Handel Frideric George

Messiah

Senza dubbio, questa è la migliore esibizione del Messia di Handel registrata. Possiedo l’incisione originale in vinile incisa nel 1966 e questa trasposizione in CD avvenuta nel 1993 ne valorizza ulteriormente l’esecuzione perché il suono rimasterizzato è più cristallino e potente. Sir Colin Davis con la London Sympony Orchestra e Chorus ci dona una impeccabile esecuzione. L’“Alleluia”, il brano più conosciuto di questo splendido spartito, è di una potenza e bellezza strabiliate. Il cast formato dal soprano Heather Harper, dal contralto Helen Watts, dal tenore John Wakefield e dal basso John Shirley- Quirk è di altissima qualità. Secondo me nessun altro “Messia” si può paragonare a questa magnifica esibizione sia dal punto di vista vocale che dell’impatto emotivo. Basti ascoltare la qualità musicale, gli attacchi, i quattro orti solisti e anche il continuo del clavicembalo suonato da Leslie Paerson, spesso trascurato ma essenziale. Se non avete questa incisione seppur datata, non avete il “Messia” al suo apice. Ascoltare per crede! Registrazione eseguita nel 1966 e rimasterizzazione effettuata nel 1993. Audio ottimo. Che dire di più? Imperdibile! Buon ascolto a tutte e tutti voi.

“Voglio renderli migliori – il Messia di Handel – di Bernard Jacobson

Non sono soltanto i melomani a collocare il Messia di Handel tra le vette supreme della loro arte prediletta. Peraltro in questo celeberrimo Oratorio, Beethoven disse infatti del suo compositore: “Mi toglierei il cappello e mi inginocchierei davanti alla sua tomba”. Il musicista di Bonn, che non era esattamente un modello di umiltà, nutriva tuttavia il più profondo rispetto per Handel. Quando un visitatore gli chiedeva il nome del più grande compositore che fosse mai esistito, Beethoven rispondeva senza esitare, “Handel – davanti a lui mi inginocchio”, descrivendolo in un’altra occasione come “il maestro di tutti noi”, per la sua capacità di ottenere “gli effetti più grandiosi con i mezzi più semplici”.
Il genio di Handel è insieme troppo grande e troppo vario perché la sua fama nel mondo venga affidata soltanto a un unico lavoro. Fortunatamente per noi tutti, il processo di esplorazione che cominciò negli anni Cinquanta con l’introduzione dei dischi longplaying, e continua ora nell’epoca dei compact, ha reintrodotto molte parti della sua vastissima produzione nel repertorio comunemente eseguito. Lavori come la “Musica sull’acqua” sono relativamente famosi, anche se spesso li ascoltiamo molto tagliati.
I Concerti Grossi si sono affermati come dei pezzi assolutamente degni dei Concerti Brandeburghesi di Bach.
Alcune magnifiche opere handeliane, tra cui il Giulio Cesare, la Rodelinda, e l’Ariodante, vengono di quando in quando riprese e affascinano una nuova generazione di appassionati.
Ma quando viene citato il nome di Handel, è ancora il Messia a cui prima di tutto pensiamo, e giustamente, perché fu proprio con questo lavoro che il compositore, tedesco di nascita e in parte di formazione italiana, rese popolarissima la forma inglese chiamata oratorio.
Giudizi come quello di Beethoven citato in precedenza si attagliano particolarmente al Messia, un lavoro assolutamente familiare ma che rimane sempre vitale, la cui prima assoluta a Dublino il 13 aprile 1742 rappresentò una pietra miliare nella storia della musica. I proventi che gli derivavano dalle sue stagioni londinesi di opera italiana erano sempre più scarsi, e Handel, verso la fine del terzo decennio del Settecento, era caduto in uno stato di depressione aggravato dalla mole impressionante di lavoro e dalla cattiva salute.
Fu allora che il libretto del Messia venne presentato a Handel da Charles Jennens, un ricco letterato dilettante che lo scrisse lui stesso o si attribuì il merito del lavoro del suo segretario e cappellano privato, un certo Pooley.
A Handel Jennens sembrò “uno stupido vanesio accecato dalla propria
ricchezza”. Ma il seme era stato piantato. L’idea di un Oratorio sacro basato sull’argomento centrale del Cristianesimo, e che, in favore della contemplazione interiore, evitava anche quel tanto di dramma che pur si poteva evocare anche senza le scene, accese a tal punto la fantasia del compositore che la partitura venne completata in 24 giorni.

Sir Colin Davis

Come sappiamo da una lettera scritta da Jennens quattro anni dopo, la disistima in cui il compositore teneva l’autore del suo testo era in qualche modo ricambiata. “Vi mostrerò”, scriveva Jennens, “un lavoro che diedi a Handel, intitolato Messia, che ritengo bellissimo, e lui ne ha ricavato un buon pezzo di intrattenimento, anche se non è nemmeno lontanamente bello quanto poteva e doveva essere. Con grande difficoltà gli ho fatto correggere alcune delle pecche più gravi nella composizione, ma si è ostinato a mantenere la sua ouverture, in cui vi sono certi passaggi del tutto indegni di Handel, ma ancora più indegni del Messia”.
In maniera abbastanza curiosa, nonostante tutte le sue pecche, il Messia è riuscito a sopravvivere, e il suo culto ha assunto a volte dimensioni simili alle più ardite stravaganze della pop-music di oggi.
Le cronache delle esecuzioni del Messia formano una storia affascinante, dai colossali festival handeliani della fine del Settecento, fino ai recenti tentativi di ritornare alle esecuzioni con organici molto più esigui e gli strumenti originali del tempo di Handel.
Ma in generale con il compositore sassone, e in particolare con il Messia, il compito di stabilire le cosiddette “intenzioni originali” del musicista è molto complesso e non potrà mai venire realizzato altro che in maniera approssimativa.
È utile ricordare prima di tutto, che “il Messia autentico” non può esistere – il massimo che si può ottenere in questa direzione sarebbe “un Messia autentico”. Negli anni tra la prima esecuzione e la sua morte, avvenuta nel 1759, Handel sottopose il lavoro a un’opera costante di revisione e modifica. In parte questo volle dire la sostituzione di determinati numeri con una versione che l’autore preferiva.
Ma altre modifiche vennero apportate per soddisfare le esigenze (o le insufficienze tecniche) dei solisti in occasioni specifiche, e questi cambiamenti non hanno necessariamente alcuna validità di lungo periodo.
L’esecuzione “completa” del Messia è, per ragioni simili, un’altra chimera. Anche se siamo in grado di ricostruire con notevole precisione la forma in cui il lavoro venne eseguito per la prima volta o in un certo numero di esecuzioni successive dirette dallo stesso compositore, non ci può essere una versione “ideale” che realizzi la volontà definitiva di Handel.
La registrazione che qui presentiamo è caratterizzata da una concezione empirica delle varie scelte che si presentano agli esecutori di oggi. Ogni gruppo di versioni di un dato testo viene rappresentato in una delle sue forme; e, con buona pace di Jennens, ci siamo ostinati a mantenere la sua ouverture.
Davanti ha un commento su uno qualsiasi degli aspetti dell’interpretazione di Colin Davis da parte di chi abbia assistito alle sedute di registrazione, mi sentirei di aggiungere che quest’incisione è caratterizzata dalla migliore e più importante varietà del concetto problematico dell'”autenticità”.
Le fioriture aggiunte al testo dai solisti e dagli esecutori del basso continuo, secondo la pratica settecentesca, facevano trasparire al momento dell’esecuzione un senso vitale di spontaneità, e mi pare che non perdano di freschezza neanche dopo ripetuti ascolti.
Lasciando da parte gli aspetti puramente musicologici, l’atteggiamento necessario fondamentale nell’accostarsi al Messia, sia per i musicisti che per gli ascoltatori, è la consapevolezza del tipo di lavoro che in realtà l’Oratorio rappresenta – il significato che Handel gli attribuiva.
Un indizio importante è contenuto nei commenti di Jennens: la parola “intrattenimento”. Per Handel l’Oratorio era una forma molto vicina all’opera, e aveva in comune molte caratteristiche con quel genere più ovvio di “intrattenimento”.
Ma sebbene il compositore dopo quest’Oratorio finisse per produrne altri quindici, il Messia rimane il suo unico lavoro nel genere con una trama basata sul Nuovo Testamento, in cui l’intrattenimento è chiaramente lo scopo solo parziale.
Per citare un commento dello stesso Handel quando qualcuno gli fece le congratulazioni per l’effetto che l’esecuzione del Messia aveva sul pubblico disse: “Mi spiacerebbe se li avesse soltanto divertiti – il mio desiderio è di renderli migliori”.

(Traduzione: Giorgio Giandomenici)

Messiah, HWV 56

Fu a una svolta della sua vicenda artistica che Georg Friedrich Händel compose il Messiah, l’opera alla quale, emblematicamente, è da allora associato, per antonomasia, il suo nome. L’anno di composizione, il 1741, rappresentò per Händel l’abbandono di una straordinaria e tormentata carriera operistica (nell’inverno, con Deidamia), nonché della lingua, l’italiano, cui la sua attività di compositore di musica vocale era stata legata sin dagli anni di apprendistato. Come spartiacque tra i due compositori, l’operista «italiano» del 1741 e l’autore di oratori in lingua inglese del 1742, si colloca l’invito ad animare una stagione al di fuori dei riflettori londinesi, nell’appartata Dublino. Da lì il Messiah, terminato nel settembre 1741, intraprende la sua marcia trionfale il 13 aprile 1742, continuando a occupare il suo autore fino all’anno della morte, con una serie notevole di revisioni e rifacimenti per successive produzioni dell’oratorio, nel 1742, ’43, ’45, ’49, ’50 (da quest’ultimo anno Handel volle legare l’oratorio al Foundling-Hospital, istituzione per l’infanzia abbandonata cui riservò l’esecuzione dell’opera), e soprattutto imponendosi nell’immaginario collettivo dei paesi anglosassoni come un patrimonio spirituale insostituibile, parte integrante della propria identità culturale.
Con quest’opera il compositore si rifà a quel genere di oratorio da concerto in lingua inglese che egli stesso aveva contribuito a sviluppare, forte di una ricca esperienza nel campo della musica sacra corale maturata in tre diverse tradizioni nazionali, legate ad altrettante lingue: la passione luterana, frequentata nella madrepatria (Brockes-Passion, 1716 ca., apprezzata anche da Bach), l’oratorio, conosciuto nel suo lungo soggiorno italiano (Il trionfo del tempo e del disinganno, 1707, La Resurrezione, 1708) e l’anthem, praticato nella patria d’adozione, l’Inghilterra (Chandos Anthems, Coronation Anthems).
Il testo dell’oratorio è tratto interamente dalla Bibbia (la Authorised Version of the Bible e la traduzione «Coverdale» dei salmi proposta dal Book of Common Prayer) secondo una sofisticata operazione di montaggio da libri remoti per
cronologia e genere letterario. Il complesso collage propone una celebrazione epica della figura del Messia dall’Antico al Nuovo Testamento, evitando completamente, a differenza delle Passioni bachiane, la presenza del personaggio-Cristo: viene operata dunque una rappresentazione «obliqua» della figura di Gesù, per il quale non si evoca nessun riferimento storico preciso, fatta salva la nascita. Al centro del testo si colloca dunque il dramma della redenzione dell’umanità, compiuta da un personaggio mai chiamato col suo nome storico (l’oratorio si intitola infatti Messiah). Autore del libretto è Charles Jennens (1700-73), membro ortodosso della Church of England, di quindici anni più giovane di Händel e suo fervido ammiratore almeno dal 1725. Per il compositore aveva già scritto il libretto dell’oratorio Saul e forse è suo anche quello dell’innovativo Israel in Egypt, in cui predominante è il ruolo del coro. Le tre parti in cui l’oratorio è suddiviso riguardano rispettivamente l’avvento del Messia, la sua Passione Morte e Resurrezione, e la sua seconda venuta gloriosa. Jennens si sofferma su alcuni libri della Bibbia, trascegliendo talvolta una serie di versetti successivi da una medesima pericope, talora operando modesti interventi testuali per esplicitare una lettura in chiave cristologica dei passi veterotestamentarii. Inviò inoltre al compositore due epigrafi dotte da apporre sul frontespizio del libretto: una citazione dalla IV Egloga di Virgilio («Majora canamus», v. 1, in ossequio all’interpretazione medievale in chiave cristiana del puer celebrato dal poeta pagano) e il passo paolino recitato nella presente registrazione. Il testo del libretto è stato riprodotto secondo l’edizione londinese del 1743, di cui si sono mantenute maiuscole e punteggiatura. Nella traduzione si è conservato il senso della versione inglese intonata da Händel, malgrado questa talora possa comportare qualche fraintendimento nell’interpretazione del testo biblico.
Händel dimostra singolare sensibilità nei confronti dei passi, normalmente in prosa, scelti da Jennens, straordinaria abilità nel modulare il tono espressivo all’interno di un medesimo contesto. Si consideri ad esempio il testo biblico con cui l’oratorio si apre, intonato in quattro forme diverse: arioso, accompagnato, aria e cor, seguendo la suggestione, rispettivamente, della parola di consolazione, dell’invito alla conversione, della varietà del linguaggio metaforico e infine della menzione della gloria divina. Analoga fantasia dà corpo a un successivo passo di Isaia (53,3-6), risolto in un’aria di eccezionale rilievo seguita da tre cori radicalmente diversi l’uno dall’altro. E proprio il peso straordinario di quell’aria, «He was despised», all’interno della partitura consente un’altra riflessione. Il compositore, infatti, non accetta passivamente il piano predisposto da Jennens, ma vi interagisce imponendo una propria strategia, attraverso mezzi squisitamente musicali, serrando o diluendo, dilatando o contraendo i tempi di sosta su questo o su quel passo, influenzando insomma in modo determinante la concentrazione dell’ascoltatore e perciò la sua interpretazione dell’epos sacro. Così la chiusa della Parte Prima, sin dalla Pifa, si configura come una sorta di scena in cui l’unico episodio storico del libretto (la Notte di Betlemme) viene organizzato secondo una retorica propriamente musicale.
Prodigio di freschezza inventiva, il Messiah nacque in appena tre settimane, sul finire dell’estate 1741: a chiusura della Parte Terza l’autografo riporta la data del 12 settembre e quella del 14 dello stesso mese per l’orchestrazione (una settimana prima di attaccare la composizione di Samson). Se quest’ultima operazione non dovette richiedere eccessivo impegno (la strumentazione è ridotta infatti all’essenziale) e se è pur vero che Händel attinse in taluni casi a pagine composte in precedenza (specialmente duetti da camera, diversi dei quali composti di recente), resta comunque prodigiosa l’efficacia della tonalità complessiva dell’opera, risultato della varietà di atteggiamenti di cui si animano le pagine bibliche che Jennens aveva antologizzato da fonti eterogenee (profeti, salmi, vangelo, lettere apostoliche), annullando la possibilità di una qualsiasi continuità narrativa e perciò drammatica. Il miracolo è affidato ad alcune scelte stilistiche strategiche. Innanzitutto la scrittura per il coro, che tempera il contrappunto rigoroso della tradizione tedesca con la tecnica inglese dell’anthem (sperimentata dal compositore sin dal suo arrivo a Londra, tanto nei Chandos quanto nei Coronation anthems) ottenendo un amalgama fluida, per cui, nel corso di un medesimo coro, il gioco imitativo, raramente complesso e talora soltanto pseudo-contrappuntistico, si scioglie nel dialogo concertante tra le voci, si ricompatta in motti omofoni, sorta di ritornelli vocali sostenuti dall’orchestra o da questa echeggiati, dando luogo a una varietà di soluzioni che rispondono docili e imprevedibili alle sollecitazioni del testo. Una formula che dimostra nell’Hallelujah! tutta la sua intramontabile efficacia. Altrettanta disponibilità a modulare le strutture formali si può trovare nei numeri solistici, che presentano il variegato campionario riscontrabile nelle opere di Händel. I recitativi infatti spaziano dal semplice (o secco) all’accompagnato e all’arioso, con prevalenza di quest’ultimo in alcune zone sensibili del testo (ad esempio, su uno splendido arioso il Messiah si apre).
Le arie offrono le tipologie più diverse, dalla forma grande coi da capo, alla sua variante dal segno, a un da capo dissimulato perché l’ultima anta dell’aria è sostituita da un coro, all’arietta bipartita, ad arie che propongono più sezioni giustapposte, proseguendo estenuate (ipnotiche, si direbbe) finché non viene esaurito il testo biblico, badando bene di far percepire all’ascoltatore l’unitarietà musicale del pezzo. Infine, alcuni numeri solistici vengono agganciati a una pagina corale che ne amplifichi la portata, garantendo una relazione diretta ed efficace tra le due componenti fondamentali della partitura, i solisti e il coro. Altre frecce sono chiaramente riconoscibili nell’arco di Händel, elementi che insieme conferiscono un’unitarietà e un «timbro» specifico all’oratorio: formule di accompagnamento (come il drammatico ritmo puntato, che pervade cori e recitativi); indicazioni di tempo (quel Larghetto che apre il Messiah e così spesso ritorna); una certa reticenza nell’espansione melodica, che dà vita in diverse arie a un lirismo contenuto, interiorizzato; la retorica barocca degli affetti, contigua all’estetica del melodramma; la simbologia musicale che trasforma in pittura sonora le sollecitazioni testuali. Infine, la sapiente strategia nell’alternare gli interventi del coro e dei quattro solisti, cui spettano pezzi di taglio differente e almeno una grande occasione ciascuno. Meno virtuosistico il ruolo del tenore, che svolge invece, secondo la tradizione tedesca (si pensi alle Passioni bachiane) un ruolo preponderante di narratore. La registrazione qui proposta si rifà all’edizione edita dallo studioso händeliano Donald Burrows, che riprende la produzione curata dal compositore per il Covent Garden nel 1753
L’oratorio si apre – come d’altra parte, presso Händel, anche le opere – con una Ouverture alla francese (Sinfony nell’autografo), forma celebrativa che dal Grand siècle di Lully aveva fatto scuola in Germania (si pensi alle Ouvertures orchestrali bachiane). La pagina è strutturata secondo le tradizionali tre sezioni: un Grave dall’incedere solenne; un Allegro moderato condotto con piglio energico dal violino I, in un contrappunto imitativo che alla costruzione rigorosa della fuga preferisce una più ariosa dinamica dialogica tra le sezioni dell’orchestra d’archi, che scambiano minuscole cellule tematiche; infine la ripresa simmetrica, ancorché ridotta ai minimi termini, della sezione introduttiva, a ribadire la severa tonalità d’impianto di mi minore. Il capovolgimento del modo (in mi maggiore) contribuisce a stagliare per contrasto, con evidenza abbagliante, la prima pagina vocale del Messiah, il Larghetto e piano con cui il tenore annuncia il verbo di consolazione predicato dal profeta. Formalmente un arioso (finché non si trasforma in vero e proprio recitativo accompagnato, a intonare l’ultimo versetto), il pezzo realizza in puro tono idillico, non lontano da certe consuetudini operistiche händeliane, il messaggio di Isaia, avvalendosi del pulsare regolare delle crome degli archi, a cui dapprima il violino I e poi la voce sovrappongono morbide e lunghe note tenute e una gestualità trattenuta, che conosce appena un sussulto al verbo «cry» (il medesimo modello di melodia e accompagnamento ricorre, in veste soltanto strumentale, nel Largo di apertura della Sonata a tre op. 2 n. 1, HWV 386b). Il solista si cimenta allora in un’aria di bravura, che si piega docile a seguire l’immaginario metaforico dell’esortazione profetica alla conversione (colmare le valli, appianare il terreno scosceso) con prolungati, acrobatici esercizi di pittura sonora. Cornice dell’aria, responsabile del tono festoso, è il ritornello orchestrale, che i violini mantengono nel registro acuto, fra trilli e incantevoli effetti d’eco. Il quadro introduttivo è completato da un coro che dissimula la sua scrittura mottettistica nell’arioso, libero svolgersi di un pensiero musicale dalla sottile, progressiva combinazione di soggetti contrastanti, corrispondenti a ciascuna porzione testuale, nell’astuta alternanza tra l’emergere scoperto di singole sezioni del coro e il ricompattarsi unitario dell’intera compagine vocale, con effetto immancabilmente felice.

Salvador Dali – L’Ascensione

La stentorea voce del basso (riservata a Dio nella tradizione liturgica del Sei – settecento tedesco: ad esempio è la vox Christi nelle Passioni) richiama l’attenzione sul carattere terribile dell’avvento divino, in un drammatico accompagnato (tendente anch’esso all’arioso), aperto dagli archi con un perentorio arpeggio di re minore su ritmo puntato e vivacizzato dall’immagine apocalittica dell’intervento divino («shake»), mimato da voce e archi, mentre la seconda citazione biblica del testo viene intonata con un tradizionale e più
neutro recitativo accompagnato. Le inquietudini del recitativo trovano compiuta espressione nella prima grande aria del Messiah, in origine per basso, ma qui eseguita nella versione più ambiziosa scritta da Händel nel 1750 per il contraltista Gaetano Guadagni, in cui si alternano per due volte un intenso Larghetto in re minore dalle fioriture delicatissime e un Prestissimo di furore, dominato dalla metafora del fuoco purificatore. Per il coro seguente il compositore parodiò il movimento conclusivo del duetto Quel fior che all’alba ride, fresco d’inchiostro nel 1741, che esordisce appunto con un’esposizione a due voci, poi calata in un tessuto contrappuntistico che si rinserra in occasione della seconda frase del breve testo, per riprendere la prima sezione variata e concludere con un nuovo Tutti.
Un brevissimo recitativo conduce a una delle strutture più complesse dell’intera partitura, l’Aria con coro «O thou that tellest good Tidings to Zion», riservata ancora una volta al contralto e organizzata come un rondò che ripropone il tema, formidabile per freschezza e vitalità, esposto dai violini all’unisono nel ritornello introduttivo. Le sue ricorrenze sono intercalate a zone di «risacca» dove l’energico invito del testo a un’azione alacre conosce una tregua in cui si assaporano momenti di contrastante intensità espressiva, prima che, a sorpresa, il coro al completo intervenga ad avvalorare definitivamente, con la ripresa del tema, il tono dominante dell’aria. Un nuovo arioso del basso evoca dapprima lo smarrimento dell’umanità, irretita nella cecità morale, e in seguito, segnalata da una diversa formula di accompagnamento e dalla modulazione al maggiore, l’apparizione salvifica di Dio, il cui sorgere luminoso è dipinto dall’ottava ascendente percorsa tra semicrome dalla voce. Anche l’aria successiva, nuovamente in si minore, è chiamata a dipingere le tenebre, con mezzi differenti: Händel sceglie di accogliere la già scura voce del basso in un contesto timbrico cupo, prescrivendo che l’intera compagine degli archi suoni all’ottava col continuo. Questo nastro opaco, che attacca indugiando nelle appoggiature, si svolge lungo quattro riprese variate della medesima sezione musicale, conferendo un’intonazione uniforme all’intero testo (se il discorso comprensibilmente si schiarisce alla menzione della «great Light», particolarmente tenebrosa è invece la terza anta, in cui il basso si attarda nel registro grave, in corrispondenza della nuova porzione testuale, che evoca la «Shadow of Death»). Tanto più efficace risulterà allora l’erompere contrastante del coro «For unto us a Child is born», invenzione freschissima e memorabile con la quale Händel aveva aperto, il mese prima, il duetto No, di voi non vo’ fidarmi, HWV 189. Tracce del modello restano ben evidenti sin dall’attacco, chiaramente concepito per due voci, e persino nella prosodia: infatti l’accento immotivato su «For» si spiega solo se riportato all’originale «No», la stizzita apostrofe a Cupido qui parodiata. L’acclamazione dei titoli del Messia avviene invece con l’impiego solenne, in omofonia, del coro al completo, sul brillante accompagnamento dei violini (appare chiaro come Händel leggesse separati da un virgola gli appellativi «Wonderful» e «Counsellor», in realtà da interpretarsi come un’unica entità testuale). Una Pastorale (Pifa nell’autografo) introduce alla «scena» storica della Notte di Betlemme, secondo i codici vigenti nell’immaginario musicale barocco della musica di Natale, fantasia di una pastorizia della mente, più vicina alla silhouette idealizzata dell’Arcadia e alle eleganti statuine di Capodimonte che non agli antichi pastori della Palestina.
Handel trovava la Pastorale nei Concerti grossi op. VI di Corelli, ma anche nella tradizione tedesca: a Lipsia il Thomaskantor Johann Schelle ne aveva introdotta una, intitolandola Pastorella, nel suo Actus Musicus auf WeyhNachten (1683), e pochi anni prima del Messiah il suo successore Johann Sebastian Bach aveva fatto altrettanto nell’Oratorio di Natale (1734). La gestualità trattenuta e cullante, l’andamento degli archi per terze e ottave, la melodia per grado congiunto e il metro di 12/8 preparano uno sfondo d’idillica serenità al soprano, che nel recitativo seguente narra l’episodio evangelico dell’annuncio ai pastori associandovi il timbro sopranile, simbolo delle creature angeliche. La scena è sapientemente organizzata attraverso la rigorosa alternanza di recitativi, che da semplici – rispondenti al tono della pura narrazione obiettiva e alla necessaria perspicuità del messaggio rivolto ai pastori – si accendono in accompagnati/ariosi sempre più febbrili, all’apparizione dell’angelo, Andante: gli arpeggi dei violini simboleggiano appunto l’essere soprannaturale) e della schiera dei suoi compagni, Allegro: qui i violini si prodigano in animate quartine), per sfociare nel grande coro che chiude la scena, dando voce alla moltitudine celeste. Per questa occasione festiva Händel aveva tenuto finora in serbo le trombe, prescrivendo che suonino «in disparte», indicazione mutata in un secondo tempo in «da lontano e un poco piano»: un’attenzione alla valenza spaziale del suono che si riscontra anche nel finale del coro, quando gli archi «senza ripieno» (ovvero uno per parte), rimasti soli «in scena», suoneranno prima piano e poi pianissimo, fino a spegnersi in un trillo, a imitazione dell’allontanamento progressivo degli angeli in cielo.
La nascita del Messia è accolta dalla prima grande aria col da capo (la forma principe del melodramma, ormai da un ventennio nel 1741), riservata al soprano, che si prodiga in impegnativi melismi e colorature nella sezione A, cullando la promessa di pace della sezione B in un clima espressivo non lontano da pagine come la Pastorale (piano, grado congiunto della melodia, ecc.). Il contralto propone l’annuncio messianico con un breve recitativo che prepara il celebre duetto «He shall feed His Flock like a Shcpherd», in cui il solista verrà affiancato dal soprano per una celebrazione affatto memorabile dell’icona del Buon Pastore, secondo quei canoni di «pastoralità» tardobarocca cui si accennava in occasione della Pifa. L’incanto melodico che promana dal duetto

si giova anche del carattere ipnotico della melodia, che muta timbro vocale ma permane identica, ricorrendo di continuo. La Parte Prima del Messiah, terminata venerdì 28 agosto 1741, si chiude con le note del già menzionato duetto Quel fior che all’alba ride, di cui il coro «His Yoke is easy» imita il primo movimento, arricchendo la scrittura per due voci soliste con ritornelli corali che amplificano il tono festoso del modello profano.
Simmetricamente alla Parte Prima, anche la Seconda si apre con un grande pannello solenne in tonalità minore e, come accadeva lì nella Sinfony, anche qui il riferimento stilistico è l’Ouverture alla francese, ai cui stilemi si rifa il coro «Behold the Lamb of God», aperto dalla gestualità, dal sapore tragico, di un’ottava ascendente e incessantemente pervaso dal ritmo puntato: una teatralità che ben si accorda al dramma della Passione di Cristo che sta per «andare in scena». Una monumentale aria col da capo, «He was despised», propone ancora una volta il timbro del contralto a esprimere un lamento sublime, che al modello melodrammatico attinge il lirismo diretto e toccante. Gli archi la introducono con un delicato cesello, a preparare un dialogo per cellule minime con la voce, che a sua volta procederà soltanto per lacerti tematici, per frammenti di una sola battuta. La sezione centrale si accenderà invece convulsa alla memoria della flagellazione di Cristo, evocata dalla profezia isaiana. Ma il IV Carme del Servo sofferente, che Händel sta sviluppando in questa aria e nei tre pezzi successivi, raggiunge nel coro la lettura più drammatica, fondata su una molteplicità di elementi musicali: l’accompagnamento feroce degli archi (ritmo puntato, note ribattute, in staccato), l’icastico «Surely» declamato in omofonia dal coro (con piccola deroga rispetto alla prosodia inglese: il compositore la intende infatti come parola trisillabica), le note tenute che rappresentano i verbi «borne» e «carried», i grumi dissonanti al pensiero della punizione cruenta e infine l’arioso gioco contrappuntistico con cui il coro si chiude. Terza declinazione di questo testo venerando è l’unico coro in stylus antiquus dell’intera partitura, che accompagna un severo soggetto (patrimonio comune nella scrittura contrappuntista del Settecento: si pensi al Kyrie del Requiem di Mozart) con un controsoggetto più mosso, mentre gli archi raddoppiano disciplinatamente le voci. Con ennesima svolta espressiva, Händel si lascia sedurre dall’immagine naturalistica delle pecore disperse (il tema, pur tratto dal citato Duetto HWV 189, si adatta bene all’immagine delle pecore: se ne ricorderà Mendclssohn per il Coro dei Profeti di Baal, n. 14 dell’oratorio Elias) in un coro che combina, con straordinaria solare naturalezza, omofonia e gioco dialogico delle voci, finché il tono del testo biblico non richiama il compositore alla severità dell’Adagio conclusivo. Un drammatico accompagnato, caratterizzato dal tragico ritmo puntato del coro, conduce al magnifico coro contrappuntistico «He trusted in God, that he would deliver him», il cui tema memorabile, se si mette tra parentesi la prima nota, coincide nel modello ritmico col coro introduttivo della Cantata BWV 171, composta da Bach per il Capodanno 1729, a testimonianza di una diffusa koinè del Musizieren tardo barocco. Alla desolazione degli accordi tenuti degli archi si affida invece l’accompagnato del tenore, a commento dell’immagine proposta dal Salmo, che prepara una breve pagina dal lirismo contenuto, elegiaco. La contemplazione della Passione prosegue nell’analoga coppia recitativo/aria affidata al soprano: ed è proprio con quest’ultima, un’arietta leggera, in la maggiore, agli antipodi dell’angoscia, che la Parte Seconda cambia di segno, avviandosi alla celebrazione del Cristo trionfatore della morte.
Un coro memorabile, che si diparte da un tema impiegato nella poco nota Sonata a tre in do maggiore HWV 403 (poi confluita nell’Allegro d’apertura della Sinfonia del Saul), traduce in un’articolata struttura musicale dialogica la liturgia antifonale dell’antichissimo inno al Signore del cosmo (gli eserciti erano in origine le stelle del cielo). Introdotto da un brevissimo recitativo, il tributo della corte angelica al Messia si esprime attraverso il ricorso al magistero contrappuntistico del compositore tedesco, con un coro talvolta omesso, a torto, nelle esecuzioni dell’oratorio. Riscritta per la voce di contralto del castrato Guadagni, l’aria bipartita «Thou art gone up on High» organizza l’oscuro passo salmodico (il testo risulta corrotto alla fonte) in segmenti giustapposti, ripetendone integralmente l’esposizione, adeguatamente variata. In puro stile da anthem cerimoniale, il coro successivo drammatizza un altro versetto del medesimo salmo, sfruttando per due volte il contrasto tra la singola parola divina e la moltitudine dei suoi predicatori (in realtà l’esercito divino, nell’originale antico). Il complesso seguente nacque nel 1745, probabilmente su insistenza del librettista. Si tratta della zona testuale più problematica dell’intero oratorio, intonata da Händel nelle forme del duetto con coro e dell’arioso che prevede l’accostamento complementare di aria e coro, analogamente a quanto avverrà nella coppia successiva, in cui il coro sostituisce il da capo dell’operistica aria «di furore» che lo precede. Un semplice raccordo in recitativo semplice conduce a un pezzo drammatico per il tenore, in cui l’azione del Dio – sovrano contro i suoi nemici, micidiale e facile al tempo stesso, viene rappresentata dal gesto dei violini all’unisono (il sinistro carillon nell’acuto e l’inabissarsi nel registro grave) congiuntamente alla condotta contenuta della voce. A chiusura della Parte Seconda – dunque come culmine della vicenda di Passione, Morte e Resurrezione del Messia – Händel ideò, domenica 6 settembre 1741, il morceau che ha conosciuto la popolarità più vasta e universale: l’Halleluja! corale.

Sir Colin Davis

La tradizione dell’anthem, e del celebrativo coronation anthem in particolare, detta al compositore una pagina articolata, costruita come giustapposizione e combinazione di temi diversi, nella consueta, limpida dialettica tra l’interesse suscitato dal contrappunto e l’efficacia dell’omofonia; pagina sapientemente congegnata, fin nel dettaglio, nel dosaggio degli effetti e nel climax infallibile
della tensione; pagina, infine, spesso consegnata a risorse canore da kolossal hollywoodiano, ma concepita in realtà per la freschezza di un’esecuzione in cui la finezza dei contrasti di dinamica rimanga ben udibile (vengono sì impiegati trombe e timpani, ma gli archi suonano talvolta anche «senza ripieno»), a testimoniare l’esito implacabile di un meccanismo sonoro che non necessita di un eccezionale impatto fonico per produrre il proprio miracolo.
Come la Prima, anche la breve Parte Terza del Messiah si apre con l’incanto di un Larghetto in mi maggiore, la distesa aria del soprano che irretisce l’ascoltatore in un gioco di continue riprese del medesimo, evocativo testo dal Libro di Giobbe, calato in una melodia dal sottile equilibrio e dall’espressione quasi pudica. Musicalmente la ripresa circolare della prima sezione e la permanenza di un’unica formula di accompagnamento garantiscono una profonda unità all’aria. Di grande efficacia, nella sua estrema semplicità, è il coro seguente, in cui il contrasto vita/morte è rappresentato plasticamente dal capovolgimento dei parametri musicali. L’ultimo dittico recitativo/aria spetta al basso, il cui morceau de résistance, un’aria grande dal segno (cioè da capo, con l’elisione del solo ritornello strumentale introduttivo), è stato tenuto in serbo per l’evocazione apocalittica del giorno del giudizio, coadiuvata dalla tromba concertante, sul celebre passo paolino di Corinzi 15 (anche Bach, seguendo il medesimo suggerimento testuale, aveva impiegato la tromba nella Cantata BWV 127, un capolavoro del 1725). L’estrema coppia di numeri solistici tocca in realtà al contralto, grande protagonista dell’oratorio. Da una pagina profana (l’apertura di Se tu non lasci amore, HWV 193, scritta attorno al 1722) Händel ha tratto il duetto per contralto e tenore, l’unico duetto vero e proprio della partitura, collocato nella medesima posizione che ospitava il confronto tra due voci nei melodrammi del compositore. La pagina sfocia senza soluzione di continuità in un coro che la completa. La segmentazione del testo in pannelli giustapposti porta all’ennesima distesa lirica per l’ultima aria dell’oratorio, incastonata tra l’articolata struttura che l’ha preceduta e il grandioso pannello conclusivo.
Quest’ultimo consiste in un solenne complesso corale, in cui i fasti dell’anthem cerimoniale e le costruzioni astratte del contrappunto stringono l’estrema alleanza, in una successione di momenti contrastanti, corrispondenti ad altrettanti strumenti espressivi messi al servizio di una grandiosità che brucia ogni residuo di retorica per evocare l’icona magnetica dell’Agnello dell’Apocalisse su cui si era aperta la Parte Seconda dell’oratorio. Equivalente sonoro di quel Polittico dell’Agnello mistico, capolavoro del rinascimento fiammingo dipinto sotto altri cieli, al di qua della Manica, da Jan van Eyck per la Chiesa di San Bavone a Gand nel 1432.

Il coro John Alldis, importantissimo in questa composizione, è semplicemente straordinario, pieno di colore e vita. É un piacere sentire un coro che canti con espressione e tono chiari (per esempio: con un vibrato che sia degno di essere chiamato tale) e di ascoltare la sezione dei tenori che non diventi un falsetto cantato sopra il rigo. I quattro solisti, la soprano Helen Donath, il contralto Anna Reynolds, il tenore Stuart Burrows e il basso Donald McIntyre sono buoni, quasi operistici nella loro esibizione. La London Philharmonic Orchestra oltre a suonare molto bene ha un’eccellente gamma di colori a disposizione ed infine la stupenda interpretazione non filologica di Karl Richter, donano a questo splendido spartito un fascino particolare. Come nella versione precedente l’“Alleluja” è brillante e maestoso. Registrazione effettuata nel 1973. Altamente raccomandato.

Messia – di Basil Lam

Una possibile fonte del testo del Messia può ricercarsi in un componimento poetico scritto da Alexander Pope agli inizi della sua carriera e pubblicato nello Spectator. Si tratta del “Messiah, a scred eclogue in imitation of Virgil’s Pollio” (Messia, Egloga sacra ad imitazione del Pollione di Virgilio) – “Pollione” è il titolo della quarta Egloga virginiana.
Negli anni 1715-18 Pope e Handel devono essersi incontrati spesso in casa di Lord Burlington, sebbene il poeta fosse notoriamente insensibile alla musica. Come riferisce Warton, il poeta non riusciva a considerare con serietà “l’entusiasmo con il quale gli ospiti di casa Burlington accoglievano le composizione e le esecuzioni di Handel”.
Quando, dopo più di vent’anni, Charles Jennens mise insieme la serie di testi che poi mandò a Handel e che divenne il soggetto del “sacred oratorio”, egli stesso fornì un indizio – in verità non preso in considerazione – per la sua fonte: appose infatti sul frontespizio del testo una citazione di Virgilio – Maiora canamus (Cantiamo cose più grandi).
Si tratta di una citazione dalla Quarta Egloga, la cosiddetta “Egloga messianica” presa a modello da Pope. Questo componimento virgiliano fu considerato dalla Chiesa fin dai suoi primordi come una profezia della nascita di Cristo, a causa della somiglianza fra alcuni suoi passi e certe profezie del Libro di Isaia.
Pope cita nelle note alla sua lirica i seguenti, ben noti paralleli:
Iam redit et virgo, redeunt Saturnia regna, Iam nova progenies caelo demittitur alto. (Virgilio: Egloga 4a, 6)
(Già ritorna anche la Vergine, ritorna il regno di Saturno, già la nuova progenie discende dall’alto del cielo). Ecco, la Vergine concepirà, e partorirà un figlio…… (Isaia, 7,14).
Egli cita inoltre da Isaia: “un Bambino è nato per noi, ci è stato dato un Figlio”, “la voce di colui che grida nel deserto”, “ogni valle sia colmata”. Nello stesso componimento Pope parafrasa ulteriori passi di Isaia, che si ritroveranno anche nel Messia di Handel:
The dumb shall sing, the his lame crutch forego…… As the good shepherd tends his fleecy care…… Exalt thy tow’ry head and lift thine eyes…… (Il muto canterà, lo zoppo farà a meno della sua stampella…… Qual buon pastore che bada con cura al suo gregge…… Alza il tuo capo torreggiante e leva in alto i tuoi occhi……).
Ed infine:
Thy realm for ever lasts, thy own Messiah reigns! (Il tuo regno dura in eterno, regna il tuo Messia!).
Inoltre, fu proprio nell’anno del Messia di Handel che Pope aggiunse al suo poema eroicomico The Dunciad, del 1728, il grande Quarto Libro con i suoi riferimenti a Handel e, implicitamente, al “sacred oratorio” come veniva chiamato.
I ben noti versi sono:
Strong in new arms, Io! Giant Handel, stands, like bold Briareus with hundred hands; to stir, to rouse, to shake the soul he comes and Jove’s own thunders follow Mars’s Drums. Arrest him, Empress, or jou sleep no more – she heard, and him to th’ Hibernian shore (Forte delle nuove braccia, ecco si erge il gigante Handel, come l’audace Briareo dalle cento mani; per smuovere, risvegliare, far vibrare l’animo egli s’avanza e i tuoni di Giove succedono ai tamburi di Marte, fermalo, Imperatrice, o non dormirai più – Ella ascoltò, e lo spinse verso le spiagge d’Irlanda).
Le note di Pope e di Warburton a questi versi indicano che la musica di Handel “si mostrò eccessivamente virile per i raffinati gentiluomini della sua epoca sì che egli fu costretto a esportare la sua musica in Irlanda”, un chiaro riferimento alla prima esecuzione del Messia a Dublino nell’aprile 1742.
Jennens, che fin dal 1725 aveva aderito alla sottoscrizione delle edizioni di partiture handeliane, mandò al musicista nel 1735 il testo di un Oratorio (presumibilmente il Saul) che fu messo in musica non prima che passassero tre anni.
Saul fu eseguito nel gennaio 1739 senza successo, destino condiviso da Israele in Egitto tre mesi dopo. Durante il rigido inverno 1739-40 Handel mise in musica i testi che Jennens aveva adattato da L’Allegro e Il pensieroso di Milton, ai quali il poeta dilettante aggiunse audacemente il proprio Moderato.
Israele in Egitto consisteva interamente di testi biblici, forse scelti da Handel e Jennens insieme.
Messia seguì un anno più tardi, dopo il fallimento delle ultime “avventure” di Handel nell’opera italiana, Imeneo e Deidamia (rispettivamente novembre 1740 e gennaio 1741).
La partitura autografa di Handel (e cioè non la bella copia) porta le date del 22 agosto e 14 settembre 1741; sebbene la notizia non sia confermata da alcun documento, non vi è nulla che possa contraddire l’affermazione fatta dal Dublin Journal nell’aprile 1742 che il lavoro fosse stato composto specificatamente per la Charitable Musical Society della città.
Lo stesso giornale affermava: “It was allowet by the greatest Judges to be the finest composition that was ever heard” (“Fu riconosciuta dai più grandi intenditori come la più bella composizione mai ascoltata”).
Questo giudizio, che faceva del Messia il capolavoro di Handel, fu generalmente accettato e fu messo in dubbio solo in tempi moderni come naturale reazione alla acritica devozione dell’Ottocento.
Inoltre, la falsa tradizione esecutiva, che risale alle commemorazioni handeliane

della Westminster Abbey iniziate nel 1784, oscurò la vera qualità dell’opera, poiché veniva eseguita da cori immensi accompagnati da orchestre di grandi dimensioni. E questa prassi si è mantenuta fin verso la metà del Novecento. Nella nostra società scolarizzata sono stati fatti dei tentativi di presentare il Messia come un’opera anticipatrice dell’Umanesimo del Novecento; ma anche un rapido esame dei testi è sufficiente per accantonare tale ipotesi.
La religione inglese non dava nessuna opportunità di presentare drammi musicali basati sulla vita di Cristo, ed esisteva in Inghilterra uno strano tipo di puritanesimo, con scarsi paralleli nel resto dell’Europa, che escludeva il dramma dalle chiese e la religione dal teatro o dalle sale da concerto.
Israele in Egitto fu criticato perché introduceva parole sacre (cioè bibliche) nel teatro (sebbene ovviamente, non fosse messo in scena). Nel 1732 il Vescovo di Londra aveva fatto obiezioni ad una proposta di eseguire Ester allo Haymarket Theatre, benché questo lavoro non contenga nessun elemento religioso; l’obiezione del Vescovo era diretta contro ogni legame, anche il più vago, tra teatro e Sacra Scrittura.
Il Messia appartiene, piuttosto, alla tradizione anglicana dell’anthem, esattamente come le Passioni di Bach hanno la loro fonte nella tradizione tedesca, completamente differente, delle musiche drammatiche sulla vicenda della Passione.
Quando Jennens approntò la sua magistrale sequenza di testi affinché Handel la mettesse in musica, egli attinse ad un’ampia gamma di fonti, in particolare tratte dalla liturgia della Chiesa d’Inghilterra per il Natale, la Settimana Santa, la Pasqua, l’Ascensione e la Pentecoste. Attinse invece dall’Ufficio funebre inglese per la parte terza, ove, si noti, viene fatta un’associazione assai ingegnosa fra le parole tratte da Giobbe “Io so che il mio Redentore è vivo” e la famosa frase di San Paolo “Ora Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1a Lettera ai Corinzi 15,20).
Il testo, oltre a possedere superbe qualità letterarie, rivela un’assoluta originalità nel suo contenuto filosofico o dottrinale, privo com’è di ogni riferimento a persone.
Il nome di Gesù si incontra una sola volta, verso la fine dell’intera opera: “But thanks be to God, who giveth us the victory through our Lord Jesus Christ” (“Ma siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”).

La crocifissione

Ciò che eleva il Messia, nel suo insieme, al di sopra di tutti gli altri lavori di Handel, è il suo splendido disegno architettonico. Presi separatamente, quasi ogni aria, o coro possono essere eguagliati o persino superati dalle arie o cori dei suoi Oratori drammatici ed opere, ma in tutta l’età barocca solo la Passione secondo San Matteo di Bach eguaglia quell’interrotta ispirazione che porta
l’ascoltatore dal malinconico mi minore dell’Overture al trionfante re maggiore del coro finale; ma Bach, a differenza di Handel, era avvantaggiato da una lunga tradizione liturgica che prevedeva già una determinata successione di testi. L’unicità del Messia rispetto ad altri lavori di Handel, si rivela in numerosi modi. L’orchestrazione, per esempio, è di una straordinaria semplicità: l’autografo non indica nessun strumento a fiato del gruppo dei legni; e con l’eccezione dei pezzi in re maggiore che introducono le trombe e i timpani – questi ultimi tuttavia non sono presenti in “Glory to God” (Gloria a Dio – n. 15) – , l’intero Oratorio è scritto per archi e continuo.
Il parallelo più vicino è Belshazzar (1745), ma qui gli oboi sono di gran lunga più indipendenti che nel Messia, dove sono usati solo per raddoppiare altre parti.
È stato spesso sottolineato che Handel ha utilizzato nel Messia del materiale compositivo nuovo e originale, e che solo una parte veramente piccola è adattata da precedenti composizioni. La rielaborazione di alcuni duetti italiani, che si può rilevare nell’Oratorio rimane un enigma difficilmente risolvibile; quanto al resto, era tutto nuovo.
Jens Peter Larsen ha sostenuto che, dato che i duetti in questione furono scritti solo poco prima che Handel iniziasse a comporre il Messia, essi potrebbero essere intesi come una sorta di abbozzi, ma un procedimento compositivo così eccentrico non è molto credibile. I critici che lamentano la presenza nel Messia di questi elementi italiani sembrano ignari della natura italiana di tanti elementi dell’Oratorio. “Ev’ry valley “(Ogni valle – n. 2) è un superbo esempio dello stile del concerto grosso adattato per un uso vocale; “He shall feed his flock” (Egli fa pascolare il suo gregge – n. 18) è forse la più bella di tutte le arie basate sul ritmo di Siciliana; “Why do the nations” (Perché le genti – n. 38) ha un’ascendenza operistica.
Qualunque sia l’opinione che possiamo avere dell’assunto etico del Messia quest’Oratorio rimane unico nel più profondo dei sensi, è il capolavoro musicale che affascina “uomini di ogni età e condizione”, dal più umile cantore dilettante ai grandi compositori che vennero dopo Handel. Il tributo di Mozart può sembrare ambivalente; ma quanto a Beethoven, non fu lui che affermò, indicando i volumi dell’edizione handeliana di Arnold che lo confortavano nella sua ultima malattia, “Lì vi è la verità”?

(Traduzione: Mauro Calcagno)

L’Oratorio di Handel sulla vita di Gesù di Karl Schumann

I tre monumenti musicali più importanti che siano stati mai intonati sul miracolo della redenzione dell’umanità sono la Passione secondo Giovanni (1723) e la Passione secondo Matteo (1729) di Bach ed il Messia di Handel (1741).
Risalgono tutti ad un medesimo periodo della storia della musica, il tardo Barocco, e sono opera di due compositori coetanei ed entrambi originari di quell’area geografico-culturale che comprendeva Turingia e Sassonia.
Pur tuttavia le loro premesse sono affatto differenti. Per Bach, il Kantor dalla fede incrollabile, la teologia luterana, la contemplazione di stampo pietistico ed il servizio liturgico erano dei punti fissi e vincolanti; così le sue Passioni, nonostante la loro intima drammaticità, in ultima analisi non sono altro che delle cantate ampliate ed intensificate, una sorta di interpretazione musicale della Sacra Scrittura o, ancora, delle pure meditazioni sulla parola evangelica. Handel, al contrario, si rivolse alle Sacre Scritture con l’obiettività del drammaturgo e con la religiosità del cristiano spiritualmente autonomo e consapevole.
Nel Messia, che si riallaccia peraltro alla tradizione italiana dell’oratorio, Handel effettua una sorta di attualizzazione della vita di Gesù in cui sembrano convergere istanze di obiettività, una chiara consapevolezza ed anche un certo atteggiamento distaccato.
Handel, da uomo di teatro quale in fondo era, colloca tutta la narrazione evangelica su di un palcoscenico immaginario, la tende verso i punti di culminazione drammatica e finisce così per contemplare la vita e la passione di Gesù senza alcuna contrizione, bensì con quella gioia mista ad orgoglio che gli deriva dalla certezza della salvazione.
Rispetto alla pietas religiosamente devota di Bach, Handel ci appare per così dire più “moderno”, come l’uomo ben cosciente di sé. L’obiettività handeliana non si limita esclusivamente alla rappresentazione della vita di Gesù così come essa viene tramandata nei quattro Vangeli: la stessa persona di Cristo viene collocata in un continuum temporale in cui si riversano passato, presente e futuro. Il passato, l’Antico Testamento, è la base che sottende tutta l’opera: pensiamo qui alla citazione di passi e profezie dell’Antico Testamento, alla ricorrente identificazione del coro col “popolo eletto” e, finalmente, alla allusione al messianesimo tardogiudaico, quale si evince già dal titolo dell’Oratorio.
Il termine “messia” è mutuato infatti dalla lingua ebraica dove significa appunto “l’unto”, cioè colui che è stato unto re dal Signore e che prepara il regno di Dio. I forti legami della Chiesa anglicana con l’Antico Testamento devono aver motivato assai probabilmente questo aspetto della figura di Cristo, quello cioè della prospettiva messianica. Il regno di Cristo si delinea quindi come una visione del futuro e ad essa è reso omaggio sia nel coro dell’Alleluja (n. 42) che nell’altro coro “Lift up your heads, O ye gates” (“Sollevate, porte, i vostri frontali”, n. 31) o, ancora, nel grandioso coro di chiusura.
Il promesso avvento del Messia si sta finalmente avvicinando: egli porta a

compimento con la sua passione e con la sua morte la missione di salvezza a cui è stato chiamato, e regnerà in eterno sul suo popolo di fedeli.
Handel sortisce un effetto di “distacco” grazie alla sua prassi di rappresentare non direttamente la figura di Gesù. Diversamente da quanto avviene in Bach, nell’opera handeliana il Redentore non si rivolge mai ai fedeli in locuzione diretta.
Assai probabilmente quì si è fatta sentire la concezione vetero-testamentaria secondo cui è inammissibile farsi un’immagine, e nemmeno sonora, della figura divina.
Le poche parole tratte dai testi evangelici vengono solamente citate nei recitativi, e le quattro voci soliste servono piuttosto all’annunciazione delle profezie ed eventi che alla meditazione, come invece succede per Bach. In tal modo, in Handel è come se si esprimessero degli scribi angelici. Se poi Bach predomina il modo minore, in Handel persino un lamento così accorato quale l’aria per contralto “He was despised” (“È stato disprezzato”, n. 21) si svolge tutto in una tonalità maggiore.
La fiduciosa consapevolezza della salvazione che Handel sa esprimere, si pone in netto contrasto con la bachiana contrizione della creatura peccatrice. Le Passioni di Bach – che Handel peraltro non conosceva – furono un mero evento di cronaca locale, circoscritto alla sola Lipsia, e oltretutto non degnate di grande attenzione nemmeno lì; e solamente cento anni più tardi acquistarono una fama mondiale.
Al contrario il Messia di Handel fu subito accolto con grande entusiasmo; quando Handel, appena una settimana prima di morire, diresse a Londra il suo sacred oratorio, il Messia era divenuto ormai un’opera di repertorio, anzi in Inghilterra si era addirittura diffusa l’usanza di alzarsi in piedi durante l’esecuzione dell’Alleluja.
Nel 1772 l’opera giunse ad Amburgo; a Vienna fu introdotta nientemeno che da Mozart, il quale ne dette una propria versione orchestrale più “moderna”; Beethoven infine avvertì nei cori handeliani l’afflato di uno spirito assai affine al suo.
Quando nel 1741 Handel stese in soli 22 giorni l’intera partitura aveva 56 anni, ed era ormai un uomo segnato dall’eccessivo lavoro, da crolli fisici e dagli altri e bassi della vita. Egli diresse di persona la prima esecuzione del Messia, tenutasi a Dublino il 13 aprile 1742, nel corso di una serie di concerti a cui era stato invitato dal governatore d’Irlanda.

La resurrezione

Il ricavato delle esecuzioni del Messia fu devoluto da Handel stesso in beneficenza, per migliorare le condizioni dei debitori morosi incarcerati.
Il Messia è suddiviso in tre Parti, coerentemente alla tradizione; la Parte Prima è incentrata sull’Avvento e sul mistero del Natale, la Parte Seconda svolge il tema della passione di Cristo e la Terza Parte tratta infine del futuro della Cristianità. Conformemente alla ripresa di profezie dell’Antico Testamento, l’annunciazione e l’avvento del Signore occupano uno spazio considerevole. La tensione fra mi
minore e mi maggiore serve ad illustrare il momento dell’attesa e dell’annunciazione, la tematica cioè propria dell’Avvento, il periodo con cui si apre l’anno ecclesiastico.
È significativo il fatto che la nascita di Gesù venga celebrata dapprima con un coro in sol maggiore, in cui si annuncia che questi sarà il futuro Signore del mondo (n. 12), e che solo in seguito prenda l’avvio l’idillio della mangiatoia, con la sua musica pastorale di chiara ascendenza italiana (n. 13).
L’aria per soprano in si bemolle maggiore “rejoice greatly” (“Esulta grandemente”, n. 16) dà un esempio dell’uso lapidario che Handel fa della barocca teoria degli affetti; salti intervallari sempre più ampi stanno a simboleggiare l’affetto “positivo” del risveglio e del giubilo.
Un coro canta in seguito il “dolce giogo” che il buon pastore carica sui suoi fedeli (n. 19). L’idillio natalizio dei pastori trapassa infine nell’immagine del pastore d’anime che sacrifica la propria vita per il suo gregge.
La Parte Seconda si concentra sulla vicenda della passione. I sedicesimi puntati nella sezione centrale della grande aria per contralto “He was despised” (“È stato disprezzato”, n. 21), immagine sonora della flagellazione, sembrano quasi concordare con gli analoghi gesti espressivi di Bach; nell’affrontare un soggetto così sublime i due musicisti coetanei partivano evidentemente dalle medesime premesse estetico – musicali.
La Resurrezione del Signore si colora invece di una luce di gloriosa regalità: il coro festeggia l’entrata solenne del “Signore degli eserciti” (n. 31) e la vittoria sulla morte diviene tutt’uno con il trionfo del Signore dell’universo.
La Parte Terza dell’Oratorio inizia subito dopo il grandioso Alleluja e si rifà direttamente al pensiero paolino circa la diffusione e il consolidamento della Buona Novella.
La linea drammatica, che aveva preso avvio dall’annunciazione del Messia e che era poi culminata con la sua incarnazione, si proietta ora nel futuro, fino al giorno in cui si realizzerà definitivamente il regno di Cristo.
La tonalità dell’aria per soprano che fa da introduzione, il mi maggiore (n. 43), è la medesima della prima aria del tenore “Comfort ye, comfort ye my people” (“Consolate, consolate il mio popolo”, n. 1), in cui trova espressione tutta la trepida attesa dell’Avvento. In questa aria del soprano l’idea germinale del testo, “I know that my Redeemer liveth” (“Io so che il mio Redentore è vivo”), viene evidenziata da un sottile gioco di altezze sonore e di valori di durata musicale. Tutta la parte conclusiva dell’Oratorio è infine segnata dagli accenti patetici in cui si esprime la certezza della salvazione.

(Traduzione: Marco Marica)

Messiah, HWV 56

Haendel attese alla composizione del Messiah nel 1741, all’età di cinquantasei anni. Durante il suo soggiorno più che trentennale in Inghilterra si era dedicato, fino a quel momento, principalmente all’allestimento di opere italiane, nella doppia veste di compositore ed impresario. Furono gli ultimi disastrosi rovesci economici di questa attività che convinsero il compositore dell’opportunità di abbandonare l’opera e di ricercare il successo del pubblico per altre strade. Assai più che da un’intima esigenza religiosa – come pure talvolta si è sostenuto – l’approccio al genere oratoriale ebbe origine dunque da esigenze di puro mercato, da quell’ottica di consumo immediato che sovrintende a tutta (o quasi) la produzione barocca. I primi oratori inglesi di Haendel (primi dopo le sporadiche esperienze giovanili italiane), Esther, Deborah, Athalia, degli anni iniziali del 1730, Saul e Israel in Egypt, della fine dello stesso decennio, furono eseguiti nelle medesime sale che accoglievano le ultime opere italiane del compositore.
L’accoglienza dei primi oratori non fu, tuttavia, quella che Haendel avrebbe sperato; tanto che, nel 1741, dopo l’insuccesso delle opere Deidamia e Imeneo, il compositore si limitò a replicare il Saul, senza applicarsi a nuovi oratori; la sfiducia nel nuovo genere era pari a quella verso il vecchio, e più d’una testimonianza afferma l’intenzione di Haendel di abbandonare l’Inghiterra per tentare la sua fortuna nel continente. A modificare questo stato di cose dovevano giungere, nel luglio-agosto 1741, due eventi quasi contemporanei.
Il 10 luglio, infatti, il letterato Charles Jennens, che già aveva fornito a Haendel i libretti per il Saul e L’Allegro, il Pensieroso ed il Moderato, scriveva all’amico Edward Holdsworth: «spero di persuaderlo [Haendel] a musicare un’altra raccolta di passi biblici che gli ho preparato ed a farla eseguire a suo beneficio nella Settimana Santa. Spero che vi impieghi tutto il suo genio e la sua dottrina e che questa composizione possa sorpassare tutte quelle che finora ha scritto, giacché il soggetto supera tutti gli altri. Il soggetto in questione è il Messia […]». Parole profetiche, che sarebbero però cadute nel nulla – difficilmente il compositore si metteva al lavoro senza una prospettiva di esecuzione – se nel volgere di breve tempo Haendel non avesse ricevuto l’invito a recarsi a Dublino per partecipare a una stagione di oratori, alcuni dei quali a fini benefici.
L’occasione era propizia per cambiare aria per qualche tempo e sfruttare un vasto ciclo di esecuzioni; il compositore si applicò così alacremente al lavoro, sul libretto che Jennens gli aveva appena fornito; il 22 agosto comincia la stesura, che il 12 settembre è completata: appena ventiquattro giorni per portare a termine la mirabile partitura, che, oltretutto, recava un numero piuttosto limitato di prestiti e autoimprestiti. Non meno alacre fu il lavoro all’altro oratorio che Haendel portò con sé a Dublino, il Samson. Il 18 novembre il compositore sbarcava a Dublino, e nei giorni seguenti organizzò le sue serate concertistiche.
Per la prima esecuzione il Messiah dovette aspettare il 13 aprile 1742, quando l’oratorio venne eseguito alla Music Hall in Fishamble Street, con finalità benefiche (gli incassi vennero devoluti ai detenuti e a due ospedali); parteciparono le forze locali, con i cori delle due cattedrali e alcuni cantanti attivi a Londra che avevano cortesemente seguito Haendel nella trasferta dublinese (Dubourg, Avoglio e Mrs. Cibbers). L’esito fu entusiastico, così come trionfale fu l’accoglienza complessivamente riservata al compositore a Dublino.
Haendel fece ritorno a Londra con una maggiore fiducia nel nuovo genere oratoriale, e tuttavia fu solamente con grande cautela – addirittura senza menzionarne il titolo, ma annunciando solo «un nuovo oratorio sacro» -che mise in programmazione il Messiah nella sua patria adottiva, il 23 marzo 1743; come già era avvenuto per Israel in Egypt, infatti, la circostanza che il testo dell’oratorio fosse tratto interamente dalle sacre scritture era destinata a sollevare l’indignazione di coloro che ritenevano scandalosa e blasfema l’esecuzione di un testo sacro in un ambiente teatrale. Di fatto il Messiah non conquistò affatto il cuore dei londinesi, e venne considerato un lavoro minore di Haendel; lo stesso Jennens, letterato presuntuoso e borioso, accusò il compositore di non essersi impegnato a fondo nella partitura, e gli suggerì alcuni ripensamenti che il compositore compiacentemente accettò.
Né si trattò dell’unica modifica che la partitura subì ad opera dello stesso autore; anzi, ad ogni esecuzione Haendel, seguendo un impulso del tutto pragmatico ed artigianale, compì qualche aggiustamento in funzione degli interpreti disponibili; stupirà, ad esempio il fatto che la versione originaria della partitura venisse concepita esclusivamente con l’accompagnamento degli archi e di una tromba solista, senza altri fiati (evidentemente l’autore non confidava troppo nelle forze dublinesi); e che solamente a Dublino Haendel inserisse gli altri strumenti. Ma la versione delle prove differisce in più dettagli da quella della prima esecuzione assoluta; e in seguito furono numerose le arie che vennero affidate ora a questo ora a quel registro vocale, o anche il cui testo venne riassunto per brevità in un recitativo. In sostanza, non si può parlare di una versione unica e autorizzata della partitura, ma piuttosto di molte versioni tutte ugualmente legittime e lecite.
Di fatto, il Messiah iniziò ad essere veramente apprezzato solo a partire dal 1750, quando venne eseguito annualmente con fini filantropici, che legarono così la partitura a un significato particolare; come del resto particolare era lo stesso assunto poetico, ispirato non a un qualsiasi argomento religioso, ma all’evento centrale della cristianità. La vera fortuna doveva arrivare postuma; proprio il soggetto sacro, e la particolare trattazione di cui si dirà, dovevano ribaltare l’accusa di contenuto blasfemo, e guadagnare alla partitura un’aura religiosa che creava un equivoco sul suo contenuto: non più un intrattenimento profano per quanto edificante, come gli autori avevano immaginato, bensì un’opera quasi chiesastica, spirituale, espressione di una religiosità romantica. Già nella seconda metà del secolo si moltiplicarono le esecuzioni con organici di smisurate dimensioni; lo stesso Mozart, a Vienna, venne richiesto di curare una nuova strumentazione della partitura, che ne aggiornasse quei tratti troppo legati a una prassi strumentale ormai desueta.
In sostanza il Messiah rimase una delle pochissime composizioni che tennero vivo ed alto il nome di Haendel fra i posteri; non è esagerato affermare che nel lungo periodo intercorso fra la seconda metà del XVIII secolo e il secondo dopoguerra Haendel fu considerato quasi esclusivamente l’autore del Messiah. Non a caso le vicende oggettive della nascita dell’oratorio, che qui abbiamo riassunto, furono colorite di risvolti mistici, con la creazione di aneddoti sulla commozione dell’autore nel porre in musica il soggetto, senza altro stimolo della propria fede.
Oggi che il movimento della Aufführungpraxis ha riportato alla luce tutta la produzione operistica, anglicana e strumentale del compositore, e che lo stesso Messiah è stato sottratto alle esecuzioni elefantiache per essere ricondotto alla sobrietà degli organici originali; oggi, insomma, che sembra definitivamente tramontato il pregiudizio romantico secondo il quale Haendel era grande solo per i suoi oratori, è certo più agevole valutare perché questa partitura rappresenti davvero uno degli esiti più alti del compositore di Halle.
Innanzitutto, nella ricerca di nuove strade, di modelli oratoriali che risultassero accattivanti per un pubblico stanco dell’opera italiana, Haendel rese il Messiah un oratorio unico e atipico. Si è osservato come l’oratorio haendeliano sia diretta filiazione della produzione operistica, ma da questa si differenzi – oltre che nell’argomento prevalentemente tratto dalle scritture e nella forma concertistica – per un diverso uso degli ingredienti musicali, assai più vicini alla cultura inglese autoctona; innanzitutto una vocalità più sobria, aliena da quella scrittura acrobatica che contraddistingueva il canto dei virtuosi italiani; poi il peso dell’elemento corale che, pressoché assente nell’opera, si riallacciava compiutamente alla grandiosa tradizione purcelliana degli anthems, gli inni anglicani. A questo occorre aggiungere l’impiego della lingua inglese, volto a coinvolgere nel contenuto spirituale lo spettatore anglofono ed a sigillare la connotazione nazionale del nuovo prodotto.
Rispetto al modello prevalente dell’oratorio, tuttavia, il Messiah si differenzia per non essere narrativo, cioè con una azione precisa e lineare, sceneggiata da un librettista con versi propri, bensì “riflessivo”. Il libretto di Charles Jennens è un prodotto abilissimo; sintesi di passi tratti dal Vecchio e dal Nuovo Testamento e dal Prayer Book anglicano, senza alcun contributo del letterato, esso non segue la tradizione tedesca di narrare pedissequamente un’azione, ma rinuncia alla presenza dello storico e di personaggi ben definiti. Piuttosto si tratta di una esposizione dei contenuti fondamentali della dottrina cristiana, filtrati attraverso la figura del Redentore.
Sopra questo soggetto Haendel costruì una partitura che privilegia gli aspetti riflessivi su quelli narrativi; pochissimi sono i recitativi, numerose le arie affidate alle voci solistiche (queste sono almeno quattro: soprano, contralto, tenore, basso), ingenti gli interventi corali, due i brani orchestrali (l’ouverture alla francese – Grave, Allegro moderato – e una Sinfonia pastorale che ambienta la notte di Betlemme).
Straordinaria la varietà espressiva dei singoli brani; guidato dal proprio intuito teatrale, il compositore ricollegò i contenuti delle arie agli affetti dell’opera italiana, supplendo all’uso più sobrio della vocalità con il maggiore rilievo dell’espressività strumentale.
Diverso il discorso per le pagine corali; a differenza dei libretti dell’opera italiana, il testo delle scritture si prestava ad immediati contrasti; ecco dunque che i cori adottano una scrittura estremamente mutevole che, ispirandosi alla grandiosità celebrativa degli anthems anglicani, si converte dall’andamento omoritmico alla più raffinata complessità contrappuntistica, sempre in relazione alle suggestioni del testo. Sotto l’aspetto del materiale musicale impiegato, insomma, il Messiah è l’opera di un grande compositore cosmopolita, che attinge liberamente a tradizioni culturalmente dissimili e conflittuali, plasmandole in un proprio linguaggio.
Più complesso è definire secondo quale logica sia organizzata l’architettura musicale dell’intero oratorio. È difficile riconoscere al Messiah, sotto questo punto di vista, una unità granitica; la successione dei numeri musicali (a volte associati a gruppi) si affida infatti a una logica non evolutiva e finalistica ma paratattica, che – come d’altro canto tutto il teatro barocco – potrebbe essere considerata frammentaria.

Karl Richter

Tuttavia è grazie a questa particolare costruzione che il Messiah viene ad essere un polittico che proprio per le sue sfaccettature consente una lettura allegorica. Questa chiarezza e universalità nell’esposizione del contenuto sono all’origine della straordinaria fortuna storica del Messiah; si tratta di fattori che oggi interessano meno, intrinsecamente, ma contribuiscono a delineare la poliedricità
dell’arte haendeliana, quale prepotentemente emerge dagli studi e dalle proposte più recenti.
Introdotto da una ouverture – un Grave con ritmi puntati alla francese seguito da un Allegro moderato con una fitta scrittura contrappuntistica – il Messiah si divide in tre parti, una prima che tratta dell’avvento, una seconda della redenzione, una terza che preannuncia il ritorno del Cristo.
Nella prima parte sono riconoscibili quattro distinti momenti. I primi numeri sono dedicati alle profezie che precedono la nascita del Redentore; abbiamo così un Accompagnato del tenore, seguito da un’aria dinamica e ricca di fioriture, poi il primo scorrevole coro And the glory of the Lord, il recitativo e l’aria del basso (o del contralto) But who may abide, che alterna un Larghetto a un Prestissimo, e il magnifico coro And He shall purify, dove si palesa già la maestria del trattamento corale: il tessuto è sempre contrappuntistico, ma a tratti le quattro voci si impegnano in un’armonia massiccia, diversificando plasticamente le proprie funzioni.
Seguono la sezione dedicata alla nascita del Redentore, il recitativo e la riflessiva aria del contralto O thou that tellest good tidings, con la ripresa corale, poi l’accompagnato e l’aria del basso The people that walked in darkness, che procede per efficaci unisoni, e il memorabile coro For unto us a Child is born, tratto da un duetto italiano a due voci sole, No, di voi non vo’ fidarmi, dove, rispetto all’originale, Haendel introduce l’invocazione massiccia «Wonderful, Counsellor». Le pagine successive sono dedicate alla notte della natività, con la Pifa orchestrale, i recitativi del soprano, il coro Glory to God, e la giubilante, virtuosistica aria del soprano Rejoice greatly. Le ultime pagine della prima parte – aria, o duetto di soprano e contralto, seguito dal coro His yoke is easy – sono dedicate alla pace per l’umanità.
Anche la seconda parte dell’ oratorio si può dividere in quattro grandi sezioni, prima delle quali è quella dedicata alla passione. Si apre con il mestissimo coro Behold the Lamb of God, e prosegue con l’aria del contralto He was despised, con quattro differenti cori (gli ultimi due appena separati da un recitativo), magistrali per il contrasto delle tecniche di scrittura. Segue la sezione dedicata alla morte: le arie del tenore e del soprano (o solo dell’uno o dell’altro, a seconda delle varie versioni della partitura) sono seguite dal coro Lift up your heads, dove la grandiosa scrittura omofonica viene variata dalle differenti distribuzioni vocali e poi si sviluppa in inseguimenti polifonici; tecnica ripresa per il seguente Let all the angels of God, che immette nella sezione dedicata alla resurrezione e all’ascensione. Qui troviamo ancora l’impegnativa aria del basso (o del contralto) Thou art gone up on high, il breve e incisivo coro The Lord gave the word, l’aria pastorale del soprano (o del contralto; o duetto con coro)

How beautiful are the feet of them, e il coro (o recitativo) Their sound is gone out.
Spetta all’aria del basso Why do the nations, vera rigenerazione dell’aria “di furore”, aprire l’ultima sezione, dedicata al trionfo del cristianesimo; vi figurano ancora il coro polifonico Let us break their bonds asunder e il recitativo ed aria del tenore Thou shalt break them, prima del celeberrimo Hallelujah, la pagina che, in qualche modo, è diventata il simbolo della stessa arte musicale di Haendel; l’idea di base alterna, nelle diverse combinazioni, una intonazione di giubilo di molte voci corali a un incisivo unisono che propone invocazioni varie; e la dinamica sempre rinnovata di questo contrasto è uno degli esempi preclari del trattamento plastico, rigoroso nella logica del discorso e fantasioso negli spessori sonori e nelle aggregazioni, cui Haendel sottopone la massa corale.
La terza parte dell’oratorio è assai più breve delle due precedenti, e costituisce una sorta di appendice. È la parte profetica sul ritorno di Cristo; si succedono l’aria meditativa del soprano, il coro omofonico e massiccio, l’aria del basso The trumpet shall sound – che, con la tromba solista, richiama molte arie di battaglia della carriera operistica del compositore – poi il duetto riflessivo fra contralto e tenore Oh death, where is thy sting?, un nuovo variato coro, e l’aria If God be for us.
Si arriva così all’ultima pagina dell’oratorio, che è un coro diviso in molteplici e contrastanti sezioni; abbiamo prima un Largo e un Andante che si alternano; poi un fugato in Larghetto dal soggetto ribattuto; infine il grandioso Amen, dove, come scrisse il musicografo Charles Burney, «il soggetto viene diviso, suddiviso, rovesciato, contornato da vari controsoggetti e sottoposto a varie soluzioni, tanto ingegnose quanto nascoste, di ordine melodico, armonico ed imitativo». Come dire che, se l’Hallelujah che chiudeva la seconda parte mirava a conquistare il pubblico con il grande gesto retorico dell’anthem, qui Haendel punta invece a una maestria meno appariscente ma più profonda, incarnazione altrettanto mirabile del poliedrico genio barocco.