Dvorak Antonin

Requiem

Superba ed affascinante la direzione di István Kertesz con la London Symphony Orchestra e il Coro Ambrosian Singers sempre ai massimi livelli. Il risultato di questa collaborazioni è eccellente, in particolare nel Requiem, donando a questa partitura un profondo senso religioso. Gli ingegneri di Londra hanno compiuto un lavoro ammirevole nell’eliminazione dei rumori e fruscii di fondo e l’audio risulta pulito e ben equilibrato tra orchestra e coro. Registrazioni eseguite dal 1969 al 1979 e rimasterizzazione effettuate nel 1989. Altamente raccomandato.

Antonin Dvorák
Requiem op. 89

Verso la fine dell’Ottocento la tradizione del canto corale fioriva in molti paesi europei, ma da nessuna parte si sviluppò come avvenne in Boemia, Moravia e Inghilterra. Venne quindi naturale a Dvorák dedicarsi con impegno alla forma musicale dell’oratorio, e si può dire che fu proprio la sua attività in questo campo a raffermare la sua fama nel mondo di lingua inglese.
Le opere corali composte tra il 1870 e 1890 – lo Stabat Mater, La sposa dello spettro e Santa Ludmilla – vennero tutte accolte con entusiasmo in Inghilterra (di queste tre opere, le ultime due furono commissionate proprio da due festivals inglesi – Birmingham e Leeds rispettivamente), e ben presto la richiesta per altre composizioni di questo genere fu talmente grande ch’egli riuscì a malapena a soddisfarla.
Birmingham voleva anzi commissionare a Dvorák un altro brano per il festival del 1888, ma egli era già impegnato con altri progetti. Dovettero passare altri due anni prima che il compositore potesse dedicarsi seriamente al Requiem: iniziò un abbozzo dell’opera il giorno di Capodanno del 1890, ma i lavori vennero interrotti da alcuni viaggi all’estero e Dvorák completò la partitura alla fine dell’ottobre di quell’anno.
La prima ebbe luogo nella stessa Birmingham il 9 ottobre 1891, e fu seguita da una lunga serie di rappresentazioni in Inghilterra, Boemia, Moravia e in America.

Alla pari dello stupendo Requiem verdiano (scritto diciassette anni prima), quello di Dvorák era stato concepito sin dall’inizio per le sale da concerto, e le sue proporzioni lo rendono senza dubbio impraticabile in un contesto liturgico. Il primo movimento inizia con un motivo conduttore cromatico e sincopato che richiama alla mente il fugato del secondo Kyrie della Messa in si minore di Bach. Questa figura riappare varie volte, creando ad ogni occasione un’atmosfera mesta e poderosa. La struttura flessibile del tema principale lo rende assai adatto allo sviluppo e all’espansione, ed è proprio nelle sue numerose trasformazioni che trapela la penna del Dvorák sinfonista.
Il boemo segue le orme di Verdi anche quando amalgama il Kyrie col primo Requiem aeternam; ma il Kyrie di Dvorák forma solo una brevissima perorazione del movimento, con i soprani e gli alti che cantano il tema conduttore in diminuzione, mentre i tenori e i bassi mantengono il valore delle note originali.

Sebbene l’opera di Dvorák non manchi di episodi drammatici (esempio notevole di questo è il Confutatis maledictis), nell’insieme essa è caratterizzata da un approccio assai più contenuto della versione verdiana.
Il lirismo naturale di Dvorák si rivela splendidamente nei passaggi come il Recordare e l’Offertorio, la cui orchestrazione favorisce anche l’atmosfera introversa del brano; la composizione fa ricorso a colori cupi, creati in sordina, e si avvale in particolare del corno inglese, del clarinetto basso e dei tromboni. Se da un canto lo sfondo di questo Requiem non è ricco di grandiosi effetti drammatici, dall’altro la sensibilità con cui il compositore trattò questo testo rivela una profonda comprensione dei motivi dell’esistenza umana.

Zoltán Kodály
Psalmus Hungaricus op. 13
Inno di Zrinyi

Gli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale videro un’Ungheria in completo subbuglio. Il crollo dell’Impero asburgico inevitabilmente risultò in un panorama politico radicalmente sconvolto, e Kodály, come i suoi contemporanei, ne risentì le conseguenze. Nominato vice- direttore dell’Accademia nazionale di musica durante la Repubblica dei consigli, egli si trovò presto nelle cattive grazie del regime di destra che succedette alla malavventurata Repubblica socialista.
Le nuove autorità arrivarono persino a proibirgli di svolgere la sua attività di insegnante per due anni, e questo periodo segnò l’abisso della sua carriera. L’isolamento e la persecuzione che Kodáli dovette subire ebbero un effetto soffocante sul suo genio creativo, e dal 1921 al 1922 egli praticamente sospese il suo lavoro di composizione.

István Kertész

Il Psalmus Hungaricus, completato in tempo per il cinquantenario dell’unione di Pest, Buda e Óbuda, fu la prima grande opera a vedere la luce dopo quegli anni sterili.
Il testo è significativo poiché consiste in una traduzione libera del Salmo LV scritto dal poeta magiaro Mihály Kecskeméti Vég, i cui sentimenti rispecchiano molto da vicino quelli del musicista negli anni 1920 e 1921.
Se il Salmo LV era caro a Vég per il suo significato nel contesto dell’occupazione turca – i versi sono quelli di Davide che implora il Signore di liberarlo dalla persecuzione del nemico – il messaggio è di eguale rilievo alla situazione di Kodáli. L’idioma musicale dimostra fino a che punto egli sia riuscito ad assorbire elementi disparati quali lo spirito della musica popolare ungherese, le inflessioni melodiche derivanti dal canto gregoriano, lo Slam Dance, la composizione corale polifonica ed uno schema armonico sofisticato, per crearne un proprio stile maturo.
La prima ebbe luogo in occasione dell’anniversario del 1923, sotto la direzione di Dohnányi. Il successo fu enorme e l’opera venne subito acclamata per tutto il mondo, suggellando in maniera definitiva il trionfo personale di Zoltán Kodáli.
L’Inno di Zrinyi (1954) risale all’ultimo periodo della vita del compositore, pur rimanendo vicino spiritualmente al mondo del Psalmus Hungaricus. Anche qui il testo è un grido di protesta contro l’oppressore. Questa volta la fonte è un manoscritto del Seicento intitolato “Una cura contro l’opio turco” di Miklós Zrinyi (1620-1664), nel quale egli ricorda ai suoi connazionali che il loro destino dipende, in fin dei conti, da loro stessi: la libertà va conquistata e la nazione deve stare in guardia contro i pericoli che la minacciano dall’interno.
E forse fu proprio questo aspetto del testo che catturò le simpatie di Kodáli, dal momento che uno dei capi d’accusa contro di lui nei tristi giorni del 1919 fu che il suo patriottismo era di dubbia sincerità; e quest’ingiustizia continuò a roderlo per anni.
L’Inno di Zrinyi è una delle ultime composizioni in cui egli rende omaggio alla storia e alla cultura dell’Ungheria.
Esso dimostra nuovamente quanto fossero appropriate queste famose parole di Bartók: “Se mi dovessero chiedere di nominare il compositore le cui opere esprimono più perfettamente lo spirito ungherese, risponderei, Kodáli. La sua musica dimostra la sua fede nello spirito ungherese. La spiegazione ovvia è che tutta l’attività creativa di Kodáli trova le sue radici unicamente nella terra ungherese; ma la ragione più profonda, più intima, rimane la sua irremovibile fede e fiducia nella capacità costruttiva e nel futuro della sua gente”.

Traduzione DECCA 1989
Requiem per soli, coro, orchestra e organo, op. 89 (B. 165)

L’origine del Requiem, ultima delle grandi composizioni sacre di Dvoràk, risale alla richiesta di un’opera corale da destinare al Festival musicale di Birmingham: richiesta, più che vera e propria commissione, alla quale il compositore accondiscese volentieri in segno di gratitudine per le accoglienze calorose che gli erano state tributate in Inghilterra durante le sue numerose apparizioni come autore e direttore d’orchestra. I rapporti con questo Paese, e con la sua vita musicale, erano divenuti sempre più stretti dopo l’esecuzione in prima assoluta dello Stabat Mater, avvenuta al Royal Albert Hall di Londra il 10 maggio 1883; ad esso erano seguite, oltre alla commissione di una Sinfonia (la Settima in re minore op. 70), assidue presenze nei festival corali inglesi, prima a Birmingham con la ballata La sposa dello spettro (1885), poi a Leeds con il grande oratorio Santa Ludmilla (1886). Proprio da Birmingham Dvorak era stato interpellato per un altro Oratorio da inserire nel Festival del 1888, ma il progetto era stato rimandato a un’occasione successiva (forse anche per scarso interesse al soggetto proposto, Il Sogno di Geronzio, poi musicato da Elgar).
Pur sentendosi intimamente legato alla tradizione della propria terra, la Boemia, e a quella della cultura strumentale austro-tedesca, nella quale elettivamente aveva messo radici, Dvorak apprezzava la civiltà inglese nella fiorenle attività dei suoi cori e dei suoi festival corali, animati da associazioni di dilettanti appassionati e tutt’altro che sprovveduti sotto l’aspetto tecnico-educativo. È storia nota che questo aureo filone, inaugurato da Händel e impreziosito nell’Ottocento dagli Oratori di Mendelssohn, non si è mai interrotto; ma proprio in quell’epoca, nell’Inghilterra vittoriana, esso tornava alla luce con particolare fervore di iniziative: tali comunque da non essere interamente soddisfatte dalla vena creativa dei compositori indigeni. Di qui l’attenzione ri¬volta nuovamente a quei compositori che potessero contemperare tradizioni diverse. E fra questi Dvorak si era rivelato uno dei più adatti a unire cordialità di espressione, fresca ispirazione popolare e sapiente dominio della forma sinfonico-corale in un ambito che tenesse anche conto dei requisiti fondamentali dell’ambiente a cui si rivolgeva.
Ciò detto, va subito aggiunto che la scelta del Requiem fu interamente sua. La proposta ufficiale, datata 15 gennaio 1890, subito accolta con entusiasmo dagli organizzatori inglesi, avvenne a decisione già presa: a quel tempo infatti egli era già intento al lavoro, dopo aver appena completato l’Ottava Sinfonia in sol maggiore op. 88. Gli schizzi dei primi sette numeri (fino al Confutatis maledictis) furono stesi tra il 1° gennaio e il 17 febbraio di quell’anno; il resto seguì nella residenza estiva di Vysoka in Boemia tra maggio e luglio, al rientro da un giro di concerti in Europa. Sempre in estate fu approntata la partitura, ultimata a Praga il 31 ottobre 1890: l’editore Novello di Londra si incaricò subito della stampa. L’attesa per la prima esecuzione, fissata per il festival del

1891, fu resa più solenne da importanti riconoscimenti, quali la laurea honoris causa conferita a Dvorak dall’Università di Cambridge e l’elezione a membro onorario della London Philharmonic Society. C’erano dunque tutte le premesse per un grande avvenimento che ripetesse il clamore popolare dello Stabat Mater. E fu ciò che puntualmente accadde quando il 9 ottobre 1891 Dvorak stesso diresse al Birmingham Musical Festival il suo Requiem nuovo di zecca: riportando uno dei successi più trionfali della sua vita, che si ripetè nelle numerose riprese in Inghilterra e poi a Praga nel 1892, nonché in America, dove Dvorak di lì a poco si sarebbe trasferito.
La felice coincidenza di questi fattori è al tempo stesso il pregio e il difetto dell’opera. Giacché se è indubitabile che la scelta di mettere in musica il testo latino della messa dei morti provenisse da una decisione personale (sui cui motivi peraltro poco è dato sapere), è altrettanto ovvio che la destinazione ufficiale non poteva non condizionare il carattere complessivo del lavoro. Un’abitudine, forse ingenua ma consolidata dai fatti, ci spinge a considerare la composizione di un Requiem o come un’attestazione di fede in un contesto liturgico o come una confessione artistica di fronte al tema della morte. Ora, il Requiem di Dvorak non è né l’una né l’altra cosa; per quanto l’assenza di un intento commemorativo e le stesse ampie proporzioni facciano presupporre che fin dall’inizio esso fosse stato concepito per le sale da concerto. Ciò rende difficile la sua collocazione accanto ai precedenti più insigni, verso cui pure guarda: da Mozart a Berlioz, da Verdi a Brahms. Per ognuno di questi autori il Requiem è un apice che riflette il campo non solo della musica ma anche delle convinzioni religiose, morali, estetiche, e perfino quello della vita; per Dvorak è invece una tappa piana, una semplice opera d’arte intrisa di valori musicali, non sfiorata dalla tragedia della morte e refrattaria a confrontarsi con il suo mistero. In altri termini, non è l’interpretazione né di un testo né di una liturgia, ma piuttosto la sua celebrazione, la sua illustrazione. Ciò non ha niente a che fare con la religiosità di Dvorak, che fu certamente profonda e sincera, fideisticamente ottimistica, ma dipende semmai da un atteggiamento di fronte alla tradizione vista in un duplice senso: da un lato la realtà concreta delle società corali inglesi e della loro salda eredità, dall’altro il modello di un classicismo altamente formalizzato sulla linea che va da Haydn a Mendelssohn e vitalizzato dal seme del nazionalismo slavo. Questo atteggiamento di fondo si traduce in una netta preponderanza dell’elemento corale e in un trattamento del testo che non si distacca dalla convenzione e dalla immediatezza, sia nella articolazione formale che nella definizione delle singole parti.
Più caratteristico risulta invece il comportamento di Dvorak nei confronti del linguaggio musicale di per sé considerato. Ci si aspetterebbe di sentir prevalere l’influenza di Brahms, che fu uno dei punti di riferimento più stabili nella sua

evoluzione, e invece ci si imbatte soprattutto in ascendenze schubertiane là dove la melodia tende ad aprirsi nel canto, in echi oratoriali lisztiani, addirittura in pregnanti formule wagneriane: la cui cifra, quasi esibita nel clima parsifaliano dell’iniziale Requiem aeternam, si definisce nel motto che sta alla base dell’intera composizione, quasi Leitmotiv sinfonicamente trattato per dare unità allo sviluppo e alle espansioni dei singoli brani. Non manca, nelle parti più scopertamente drammatiche del Dies irae, un certo sottofondo di stampo teatrale, sia nel clangore degli ottoni e perfino delle campane, sia nella linea del canto dei solisti, tenore e basso in special misura; controbilanciata, quest’ultima, dal lirismo più contenuto delle voci femminili, sottilmente intimistico nei passi di meditativa introversione. Anche se non emerge in maniera netta, l’humus del canto popolare impregna più di una sezione del Requiem: anche in questo caso l’integrazione fra tradizione colta e tradizione popolare è suggerita dall’affinità di procedimenti modali e cadenzali, di sequenze melodiche e ritmiche (come per esempio il sillabato, l’ostinato, il corale, il tono salmodico) all’interno del genere sacro. Si tratta però di richiami e allusioni dall’impiego assai discreto, raramente estesi al tessuto polifonico, quasi mai al colore orchestrale. L’unica citazione esplicita è chiaramente emblema di questa volontà di integrazione e riguarda l’utilizzazione di un antico canto ecclesiastico della tradizione boema – un inno di lode del tardo Medioevo, ancora diffuso nel tardo Ottocento – come tema della grande fuga Quam olim Abrahae promisisti (n. 10) che conclude l’Offertorio: significativamente questa è anche l’unica volta in cui Dvorak dispiega l’intero armamentario contrappuntistico della fuga severa nel suo Requiem.
Dal punto di vista formale la divisione in due parti della partitura non comporta una vera e propria cesura (neppure nell’esecuzione) ma sottolinea il passaggio dalla sfera del dolore e della paura a quella della consolazione e della speranza. La prima parte comprende tre sezioni – Requiem aeternam, Graduale, Dies Irae – per un totale di otto numeri, stante la consueta partizione del testo della Sequentia in più episodi. La seconda parte è invece in quattro sezioni e cinque numeri: Offertorium e Hostias (entrambi conclusi dalla fuga Quam olim Abrahae), Sanctus, Pie Jesu, Agnus Dei. Dodici numeri su tredici impegnano il coro, che è dunque l’assoluto protagonista dell’opera; e si è già accennato al fatto che il suo trattamento è in generale più omofonico che polifonico, assai parco di intrecci contrappuntistici e di figure imitative. Il quartetto dei solisti è usato sempre in combinazione col coro; salvo che nel numero 6, il momento delicato del Recordare, Jesu pie, nel quale l’appello alla pietà divina e l’invocazione del perdono ben si confanno alle voci sole, con gli accenti della preghiera individuale.

Antonin Dvorák

Questa compattezza e pienezza dell’organico, assecondata da un’orchestra che a sua volta risuona compatta e piena, è la principale caratteristica del Requiem di Dvorak: difficile immaginare che non fosse in così larga misura suggerita
proprio dalla destinazione ufficiale, con l’intento di celebrare un’illustre e composita tradizione.
Il primo blocco è dominato dalla grandiosa rappresentazione del Giudizio Universale, introdotta dalla invocazione alla “pace eterna” e dal Kyrie, ridotto a una breve sezione sillabata su vaghe cadenze ecclesiastiche. Quasi ad accrescere il terrore del “giorno dell’ira” e dell’attesa, il Graduale riprende le stesse parole dell’Introduzione affidandole al canto del soprano solo (“con afflizione”, indica la didascalia) in dialogo col coro diviso (prima sole donne, poi uomini). Accordi parsifaliani risuonano in orchestra a dare maggiore solennità al canto. Il clima luttuoso, quasi contristato dell’esordio è ben evidenziato dalla tonalità d’impianto, si bemolle minore, punto di riferimento armonico che sta per il dolore e la tristezza: ora richiamato ora contrastato da tonalità maggiori e luminose quando il testo inclina ad accenti di speranza. La volontà di dare alla composizione un’unità non ciclica (che anzi ogni numero è chiuso in sé, come avveniva nelle Cantate sacre) bensì intrinsecamente musicale è sintetizzata dal motivo che si presenta subito all’inizio in orchestra (archi con sordina) : un motivo di quattro note (fa-sol bemoile-mi-fa) che ha il carattere di un motto e che si anniderà, variamente trasformato, quasi in ogni piega della partitura. Questa successione cromatica ruotante attorno alla nota fa (dominante della tonalità d’impianto) simboleggia nello stile formulario della retorica musicale la figura della morte e del lamento (ancor più marcata qui dal ricorso alla sincope), ma è anche una trasformazione caratteristica del motivo B-A-C- H, per inversione. Con l’uso che l’autore fa di questa figura sembra ch’egli voglia saldare la tecnica wagneriana del Leitmotiv all’eloquenza di antiche memorie musicali di alto lignaggio.
Si è già detto che il Dies irae non è una sequenza di episodi fra loro collegati ma una serie di quadri o stazioni che illustrano il testo alternando slanci drammatici e ripiegamenti lirici. L’orchestra commenta e raccorda questi brani di ognuno contribuendo a definire l’atmosfera, ma senza ribaltare le proporzioni fissate dalle voci. Raramente l’orchestra viene in primo piano con squarci sinfonici, raramente si creano contrapposizioni tra le voci isolate e la massa: entrambe partecipano di una stessa identità, appartengono alla stessa matrice. L’eccezione del Recordare, centro della prima parte, è suggerita dal contesto (espressione di una pietà intimamente umana) ma forse anche dall’esempio di Mozart, che analogamente affidò questo passo al Quartetto dei solisti. Con l’Offertorio, che apre la seconda parte, inizia lo sviluppo dei temi fin qui posti in una luce sempre più sfolgorante, come se ora il pensiero della morte aprisse nuove consapevolezze e da ultimo certezze. Il Sanctus può così diventare un’oasi di idillica serenità; il Pie Jesu, con la cantilena dei legni, una visione quasi pastorale di incantevoli promesse; solo con l’Agnus Dei il ricordo dell’incombere della morte torna a farsi minaccioso per l’uomo, con cupa disperazione: ma proprio da questa ultima meditazione Dvorak trae l’ispirazione per scrivere la pagina più originale e personale di tutto il Requiem, con commossa adesione a un mistero che finalmente si fa anche sentimento dei valori dell’esistenza