Chopin Fryderyk

Concerti per pianoforte e orchestra 1&2

Chopin scrisse i suoi due Concerti per pianoforte e orchestra tra i 19 e i 20 anni d’età, quando ancora si trovava a Varsavia; furono pubblicati durante il periodo parigino, il Concerto in mi minore nel 1833 come op. 11 mentre il Concerto in fa minore, composto precedentemente, fu stampato nel 1836 come op. 21. Resta singolare che nella seconda metà della sua esistenza, dopo aver abbandonato la Polonia, Chopin non abbia più scritto alcun lavoro per pianoforte con accompagnamento d’orchestra.
Krystian Zimerman è uno dei migliori pianisti dell’era moderna. La sua tecnica è eccezionale. Le sue esibizioni, come in queste due partiture, lo rendono uno dei pochi artisti davvero grandi. Un’altra ragione per la quale le registrazioni di Zimerman sono eccezionali è che è molto selettivo in ciò che suona e registra. Limita il suo repertorio musicale a quello che a lui piace e con il quale si trova a suo agio, piuttosto che suonare qualsiasi cosa il pubblico voglia acquistare. Questo particolarità appartiene solo ai pianisti con una carriera ben consolidata e soprattutto appezzata dal pubblico.
Carlo Maria Giulini è stato uno dei migliori direttori quanto Zimerman lo è da pianista. Entrambi hanno inciso questi due Concerti con grande maestria e affiatamento . Ottimo anche l’accompagnamento della Los Angeles Philharmonic Orchestra. Registrazioni eseguite dal 1979 al 1980. Assolutamente da non perdere.

Concerti per pianoforte nn. 1 & 2

Come i suoi contemporanei Mendelssohn e Schumann, anche Frédéric Chopin non pervenne ad età avanzata. Non gli fu dunque concessa una produzione musicale che avesse le tipiche caratteristiche degli anni della vecchiaia: anche le sue ultime composizioni restano pur sempre le creazioni di un uomo relativamente giovane.
Chopin crebbe in un ambiente binazionale, in un’epoca storicamente difficile, ed esibì il suo straordinario talento per la massima parte nei salotti e durante l’esilio. Come prima di lui Domenico Scarlatti e dopo di lui Aleksander Skrjabin, affidò le conquiste della sua arte creativa quasi esclusivamente al pianoforte.
Sono per lo più composizioni delicate, illustrative e melanconiche, dalla configurazione armonica personalissima e dalla scrittura riccamente ornata. L’altra coscienza artistica di Chopin fu facilmente dimenticata, e nella sua personalità si scorsero piuttosto parvenze esoteriche e la fragilità di salute.
La vita di Chopin, così come si svolse, fu in definitiva tale favorire in letterati del periodo successivo – si pensi solo a Guy de Pourtalès (1881-1941) – l’idea che il compositore fosse una mescolanza di effeminato funambolismo pianistico, erotismo tragico e tubercolosi. Così Chopin divenne anche l’idolo di una piatta letteratura d’intrattenimento, perfettamente idonea a suggerire presso un largo pubblico una comprensione errata della sua musica.
Ne risultò l’idea convenzionale che romanticismo fosse sinonimo di atteggiamenti sentimentali, e fino agli anni Trenta del nostro secolo rimase a volte invischiata in questa concezione anche la prassi esecutiva.
Un tale approccio alla comprensione di Chopin ha in ampia misura tralasciato gli agganci con la tradizione, senza i quali però l’opera di Chopin è inconcepibile. La linearità e l’ornamentazione personalissime della sua scrittura per pianoforte non sono pensabili senza l’arte di Johann Nepomuk Hummel (1778-1837), uno degli ultimi allievi di Mozart, e tanto meno lo sono se non si tiene conto delle peculiarità stilistiche dei Notturni composti dall’irlandese John Field (1782-1837) o dell’estetica della prima pianista professionista, Maria Szymanowska (1789-1831), il cui pezzo per pianoforte “Le murmure” diventò il modello diretto dello Studio op. 25 n. 1 di Chopin.
In tal modo è anche tratteggiata la posizione anomala di Chopin rispetto allo stile pianistico dei suoi contemporanei che concepivano una composizione musicale più in accordi. Tuttavia c’è da ricordare Bellini che con il suo melos ha esercitato un’ulteriore, e non certo irrilevante influsso su Chopin.
Tra il 1827 e il 1831 Chopin compose tutte le sue opere per pianoforte e orchestra. Esse mostrano in quale misura egli fosse e rimanesse sempre il compositore che scriveva per uno strumento particolare, per il suo strumento solista – senza voler sminuire per questo il valore di alcuni Lieder e brani cameristici. Noi oggi, a grande distanza di tempo, dobbiamo ammettere che per quanto riguarda la relazione tra il pianoforte e l’orchestra che accompagna, Chopin non è riuscito ad approdare a nuove sponde: la sua concezione si limitava troppo a subordinare l’orchestra ad un pianoforte ben rilevato, anziché metterla sul suo stesso piano dandole un respiro sinfonico.

Krystian Zimerman

Gli appunti che di conseguenza furono mossi a Chopin, che non era in grado di scrivere per un organico orchestrale, sono però sicuramente infondati; infatti niente può provare che i suoi intendimenti creativi non avessero trovato una realizzazione adeguata. Le parti per orchestra di Chopin non sono pertanto come dei “torsi”, o indizi frammentari di assunti creativi irrealizzabili, ma i sintomi di una volontà che ha inteso conservare al pianoforte, anche quando è insieme con altri strumenti, una funzione individuale specialissima, veramente dominante e sovrana.

Ciò distingue chiaramente i Concerti di Chopin da quelli di altri compositori romantici. Nell’autunno del 1829 Chopin cominciò la stesura del concerto in fa minore, che sarebbe stato pubblicato per secondo con il numero d’opera 21, ma che in realtà era il primo del genere scritto da Chopin. Esso si conforma alla tradizionale divisione in tre movimenti: veloce – lento – veloce. Diversamente dal Concerto in mi minore (op. 11) composto qualche tempo dopo, l’opera gemella in fa minore è estremamente sobria nella struttura e nello sviluppo: la “retorica concertante”, che si può rinvenire anche nel Concerto in mi minore, si imprime qui in modo più concentrato.
Così Chopin giunge nel Concerto in fa minore alla precisazione di quello che avrebbe reso inconfondibile il suo stile: la linearità melodica che, come già ricordato, il grande polacco mutuò da Hummel, e dunque indirettamente dal maestro di questi, Mozart. Essa viene differenziata ritmicamente, in parte spezzata in una infinità di formule ornamentali non sempre matematicamente proporzionate, provvista dunque di ornamenti accessori a cui è proprio un carattere svagato e manierato. Rimane uno dei momenti inesplicabili della creazione di Chopin la sua capacità di approfondire questa dimensione estetica con le sue scelte armoniche e melodiche tutte particolari.

Ma il Concerto in fa minore testimonia anche, proprio perché non rappresenta un modello formale nuovo, il legame di Chopin con quello che era allora il mondo musicale contemporaneo. Ciò si manifesta inoltre anche in un altro elemento: per quanto sulla base della sua individualità pianistica e compositiva Chopin avesse creato delle formule esecutive fino ad allora sconosciute, egli fece stranamente ricorso in tutti i movimenti del Concerto in fa minore anche ad una specifica tecnica dell’unisono, allora ben conosciuta. Essa trova il suo acme drammaturgico nel movimento lento, là dove la parte pianistica si inarca sui tremoli degli archi. Questo passaggio somiglia in modo sbalorditivo all’episodio finale del secondo movimento del Concerto per pianoforte in sol minore n. 3, op. 60 di Ignaz Moscheles (1794-1870), che era stato composto nove anni prima dell’op. 21 di Chopin e che Chopin sicuramente già conosceva.
La somiglianza è così grande che in questo punto bisogna innegabilmente parlare di plagio. Nel movimento conclusivo Chopin ricorre ad un tematismo che si rifà alle danze popolari – e così chiude il cerchio della sua cifra stilistica, che va dal “salotto” fino al folclore. – Chopin suonò il Concerto op 21, dedicato alla contessa Delfina Potocka, per la prima volta a casa sua il 3 marzo 1830, sotto la direzione di Karol Kurpinski; quattordici giorni dopo il Concerto fu presentato al pubblico.
Subito dopo, tra l’aprile e l’agosto 1830, fu composto il Concerto per pianoforte in mi minore, op. 11. Chopin lo dico all’illustre pianista Friedrich Kalkbrenner (1785-1849), che risiedeva a Parigi.
Il Concerto fu presentato per la prima volta nel quadro di una esecuzione privata il 22 settembre 1830; la prima esecuzione pubblica si ebbe in occasione dell’ultimo concerto tenuto da Chopin a Varsavia l’11 ottobre 1830. Come il Concerto gemello in fa minore, anche il Concerto in mi minore mantiene la divisione in tre movimenti. Il movimento iniziale è in forma-sonata – con una coda il cui principio psicologico, “agitato”, risale a Hummel (Concerto in la minore, op. 85), ma che per l’effetto dei suoi trilli batte nuove strade drammaturgiche.
Carlo Maria Giulini

Il movimento centrale, sul tipo d’un Notturno, culmina in arabeschi ornamentali quasi impressionistici a cui fa seguito, quasi come preparazione del Finale, una catena di terzine da suonarsi in legatissimo. Il movimento conclusivo, un impetuoso rondò in mi maggiore, mitiga il tono caratteristico dei primi due movimenti e lascia spazio a un estro esecutivo quasi spensierato – un terreno per pianisti che siano in grado di poetizzare il potenziale insito nel linguaggio chopiniano.
Alla semplicità della parte orchestrale si contrappone qui una ricchezza di colori che rivela tutto il piacere di Chopin per ciò che avesse attributi di concretezza: il compositore era considerato come un pittore che descriveva con precisione e spirito il mondo e il suo affaccendarsi.

Knut Franke
(Traduzione: Adriano Cremonese)

Concerto n. 1 in mi minore per pianoforte e orchestra, Op. 11, BI 53, CI 47

La circostanza più curiosa da rilevare, presentando una guida all’ascolto del Primo concerto per pianoforte e orchestra op. 11 in mi minore (1830) di Frédéric Chopin, è la dicotomia – mai colmata – tra il favore che il pezzo ha sempre goduto da parte del pubblico e la scarsa stima che gli ha invece tributato la critica. Se l’amore per questo capolavoro (abbiamo introdotto già una nota di merito, per ora del tutto personale, ma che cercheremo di chiarire in seguito) non sembra accennare a diminuire d’intensità (ne siano testimonianze anche le frequenti incisioni ed esecuzioni dal vivo da parte dei maggiori virtuosi di tutti i tempi), la critica non ha invece di molto modificato il proprio parere. Infatti, si continua a sentir parlare di scrittura orchestrale sin troppo povera (persino un critico attento e autorevole come Piero Rattalino ha definito, in una recensione, la parte orchestrale come “quattro note di sostegno”), di spostamento del peso specifico del concerto unicamente sul solista, di mancata adesione nella costruzione dei movimenti al modello classico, addirittura di una fallace preparazione come orchestratore. La prima “stroncatura” eccellente è firmata nientedimeno che da Franz Liszt (ed è abbastanza singolare, dato che i due Concerti per pianoforte composti dal maestro magiaro non è che si discostino molto dalla struttura formale di quelli chopiniani), ed è consultabile nel suo saggio dedicato al polacco. Tra parentesi, per amor di completezza, va aggiunto che Liszt fu, assieme a Schumann, uno dei più accaniti difensori della musica di Chopin; proprio per tale ragione, allora, bisogna interrogarsi sul perché di quest’incomprensione. Uno dei motivi più plausibili è che si giudichino i Concerti per pianoforte del compositore polacco (nella critica solitamente si accomuna anche il Concerto op. 21) accostandoli alla tradizione classica, situandoli su quella linea che passa dall’ultimo Mozart, Beethoven per giungere
sino a Brahms, senza dimenticare Schumann. Come però giustamente rileva Castone Belotti nella sua monografia su Chopin, «a quel tempo, i Concerti di Beethoven erano in sostanza sconosciuti a Varsavia, mentre erano molto popolari quelli di un gruppo di compositori, Ries, Kalkbrenner (al quale, non a caso, il Concerto op. 11 è dedicato, N.d.R.), Kummel, Field (che Chopin utilizzerà anche come punto di partenza per sviluppare il genere dei Notturni, portato da quest’ultimo verso altezze siderali, N.d.R.), nei quali l’orchestra era concepita come semplice accompagnamento dei passi ‘espressivi’ o ‘virtuosistici’ del pianoforte solista […]. Lo strumentale di questi concerti è grandemente ridotto, al punto che, se si eccettuano le Introduzioni, le conclusioni orchestrali e qualche tutti che separa una sezione dell’opera dall’altra, l’orchestra si limita spesso a pochi tocchi e talvolta tace del tutto». Dunque, bisogna cambiare modello al quale confrontare Chopin; non più Beethoven – per il quale, tra l’altro, il musicista polacco provava poco meno che avversione -, bensì i celebri pianisti virtuosi/compositori dell’inizio dell’Ottocento, rango al quale sfuggirà Chopin (restio ad esibirsi in pubblico, cosa che fece per un periodo limitato e sempre di malavoglia), non certo Liszt (se si eccettua l’ultimo periodo della sua lunga vita).
È inoltre piuttosto facile confutare anche il rilievo che vorrebbe Chopin orchestratore e strumentatore debole; il giovane polacco fu allievo, per la composi/ione, di un degnissimo maestro quale Jozef Elsner, a quel tempo molto noto anche come autore di musiche teatrali e orchestrali. Tanto per fare un esempio, si rileverà che, nella partitura autografa del Rondò alla Krakowiak op. 14, pezzo concepito seguendo in maniera simile il Concerto op. 11, è possibile leggere una correzione nella parte dei corni, firmata dal maestro Elsner. Allora, è facile intuire che l’allievo mostrava le sue fatiche al maestro e che costui le correggeva, ove lo ritenesse necessario. Del resto, non è un caso se un genio dell’orchestrazione quale fu Berlioz, prese proprio i tremoli e i pizzicati degli archi nel Larghetto dell’op. 21 (inscritto a catalogo come Concerto n. 2, in realtà composto per primo) ad esempio, pubblicando lo stralcio nel suo celebre Trattato d’orchestrazione.
Composto nell’estate del 1830, e pubblicato a Parigi da Moritz Schlesinger nel 1833, il Concerto op. 11 risente, soprattutto nella natura lirica e sentimentale del movimento centrale, l’influsso dell’infatuazione del giovanissimo maestro per la cantante Konstancja Gladkowska. È strutturato in tre movimenti, ossia Allegro maestoso, Romanza: Larghetto e Rondò vivace. Chopin decise di presentarlo ai suoi concittadini come sorta di regalo d’addio prima d’abbandonare Varsavia: né lui, né i suoi amici, però, immaginavano che non vi avrebbe più fatto ritorno.

Friedrich Kalkbrenner

Dunque, la sera dell’undici ottobre 1830, sotto la direzione di Carlo Evasio Soliva (a quel tempo direttore del locale Conservatorio), Chopin suonò per la prima volta il Concerto op. 11. Il suo modo liberissimo di interpretare, il suo celebre rubato, la costante ricerca d’un eloquio “cantabile” nel fraseggio, furono subito colti come elementi che avrebbero potuto mettere in crisi qualsìasi direttore d’orchestra. Non appena intuì a quali rischi andava incontro, Soliva che aveva ascoltato il giovane maestro suonare la parte solistica – prese Chopin
da parte e gli spiegò che qualsiasi variazione di tempo andava concordata col direttore, pena il caos e la confusione in orchestra. Il polacco comprese al volo, tanto e vero che tempo dopo riconobbe che «se Soliva non avesse preso con sé la mia partitura e non avesse diretto in modo che io non potessi lasciarmi trascinare troppo dalla foga, non so cosa sarebbe successo. Seppe tenerci tutti così bene in pugno che io potei suonare con l’orchestra tanto bene come mai mi era capitato di fare». L’esito della serata fu dunque un successo travolgente, nonostante i timori dello slesso Chopin; pur non nutrendo dubbi sulla bontà del secondo e terzo movimento, il giovane maestro temeva invece che l’Allegro maestoso non fosse pienamente compreso.
Il primo movimento, che occupa da solo la metà del concerto, costruito in una forma-sonata a due temi, si apre con una lunga introduzione orchestrale di ben 138 battute, che prepara il terreno per il primo tema, esposto dal solista; il secondo tema, dal carattere più lirico, è invece introdotto dai violini. Il pianoforte, qui, accompagna con un canto di commovente delicatezza; la transizione orchestrale riporta all’apparizione del primo tema, questa volta nella tonalità di mi maggiore. Anche in questo caso, Chopin viola i precetti del concerto classico, preferendo l’opposizione minore/maggiore alla più consueta coppia tonica minore/relativa maggiore, che avrebbe dunque previsto la riesposizione nella tonalità di sol maggiore. Tra l’altro, non a caso si è usato, per definire un intervento del solista, il termine “canto”. Infatti, non fu solo l’amore per la cantante Kostancjia Gladkowska a ispirare a Chopin una scrittura melodica composta sulla falsariga delle melodie vocali, quanto piuttosto la passione costante per l’opera italiana e per i suoi interpreti, passione che si riverbera soprattutto negli abbellimenti della parte solistica. Tornando al concerto, tale particolare inclinazione Chopin la esplicita nel movimento centrale, Romanza (già il titolo, si capisce, è ispirato a un genere, la lirica da camera). La forma di questo pezzo è piuttosto libera: l’introduzione è affidata agli archi con sordina – nella tonalità di fa diesis minore -, seguita da un intervento dei corni nella tonalità di si maggiore. Il solista entra su questa atmosfera sognante, realizzando un canto purissimo, che ricorda da vicino la temperie di certe melodie di Bellini (non a caso amatissimo da Chopin). A questo punto, si sviluppa un episodio in do diesis minore, che sarà ripreso dal solista nella tonalità di mi maggiore. Gli archi riprendono il tema iniziale, che è punteggiato da terzine cromatiche e arpeggi da parte del solista, prima della breve chiusa. Il conclusivo Rondò – in mi maggiore, preceduto da una pregnante introduzione orchestrale in do diesis minore – è costruito con due temi, il primo dei quali dal carattere danzante, il cui controsoggetto condurrà delicatamente verso il secondo tema, scandito da un ostinato dei violini sul pizzicato dei contrabbassi. Con abilissima maestria, Chopin fa riapparire il tema iniziale nella tonalità di mi bemolle maggiore, per ristabilire immediatamente la tonalità

d’impianto che conduce alla gioiosa conclusione del pezzo. In sostanza, la libertà formale, l’essenziale struttura dell’accompagnamento orchestrale, l’arditezza di determinate modulazioni, non sono altro che ben precisi elementi atti a incarnare il personalissimo approccio di un genio alla forma del concerto per pianoforte e orchestra, alla luce di ciò che il giovane maestro allora conosceva e apprezzava.

Concerto n. 2 in fa minore per pianoforte e orchestra, Op. 21, BI 43, CI 48

Le non molte composizioni per pianoforte e orchestra di Chopin furono tutte scritte negli anni giovanili, prima di lasciare Varsavia, sotto l’influenza d’un ambiente musicale un po’ provinciale e superficiale, che nel concerto vedeva soltanto l’occasione in cui un solista di cartello poteva esibire il suo scintillante virtuosismo e la sua accattivante cantabilità. Dunque non c’è da meravigliarsi se i temi e l’architettura dei due Concerti di Chopin recano tracce di questo tipo di concertismo: tuttavia il non ancora ventenne compositore lascia emergere anche in questi lavori giovanili più d’una anticipazione della sua scrittura pianistica, del suo fascino melodico e del suo colorito armonico, inconfondibili.
Insomma la personalità di Chopin risulta chiaramente nei Concerti giovanili, e tanto basta a spuntare le armi nelle mani dei suoi critici. Osservare, come Berlioz, che «tutto si concentra nella parte pianistica e l’orchestra dei suoi Concerti non è che un freddo e quasi superfluo accompagnamento», è fin troppo ovvio, ma inlnfluente, anzi fuorviante al fine della comprensione di questa musica. La semplicità dell’orchestrazione di Chopin è attribuibile non tanto all’inesperienza quanto alla difficoltà di conciliare la sua delicata scrittura pianistica con una grande orchestra ottocentesca: si pensi in particolare alla funzione fondamentale del pedale di risonanza, che potrebbe facilmente essere vanificata da un’orchestra massiccia. Si devono piuttosto rilevare alcune geniali combinazioni tra la scrittura pianistica molto pedalizzata e gli sfondi orchestrali morbidissimi. Nel Concerto n. 2 si possono citare come soluzioni strumentali particolarmente riuscite anche i tremoli degli strumenti ad arco nel “recitativo” della parte centrale del secondo movimento e la percussione “col legno” degli strumenti ad arco (prodotta percuotendo le corde col legno dell’archetto) nel finale.

Mme Delphine Potocka

Il Concerto n. 2 in fa minore per pianoforte e orchestra, op. 21 fu scritto tra la fine del 1829 e l’inizio del 1830 (dunque precede di qualche mese quello che è indicato come Conceno n. 1, op. 11) e fu presentato a Varsavia il 17 marzo 1830 da Chopin stesso, che lo scelse anche per il suo esordio parigino, il 26 febbraio 1832. È dedicato alla contessa Delphine Potocka: per sfatare una delle tante fantasticherie su Chopin, bisogna ricordare che, sulla base di alcune lettere ardenti e disinibite ma sicuramente apocrife, questa bellissima giovane
aristocratica fu falsamente ritenuta un’amante di Chopin. Semmai la musa ispiratrice di questo Concerto fu Konstancja Gladkowska, studentessa di canto al conservatorio di Varsavia; di lei Chopin scriveva a un amico: «Forse, per mia sfortuna, ho trovato il mio ideale, a cui sono rimasto fedele, pur senza dirle una parola, per sei mesi; quella che sogno, a cui ho dedicato l’Adagio del mio Concerto…». E infatti Chopin si abbandona ad ardenti toni melodrammatici nella parte centrale dell’Adagio, ma nel resto del Concerto domina un tono elegante, malinconico, sognante, intimo.
Il primo movimento, Maestoso, inizia con un’ampia introduzione orchestrale, che presenta i due temi, dapprima con un andamento trattenuto, poi più energico e sincopato. Un piccolo motivo lirico dei legni prepara l’entrata fervida e maestosa del pianoforte, che espone i temi anticipati dall’orchestra: il primo è ampio ed esteso su ben cinque ottave, il secondo è più cantabile e sentimentale, ma anche riccamente ornato. Uno sviluppo di grandi dimensioni, che vede il predominio del pianoforte ma anche importanti interventi dell’orchestra, assicura il dinamismo del discorso, passando attraverso numerose modulazioni che trasportano i temi in lontane tonalità. La breve conclusione si basa sulla prima parte del tema principale.
Schumann e Liszt ammiravano molto il Larghetto, in un sereno la bemolle maggiore: qui Chopin si abbandona ad una cantabilità di gusto italiano, elegante, intima, tenera, sentimentale, arrichita da delicati arabeschi, che ricordano le fioriture dei grandi cantanti dell’epoca. Contrasta con questo tono sommesso il drammatico episodio centrale, con il tempestoso tremolo degli archi, la cupa scansione degli strumenti gravi, le interiezioni dei fiati, su cui il solista si lancia in frasi appassionate e veementi.
L’Allegro vivace ritorria al fa minore. Secondo una tradizione che da Haydn arriva fino a Brahms, una danza popolare è la soluzione ideale per suggellare in modo colorito e trascinante un pezzo da concerto: Chopin, dopo un primo tema di volteggiante leggerezza, mette dunque in campo un caratteristico ritmo di mazurka, danza d’origine popolare che dalle campagne polacche era ormai approdata ai salotti. Vivaci segnali dei corni annunciano la stretta finale e, dopo una brillante cadenza del pianoforte, il Concerto si conclude in un Allegro in fa maggiore.