Manuel de Falla

Composizioni Varie

Mi piace ascoltare la musica del nostro Autore. Purtroppo, mentre del “Cappello a tre punte”, non compreso in questo album, esistono molte incisioni, per “Noches en los jardines de Espana” e per “El amor brujo” non si può dire altrettanto. Diciamo subito che per “Noches…” la versione data dalla pianista spagnola Alicia de Larrocha può essere considerata di riferimento. La London Philharmonic è una ottima orchestra, ed il direttore Rafael De Burgos è anche lui spagnolo, perfettamente nella parte, è stato anche per anni direttore principale dell’orchestra RAI. L’esecuzione è ottima, e ci trasporta come per incanto nei magici giardini moreschi di Granada e Cordoba.
Per “El amor brujo” possiamo dire che la registrazione è ottima in rapporto alla data (1965): la voce della mezzosoprano Nati Mistral è molto ben ripresa e presente in primo piano, potente ed espressiva. Ottima la dinamica ed il dettaglio dei flauti e delle campane. Buona anche l’esecuzione dell’intermezzo dell’opera “Goyescas” di Enrique Granados.
Le due partiture di Ravel (musicalmente spagnolo di adozione, le cui composizioni sono qui ben accostate), sono ben eseguite, e specialmente per “Alborada del gracioso”, ancora una volta siamo trasportati nel fantastico ed assolato mondo spagnolo. Audio più che buono.
Libretto essenziale con notizie sulle composizioni stringate ma utili, e note sulla registrazione.

El amor brujo

Non c’è dubbio che, insieme alla commedia mimica picaresca El sombrero de tres picos, il balletto El Amor brujo sia tra le composizioni più popolari e universalmente note di Manuel de Falla. El Amor brujo (L’amore stregone), balletto in un atto di ambientazione andalusa, fu scritto su libretto di Gregorio Martinez Sierra e venne rappresentato per la prima volta al Teatro de Lara di Madrid il 15 aprile 1915 sotto la direzione di Joaquin Turina e con la coreografia di Pastora Imperio, una danzatrice e cantante gitana, che aveva chiesto a Falla di comporre per lei soltanto una danza e una canzone. Il musicista invece pensò bene di dedicarle un intero balletto, che inizialmente non incontrò molto favore. Falla rimise le mani sulla parte strumentale e allargò l’organico orchestrale, che nella versione definitiva comprende due flauti con l’ottavino, l’oboe, il corno inglese, due clarinetti, un fagotto, due corni, due trombe, timpani, pianoforte e archi. In questa nuova veste El Amor brujo fu ripresentato al teatro “Trianon Lyrique” di Parigi il 22 maggio 1925 nella coreografia di Antonia Mercè, soprannominata l”‘Argentina”. Il successo questa volta fu unanime e divenne ancora più caloroso quando la partitura fu eseguita nella versione concertistica, con o senza la partecipazione della voce che commenta liricamente alcuni momenti della vicenda.
I personaggi che animano il balletto sono le due giovani gitane Candelas e Lucia, Carmelo e uno spettro, che simboleggia la figura di colui che fu amato in passato dalla vivace e intraprendente Candelas. Costei, con l’arrivo della primavera, vorrebbe cedere alle lusinghe pressanti del giovane Carmelo che la corteggia, ma tutte le volte che i due innamorati tentano di baciarsi appare il fantasma e li divide. Conoscendo il debole del defunto per le belle ragazze, che sembra durare ancora, Carmelo persuade la vezzosa Lucia, amica di Candelas, ad attirare lo spettro e a distogliere la sua attenzione. Infatti quando il fantasma ricompare per disturbare il colloquio amoroso fra Candelas e Carmelo, Lucia lo conquista con la sua bellezza e la sua civetteria, permettendo ai due innamorati di baciarsi indisturbati, così da porre fine al fastidioso incantesimo.
Su questo tema che può sembrare scherzoso, ma ha un risvolto cupo e drammatico, Falla ha costruito una musica di gusto popolare e zingaresco, ispirata al «cante jondo» degli andalusi e sempre sorretta da figurazioni ritmiche tipiche della danza spagnola. Il lavoro si apre con una frase brillante a piena
orchestra (Introduccion y Escena), mirante a tratteggiare il caldo paesaggio andaluso. Di sapore misteriosamente notturno è il brano successivo (En la cueva), in cui appare una dolce melodia dell’oboe. Ecco l’apparizione (El Aparecido) dello spettro dello zingaro morto, che manifesta la sua influenza ossessiva nella Danza del terror. Un attimo di incantata distensione viene espresso nel pezzo El círculo màgico, cui seguono le poche battute di A media noche, preludio alla celeberrima Danza ritual del fuego, dove il rito volto a fugare le stregonesche superstizioni gitane raggiunge una efficacia musicale di straordinario effetto. Nel brano Escena la dolente melodia dell’oboe vuole ricordare l’angoscia di Candelas. Ritorna il tema iniziale della musica nella Pantomima, sfociando in un delicatissimo intermezzo lirico di incantevole poesia melodica, concepito in precedenza da Falla per essere inserito con il titolo Cádiz nelle Noches en los jardines de España. Il dramma si scioglie e il fantasma viene vinto con la Danza del juego de amor: l’orchestra ubbidisce al ritmo della jota e la voce canta ancora una canzone dalle venature popolaresche. Infine le campane annunciano il mattino (Las campanas del amanecer) e la vicenda si conclude in un clima di festoso giubilo, quasi a significare che la vita trionfa sulla morte.

Noches en los jardines de España

Le Noches furono ideate nel 1909 come pezzi pianistici e soltanto nel 1915 divennero impressioni sinfoniche per pianoforte e orchestra, eseguite per la prima volta a Madrid il 9 aprile 1916 dal pianista José Cubiles e dall’Orchestra Sinfonica di Madrid sotto la direzione di Enrique Fernandez Arbós. Tra gli ascoltatori della “prima” c’era anche il pianista Arthur Rubinstein, il quale incluse subito questo lavoro nel suo repertorio, facendolo conoscere nelle sale da concerto internazionali. La partitura, dedicata al pianista Ricardo Vines, fu pubblicata a Parigi nel 1922. Il sinfonismo dell’impressionismo francese (era il periodo in cui Falla aveva preso contatto a Parigi con Debussy e Dukas) e le melodie popolari andaluse sono amalgamati e fusi con molta abilità in questi tre notturni per pianoforte e orchestra, in cui la musica ha un potere più evocativo che puramente descrittivo. Il pianoforte non ha uno spiccato ruolo solistico e si inserisce nella massa sonora dell’orchestra, il cui organico comprende: archi, ottavino, due flauti, due oboi, corno inglese, due clarinetti, due fagotti, quattro corni, due trombe, tre tromboni, tre tamburi, tuba, triangolo, piatti, celesta e arpa.
Il compositore, allo scopo di facilitare la comprensione del brano, ha spiegato il suo pensiero nel seguente modo: «Sebbene in questo lavoro, come in tutti quelli che possono legittimamente aspirare al nome di musica, l’autore abbia seguito un preciso disegno per quanto concerne il materiale tonale, ritmico, tematico, lo scopo per cui tale composizione è stata scritta non è altro che quello di evocare luoghi, sensazioni e sentimenti.
Rafael Fruhbeck de Burgos

Rafael Fruhbeck de Burgos

I temi utilizzati si basano su ritmi, cadenze e figurazioni che caratterizzano la musica popolare dell’Andalusia, anche se essi sono raramente usati nelle loro forme originali; l’orchestrazione fa uso in modo convenzionale di certi effetti degli strumenti popolari suonati in quelle regioni della Spagna. Qualcosa di più che i suoni delle feste e delle danze ha ispirato queste evocazioni sonore, poiché in esse hanno parte anche la malinconia e il mistero».
La prima delle tre impressioni porta il titolo En el Generalife: Generalife è il nome di una vecchia villa moresca situata su una collina di Granada. Una melodia espressa sommessamente dalle viole, cui si aggiungono l’arpa, gli archi e gli ottoni, apre l’iniziale Allegretto tranquillo e misterioso. Lo stesso tema è ripreso in forma variata dal pianoforte; quindi l’orchestra introduce una nuova frase, che viene sviluppata ancora dal pianoforte. Il discorso si infittisce, fino a quando il corno su un pianissimo marcato ripropone la frase introduttiva su accordi leggermente sfumati degli archi.
Il secondo notturno si intitola Danza lejana (Danza lontana). Quattro viole in sordina alternano trilli e fioriture, sostenute dai violoncelli e dal pizzicato del contrabbasso. Da questo impasto di suoni si erge una frase affidata al flauto e al corno inglese che il pianoforte ripete, intrecciando un ritmo di danza che investe altri strumenti in varie combinazioni timbriche. Sotto il tremolo dei violini nel registro alto si riaffacciano le note iniziali della frase principale, immerse in una sospesa atmosfera armonica.
L’ultimo movimento, En los jardines de la Sierra de Cordoba, vuole rievocare il clima delle feste gitane che si svolgono nelle campagne intorno a Cordoba. La musica ha un piglio zingaresco molto vivace e racchiude anche accenti di canto andaluso; dopo un incisivo a solo del pianoforte il suono dell’orchestra si ammorbidisce e si spegne lentamente, quasi a sottolineare il senso di misteriosa suggestione che avvolge nella notte questi profumati giardini di Spagna.

Maurice Ravel

Alborada del gracioso

Nato all’arte nel momento del passaggio dall’Ottocento al Novecento Ravel è riuscito a cristallizzare assai presto nel suo lessico espressivo certi aspetti essenziali della musica francese della sua epoca, legandoli ad alcuni grandi modelli del passato per approdare ad una definizione stilistica, autonoma ed esclusiva, della sua opera, cogliendo in maniera originale una perfezione inimitabile.
Tredici anni intercorrono tra la data di nascita di Debussy e quella di Ravel, e questa osservazione non è senza importanza quando si voglia considerare la formazione musicale di Ravel, anche se non assume un rilievo determinante la dichiarazione che quest’utimo ebbe a fare, prossimo a morire, dopo aver riascoltato un’esecuzione dell’Après-midi d’un faune: – «è sentendo per la prima volta questo lavoro che ho compreso cosa fosse la musica». In realtà Ravel, pur sfiorando il mondo incantato di Debussy, ha sempre battuto vie diverse, sia nell’aspetto armonico sia nel versante espressivo, nonché nella scrittura strumentale. Del tutto estraneo al retaggio romantico, ed anche a Wagner, Ravel giovanissimo orientò le sue predilezioni a Chabrier e Satie e, oltre a questi, ai claviccmbalisti francesi del Seicento e Settecento. L’inequivoca tendenza raveliana alla linearità architettonica delle forme classiche, il controllo misuratissimo esercitato sempre sulle emozioni soggettive, vennero a collocare Ravel al di fuori dello stile e dell’ambiente dell’impressionismo, pur se dall’estetica di questo movimento artistico il musicista ebbe ad assumere certe trasparenti sonorità, l’esatta individuazione dei colori e, sovente, la raffinata sfumata variabilità delle trame e degli impasti fonici.
Come ha intelligentemente scritto Francis Poulenc, «mentre in Debussy gli sviluppi musicali si sciolgono in continue fluttuazioni di macchie sonore che si innestano e si sfrangiano liberamente per creare mobilissime atmosfere, in Ravel le immagini sonore sono sempre circoscritte da contorni taglienti, da una netta e quasi razionale precisazione melodica. Alle eleganze evanescenti di Debussy, Ravel oppone cadenze armoniche elementari che semplificano al massimo la struttura compositiva, un dinamismo ritmico ben definito, dure insistenze timbriche che squadrano gli sviluppi musicali con razionale geometria, spesso accentuata dall’adozione di certi schemi crudi e ossessivi della musica iberica» (1972). E, secondo lo Jankelevitch, nella produzione di Ravel «tanta finezza unita a tanta intelligenza presuppongono secoli di civiltà ed una sensibilità che non è concepibile se non in Francia. Soltanto un Ravel poteva concepire l’opera di Ravel: soltanto la sua musica può restituircelo».
Nel 1905 videro la luce la Sonatina e i Miroirs, due lavori che risultano essere l’espressione di due distinti e autonomi aspetti del gusto e del pianismo raveliani. Nella misurata sua concisione la Sonatina è il prezioso documento dì una féerie impressionistica: entro proporzioni formali miniaturizzate ma rigorose nella struttura, l’eloquio musicale sembra delicato e sfumato, sfavillante di impressioni armoniche e ritmiche, vergate in punta di penna, nelle quali l’elemento motore è lo spirito dei settecenteschi clavicembalisti francesi. L’opposto, in una parola, di quanto offre l’ascolto di Miroirs che, nella loro aggressività, splendente di un pianismo luminoso e virtuoslstico, sembrano specchiarsi in Chopin, in Liszt e in Schumann. I Miroirs, come precisò l’autore, «formano una raccolta di pezzi per pianoforte che segnano nella mia evoluzione armonica un mutamento abbastanza considerevole per aver sconcertato anche i musicisti più assuefatti alla mia maniera manifestata fino a quel momento».
Il 1905 fu anche l’anno in cui la terza bocciatura di Ravel al Prix de Rome aveva visto levarsi in favore del musicista numerosi estimatori, da Alfred Edwards, direttore generale del quotidiano “Le Matin”, ai coniugi Godebski, ai pittori Leprade e Bonnard, agli amici della giovinezza che, tre anni prima, nell’atelier del pittore Paul Sordes, avevano dato vita ad un sodalizio d’ostentato anticonformismo al punto da esser denominati “Les Apaches”. I nomi di alcuni di questi compagni, tra cui in primo luogo il poeta Leon-Paul Fargue e il pianista Ricardo Viries, si ritrovano fra i dedicatari dei cinque pezzi di Miroirs che si intitolano Noctuelles, Oìseaux tristes, Une barque sur l’Ocean, Alborada del gracioso e La Vallèe des cloches: pubblicati da Demets, furono eseguiti per la prima volta il 6 gennaio 1906 da Vines alla parigina Salle Erard della Societé Nationale des Concerts.
Con l’eccezione della giovanile Habanera per orchestra (1895), l’Alborada del gracioso è il primo titolo spagnolo dell’opera di Ravel. “Alborada”, termine corrispondente al francese “aubade” e all’italiano “mattinata”, è una mattutina chitarrata d’amore in forma di serenata d’antica origine, probabilmente galiziana, riconducibile forse alla pratica trovadorica. Il “Gracioso”, a sua volta, è un personaggio buffo della commedia tradizionale spagnola di Calderon e di Lope de Vega. Come efficacemente ha notato Alfred Cortot, «con Alborada del gracioso Ravel abborda un genere pittoresco d’altra specie rispetto agli episodi precedenti di Miroirs. La discorsività musicale è guidata dalla nervosa cadenza di un ritmo spagnolo; lo sviluppo della composizione è definito da una forma ben precisa, con scene di danza che si alternano al canto, a somiglianzà della maggior parte dei pezzi che formano l’Iberia di Albeniz. In questa pagina, però, la valenza timbrica raveliana non ha nulla del languore sensuale o dell’evocazione nostalgica, tipici del musicista catalano, privilegiando per contro una asciuttezza di tocco, tra lo staccato e il martellato, che restituisce a meraviglia l’effetto delle strappate alle corde metalliche della chitarra, il crepitio ostinato delle nacchere, il battito cadenzato dei piedi dei ballerini. Ed anche l’amarezza malinconica della sezione centrale, che si rifà alla copla nell’improvvisazione del cantore, appare marcatamente stilizzata, prosciugata e ridotta ai suoi tratti essenziali, come un disegno a punta secca» (1930).
La genialità di tale nervosa scrittura strumentale suscitò ben presto l’ammirazione di Manuel de Falla, ma provocò anche la sua meraviglia allorché apprese dalla viva voce dell’autore che con la Spagna non aveva avuto allora alcun rapporto se non quello del suo luogo di nascita, prossimo alla frontiera. Falla concluse la sua osservazione in merito con le seguenti parole: «La Spagna di Ravel era una Spagna conosciuta idealmente attraverso la madre, la cui conversazione, in un eccellente spagnolo, divenne affascinate quando evocò gli anni di gioventù trascorsi a Madrid. Compresi, in quell’occasione, come il figlio fosse rimasto impressionato dagli accenti della madre nelle rimembranze ravvivate da quella forza che lega indissolubilmente, ad ogni ricordo, un tema di canzone, un tema di danza».
L’Alborada del gracioso fu trascritta dall’autore per orchestra nel 1918 ed eseguita per la prima volta il 17 maggio 1919 ai parigini Concerts Pasdeloup sotto la direzione di Rhené-Baton; la pubblicazione, a cura delle Editions Eschig, porta la data del 1923. Secondo il musicologo Roland-Manuel, «aujourd’hui encore les pianistes, plus intimidés que séduits par ces miroirs magiques, n’entretiennent que l’Alborada del gracioso, ou la virtuosité mordante et sèche contraste, à l’espagnole avec les élans pàmés de la mélopée amoureuse qui vient interrompre le bourdonnement furieux de guitars. Pièce admirable d’ailleurs, et dont une orchestration magnifìque a doublé le succès».
La scrittura strumentale, nella sua connotazione virtuosistica, appare assai complessa ed elaborata sia nell’organico prescelto (con xilofono, due arpe, tre timpani, percussioni, crotali, nacchere, archi) sia nella ricerca, portata all’estremo, degli impasti timbrici, anche nell’articolazione degli archi. L’esito è una partitura di diabolica brillantezza e di virtuosismo di scrittura non meno che sensazionale, tale da esaltare alla valenza più elevata tutte le risorse più smaglianti di una compagine sinfonica moderna, nonché la sensibilità, l’intelligenza e l’estro di un direttore carismatico. Specialmente i due pannelli esterni sembrano evocare la fantasmagoria frenetica di mille chitarre ma non meno suggestiva appare l’atmosfera misteriosa ed incantatoria dell’episodio centrale. Al punto che, al confronto con questa versione orchestrale, la stesura originaria può sembrare d’esserne una mera riduzione per pianoforte.
Pavane pour une infante défunte
Nell’ultimo anno del secolo scorso RaveI scrisse per il pianoforte la più celebre pavane del repertorio concertistico. Il riferimento compositivo e ideale è a una danza lenta cinquecentesca, popolare anche nel Seicento, in 4/4, dall’andamento composto e solenne, normalmente contrapposta a una veloce gagliarda a lei accoppiata.

Rafael Fruhbeck de Burgos

L’impiego di questa forma remota da parte di Ravel rientra nella tendenza arcaicizzante fin de siècle cui il catalogo del compositore si dimostra debitore (col Menuet antique, Le tombeau de Couperin e i due Epigrammes de Marot). Non a caso l’eco di questa danza giungeva a Ravel attraverso la mediazione dei virginalisti inglesi come Dowiand e Morley, ed evocava sonorità lontanissime dal pianismo romantico e prossime invece al venerando clavicembalo, importante fonte d’ispirazione per la generazione di Ravel. Il perseguimento di un «colore» storico si somma qui all’inseguimento di un «esotismo» geografico altamente suggestivo: quella Spagna che, nei decenni attorno alla svolta del secolo, ispirò tutti i maggiori autori francesi, da Saint-Saëns a Chabrier, dal Bizet di Carmen a Debussy. Una Spagna immaginaria che divenne catalizzatore delle esperienze compositive più moderne, come avrebbe dimostrato lo stesso
Ravel in una serie impressionante di lavori, dalla Habanera giovanile al Boléro, dalla commedia musicale L’heure Eupagnole All’Alborada del Gracioso, dalla Rhapsodie espagnole all’estrema fatica le tre mélodies di Don Quichotte à Dulcinée.
Nella Pavane il compositore evoca l’immagine di un’Infanta rinascimentale: la figura doveva godere di una fortuna non episodica se esattamente dieci anni prima, nel 1889, Oscar Wilde le aveva dedicato una toccante fiaba, The Birthday of the Infanta (dal 1891 nella raccolta The House of Pomegranates), da cui Zemlinsky avrebbe tratto la propria «favola tragica per musica» Der Zwerg (Il nano). Queste le coordinate culturali che danno ragione del titolo di questa composizione, salutata da un’immediata popolarità (anche al di là delle volontà dell’autore, che nel corso degli anni giudicò severamente la semplicità di struttura di questa pagina – un rondò -, giungendo a riconoscere al titolo solo l’interesse di un’allitterazione!), e chiamano in causa una poetica di estraniazione dal rumore del mondo – dalla Francia all’epoca sconvolta dall’Affaire Dreyfus: l’art pour l’art insomma. La Pavane è un incantevole lavoro giovanile, nato per il salotto dei principi di Polignac ed espressamente dedicato alla principessa Edmond de Polignac (ospite di Fauré a Venezia nel ’91, avrebbe commissionato a Stravinskij Renard), all’ombra di due grandi maestri della musica francese: Chabrier – l’influsso del suo Idylle dalle Pièces pittoresques verrà indicato dallo stesso Ravel – e Fauré, insegnante di composizione della giovane promessa e a sua volta autore di una celebrata Pavane, op. 50 orchestrale, scritta a ridosso del Requiem (1887) e ridotta per pianoforte nel 1889. L’orchestrazione dell’opera di Ravel (realizzata nel 1910, ai tempi di Daphnis et Chloé, e presentata al pubblico da Alfredo Casella), lungi dall’offuscare la caratteristica limpidezza dei temi e il loro squisito lirismo, esalta quella scrittura da melodia accompagnata, che già in origine rendeva la Pavane una sorta di serenata per orchestra.
L’apertura è affidata al corno solista, che canta il caldo tema, prevalentemente per grado congiunto, sull’accompagnamento degli archi con sordina, dell’altro corno e dei fagotti, mentre i legni intervengono solo nella seconda parte, cosi come l’iridescenza passeggera dell’arpa. Il primo episodio contrastante è affidato proprio a uno dei legni, l’oboe, seguito come un’ombra dal fagotto, nel silenzio degli archi punteggiato dallo staccato dei clarinetti.
L’episodio viene replicato dagli archi, finché un ritenuto non porta alla ripresa del tema principale, trasfigurato coloristicamente con la sua assegnazione a flauti e clarinetti. Di sapore cajkovskijano,il secondo episodio divagante, in sol minore, esordisce con l’inerpicarsi del flauto nelle regioni acute, sul sostegno dei soli primi violini divisi: la chiarezza tematica delle altre sezioni viene qui frantumata nel contrappunto orchestrale. Ripreso variato anche quest’ultimo
episodio tra i glissandi dell’arpa, e concluso col forte a organico completo, giunge l’ultima ripresa del rondò, non clamorosa bensì in pianissimo, eppure esaltata dall’unisono di flauti e violini sull’accompagnamento di archi, arpa, fagotti e corni. Per la seconda sezione del tema,dopo il rituale glissando dell’arpa, il canto spetta ai violini e al corno I, mentre flauti e clarinetti abbozzano un leggero staccato, imitazione forse d’un immaginario liuto o una spagnola vihuela nell’accompagnamento dell’antica pavane.