Dvorak Antonin

Danze Slave

L’immedesimazione in queste pagine da parte di Rafael Kubelik alla guida dell’Orchestra sinfonica della Radio Bavarese, di cui fu direttore stabile per molti anni è pressoché totale, sapendo innanzitutto ricreare il clima e l’ambiente ceco e cogliendo quindi le numerose sfumature e i colori presenti nelle partiture di Dvorak, dai momenti di idilliaca e naturale spensieratezza contenuta nelle Danze della prima serie alle più meditate e malinconiche Danze dell’op. 72.
Si possono così trascorrere oltre settanta minuti di gradevole ascolto oppure scegliere il fior fiore di queste danze che, a seconda dell’occasione, più si avvicinano al mutevole stato d’animo dell’ascoltatore. Audio ottimo. Altamente raccomandato.

L’Orchestra Berliner Philarmoniker e il direttore Lorin Maazel non hanno bisogno di presentazione.
L’interpretazione di Maazel è eccellente: essa è caratterizzata da una lettura “tranquilla” e romantica della partitura, che lascia trasparire finezze particolari di questi splendidi spartiti. Basti pensare che i tempi di esecuzione dei 16 brani sono mediamente più lenti di circa il 10% rispetto ad un’altra interpretazione di riferimento, quella di Rafael Kubelik con l’Orchestra del Bayerischer Rundfunk. Vi è tuttavia un limite tecnico che disturba in parte la qualità dell’esecuzione. La registrazione è stata effettuata nel 1989 e l’incisione è in DDD.
Risulta pertanto inspiegabile la modesta qualità del suono, che appare quasi come “soffocato”, ovvero con una dinamica ristretta. Peccato!

Danze slave, prima serie per orchestra, op. 46

La raccolta delle otto Danze slave op. 46 fu scritta da Antonìn Dvorak nel 1878, e rivestì un ruolo fondamentale nel proiettare Dvorak, fino allora considerato autore “promettente” all’interno di un circuito musicale illustre ma periferico, verso il grande successo internazionale.
Proveniente da una famiglia di piccola borghesia, precocemente avviato alla musica, Dvorak aveva colto il suo primo vero successo nel 1873, a 31 anni, con un Inno patriottico che si inseriva compiutamente nella corrente irredentista
propria degli ambienti culturali boemi. L’anno seguente un riconoscimento prestigioso, con la vittoria di una borsa di studio del governo austriaco, assegnata da una giuria composta, fra gli altri, da Eduard Hanslick e Johannes Brahms.
Tali tappe della carriera di Dvorak seguivano da vicino anche la personale evoluzione dello stile del compositore. Se gli esordi creativi si erano svolti all’insegna della scuola neotedesca di Liszt e Wagner, il cui modernismo sembrava più adatto a veicolare i contenuti nazionalistici peculiari della cultura cèca, è proprio intorno al 1873 che lo stile di Dvorak subisce una brusca virata verso il sinfonismo puro e gli ideali di classico equilibrio della forma, ideali che trovavano nuova linfa nelle melodie di ispirazione popolare. È appunto questa peculiare mistura fra equilibrio formale e melodiosità slava che portò a riconoscere in Dvorak un musicista dalla personalità inconfondibile, né conservativa né radicale, capace di apparire alla borghesia boema come una incarnazione dell’identità nazionale, o anche di farsi ammirare di fronte all’intera Europa per la raffinatezzza della scrittura e la solidità costruttiva delle sue opere.
In questo processo di evoluzione ed affermazione, è noto come un ruolo non secondario fu giocato da Johannes Brahms, che presentò l’autore boemo all’editore Simrock di Berlino. Fu Brahms, nel 1877, a suggerire a Simrock di pubblicare i Duetti moravi di Dvorak, destinati ad incontrare un felicissimo successo editoriale; e Simrock intuì che il talento spiccatamente nazionalistico del compositore si sarebbe potuto tradurre in un ottimo affare per la sua ditta. Ecco dunque che fu lo stesso editore, nel 1878, a proporre a Dvorak di applicarsi ad una raccolta di danze per pianoforte a quattro mani, su temi “popolari”, racccolta che fosse in qualche modo ispirata alle Danze ungheresi di Brahms. Edite nel 1869 le Danze ungheresi rappresentavano il personale contributo di Brahms alla nuova “moda” portata avanti dalle scuole nazionali, e non a caso avevano incontrato una significativa affermazione internazionale.
Dvorak aderì con entusiasmo alla proposta di Simrock, la raccolta delle otto danze vide la luce, nella veste pianistica fra il 18 marzo e il 7 maggio del 1878; uno schizzo superstite dimostra la rapidità della concezione dei vari brani. L’autore si applicò immediatamente alla orchestrazione della raccolta, che avvenne fra il mese di aprile e il 2 agosto. Non si trattò peraltro di un semplice lavoro di strumentazione, ma anche di un ripensamento di alcuni brani per la nuova destinazione. Tre delle danze orchestrate – le nn. 1, 3 e 4 – vennero eseguite già il 16 maggio a Praga sotto la direzione di Adolf Cech.
Sull’entusiasmo destato dalle Danze slave op. 46 parla eloquentemente la recensione di un importante critico tedesco, Louis Ehlert, apparsa sulla “Nationalzeitung” di Berlino il 15 novembre 1878. «Qui c’è almeno un talento al cento per cento, un talento, inoltre, completamente naturale. Io ritengo che le Danze slave siano un’opera che compirà un cammino trionfale attraverso il mondo proprio come le Danze ungheresi di Brahms. Non è oggetto di discussione un qualche tipo di imitazione; queste danze non sono affatto brahmsiane. Una celeste naturalezza scaturisce da questa musica, proprio perché è popolare. Nessuna traccia di artificiosità o costrizione…».
Rafael Kubelik

Le parole di Ehlert chiariscono i motivi dell’immutata popolarità della raccolta di Dvorak – non a caso negli anni seguenti Simrock invitò ripetutamente il compositore ad affiancare una nuova raccolta alla prima; al quale invito Dvorak aderì positivamente solo nel 1886-87, dando vita però a una raccolta piuttosto differente, le Danze slave op. 72. Degno di attenzione è anche il particolare tipo di approccio di Dvorak verso la danza popolare, nonché il significato più autentico di questo approccio.
Mentre i padri della scuola nazionale boema – Smetana in testa, di 17 anni più vecchio di Dvorak – si erano rifatti, nel sostenere l’esigenza di una musica “nazionale”, a raccolte editoriali di canzoni popolari – trascritte con i consueti positivistici “aggiustamenti” rispetto al materiale originario – e, sulla base di queste melodie “popolari”, avevano poi dato vita alle loro composizioni, Dvorak, per le Danze slave, seguì un procedimento differente. Anziché ricorrere a materiale “popolare” creò da se stesso delle melodie improntate a delle tipologie di danze tradizionali, basandosi soprattutto sugli schemi ritmici.

Non abbiamo dunque un impiego nazionalistico e simbolico, irredentistico, del materiale tradizionale (dopo il riconoscimento della nazione cèca, nel 1860, tale utilizzo aveva ormai perso di attualità); e nemmeno quella “critica” del popolare cui perverranno compositori del Novecento,, quali Janàcek e Bartók. Abbiamo piuttosto una conversione dell’elemento popolare verso una sorta di “esotismo”; le melodie popolari, insomma, sono impiegate con la finalità di attribuire una nuova linfa ai generi sinfonici propri dell’accademismo tardoromantico, impantanati in una grave empasse formalistica.
In questa prospettiva occorre intendere la raccolta delle Danze slave op. 46, ciascuna delle quali, peraltro, non aderisce a un unico modello di danza tradizionale, ma opera plurime contaminazioni; prevalgono le danze di ascendenza ceca, e possiamo riconoscere in questo procedimento un segno di quel “panslavismo” cui si ispira grande parte della produzione di Dvorak. Non mancano le frequenti transizioni tonali, nonché una strumentazione coloratissima e cesellata nel dettaglio, con la massa orchestrale che si contrappone spesso a sortite dei fiati.
La prima delle Danze slave op. 46 è un furiant, una danza cèca rapida in 3/4, su un ritmo che sovrappone schemi metrici differenti. Si inseriscono poi elementi della mazur polacca. In seconda posizione troviamo una dumka (2/4), non propriamente una danza ma una ballata ucraina; una sorta di berceuse alternata con un ritmo di vovcacka, una danza maschile “saltata”. La terza danza è una polka, prossima in questo caso al valzer lento zigano; nella sezione centrale brillanti spunti di mazur. Segue una sousedskà, via di mezzo fra il minuetto e il Ländler, ancora intercalata con una mazur. Il quinto brano è una skocnà, brillantissima danza saltata in 2/4, che innerva della sua energia anche gli spunti secondari. Ancora una sousedskà in sesta posizione; la melodia vocalistica cede poi a una sorta di rapida giga. La settima danza è nuovamente una skocnà, alternata con una galoppante tetka. Al termine ritroviamo, con logica circolare, lo stesso tipo del furiant che aveva aperto la raccolta; dunque ancora accenti spostati con vigore, che si piegano verso una melodia essenziale e si impongono poi nuovamente nel travolgente finale.

Danze slave, seconda serie, op. 72 (B. 147)

Non c’è dubbio che Dvorak sia considerato, insieme a Bedfich Smetana, il più importante e autentico rappresentante della musica nazionalistica ceca della seconda metà dell’Ottocento. Però, mentre Smetana si richiama nella sua opera agli aspetti eroici e leggendari della Boemia in lotta per la propria libertà e indipendenza, Dvorak esalta l’anima popolaresca e contadina della sua terra. Infatti in questo artista, stimato e protetto da Liszt, Brahms, Hanslick e Bülow, si incarna la tradizione del caratteristico musicista boemo, legato profondamente al tessuto folklorico, ai costumi e alle cerimonie di una

popolazione campagnola e rusticana, ancora lontana da qualsiasi processo di urbanizzazione e di industrializzazione. Per questo motivo la sua musica, contraddistinta da inesauribile freschezza melodica e da straordinaria spontaneità inventiva (qualche musicologo lo ha paragonato a Schubert), è ricca di danze e di ritmi nostalgici e allegri, sentimentali e festosi che provengono dal patrimonio boemo e slavo, anche se rielaborati e reinventati con un gusto e una sensibilità di piacevole effetto armonico e strumentale. Natura istintiva, sinceramente ottimistica, sorretta da una schietta fede in Dio, Dvorak non ha nulla del compositore intellettuale e tormentato da problemi tecnici e linguistici: nella sua musica – sinfonica, da camera e operistica – tutto scorre limpidamente e su un piano di assoluta chiarezza di idee, con una straripante pienezza di temi che si innestano saldamente in un’orchestra molto descrittiva e densa di colori timbrici di poetica suggestione.
Cresciuto sotto l’influsso delle teorie sul canto popolare esposte da Herder, Goethe e i fratelli Grimm, che contribuirono allo sviluppo e alla conoscenza delle varie letterature autoctone e dialettali, Dvorak si muove nell’ambito di un Romanticismo di stampo popolaresco, dove trovano largo spazio le tipiche danze di estrazione panslavica, come il furiant, la polka, il rejdovak, la sousedskà, lo skocknà, l’odzemek slovacco, il kolo serbo e la mazurka polacca. Ciò spiega la vastissima diffusione che hanno avuto sin dall’inizio le sue sinfonie e soprattutto le due raccolte di Danze slave, dell’op. 46 e dell’op. 72, ordinategli dall’editore Simrock di Berlino per essere lanciate sul mercato insieme a quelle ungheresi di Brahms.
La prima serie delle Danze slave (otto in tutto) fu composta per pianoforte a quattro mani nella primavera del 1878 e l’anno successivo fu trascritta per orchestra. Visto il successo di questa musica, apprezzata anche da Brahms, il compositore boemo scrisse nell’estate del 1886 la seconda serie delle otto danze, quella dell’op. 72, sempre per pianoforte a quattro mani orchestrate in un secondo momento, in una brillante e smagliante edizione strumentale.
Nel ciclo dell’op. 72 confluiscono danze di carattere boemo, polacco, slovacco, ucraino e serbo, dalle quali si sprigiona un profumo fresco e gradevole di aria nativa, con infiltrazioni di ritmi di derivazione zingaresca. La prima danza in si maggiore, definita nella raccolta originale con il nome di Odzemek, si richiama alla musica popolare slovacca: ha un piglio slanciato e vigoroso in tempo 2/4, alternato con momenti di più distesa e dolce cantabilità. La seconda danza, la più celebre ed esaltata dell’intero album e un tempo una delle melodie più eseguite nei café-concert, è una Dumka, parola che etimologicamente sta a significare pensiero o riflessione: è un canto popolare ucraino in mi minore, intriso di lirismo elegiaco con il suo ritmo malinconicamente struggente, di chiara ascendenza slava.

La terza danza in fa maggiore è una vivace e spumeggiante Skocnà di origine boema, un tipo di musica già utilizzata da Smetana nell’opera La sposa venduta. Segue un’altra Dumka in re bemolle maggiore elaborata con armonie di nostalgico sapore contadino. Ecco quindi una Spacirka boema in si bemolle minore contrassegnata da due temi: uno solenne e pomposo, l’altro più mosso e trascinante in tempo 4/8. La Polacca in si bemolle maggiore ha un andamento cullante e carezzevole, mentre per contrapposizione psicologica il Kolo serbo in do maggiore si snoda con esaltante brillantezza ritmica e secondo una impostazione espressiva molto affine al Furiant di spirito boemo. La Sousedskà finale in la bemolle maggiore è un valzer simile al Ländler austriaco e sembra quasi indicare una pausa di riposante raccoglimento dopo tanta fantasia orchestrale, ispirata dagli archi e dai legni. In queste Danze slave, e non solo in esse, si può cogliere il messaggio più sincero e autentico dell’arte di Dvorak, alla quale non è mai mancato il consenso del pubblico sotto qualsiasi latitudine e nelle situazioni culturali e storiche più diverse.