orchestra. Qui l’atmosfera tesa ed irrequieta scopre, proprio nei silenzi, una lotta sotterranea elementare, una vibrazione ancestralmente immaginosa. La componente lirica del secondo tema non acquieta la precedente tensione, anzi intensifica, nella linea ascendente della melodia, un clima d’ansia implacata. Che porta al cupo e concitato terzo tema, ove l’aspro e contrastato impasto timbrico è coadiuvato da una tessitura di ardite dissonanze. Proprio nell’acme di questo episodio, la fanfara apparentemente liberatrice vale l’annuncio preciso di morte, come ha spiegato l’autore scrivendone al grande direttore Weingartner nel gennaio 1891. Questo è il movente ineluttabile di tutto il pezzo, come già la continua scansione ritmica all’inizio della Sesta Sinfonia: esso ritorna nell’elaborato sviluppo, forse il più magistrale passo sinfonico di Bruckner, e riappare perentorio nella conclusione, fatale marcia sul rullar di timpani. Ma il dramma ha il suo epilogo nella dissolvenza e nel silenzio, per la prima ed unica volta nell’intero sinfonismo bruckneriano: scandito da spezzati respiri sul ritmo del “Totenhur” (notava lo stesso musicista), si spegne nella desolazione, quasi notturno espressionista spopolato di romantici astri.
Il carattere fantasioso dello Scherzo (anteposto all’Adagio, come nella Nona) ha anch’esso, nel suo caparbio moto quadrato ed elementare, una destinazione naturalistica: ma più chiaramente allusiva, se le linee discendenti dei violini sul motivo disteso delle viole, poi i richiami lamentosi e sperduti dei corni e più avanti gli umori bandistici degli ottoni qualificano un paesaggio silvestre e fin alpestre, nel gioco misterioso di echi rarefatti e spezzati. Il tema, inoltre, trasfigura affettuosamente la cifra dell’individuo tedesco, onesto e corrivo, saggio e fantasticante, il “Deutsche Michel”. Da questi tratti di acuta ironia (o forse autoironia), la musica trae una qualità maliziosa ma anche sanguigna, placata nel Trio da un’ispirazione sognante e mistica, come favola pastorale del simbolico personaggio: ove cadenze liederistiche commentano un movente immaginario (forse, il doppio ritratto del musicista e della critica).
Il grande Adagio, nella sua quasi assillante necessità di confidenza, si costituisce ad ampio diario di solitudine e di passione, di rassegnazione e di speranza: ove l’inquietudine deriva dalla tonalità tormentata ed instabile, dall’emotività repressa e spesso evasa dalle frasi principali, dal respiro faticato e gigantesco di ogni proposizione importante. La timbrica incupita dagli ottoni, accresciuti dalle tube, intensifica il discorso di riflessi passionali, di espressioni liricamente violente e drammatiche. Già presentite dalle lunghe volute melodiche degli archi nel primo tema meditativo ed immobile, quindi nel moto di lenta e continua ascesa del secondo soggetto che conduce il discorso, sempre più lussureggiante, verso scansioni anche prepotenti, anche ad apostrofi imperiose. Ma di più contano, in un contesto cromatico di chiara reminiscenza wagneriana, le continue suggestive divagazioni che attuano un nuovo e tutto personale respiro sinfonico; più contano, dei mostruosi orgasmi o delle fin terroristiche apoteosi, certe dilaniate cupezze di temi dilatati su solenni accenti di corale, come poi solo negli ultimi Adagi di Mahler. Tutto un itinerario spirituale è evidente: ma nell’autobiografia circostanziata vedi l’anamnesi di un idealismo incrinato, di un eroismo offeso, di un’umanità debilitata. Ove i vertici sonori chiariscono il diagramma fisso d’una fuga dalla solitudine, dalla clausura, per ricadere poi in altro spazio chiuso. Ove l’alto splendore è dolorosa testimonianza dell’esistenza, affacciata al lento corrompersi del tempo che brucia e disgrega la materia sonora, quasi a specchio del cosmo. La vera grandezza di questo pezzo sta in questo fitto gioco di interni ed esterni, chiarito dal ricchissimo avvicendamento spirituale, dall’incedere accidentato, faticato, sentimentalmente accaldato ma virilmente dolente.
L’enorme Finale è ampio poema a sfondo eroico, che ambisce ad inquadrare il dramma personale dell’artista in una dimensione universale: meno convincente quanto più si affida a gagliarde e pittoresche fanfare (come quella iniziale) o a ritmati episodi marziali (come nel terzo tema). Invece, sono proprio i momenti più raccolti di questo imponente movimento, come il riflessivo episodio tematico centrale, ad aprire, oltre le monumentali ed artificiose decorazioni, preziose scheggiature arcaizzanti, capaci di ripristinare l’ordine naturale della forma sinfonica. Proprio questo secondo tema, infatti, ricupera quello conclusivo della Jupiter di Mozart: e questo rispetto normativo dei maestri maggiori fa del materiale musicale un dato perenne, una sorta di cifra cosmica. Circoscritte certe note aneddotiche (il galoppo iniziale vorrebbe illustrare, con fin barbarica enfasi, l’incontro fra lo Zar e il Kaiser), nell’ampiezza anche dispersiva di questo Finale si scopre così l’assunto sincero ed innocente di una convergenza storica: anche se in questa vasta e complicata struttura Bruckner anticipa terribilmente la musica futura con i mezzi passati e logorati. A sanzionare quest’impegno, spirituale prima che strutturale, interviene, dopo la ricapitolazione tematica, il gruppo dei principali motivi dell’intera opera nella “coda” conclusiva: ma in disposizione non giustapposta (come nella Nona di Beethoven) ma sovrapposta, verticale. Secondo un esito ciclico, dunque, dopo la laboriosa “conquista del campo sonoro” che gli riconobbe Webern.

Sinfonia n. 9 in re minore

La Nona è l’ultima Sinfonia composta da Anton Bruckner: neppure a lui, che per tutta la vita scrisse quasi soltanto Sinfonie, fu consentito di oltrepassare la soglia fatale del numero nove, la colonna d’Ercole fissata dal titano Beethoven. Essa rimase per di più incompiuta, mancante cioè del quarto movimento, sicché di un vero e proprio torso si tratta: un torso non meno che sublimemente monumentale, ma privo appunto di una conclusione che ne certifichi la compiutezza. La questione è stata ampiamente dibattuta, e lo è tuttora. L’opera non venne portata a termine per una circostanza accidentale, ossia la sopravvenuta morte dell’autore, o rimase incompiuta perché dopo il terzo tempo, sorta di struggente congedo dal mondo, questa Sinfonia non poteva essere compiuta o era addirittura, similmente a un’altra celebre Incompiuta (la Sinfonia in si minore di Franz Schubert), già segretamente compiuta in questa forma? Neppure la cronologia ci aiuta a districare il mistero. Bruckner compose i primi tre tempi della Nona tra il 1891 e il 1894, su abbozzi risalenti al 1887. Abbozzi per il Finale, la cui consistenza è largamente lacunosa se non approssimativa, sono databili dal 1894 al 1896, anno della morte. Teoricamente, anche considerando la lentezza con cui Bruckner componeva, non sarebbe mancato il tempo per dare una conclusione alla Sinfonia, ed è certo che l’autore vi pensasse. Di fatto, non lo fece, o non visse abbastanza a lungo per farlo.
Non è l’unico mistero che aleggia su questa partitura di uno spirito tanto apparentemente limpido quanto non avaro di enigmi. Per esempio la dedica, insieme candida e fervida, che l’accompagna, “Dem lieben Gott”, “Al buon Dio”, che segue dappresso quella dell’Ottava Sinfonia all’imperatore Francesco Giuseppe, suo ottimo protettore in vita. Forse che Bruckner pensava di consegnare questo frutto maturo della sua arte, soprattutto se sentito come estremo, al protettore celeste, da lui credente venerato, nel segno di una trascendenza ultraterrena? È la tesi sostenuta dal nostro maggiore studioso bruckneriano Sergio Martinotti, il quale, rilevando nell’opera lo statuto di grandezza – un’altezza di pensiero non meno che di tono – afferma che Bruckner “avvertì che la Nona Sinfonia sarebbe stata la sua ultima: perciò, nel segno dei modelli di Beethoven e di Schubert, la volle grande, a coronamento di tutta la sua carriera musicale, ove la lentezza compositiva, accentuata dal declino fisico, e la dedizione esclusiva a questo lavoro, riflettono chiaramente quella volontà determinata”: come se il “buon Dio” fosse diventato ora l’unico, vero interlocutore a cui rivolgersi. Nell’altezza di pensiero si riconosce l’orgoglio di un musicista passato attraverso le vicende della vita con innocente ottimismo, quasi indifferente alla storia e al tempo, e con una forte componente di libertà. Su questa scia, ma da una prospettiva più laica, un altro studioso del nostro, Quirino Principe, rileva nell’atemporalità che si manifesta sempre più nella musica bruckneriana il tratto principale e luminoso della Nona Sinfonia: ma forse, egli aggiunge, “il senso di attesa, assolutamente ininterrotto dalla prima

all’ultima nota di questo monumento sinfonico, non è soltanto il mondano elemento di una sorta di romanzo o di poema in musica, con i suoi profumi notturni, i suoi slanci quasi erotici ancorché di candidissimo erotismo; è anche l’attesa dell’altrove e quindi (per Bruckner non c’era dubbio) dell’aldilà, sicché l’ascesa della Nona, nei suoi colori e nelle sue linee verticali, verso l’azzurro cupo di un ciclo notturno, è un’ascesa inumidita di rugiada mistico-romantica, molto affine ai distillati di Wackenroder, Tieck e Novalis. […] Al di sopra di tutto, un senso di calmo e vellutato ordine, di liscia tranquillità che fluisce in grandi superfici cerulee”. Anche questa ipotesi, assai affascinante, anela a una certezza, ma non la possiede.
Certo è invece che l’arco sotteso alla Sinfonia è anche concettualmente di massime proporzioni e ambizioni, nonché basato su un materiale tematico omogeneo. Partendo da questo tutto viene dilatato fino all’estenuazione, in una dimensione quasi illimitata, sì da creare un flusso ininterrotto, incalzante e travolgente, attraversato da lampi metafisici nei passaggi di raccordo tra terna e tema. Alcuni stilemi tipici del sinfonismo bruckneriano, nell’armonia, nei rapporti intervallari, nelle figurazioni ritmiche, sono immessi in un contesto come poche altre volte arioso e aerato: accordi in posizione lata, con prevalenza ora di pedali ora di armonie “vuote”, intervalli amplissimi a connotare i motivi di testa dei vari temi, costrutti ora plastici ora fluttuanti di moduli binari e ternari alternati con incisi ritmici pregnanti, sfondi di archi in tremolo a suggerire un’ambientazione atmosferica d’attesa, pittorica e chiaroscurale. Proprio nascendo dallo sfondo del misterioso tremolo degli archi, vera cifra d’autore, il primo tema sembra farsi strada e costruirsi pazientemente per progressiva espansione, tra segnali minacciosi ma radiosi (lo squillo dei quattro corni che sale e scende per ampi intervalli), lunghi effetti di pedale armonico, improvvise impennate di dinamica potente, quasi tellurica. Il secondo tema cantabile degli archi si dipana tranquillo e sereno, sale in alto sino a convergere in arabeschi dei legni e del corno, riapparire nel conseguente innervato di sapienza contrappuntistica e di energia strumentale, per poi spegnersi e ritrovare forza nel prosieguo del movimento toccando l’apice nell’epifania dei corali (legni soli, ottoni soli) cui il discorso periodicamente insieme tende e da cui si distacca. Il primo tempo si sviluppa così senza fretta attraverso ardite avventure armoniche, con forti contrasti di atmosfere tonali e colpi di scena, tra ascese e cadute, pause generali, ondate tempestose, parentesi delicate, culmini interrotti e subito riavviati da capo, elaborando il dissimile fino a farlo diventare identità, e perorare nella coda in crescendo un’apoteosi.
Questo primo movimento è in re minore, tonalità non solo della Nona di Beethoven ma anche delle ultime opere di Bach e di Mozart, congiunte in un crisma di sacralità e di eternità: “Solenne”, oltre che “Misterioso”, sono infatti le indicazioni che l’accompagnano. Il secondo tempo, lo Scherzo vivace, si apre anch’esso con impianto di chiave in re minore, ma si sviluppa in modo sorprendente in fa diesis maggiore (la forma è elementare: Scherzo A-B-A; Trio di segno contrastante, leggero; Scherzo da Capo). Questo scarto tra tonalità – quasi un abisso separa il sarcastico “attacco” di oboi e clarinetti e l’estinguersi sinistro degli accordi ribattuti in ritmo ternario dagli archi – è basato sulle figure saltellanti in pizzicato degli archi e sui ritmi martellanti a piena orchestra del tema dello Scherzo, sorta di tragico Ländler demoniaco. Essi non sono vanificati, ma semplicemente trasfigurati, dal carattere danzante del Trio (in tempo “Schnell”, “Presto”, più veloce anziché più lento come nella tradizione), che costituisce un ponte di immagini fantasmagoriche sospeso verso il rude, massiccio spessore della figurazione iniziale scandita in crescendo, contornata da fruscianti disegni rotatori dei violini e da cupi squilli di ottoni. In un contesto di musica celestiale, questo secondo movimento rappresenta la descrizione o suggestione o evocazione, al limite del grottesco, dell’elemento infernale, che Bruckner sembra voler affrontare e contrastare nel momento stesso in cui lo rappresenta, come in un macabro esorcismo: il diavolo si manifesta qui come l’altra faccia del “buon Dio”.
Del tutto attesa, ma al tempo stesso trascesa, è la struttura del terzo movimento, un solenne Adagio (“Feierlich”) in mi maggiore che, per lunghezza e intensità, ha tutti i tratti di un commiato dalla vita in lenta dissolvenza. Esso si apre con un grandioso, marcato gesto affidato ai primi violini dell’orchestra, costruito su un ampio intervallo di nona minore ascendente: Principe vi ravvisa analogie con l’incipit del preludio del Tristano di Wagner e un’anticipazione di quello dell’Adagio finale di un’altra Nona Sinfonia, quella di Gustav Mahler, dove l’intervallo ascendente è però di un’ottava. Al di là di questi riferimenti, ciò che conta è il senso di ascesa – un vero e proprio salto di livello svettante verso l’alto – che questo ampio gesto comunica, introducendo il panorama ascetico e purificato in cui l’intero movimento si snoda. L’elemento paesaggistico, di un paesaggio celeste nel quale le cose terrene scompaiono alla vista, si intreccia con la disposizione d’animo di un monologo interiore, dilatato a dismisura tra insistite progressioni ma disposto concentricamente attorno al pensiero della morte. In questo viaggio solitario alla ricerca di una catarsi si alternano raggi di luce splendente (il tema in la bemolle maggiore che segue alla lentissima introduzione, intonato da primi e secondi violini all’unisono sul controcanto delle viole), momenti di rarefatto silenzio cosmico su radi timbri isolati, grandi sonorità organistiche, scoppi tellurici di visioni apocalittiche rese da armonie fortemente dissonanti e incarnate da gloriose e quasi deliranti fanfare di ottoni: simboli cui i Corali di sole tube conferiscono, con il loro carattere innodico, il significato di un appello inesorabile. Poi tutto si avvia pacatamente e struggentemente alla fine, riecheggiando molteplici memorie tematiche, dal conclusivo disegno dei violini che richiama il tema del Graal parsifaliano ai corni che da ultimo citano il tema iniziale in arpeggio della Settima Sinfonia.
La Nona non si sottrasse al destino di altre Sinfonie di Bruckner. Scomparso l’autore, l’amico Ferdinand Löwe rimaneggiò profondamente e molto arbitrariamente la partitura dei tre tempi e presentò la Nona nella propria versione a Vienna l’11 febbraio 1903. Dovevano passare quasi trent’anni prima che la versione originale della Nona fosse conosciuta al pubblico. Il 2 aprile 1932 Siegmund von Hausegger eseguì a Monaco contemporaneamente le due versioni, quella discutibilissima di Löwe e quella originale di Bruckner, affinchè il pubblico ne rilevasse le differenze e giudicasse. Da quando l’attività della Internationale Bruckner-Gesellschaft costituitasi a Vienna ha fornito la nuova edizione critica degli opera omnia di Bruckner, nessun ostacolo si frappone più alla restituzione, ormai ovviamente consolidata nelle esecuzioni, della lezione originale, approntata per la Nona da Leopold Nowak nel 1951. Resta aperto il problema del Finale, per il quale la tradizione vuole che Anton Bruckner prima di morire raccomandasse che dovesse essere rimpiazzato dall’esecuzione del suo Te Deum in calce ai tre movimenti compiuti. In tempi più recenti musicologi e studiosi hanno provato a venire a capo di questo problema cercando di ricostruire integralmente il Finale sulla base degli schizzi rimasti. Il più accreditato di questi tentativi si deve a due italiani, Nicola Samale e Giuseppe Mazzuca, che nel 1986 presentarono in prima mondiale il loro lavoro, incontrando un certo favore, ma non tale da farlo entrare stabilmente nel repertorio.

Anton Bruckner

Si tratta, come si è detto, di una questione irrisolvibile. Ha dunque ragione Nikolaus Harnoncourt quando afferma che ciò che possiamo al massimo ottenere è di far conoscere al pubblico il Finale nella sua reale lacunosità di documento, com’egli stesso ha fatto dirigendo i Wiener Philharmoniker prima
in una lezione-concerto a Salisburgo nel 2002 e poi in una recentissima, pregevolissima incisione discografica, senza pretendere di completarlo: ciò che manca non va semplicemente eseguito. È forse questo il destino ultimo di una Sinfonia che reca in sé enigmaticamente il carattere di un sublime torso e di un’opera in sé compiuta: la sua indecifrabilità è segno augusto, eterno della sua forza.