Liszt Franz

10 Rapsodie Ungheresi per pianoforte

A proposito del repertorio lisztiano, sebbene Leslie Howard non ne abbia registrato l’opera completa, non suonando mai né le opere giovanili, né quelle senili e neanche le grandi trascrizioni, del suo rapporto con questo compositore disse: «Ho sempre avuto una comprensione naturale di Liszt; ho visto i suoi lavori sulla carta e in un modo o nell’altro ho trovato un immediato e innato collegamento con la sua musica. Questo è un fenomeno per il quale difficilmente potrei trovare una spiegazione. Ancora oggi lavoro su un breve pezzo di Liszt. Lì imparo molto velocemente».
Ho ascoltato la registrazione su un vecchio vinile fino a che le scanalature sono diventate trasparenti. Ora riversato in CD, con una encomiabile pulizia del suono, posso godermelo quando voglio. Sono un grande fan di Liszt e i brani in assoluto che preferisco di questa meravigliosa compilation sono le Rapsodie Ungheresi numero 2 e 6. Georges Cziffra era ungherese e ha avuto una carriera che sembra un romanzo d’avventura. Fu fatto prigioniero durante la guerra, portava mattoni e pietre da muratore con quelle sue mani preziose. Finì a Parigi, suonando jazz in alcuni club. La sua vita non è mai stata facile, nonostante si sia divertito, e alla fine, abbia raggiunto una grande popolarità sia in Francia che a livello internazionale. Questa registrazione è forse la più caratteristica del suo modo di suonare. Una interpretazione che fa palpitare il cuore ogni volta che si ascolta ed è degna di essere collocata tra le grandi incisioni del secolo scorso. Registrazione eseguita nel 1975 e rimasterizzata digitalmente nel 2001. Altamente raccomandato.

Rapsodia ungherese n. 3 per pianoforte, S 244

Le Rapsodie ungheresi nascono dal viaggio nella terra natale del 1839-40: accolto da eroe nazionale, Liszt si commuove e scambia le nostalgiche derivazioni e corruzioni della musica zigana per le fondamenta etno-musicali della nazione ungherese (che saranno ritrovate assai più tardi, da Bartók e Kodàly). Nessuno cesserà più di rimproverargli l’equivoco fatale: quasiché, poi, l’amore dei romantici per il folklore non fosse tutto, o quasi, fondato sull’equivoco, e non avesse nel suo seno una dose massiccia – e quanto – di oleografia astorica ed ascientifica. Di coloriti grevi è perfino il folklore di un Delacroix (per non parlare di quello di un Berlioz): è il pittoresco che decisamente prevale, e si resta nell’ambito di quel soggettivismo che si usa chiamare «sentimento della natura» e che sarebbe più appropriato chiamare «sentimentalizzazione della natura» perché è l’uomo che si proietta nella natura e non la natura nell’uomo. Nascono dunque le Rapsodie ungheresi dal viaggio in Ungheria nel 1839-40: e sono dapprima le Ungarische Nationalmelodien pubblicate tra il 1840 e il 1847 a Vienna, presso Haslinger: a dire il vero ventiquattro sono quelle composte, venti quelle pubblicate, in dieci libri o quaderni (anzi, undici, con quello dedicato al conte Apponyi). E dieci, le ultime dieci, già portano il titolo Rhapsodies hongroises. Già nel 1846 Liszt le riprende in mano, e ne rielabora diciannove, l’ultima nel 1885: la pubblicazione ne avviene tra il 1851 e il 1886, titolo Hungarian Rhapsodies.
«Lassan» e «Friska»: due movimenti di danza in misura binaria che si alternano bruschi ed improvvisi, «fantasticheria melanconica, piena di languore febbrile e cupo», il primo, «slancio focoso e balzante», il secondo, nelle parole di Raoul Aguettant. Gamma «ungherese» a due seconde aumentate (e quindi con ricchezza di intervalli dissonanti). Contrattempi. Sincopi. Trasferimento al pianoforte della tecnica percussiva del colpo d’arco del violino zigano e del «cimbalom». Bene: tutto questo lo si trova, tanto per fare un esempio, sia nella seconda sia nella terza delle Rapsodie ungheresi. Ed allora come si spiega che la terza, in si bemolle maggiore (originata dalla undicesima delle Ungarische Nationalmelodien del 1839-47 e rivista tra il 1847 e il 1853, anno della pubblicazione presso Haslinger a Vienna), suona così «diversa»? E ancor più che nell’episodio «andante», nel fantasmagorico «allegretto», squisito ricamo sonoro di staccati ribattuti, in «pianissimo», che si perde e si smorza, dopo un limpido gioco di pedali (e qui veramente il pedale «respira» con la nota, quasi con la singola nota), in una macchia armonica che è come un ritorno di vibrazioni speculari («lento, quasi echo»).

Rapsodia ungherese n. 6 per pianoforte, S 244

La Rapsodia ungherese n. 6 è strutturata in quattro episodi tematicamente indipendenti che si susseguono senza soluzione di continuità e che appaiono formalmente ispirati all’archetipo della Sonata (primo movimento, Scherzo, Adagio, Finale). Qualunque pianista di buone qualità può affrontare tranquillamente i primi tre episodi. Solo chi è dotato di polsi d’acciaio può invece attraversare indenne il quarto episodio, tutto basato sulle “ottave”. Nell’esecuzione delle ottave vengono impiegati simultaneamente il pollice e il mignolo oppure il pollice e l’anulare, con le dita che rimangono bloccate mentre l’avambraccio si muove in su e in giù, freneticamente, come l’asta di una pompa. Nella Sesta Rapsodia l’effetto delle ottave è più o meno quello di uno sferragliante treno a vapore che rischia più volte il deragliamento. Anche in questo caso Vladimir Horowitz la spunta sopra tutti, sebbene Cyörgy Cziffra e Martha Argerich possano competere con lui sul piano della velocità e della potenza (ma non del colore). Il valore della composizione non risiede tuttavia nello steeple-chase delle ottave ma nell’equilibrio formale complessivo, nella varietà delle situazioni e nella gradevolezza dei quattro temi. E per quanto riguarda le ottave, il plauso non va a chi arriva alla fine con le braccia che fumano ma a chi può permettersi di mantenere l’aplomb e la grazia del virtuosismo trascendentale, della tecnica che si dimentica di esser tele.

Rapsodia ungherese n. 12 per pianoforte, S 244

«Ho voluto fare una specie di epopea nazionale della musica tzigana. Con la parola «rapsodia» ho inteso alludere all’elemento fantasticamente epico che ho creduto di riconoscere in questa musica. Ognuno di questi frammenti non narra alcun fatto, è vero, ma chi sa intenderlo vi coglie l’espressione di alcuni degli stati d’animo nei quali si compendia l’ideale d’una lezione. I Magiari hanno adottato gli tzigani come loro musicisti nazionali. L’Ungheria può dunque a buon diritto avocare a sé quest’arte, nutrita del suo pane e del suo vino, maturata al suo sole e alla sua ombra, e tanto strettamente penetrata nelle sue abitudini da legarsi alle più gloriose memorie della patria».
Così Liszt, nel suo saggio Des Bohémiens et de leur musique en Hongrie (il grande pianista e compositore ungherese ebbe esperienza di vita e di cultura a livello largamente europeo, ma fu soprattutto francese di formazione e di lingua).

Georges Cziffra

Riplasmando al fuoco del suo pianismo prestigioso gli elementi di folclore sonoro da lui assimilati nei suoi primi anni, Liszt si riallacciò dunque propriamente alle tradizioni musicali degli tzigani piuttosto che a quelle autoctone della sua patria. Di queste ultime s’era persa ogni traccia ai suoi tempi. Toccherà assai più tardi a Bartok e a Kodaly assumersene la paziente opera di ricupero.
Tra le varie raccolte di elaborazioni pianistiche in cui si consacra quell’«epopea nazionale» concepita da Liszt, il repertorio concertistico pone in primo piano la serie di 19 Rapsodie ungheresi segnata al numero 106 nella classificazione delle opere di questo compositore, proposta da Peter Raabe. Fra esse, la Rapsodia n. 12, in do diesis minore, dedicata al celebre violinista Joachim, fu pubblicata a Berlino nel 1853.
Formata al modo tipico di questo genere di composizioni, l’opera, cui dà inizio uno spunto di canto austero, largamente scandito a note ripercosse, si articola in vari frammenti che portano, con estrosa volubilità, dalla calma solenne e malinconica dell’esordio a una veemenza di accenti e ritmi sempre più gioiosa e trascinante. Il tutto reso nella splendida veste sonora del pianismo lisztiano, capace d’una potenza e d’una ricchezza di colori quasi sinfoniche.

Rapsodia ungherese n. 13 per pianoforte, S 244

Tra il novembre del 1839 e il settembre del 1847 Liszt fu il virtuoso di pianoforte più ricercato, più ammirato, più retribuito, ma anche più discusso, d’Europa. Ovunque si esibisse, non si limitava ad essere soltanto un concertista ovunque baciato in fronte dalla fortuna, ma mostrò d’esser assai interessato a conoscere le caratteristiche idiomatiche del linguaggio musicale di ogni paese da lui frequentato. E tra i connotati lessicali da lui scoperti, un risalto peculiare Liszt riservò alla qualità e alla diversità del suono. Emblematico, al riguardo, fu il rapporto che egli volle instaurare con la musica ungherese: non perché nutrisse un amore particolare per la gente o la terra magiara ma perché la musica degli tzigani ungheresi era per lui un suono nuovo.
Con la musica tzigana Liszt avviò sin dalle prime tournée concertistiche in Ungheria una serie di rapporti di rilievo molto pronunciato. Ancor prima che vedessero la luce vari lavori specifici, e poi le 19 Rapsodie ungheresi, Liszt s’era convinto che l’origine della musica ungherese non fosse magiara, ma tzigana. Nulla, come tale equivoco, colpì a morte l’orgoglio nazionale ungherese. Ancora parecchi anni dopo la morte di Liszt (Bayreuth, 31-7-1886) alla proposta di traslare in Ungheria la salma del compositore, il presidente del consiglio Kàlmàn Tisza, tra gli applausi dell’intero parlamento in piedi, dichiarò in preda all’indignazione: «Proprio in un’epoca a cui all’Ungheria altro non era rimasto se non la sua musica, Liszt annunciò ai quattro venti che non si trattava di musica ungherese, bensì di musica tzigana».
Delle sue convinzioni in proposito Liszt diede ampi e reiterati ragguagli nello scritto Des Bohemiéns et de leur Musique en Hongrie (Parigi, 1859). Sfogliando le pagine di questo testo si nota primieramente che quel che spiccatamente affascinò Liszt era «la curiosa maniera di modulare degli tzigani, la mancanza di passaggi intermedi… il ritmo, l’ornamentazione improvvisata, le fioriture, la scala minore». Più oltre: «Per gli tzigani in musica non vi sono leggi, principi, regole, disciplina… Per essi tutto va bene purché piaccia loro: e piace loro a patto che il loro sentimento ne sia esaltato. … Gli tzigani non arretrano in musica di fronte a nessuna audacia purch’essa s’accordi con gli audaci impulsi del loro cuore, purché vi scorgano l’immagine fedele della loro natura… In generale, i ritmi degli tzigani sono caratterizzati da grande freschezza di colori e dalla varietà delle scansioni… Con poche eccezioni, la musica tzigana mostra una predilezione nella scala minore per la quarta eccedente, per la sesta minore e per la settima maggiore: di questi intervalli in special modo la quarta eccedente conferisce all’armonia una straordinaria iridescenza e uno splendore abbagliante».
Liszt scoprì la specifica natura del suono tzigano nella sua autenticità studiando gli strumenti, dalla cetra alle percussioni, dagli archi ai legni. E fu colpito, sentendo suonare gli tzigani, dall’alternanza brusca del ritmo tra il Lassan (da lassu che vuol dire lento) e il Friska (da friss che significa rapido): entrambi binari, il primo è di stampo malinconico, il secondo frenetico nello slancio.
Alla composizione delle 19 Rapsodie ungheresi Liszt si dedicò a partire dal 1846, per lo più sino al 1854. La Rapsodia n. 13 in la minore presumìbilmente ultimata nel 1853, con dedica al barone Orczy fu pubblicata lo stesso anno. A differenza delle altre della raccolta definitiva (Catalogo Raabe opus 106) si caratterizza per una peculiare carica poetica e per la riferibilità a fonti autentiche. Dopo l’introduzione arpeggiata, dolce e malinconica, enuncia il primo tema ispirato a un motivo presente in un’antologia di musica popolare che vide la luce nel 1840 a Szerdehalyi. La seconda idea a sua volta si ricollega a un canto tradizionale pubblicato nel 1846. La sezione rapida di quest’opera offre parecchie analogie idiomatiche con un canto della Raccolta “Pannonia”, a cui Sarasate avrebbe fatto poi riferimento nel comporre Zigeunerweisen. Anche l’idea successiva, nell’Un poco meno vivo, figura in un disegno ritmico d’una Csàrdàs del 1848: se ne ricordò Bartók durante la composizione della Sonata per violino e pianoforte del 1903. Il motivo seguente, inventato da Liszt alla prima stesura, è diventato popolarissimo in Ungheria. La scrittura pianistica è un vero e proprio fuoco di artificio e sfocia infine nella coda in cui si riascoltano incisi della terza e della prima idea motivica.