Mahler Gustav

Das Lied von der erde

Il cofanetto della Sony contenente le sinfonie di Mahler dirette da Bruno Walter, resta a mio parere, il più convincente esecutore delle musiche del compositore austriaco.
Quel cofanetto comprendeva, fra l’altro, anche una registrazione effettuata nel 1960 di “Das Lied von der Erde”con Bruno Walter alla guida della New York Philarmonic Orchestra e con la presenza del mezzosoprano Mildred Miller e del tenore Ernst Haefliger.
“Il Canto della Terra” – che venne composto da Mahler dopo l’ottava sinfonia e può essere a sua volta considerato una sinfonia, come appare anche nel sottotitolo apposto dall’Autore – fu un’opera particolarmente cara a Walter, che ne diresse la première a Monaco nel 1911 e che la ripropose numerosissime volte, sia dal vivo che in disco, durante la sua lunga carriera.
Il CD giustamente inserito dalla Decca nella collana “Legends” rappresenta, secondo il mio modesto parere, la migliore esecuzione in assoluto, nonché edizione di riferimento, del capolavoro mahleriano, difficilmente superabile anche in futuro.
Il Canto della Terra è, come noto, una composizione per orchestra e solisti (tenore e mezzosoprano/contralto) che si sviluppa attraverso l’orchestrazione di sei poesie di origine cinese tradotte in tedesco da Hans Bethge; come recita il titolo, le poesie cantano la natura nelle sue diverse manifestazioni, da un lato la bellezza e la ricchezza della vita, la primavera, la giovinezza spensierata, dall’altro la malinconia, l’autunno, fino al congedo finale, la morte.
L’esecuzione in oggetto venne registrata da Bruno Walter a Vienna nel maggio del 1952, alla guida dei Wiener Philarmoniker, orchestra mahleriana per definizione, con la presenza di Julius Patzak, leggendario tenore delle stagioni d’opera viennesi, e soprattutto di Kathleen Ferrier, contralto britannico, grande liederista e carissima a Bruno Walter, che con lei aveva eseguito più volte il Canto della Terra a partire dal ’47.

Oltre alle apprezzabili doti vocalistiche naturali e alla grande professionalità, la Ferrier era caratterizzata da una notevole musicalità, con cui riusciva ad esprimere tutte le sfumature e gli accenti voluti da Walter, e soprattutto da una grandissima sensibilità, che risalta in particolare nel misticismo di cui è permeato il Canto della Terra; non si può infine sottacere la commovente ed intensa interpretazione dell’ultimo brano, l'”Abschied”, forse presentendo il vero addio che lei stessa avrebbe prematuramente dato alla vita appena un anno più tardi.
Il CD contiene infine altri tre lieder, tratti dalla raccolta dei Ruckert-Lieder mahleriana, fra cui spicca “Um Mitternacht”, anche in questo caso splendidamente eseguiti dalla Ferrier con un grandissimo trasporto emotivo. Audio molto buono. Registrazione eseguita nel 1952 e rimasterizzazione effettuate nel 2001. Imperdibile!

Il canto della terra

Esistono opere che riassumono un’epoca e un modo di essere dello spirito. Sono drammi, romanzi, poemi, monumenti architettonici, capolavori di pittura e di scultura, trattati filosofici o scientifici, composizioni musicali. Das Lied von der Erde è del novero. Insieme con la prima edizione della Relativitätstheorie di Albert Einstein, con Die Traumdeutung di Sigmund Freud, con Die träumenden Knaben di Oskar Kokoschka, con Der Mann ohne Eigenschaften di Robert Musil, con la Recherche di Marcel Proust, con Judith di Gustav Klimt, con le Duineser Elegien di Rainer Maria Rilke, questa inclassificabile e in parte ancora indecifrata partitura mahleriana compendia con pienezza di significati il male di vivere sperimentato con suprema eleganza e disincanto dalla cultura occidentale nella fase storica in cui l’Occidente sa di non essere più se stesso e vuole continuare, con disperata decisione, ad essere se stesso.

Ma Das Lied von der Erde non riassume soltanto la storia, la cultura e gli stati d’animo dell’Occidente; non è soltanto l’opera di un autore radicalmente disposto alla negazione di sé pur di riconoscersi nella propria verità, senza menzogne confortanti. Das Lied von der Erde va al di là: indica una condizione possibile in cui lo stesso mezzo linguistico dell’arte nega se stesso per definirsi con assoluta purezza. L’inciso finale affidato al contralto, «Ewig… ewig…», non conclude la linea melodica in coincidenza con la cadenza perfetta in do maggiore: le due sillabe del sublime aggettivo sono cantate su MI-RE, e il DO resta implicito, inespresso dalle parole, e soltanto l’orchestra lo dichiara, creando una contraddizione tra ciò che l’aggettivo vuol dire, «eternamente… eternamente», e il vero significato, «mai più… mai più».

Questa pienezza di significati che gravita verso il polo della negazione è il primo dei tre contrassegni spiccati dell’opera. Il secondo è il carattere di limite. In ogni sua piega, Das Lied von der Erde è al confine: confine linguistico, poiché la fermezza dolorosa con cui la musica resta fedele al sistema tonale – simbolo musicale, nell’ultimo Mahler, dell’Occidente – coesiste con lo sforzo che urta contro quel muro armonico e usa procedimenti politonali e scale pentafoniche non occidentali, in sintonia con l’ispirazione letteraria di fonte cinese giunta al compositore attraverso la traduzione/rielaborazione di Hans Bethge. A questa posizione di frontiera corrisponde, sul piano della concezione poetico-musicale, il ruolo in sé unico e non classificabile di un lavoro che porta alle estreme conseguenze il rapporto da cui Mahler fu ossessionato in tutta la sua creatività, quello tra sinfonia e Lied.
Ed ecco che il secondo contrassegno si lega strettamente al terzo. Il lascito sinfonico di Gustav Mahler (Kalischt, oggi Kalistè in Boemia, 7 luglio 1860 – Vienna, 18 maggio 1911) è un progressivo affinamento esercitato sulla forma della sinfonia, e, in parallelo, sulla sua energia poetica. Doppia è la radice ispirativa della musica mahleriana: il Lied ereditato dalla tradizione secondo la genealogia che da Schubert attraverso Schumann e Brahms conduce al patrimonio popolare slavo (la musica nazionale cèca e lo stesso Dvorak non ne sono esclusi), e la sinfonia ereditata da Beethoven attraverso una grandiosa contaminazione wagneriana, per cui vale l’opinione di Guido Adler, Theodor Wiesengrund Adorno, Luigi Rognoni, secondo cui Wagner avrebbe introdotto la sinfonia nell’opera e Mahler l’opera nella sinfonia. Già nella “Gesellen- Symphonie”, ossia nella Prima del 1889, la concezione attinge alle idee musicali dei Lieder eines fahrenden Gesellen e ai primissimi Lieder giovanili come Hans una Grethe. Nelle “Wunderhorn-Symphonien” (Seconda, Terza e Quarta) l’autore inserisce veri e propri Lieder presi direttamente dal proprio repertorio già in atto su fonti poetiche tratte dall’antologia Des Knaben Wunderhorn di Achim von Arnim e Clemens Brentano. Ma in questa prima fase creativa Mahler lascia appositamente che i Lieder rimangano tali, ossia inserti incastonati in altra materia come gemme e pietre dure nel metallo.
Kathleen Ferrier

Nelle tre sinfonie intermedie senza parti cantate, Quinta, Sesta e Settima, non mancano reminiscenze di Lieder (da Rückert, come i Kindertotenlieder) nell’orchestra. L’Ottava Sinfonia è cosa totalmente diversa, un enigmatico saggio affermativo, in cui l’allusione alla messa cattolica non significa religione o religiosità (Mahler non era praticante o “credente” né come ebreo né come cattolico) ma semplicemente «sì», o, meglio, «sì?», o «forse sì».
La discussa conversione di Mahler al cattolicismo, lungi dall’essere un gesto opportunistico teso ad ottenere la direzione artistica della Hofoper di Vienna (questa è l’interpretazione dei mediocri e dei furbastri, degli uomini “con i piedi per terra” che governano le cose del mondo e misurano secondo la propria statura gli artisti per definizione un po’ folli e deambulanti sulle nubi), fu un tentativo che egli, sradicato tre volte – «tre volte senza patria, boemo fra gli austriaci, austriaco fra i tedeschi, ebreo in tutto il mondo», come Mahler amava dire di sé purché sia fedele la testimonianza di sua moglie Alma -, portò a problematico compimento per radicarsi nella cultura occidentale, “cristiana” e “tedesca”. In quale senso? Essere tedeschi, per Mahler, significava voler essere connazionale di Goethe, di Rückert, di Eichendorff nello spirito. Essere cristiani cattolici significava per lui annodarsi a Mozart, a Schubert, magari a Bruckner. Per questi motivi, l’Ottava segna il massimo sforzo nella direzione di quel radicamento.

Ma Das Lied von der Erde, che riprende la concezione di una partitura sinfonica con parti cantate (e in questo caso, con la voce umana presente in tutti i sei tempi sinfonici), non è più una sinfonia con Lieder inseriti e incastonati. È una “sinfonia di Lieder”, ossia né una sinfonia né una serie di Lieder, poiché le sei parti sinfonico-vocali non sono più Lieder, dal momento che del Lied spezzano la concezione. Non esiste una categoria di forma o di genere che si adatti a Das Lied von der Erde, e in parallelo non esiste più un approdo, un terreno solido su cui camminare, un radicamento conclusivo. Tutto si libra dolorosamente in aria. Le ultime due sinfonie, la Nona e l’incompiuta Decima, mostrano infatti i segni del trauma che Das Lied von der Erde, come nodo cruciale e dolente, provoca nell’autore. Sono opere ripiegate in se stesse, dalla scrittura tendenzialmente cameristica, reticenti e lunari, immerse nella notte oscura e scagliate lontano dalla terra: dalla terra, appunto, del Lied von der Erde. Scagliate, diremmo, negli spazi cosmici.

Chi ama giudicare le opere d’arte come esito di eventi biografici, secondo una forma di storicismo indoor e in formato ridotto, non manca di “spiegare” la nascita di Das Lied von der Erde invocando il trauma privato e personale: la tragedia familiare che sconvolse Gustav e Alma Mahler nel 1907. Come parziale dato di verità, il legame esiste, ha un certo peso occasionale, e se ne può parlare. Quando Gustav e Alma si sposarono, nel 1902, ricevettero un dono
da Theobald Pollack, Hofrat (consigliere aulico) e amico di Emil Jakob Schindler, il celebre pittore paesaggista padre di Alma. Il dono era un libro, Die chinesische Flöte, una raccolta di poesie cinesi tradotte e rielaborate da Hans Bethge (Dessau, 9 gennaio 1876 – Göppingen, 1° febbraio 1946).

È giusto ricordare ciò che di solito si dimentica: che l’antologia di Bethge fu nel primo Novecento un oggetto di prestigio per vari musicisti di cultura austro- tedesca. Gli esempi maggiori, oltre al supremo esito artistico raggiunto da Mahler, furono il compositore austro-americano Ernst Toch (1887-1964) con il ciclo liederistico Die chinesische Flöte per soprano e orchestra op. 29 (1921) e Arnold Schönberg (1874-1951), che su testi “cinesi” di Bethge compose gli ultimi due dei Vier Stücke op. 27 per coro, mandolino, chitarra, clarinetto, violino e violoncello (1925). Si tratta del n. 3, Mond und Menschen, e del n. 4, Der Wunsch des Liebhabers.

È necessario ricordare anche come la “traduzione” di Hans Bethge non sia stata condotta sul cinese (lingua che Bethge non conosceva) ma su traduzioni di traduzioni. La lunga vicenda partì da una mediazione diretta e da una versione autentica dell’originale in altro ambito linguistico, quello francese. Parliamo delle versioni in prosa di Judith Gautier (Le livre de Jade, Felix Juven, Paris s.d. ma edito nel 1867) e in versi del marchese di Hervey-Saint-Denis (Poésies de l’époque des Thang traduites du Chinois, Amyot, Paris 1862). Judith Gautier (1845-1917) era la precoce figlia del poeta Théophile Gautier (1811-1872), e fu sposata per breve tempo con il poeta Catulle Mendès, per cui viene citata a volte come Judith Mendès. Dopo il 1869 divenne intima amica di Richard e Cosima Wagner. Il marchese di Hervey-Saint-Denis (1822-1892), del quale gli studiosi tacciono con pervicacia il prenome, fu apprezzatissimo come poeta, saggista, sinologo, orientalista in genere, traduttore da lingue orientali. Viene citato fuggevolmente da Proust nella Recherche, in una conversazione tra il barone di Charlus e il duca di Guermantes. Il lavoro della Gautier ebbe due traduzioni, una inglese (Chinese Lyrics from the Book of Jade, translated from the French of Judith Gautier by James Whitall, New York 1918) e una tedesca (Chinesische Lieder aus dem Livre de Jade von Judith Mendès, in das Deutsche ubertragen von Gottfried Böhm, München 1873).

Nell’introduzione alla sua famosa antologia, Hans Bethge ricorda i lavori della Gautier e di Hervey-Saint- Denis, ma anche quella che fu la sua più diretta fonte, ossia la traduzione in prosa di Hans Heilmann (Chinesische Lyrik, Piper, Munchen-Leipzig 1905). In anni recenti, una studiosa cinese di Taipeh (Taiwan), Kii-Ming Lo, ha studiato l’insieme di questa vicenda traslatoria in rapporto con gli originali cinesi che più avanti nomineremo e con la loro scrittura ideogrammatica (Chinesische Dichtung als Text-Grundlage für Mahlers “Lied von der Erde”, in Die Gustav- Mahler-Fest Hamburg 1989, Barenreiter, Kassel-Basel 1990, pp. 509-528). Pollack, anziano funzionario delle ferrovie, destinò propriamente il dono ad Alma, e non sapeva di conquistarsi un modesto ma non disprezzabile ruolo come promotore occasionale di un capolavoro, poiché Alma sfogliò il libro e poi lo mise in un angolo della libreria. Passò qualche anno di non facile matrimonio. Il 5 luglio 1907, nella villa dei Mahler a Maiernigg sul Wörthersee in Carinzia, morì di scarlattina la piccola Maria detta «Putzi», primogenita di Gustav e di Alma, a cinque anni d’età. I Mahler fuggirono da Maiernigg e da quella casa funesta, e per il soggiorno estivo cercarono un diverso cielo ad Alt Schluderbach nel Südtirol (chiamato dagli italiani «Alto Adige»), un paesino in prossimità di Toblach (Dobbiaco) ai piedi delle Cime di Lavaredo, oggi divenuto terra italiana con il nome di Carbonin Vecchia. Durante le sue passeggiate solitarie sui prati di Alt Schluderbach nel luglio 1907, Mahler portò sovente con sé Die chinesische Flöte, il libro rispolverato dall’angolo di uno scaffale. Su quei versi meditò a lungo.

Nacque in lui un amore doloroso per quei luoghi che gli ricordavano non la sua bambina viva (la villa di Maiernigg fu presto venduta con i ricordi che vi erano sepolti) ma la sua bambina sognata e rivissuta nella memoria. L’anno dopo, i Mahler fissarono ad Alt Schluderbach il loro abituale soggiorno estivo, nella casa che la famiglia Trenker aveva ed ha tuttora al centro del proprio “maso”. Vicino alla casa, oggi locanda tra il rustico e lo snob, egli fece costruire una capanna (Hütte) in mezzo a un bosco, e là sarebbe nata, nel 1908, la musica di Das Lied von der Erde; più tardi, tra il 1908 e il 1910, la Nona e la Decima Sinfonìa. Chi oggi va in visita a quei luoghi, supera il trauma derivante dalla villania della famiglia Trenker ultima generazione, entra nel bosco, raggiunge in due passi la Hütte, volta le spalle alla capanna sacra alla musica e guarda la meravigliosa vallata di Toblach, sente in profondità che cosa possa avere ispirato Mahler nel comporre Das Lied von der Erde.
Tutto questo è indubbio, ma certo Das Lied von der Erde sarebbe nato, con tutto il suo significato di mortuaria sublimazione e di angelicità luttuosa, di languore liberty e di crisi dell’Occidente, anche senza quei tragici eventi familiari. Sarebbe nato comunque, poiché l’Ottava Sinfonia, che avrebbe dovuto enunciare o addirittura fondare una grande affermazione nell’Essere e nella civiltà europea, cristiana e latino-germanica («die Christenheit oder Europa» secondo Novalis), lasciò aperta ogni incertezza, non essendo più la materia religiosa e cattolica, da secoli, in grado di dare risposte di sorta. Ecco perché Das Lied von der Erde non dichiara in linguaggio diretto, ma in simboli carichi di negatività esistenziale, in cui la bellezza è l’atto di fede, l’unico possibile.

Julius Patzak

L’arte è contro la realtà, contro l’esistente e contro l’Essere, e il chiudersi del linguaggio in un sistema di simboli esteticamente sublimi è la cifra del simbolismo, che nella cultura occidentale di quegli anni è il terreno idoneo ad accogliere i grandi atti di rifiuto del mondo. Das Lied von der Erde è un capolavoro in chiave simbolistica, non tanto per una scelta volontaria di gusto quanto per necessità. La musica di questo capolavoro nacque nella capanna di Alt Schluderbach tra il luglio (II tempo, il primo ad essere abbozzato) e il 1° settembre 1908.

Dopo l’Ottava, non era facile immaginare i futuri sentieri percorsi dalla musica mahleriana: Das Lied von der Erde è quanto di più dissimile potesse nascere dopo la grande sinfonia per cori. Non è l’oscurità dopo la luce, il peso terrestre dopo la leggerezza. È un altro mondo, in cui chiarori d’oro e di rosa distillano il male di vivere. Il Mahler terrestre, già radicato con fortissimo dolore e con dolorosissima forza nella terra e nelle sue viscere fisiche e psichiche, era il Mahler dei Wunderhornlieder e delle prime tre sinfonie. Le sinfonie Quinta, Sesta e Settima e i dieci Lieder su testi di Rückert percorrono ancora la terra, ma in superficie, velocemente e talora turbinosamente e con crescente disagio. La Quarta e l’Ottava sono due desideri (non due tentativi) di sollevarsi dalla terra, ma la Quarta è la visione di un paradiso illusorio sub specie puerorum e luttuosamente contemplato da un adulto, l’Ottava è un monumentale “come se…”, una messa mancata in cui è impossibile il Credo. Soltanto Das Lied von der Erde è il momento del congedo definitivo dalla superficie terrestre, e le ultime due sinfonie sono già lontane dal pianeta: i loro tempi lenti sono inequivocabilmente musica di sfere, suono cosmico.
Fra le circa quaranta poesie riunite da Bethge, Mahler scelse sette esempi, unificandone due che costituirono il sesto e ultimo Lied. I poeti scelti da Mahler appartengono tutti all’epoca T’ang, dai più antichi Li T’ai Po (il maggiore “classico” cinese, 699-765), Wang Wei (699-759), Mong Hao-Jan (699-740), al più tardo Chang Chi, fiorito dopo il 799.

a) Das Trinklied vom Jammer der Erde (Il brindisi del dolore della terra, Li T’ai Po) in origine doveva dare il proprio titolo all’intera serie di canti. Mahler, che intervenne sui testi di Bethge con poche alterazioni, adattò alla loro vena negativa un proprio modo di sentire in cui affiorano radici ebraiche, saldando il vicino Schopenhauer con il remoto Qohélet. Nascere e vivere è male, e tanto più straziante è la visione della giovinezza e della salute vitale. Oscura è la vita, oscura è la morte.

b) Die Einsame im Herbst (La solitaria nell’autunno, Chang Chi) è una visione opposta: la natura appare felice e amica all’uomo. Ma ciò avviene soltanto perché ora si consumi l’inganno teso eternamente all’uomo: la stagione più dolce è quella in cui la natura sta per dire addio. Segrete affinità legano il testo a uno dei Vier letzte Lieder di Richard Strauss, Beim Schlafengehen.

c) Der Pavillon aus Porzellan (Il padiglione di porcellana, Li T’ai Po) è la scena, riflessa in uno stagno, di tre amici che bevono e chiacchierano, come i tre ministri della pucciniana Turandot. Il mondo dalle tinte tenui e preziose, raccolto nel padiglione di porcellana bianca e verde, si riversa nell’altro mondo nascosto nello specchio acqueo.

d) Am Ufer (Sulla sponda, Li T’ai Po) è il fuggevole punto d’incrocio tra la ferma femminilità e la mobile virilità: il fascino della suprema pudicizia sotto cui vive un’immensa sensualità già rassegnata a rinunciare.

e) Der Trinker im Frühling (Il bevitore in primavera, Li T’ai Po) si domanda: se la vita è soltanto sogno, non è forse il bere e il dormire la suprema felicità? Poco importa se fuori è primavera e un uccello canta.

f) Der Abschied (L’addio) riunisce due poesie di Bethge, tratte l’una da Mong Hao-Jan e l’altra da Wang Wei. Ritorno ai miei luoghi, dice colui che sta per andare via per sempre. Ma quali luoghi? La poesia di Mong Hao-Jan descrive l’attesa dell’amico (Le poète attend san ami Ting-Kong dans une grotte du moni Nié-Chi, intitola Hervey-Saint-Denis nella sua versione), quella di Wang Wei descrive il momento del commiato. Commiato da che cosa («lontano da dove» suona il celebre apologo yiddish)? E dove si andrà? Mahler sa che la sua condizione di straniero nel mondo è irredimibile. Il mondo in cui riconoscersi non può non essere un altro e la sua natura è una gradazione di misteri. Il primo mistero è il sogno, l’altra faccia dello specchio, evocato nel terzo Lied. L’altro mistero è il paradiso nel suo vero rapporto con il terrestre: non un’ascesa, ma una continuità che si perde in alto, verso una lontanissima alterità.

L’evidente simmetria tra le due metà di Das Lied von der Erde si combina con una successione alternata di voci: il tenore nel primo, terzo e quinto Lied, il contralto nel secondo, quarto e sesto. Le due strutture, ABCCBA e ABABAB, si sovrappongono in trasparenza.
Manca ogni traccia di esotismo naturalistico o storicistico. Mahler, osserva Adorno, «si è servito del pentafonismo e delle sonorità dell’Estremo Oriente in un periodo in cui, nel moto complessivo dell’arte europea, tutto questo era ormai già un poco invecchiato e la scala per toni interi era già superata; eppure egli riesce a ridarle qualcosa dello choc che già aveva perduto nelle mani di Debussy».

Ecco alcuni esempi di risultato musicale. Il primo Lied esordisce in la minore, ma dopo poche battute la tonalità si fa indefinita e continuamente mutevole. Il primo motivo esposto dai corni è un tipico “appello” mahleriano, almeno nella sua cellula iniziale dominante-tonica, ma la sua quarta nota, la sottodominante RE, ne sbilancia la linea. L’appello è costruito su tre sole note, RE, MI, LA; il motivo, trasposto, potrebbe collocarsi in tre fra i modi del sistema pentafonico cinese: il kong (FA-SOL-LA-DO-RE), il kiao (LA-DO-RE-FA-SOL) e lo yu (RE-FA-SOL-LA-DO). Trasposizioni di questo motivo e sue rielaborazioni percorrono l’intera composizione.
Nell’ultimo Lied, la visione raggiunge il massimo grado d’impersonalità e di oggettiva universalità. Si comincia in do minore, e il colore si mantiene cupo per tre brevi sezioni. Lugubri gridi di uccelli, estrema metamorfosi del Naturlaut mahleriano, suonano con la voce del primo oboe, seguiti dalla funerea eco dei corni. L’atmosfera si rischiara (do maggiore) nel momento in cui un magico tramonto a rovescio sospende indefinitamente il momento dell’addio, prolungandolo all’infinito. Alla fine, la seconda sillaba della parola «ewig», cantata sulla sopratonica, è un “ritardo” congelato. Non c’è paradiso terrestre o celeste: c’è un limbo. Dopo la morte può esservi trasfigurazione, ma nulla può esistere dopo una sospensione, poiché non c’è un dopo. Der Abschied è veramente l’addio di Mahler al Lied, alla voce umana. In questi versi, gli ultimi messi in musica da lui, la terra sostiene il corpo per l’ultima volta.
Mahler non udì mai eseguito Das Lied von der Erde. La prima esecuzione ebbe luogo più di sei mesi dopo la sua morte, lunedì 20 novembre 1911, a Monaco di Baviera. Il contralto americano Sarah Jane Cahier, il tenore William Miller, l’Orchestra della Società dei Concerti di Monaco furono diretti da Bruno Walter, interprete ideale, allievo di Mahler e curatore del suo lascito artistico.
La prima edizione apparve presso la Universal Edition di Vienna alla fine del 1911. Il manoscritto autografo, già proprietà di Alma Mahler, dopo la morte di lei (1964) non fu più trovato fra le sue carte.

Ruckert-Lieder

Il Lied ha una importanza rilevante nella produzione artistica di Mahler e non per nulla alcuni Lieder hanno una funzione sinfonica e acquistano un ruolo espressivo di primo piano, come ad esempio il Lied von der Erde, denominato dal musicista “sinfonia per voce di contralto e di tenore con grande orchestra”. Nei Lieder giovanili Mahler musica versi propri e di gusto popolareggiante, come nei Lieder eines fahrenden Gesellen, in cui viene rispettata in pieno la tradizione romantica. Successivamente nelle composizioni su testi di Friedrich Rückert, come è il caso dei Kindertotenlieder e dei Ruckert Lieder, egli si dimostra sensibile alla declamazione wagneriana, anche se il linguaggio musicale si distacca sia dal cromatismo wagneriano e sia dalla fluente scrittura brahmsiana: la linea melodica rivela un profilo ritmico frastagliato e si snoda in uno spazio tonale abbastanza dilatato e adatto ad evidenziare un gioco psicologico tormentato.

Alma Mahler

La raccolta dei Cinque Lieder su poesie di Rückert fu composta tra il 1901 e il 1904, e pubblicata nel 1905, cioè nello stesso periodo della Quinta e della Sesta sinfonia e dei Kindertotenlieder. Il primo, il terzo e il quarto furono scritti nell’estate del 1901, contemporaneamente ai primi tre Kindertotenlieder, il secondo fu composto nel 1903 per la moglie e infine il quinto nel 1904. In questi Lieder traspira un senso malinconico e crepuscolare della vita, secondo una visione delicatamente intimistica e pronta a cogliere sensazioni e sentimenti di struggente emotività. È presente, insomma, quel clima pessimistico di derivazione romantica, anche se non manca una certa eccitazione vitalistica, con spunti anche euforici, così tipica della sensibilità mahleriana. Si sa che Mahler non ha lasciato alcuna indicazione precisa sull’ordine di esecuzione dei cinque Lieder su testi di Rückert, a differenza di quanto fece per i Kindertotenlieder. Molto dipende dalla scelta della voce, in quanto alcune versioni adottano la voce di soprano e altre quella di baritono, senza con questo alterare la continuità di un discorso musicale che tenga conto di ciò che vive “all’interno” dell’animo dell’artista.

Questa registrazione è una tra le migliori interpretazioni di questo magnifica partitura. René Kollo e Yvonne Minton hanno le voci perfette per questa composizione, e Georg Solti sul podio della CSO giganteggia confermando di essere uno dei migliori interpreti mahleriani.
Non ho mai trovato tanta energia e mistero in una incisione di Das Lied von der Erde. Esistono altre due formidabili interpretazione di questo spartito (Otto Klemperer su etichetta EMI e la versioni live della DG con Wunderlich e Dieskau con Joseph Krips sul podio dei Wiener Philharmoniker), ma, secondo il mio modesto parere, questa registrazione è superiore. Audio in DDD eccezionale. Altamente raccomandato.
Registrazione eseguita nel 1972 e rimasterizzazione effettuata nel 1986.

Il canto della terra

Il canto della terra – Una sinfonia per voce di tenore, voce di contralto (o di baritono) e orchestra, da «Il flauto cinese» di Hans Bethge. Questo il titolo che Mahler aveva inteso dare al grande lavoro sinfonico vocale cui aveva posto mano nell’estate del 1907 per terminarlo circa un armo dopo. Das Lied von der Erde, però, non fu stampato che dopo la morte di Mahler, nel 1912 (postuma era stata anche la prima esecuzione dell’opera diretta da Bruno Walter a Monaco, il 20 novembre 1911, a sei mesi dalla scomparsa di Mahler): e nell’edizione pubblicata dall’Universal della definizione di «Sinfonia» non v’era più traccia. Quasi contemporaneamente, veniva pubblicata l’ultima Sinfonia terminata da Mahler, correttamente contrassegnata con il numero nove: confermando così che Mahler non era sfuggito al destino, da lui tanto paventato, di Beethoven e di Bruckner, che appunto non erano riusciti a comporre più di nove Sinfonie. Proprio per questo Mahler in una sorta di ingenuo gioco a rimpiattino con la sorte e la morte, aveva pensato di chiamare «Sinfonia» il Lied von der Erde: cosi la Nona, a questo successiva, sarebbe stata in realtà la «Decima», e il fato sarebbe stato gabbato. In un certo senso Mahler vide riuscire il suo trucco; se consideriamo il Lied von der Erde come una Sinfonia, indubbiamente il conto di queste arriva a dieci, più il frammento dell’incompiuta Decima; ma vincere per un punto solo, forse, è una vittoria di Pirro. E il Canto della terra se ne sta, insieme con la Nona e ii torso mutilo della Decima a rappresentare il tragico, ultimo capitolo dell’esistenza di Mahler con tutti i connotati della sconfitta; umanamente parlando: che i conti con la storia e con l’arte fossero invece destinati a registrare un attivo favoloso, proprio grazie a quelle musiche, Mahler non fece in tempo a saperlo.

Di questa estrema e massima stagione mahleriana sono segni dominanti il presentimento della morte e l’intenzione del commiato. Dopo l’ambizioso fideismo faustiano dell’Ottava, l’opera di Mahler – badando a ciò che all’esterno essa possa, o possa sembrare di comunicare – prende appunto la via del ripiegamento, dello psicologismo probabilmente autobiografico: strada destinata a rimanere interrotta sull’inquietante interrogativo della Decima non finita e aperta giusto con il Lied von der Erde; con tanta consapevolezza, almeno a posteriori che l’opera subito successiva, la Nona – di cui fu detto che comincia «là dove finisce il Canto della terra» – non mancherà di citare significativamente frammenti del Lied, quasi a stabilire anche ufficialmente una continuità logica. Se tutto ciò abbia più o meno una causa anche parziale nei fatti dell’esistenza privata di Mahler, è questione forse non essenziale. È certo però che le circostanze in cui prese forma il Lied von der Erde qualcosa da suggerire in tal senso ce l’hanno, e così i fatti che nei pochi anni che ancora a Mahler restavano da vivere si accompagnarono alla gestazione della Nona e di quanto della Decima fu scritto. Dalla primavera del 1907, i casi della vita di Mahler prendono una svolta spesso negativa, talora tragica: con l’insorgere dei contrasti all’interno dell’Opera di Vienna, di cui Mahler era da un decennio il direttore-dittatore artistico, e che avrebbero portato in breve alla risoluzione del rapporto e all’inizio di una breve e non felice esperienza americana, si incrinava la quiete della sua attività professionale; con la morte improvvisa il 5 luglio, a cinque anni, della figlia maggiore, Marie, andava in crisi la sua vita familiare, rendendo più difficile il rapporto con la moglie Alma (poco più tardi ci sarebbero stati i problemi concreti di gelosia anche da parte di Mahler); la visita di un medico subito dopo la morte della bambina, cui Mahler si sottopone quasi per scherzo, rivelava una malattia cardiaca, ed era per lui un sicuro presagio di morte.

Yvonne Milton

All’indomani di questi tristi avvenimenti, i Mahler lasciavano la villa di Maiernigg, sede fino ad allora dei loro soggiorni estivi, per Alt-Schluderbach, in Tirolo (oggi Carbonin, in Alto Adige). L’estate, da sempre, era per Mahler il momento più bello, quello dedicato alla creazione delle sue composizioni, impossibile per lui nel resto dell’anno per i molti e gravosi impegni di direttore; appunto l’estate precedente, a Maiernigg, aveva iniziato la composizione dell’Ottava; adesso la vacanza era più che altro una fuga dai luoghi gravidi di ricordi terribili. Ma ciò non impedì a Mahler di continuare a comporre, anzi si direbbe che egli vi si gettò con particolare impegno, proprio per scacciare quei pensieri. Terminò l’Ottava, e si volse a qualcosa di nuovo; leggiamo il racconto di Alma: «Anni prima un vecchio amico di mio padre, malato di polmoni [si trattava di Theobald Pollak], che aveva riversato tutto il suo amore su Mahler e non pensava altro che a trovare testi su liriche e ispirazioni di ogni genere per il suo bambino, gli aveva portato il Flauto cinese recentemente tradotto (da Hans Bethge). Quelle poesie a Mahler erano piaciute straordinariamente, e se le era messe da parte per un giorno a venire. Ora – dopo la morte della bambina, dopo la spaventosa diagnosi del medico, in quella paurosa atmosfera di solitudine, lontani da casa, lontani dal posto dov’era solito lavorare (e da cui eravamo fuggiti), ora ritornò a quelle poesie immediatamente tristi, e già a Schluderbach abbozzò, in lunghe passeggiate solitarie, i Lieder per orchestra che dovevano diventare un anno dopo Das Lied von der Erde». Al termine dell’estate ci fu l’invito al Metropolitan e il congedo dall’Opera di Vienna: in partenza per l’America Mahler fu salutato con grandi manifestazioni d’affetto dai fedelissimi, Schönberg e Zemlinsky in testa. Tornò dall’America in primavera, per passare l’estate a Toblach (oggi Dobbiaco): qui, nello chalet in mezzo al bosco, Mahler portò a termine il Canto della terra e iniziò la composizione della Nona (altre due estati a Dobbiaco avrebbero portato, rispettivamente, il completamento della Nona e quel che ci resta della Decima). Gli ultimi tocchi del Lied von der Erde verranno dati nell’autunno del 1909 a Goding, in Moravia.
In questo quadro può perfino trovare cittadinanza la faccenda – probabilmente, del resto, un po’ esagerata dal racconto di Alma Mahler – della beffa al destino giocata con i numeri delle Sinfonie. Della quale comunque dobbiamo tenere in qualche conto quando passiamo a occuparci del Lied von der Erde in merito ai suoi significati formali. Perché ci costringe a considerare il lavoro attribuendolo a un’intenzione formale in parte diversa da quella propria a un puro e semplice ciclo di Lieder. Qui a tenere insieme in un’unica struttura i sei numeri dell’opera non c’è soltanto l’affinità dei testi, ma anche una continuità notevole nel materiale musicale. Da un lato, certo, risulta arduo classificare il Lied von der Erde fra le Sinfonie di Mahler: non solo perché in esso non c’è un chiaro prevalere dell’intenzione sinfonica su quella vocale (prevalenza che sussiste perfino in un lavoro come l’Ottava; che è interamente cantata da cima a fondo, ma dove le pur enormi masse vocali sono integrate nella grandiosa costruzione sonora a pieno titolo, quasi formazioni strumentali esse stesse); ma anche perché il suo itinerario formale – tranne forse per la fisionomia e il ruolo che viene ad assumere l’ultimo pezzo, Der Abschied – resta tutto sommato quello di una serie di Lieder staccati e non si pone come svolgimento concatenato di parti organicamente confluenti nell’unità sinfonica.

René Kollo

E in questo senso dev’essersi mosso Mahler al principio del lavoro, nella fatale estate del 1907, quando tornò a prendere in mano le poesie del Flauto cinese. Dall’altro lato però Alma ci racconta che nell’estate successiva Mahler lavorò «febbrilmente» ai Lieder «cinesi»: «Collegava i singoli testi, componeva degli intermezzi e le forme, aumentando di volume, tendevano sempre più a ricomporsi nella forma a lui congeniale: la Sinfonia. Quando si rese conto chiaramente che si trattava di nuovo di una specie di Sinfonia, il lavoro trovò ben presto la sua forma definitiva e fu compiuto prima di quanto non avesse pensato. Ma non si fidava di intitolarla Sinfonia, per la superstizione cui ho già accennato; e così credeva di averla fatta in barba a Nostro Signore».

Veicolo principe della così conseguita unità formale dei sei Lieder è l’impiego in tutti essi, in varie forme, di una serie di tre suoni, la – sol – mi: cellula tematica colta direttamente al cuore della scala pentafonica «anemitonale», cioè priva di semitoni, do – re – mi – sol – la. Da un lato, l’impiego della piccola serie, più o meno elaborata o riconoscibile, garantisce ai sei pezzi comunanza di parte del materiale tematico; dall’altro, la scala dalla quale essa serie è tratta è cifra stilistica precisa, essendo questa stessa scala pentafonica il più immediato punto di riferimento che abbia a sua disposizione la musica occidentale quando ci voglia portare in Cina e dintorni, a qualsiasi piano di dignità artistica si debbano mantenere l’allusione e la caratterizzazione. E questo ci porta direttamente al problema della collocazione stilistica del Lied von der Erde, che in qualche misura indubbiamente chiama in causa un atteggiamento che giusto in quel torno di tempo pervase, sotto forme variabilissime, un po’ tutta la civiltà europea, coinvolgendo l’alta cultura non meno del costume, e fu da noi il Liberty, in Germania lo Jugendstil, in Francia l’Art Nouveau, a Vienna la Secessione e cosi via.

Fenomeno di portata vastissima, e soprattutto di esiti assai diversi, per segno e per qualità; ma in genere contraddistinto da un’attenzione inedita, e con inedita intensità poi applicata, per le formule stilistiche dell’Estremo oriente. È giusto in questo clima che si diffondono in Europa, oltre ai prodotti delle arti figurative, anche i tesori dell’antica poesia cinese: con le scelte e le traduzioni dei maggiori autori, specialmente del periodo T’ang, e la rapida popolarità cui assurgono Li T’ai-po o Wang Wei. Una di queste raccolte è appunto Il flauto cinese di cui ci narra Alma, e dal quale Mahler trasse nel 1907 i testi del suo Lied von der Erde.

Checché si debba pensare del lavoro di Bethge («testi concepiti con mentalità artigianal-commerciale e che non avrebbero mai pensato di divenire immortali», secondo il giudizio sprezzante di Adorno), è indubbio che attraverso di esso Mahler seppe risalire, ovviamente, all’elevato valore artistico degli originali, e coglierne quanto potesse essergli congeniale; al tempo stesso, deve aver giocato un suo ruolo sulla scelta di Mahler anche proprio la cifra dell’esotismo, che nel Lied von der Erde è, sì, contenuta e controllata, ma mai negata o sfuggita.

Sir Georg Solti

Esotismo ben diverso da quello facile allora tanto in voga: intanto per la drastica stilizzazione che esso subisce sotto le mani di Mahler, e ancor più per il suo significato riposto, che è quello di una sorta di straniamento, di presa di distanza dalla materia, onde il compositore sembra servirsi per dare risonanza cosmica alla riflessione autobiografica suggerita nel testo.
Non più di tanto, né per la musica né per l’assunto poetico, Mahler sembra aver concesso all’orientalismo e al Liberty. Del resto, fin dal lavoro di preparazione dei testi appare chiaro che il musicista si è mosso nel senso di una decisa appropriazione e assimilazione. Sette le poesie prescelte, quattro gli autori, tutti dell’epoca T’ang (VII – X sec): Il canto conviviale sull’affanno di questa terra (Li T’ai-po), Il solitario in autunno (Chang Chi), Della giovinezza (Li T’ai-po), Della bellezza (Li T’ai-po), L’ubriaco in primavera (Li T’ai-po), In attesa dell’amico (Meng Hao-jan) e Il congedo dell’amico (Wang Wei). Nel caso di queste due ultime Mahler spinse straordinariamente in là il suo intervento sui testi dell’antologia di Bethge; non limitandosi a qualche ritocco, come nel caso di Della bellezza, quarto numero della partitura, ma addirittura fondendole in una, sotto il titolo Der Abschied, L’addio, dopo averle considerevolmente rielaborate ambedue ampliandole con l’aggiunta di versi propri (alcuni, addirittura, corrispondono quasi alla lettera a un tentativo poetico della gioventù, una poesia scritta a Kassel nel 1884); tanto che Der Abschied risulta per il testo opera di tre autori diversi. O meglio di uno solo, e cioè Mahler stesso, che così seppe piegare i testi scelti fino a renderli in tutto coerenti con il suo assunto poetico: che si riverbera su tutto il Lied von der Erde dagli ultimi versi di Der Abschied, quasi interamente di mano del musicista. Un’azione, questa, che anche se non ci si preoccupi troppo della questione se il Canto della terra sia o meno una Sinfonia, comunque spinge a considerarlo come lavoro di ambizioni diverse da quelle di un ciclo liederistico propriamente detto. Idea che la stessa scrittura dell’opera tende a confermare, giacché al cospicuo spiegamento di mezzi orchestrali previsto dalla partitura – con quattro tra flauti e ottavini, tre oboi (uno anche corno inglese), tre clarinetti, clarinetto piccolo, clarinetto basso, tre fagotti (uno anche controfagotto), quattro corni, tre trombe, tre tromboni, tuba, due arpe, timpani, celesta, mandolino, Glockenspiel, triangolo, piatti, tamtam, tamburello, grancassa e archi – corrisponde un trattamento delle due voci soliste tale da drammatizzarne profondamente il ruolo, e talora a renderne senz’altro ardua la partecipazione, e dunque difficilmente riconducibile a una dimensione liederistìca nel senso storico del termine, neanche nei termini dilatati e straniati del Lied con orchestra del Mahler degli anni immediatamente precedenti, quello dei Kindertotenlieder e dei Rückert-Lieder.

Lungo il succedersi dei sei Lieder tenore e contralto si alternano con regolarità: primo, terzo e quinto Lied all’uno, secondo, quarto e sesto all’altro. Distribuzione che appare paritetica anche dal punto di vista dell’importanza di quanto all’una o all’altra voce è affidato, giacché se è al contralto che spetta l’ultima, altissima parola con Der Abschied, chiuso dalle ripetizioni, quasi fuori dal tempo, dell’«Ewig… ewig…»; (sempre, sempre) che, come abbiamo veduto, è parto poetico di Mahler stesso, è vero anche che il tenore, con l’avvio lacerante del Trìnklied vom Jammer der Erde si vede affidato il compito di affermare il senso poetico dell’intero lavoro.

Chicago Symphony Orchestra

Che del resto proprio da questo Lied doveva, in una precedente versione mutuare il titolo: Das Lied vom Jammer der Erde, il canto dei mali della terra – qui come altrove, per la traduzione di titoli e testi, ripetiamo quella che Ugo Duse pone in appendice al suo Gustav Mahler —; prima ancora Mahler aveva pensato invece di chiamarlo Il flauto di giada, riallacciandosi così al titolo della raccolta di Hans Bethge. È stato detto che il Trìnklied «è quasi una gara» fra il tenore e l’orchestra: di fatto, tra angoscia e delirio, il clima di questo primo numero si fa sempre più teso, parallelamente al salire di un semitono della linea melodica a ognuna delle ricomparse del ritornello «Dunkel ist das Leben, ist der Tod», «Oscura è la vita, oscura è la morte». Ciò che nel Trìnklied era convulsa ansia del divenire, si fa statica contemplazione in Der Einsame im Herbst, proponendo così una certa suddivisione di ruoli fra tenore e contralto.

Concorrono a disegnare l’atmosfera del Lied una concezione orchestrale fra le più belle di Mahler, fin dall’introduzione (quasi una memoria della cella di Pimen nel Boris mussorgskiano?) con le lìnee dell’oboe contro il ghirigoro dei violini con sordina; e poi nel tessuto morbido e sfumatissimo di legni e archi con la sola aggiunta dei corni che avvolge, velandolo, il canto rarefatto e tristemente incantato del contralto. Ritorno al tenore con Von der Jugend, e nuovo cambiamento di atmosfera; qui si registra probabilmente, nel testo come nella musica, il momento di maggiore compromissione con la cineseria: stilizzatissima, del resto, e delicata, fragile e preziosa come il padiglione di porcellana di cui parla Li T’ai-po. Mentre il contralto con Von der Schönheit ristabilisce, pur se l’esordio orchestrale tende in qualche modo a proseguire le immagini di Von der Jugend, una dimensione calma, naturalistica come in Der Einsame im Herbst, ma più lieta (complice anche il testo).

Proponendo un libero schema tripartito, conformemente ai suggerimenti del testo questo Lied presenta una parte centrale assai più animata, introducendo nell’opera anche una dimensione narrativa, destinata ad avere una parte di capitale rilievo nella chiusa di Der Abschied, ma in atmosfere radicalmente antitetiche. Il quinto Lied è l’ultimo che chiami in causa il tenore: il quale si congeda bravamente in un altro canto bacchico, dove Mahler spinge la sua capacità di deformazione fino a disegnare un’irruzione del vissuto nell’opera d’arte che nel Lied von der Erde tiene un po’ il posto che canti popolari e marce militaresche occupano in tante sue produzioni sinfoniche.
A concludere il ciclo, il lunghissimo congedo, Der Abschied: il luogo, come abbiamo veduto, dove maggiormente anche nella parola Mahler è presente in prima persona. Il più lungo, il più impegnativo formalmente, il più importante, anche perché si pone, musicalmente e concettualmente, come ricapitolazione e dissoluzione di tutti i Lieder precedenti. La musica e la parola si avviano, lentissime e inesorabili, a scomparire nel nulla. Annullamento che riguarda il tempo non meno della materia: questa a poco a poco sperdendosi su un accordo per sua natura fra i meno dinamici ma anche fra i meno affermativi che la tradizione occidentale conosca, una settima di seconda specie (che è anche «riassunto parziale» della scala pentafonica: la – do – mi – sol); quello dilagando e sospendendosi insieme con la parola: «ewig… ewig…».