Mahler Gustav

Sinfonia n. 6 in la minore “Tragica”

Questa interpretazione ci regala un’esperienza davvero intensa e faticosa, e questo è ciò che una sinfonia ben interpretata dovrebbe trasmettere. L’approccio di Karajan è ritmicamente preciso e infallibile, La qualità dell’incisione è eccellente, quanto quella fornita dalla DG per la registrazione della Nona di Karajan del 1979. Offre pienezza nei dettagli, presenza e una qualità tangibile che vi farà sembrare che l’esibizione venga eseguita nella vostra stessa stanza.
Alcuni hanno descritto questa interpretazione come troppo ammaliante, troppo omogenea, ma non mi trovano d’accordo. Sì, sicuramente c’è precisione, affinamento, una sorta di coesione e delicatezza che potrebbero essere considerati ammalianti, ma alle mie orecchie si tratta di una delle più piacevoli esibizioni esistenti di questa sinfonia e fornisce un’esperienza d’ascolto tremendamente drammatica e coinvolgente, Karajan ci regala anche l’Adagio più mistico e sereno superando perfino Bernstein, il che rende questa registrazione speciale. Inoltre gli ottoni dei Berliner Philharmoniker nel finale sono un qualcosa che merita davvero di essere ascoltato per ricchezza, chiarezza e potenza, creando dei climax intensi e drammatici. Altamente raccomandato.

Registrazione eseguita nel 1978 e rimasterizzazione effettuata nel 1998.

Mahler e Karajan: un rapporto complesso e privilegiato

Nell’immenso repertorio di Herbert von Karajan è oltremodo interessante andare alla ricerca di quelle composizioni con le quali – per motivi più disparati – evitò di confrontarsi nel corso di tutta la sua attività.
Volendo usare termini meno perentori, si potrebbe anche parlare di composizioni che in questa o quella fase della sua carriera forse non si accordavano con il programma artistico del momento o che per un futuro immediato valevano solo come eventuali, vaghe intenzioni. La situazione è particolarmente interessante nel caso delle sinfonie di Gustav Mahler; infatti nel repertorio concertistico e nella discografia di Karajan, che fatta eccezione per alcuni titoli coincidevano, non rientravano le Sinfonie con coro e cioè la n. 2 (“Resurrezione”), la n. 3 e la n. 8 (“Sinfonia dei Mille”).
Ma anche le Sinfonie n. 1 (“Il titano”) e n. 7 (“Il canto della notte”) si cercheranno invano nei programmi concertistici e nella discografia di Karajan. Vi comparivano invece la Sinfonia n. 4 (con soprano solista), la n. 5 e la n. 9, e appunto la Sesta, una sinfonia monumentale che conosce la sensibilità più delicata come l’esplosione più veemente, e che lo stesso Gustav Mahler definì “Tragica”.
È inutile ora ripensare e sottilizzare su queste scelte di Karajan, ma ciò fa supporre che il direttore avesse un rapporto ambivalente con la musica di Mahler: se da una parte se ne sentiva grandemente attratto, dall’altra nutriva un certo scetticismo – uno scetticismo affettuoso, critico, esitante.
Herbert von Karajan registrò la Sesta Sinfonia in la minore di Gustav Mahler nel 1978, e quando essa fu pubblicata – in un box di due dischi – ebbe un’accoglienza entusiastica e un sorprendente impatto a livello pubblicitario. Il motivo era da ricercarsi nel fatto che Karajan, insieme ai Berliner Philharmoniker, era riuscito a rilevare le durezze radicali e le impietose fratture della composizione senza indulgere ad alcun alleggerimento estetizzante.
E tuttavia la sua interpretazione tradiva sempre quella patina, quell’atmosfera autunnale propria di un’epoca al tramonto, segnata da un dolce brivido e una raffinata nobiltà, che ormai da tempo erano divenute peculiari della concezione e della sensibilità di Karajan, e soprattutto della sua psicologia timbrica.
La “Tragica” di Gustav Mahler era offerta dunque nella sua integrale cifra espressiva, ma per la sua veste sonora s’imponeva anche come splendido esempio di virtuosismo strumentale e raffinatezza timbrica, che anche nei gesti più crudi sapeva attenersi alle regole artistiche della calibratura sonora.
Se si ascolta oggi e a una certa distanza di tempo, riversata in CD, questa registrazione di Karajan della Sesta si potrà credere a stento che la sua registrazione si compisse in quattro fasi di lavoro in un arco di oltre tre anni, dal 20 gennaio 1975 al 9 marzo 1977.

Kerbert von Karajan

Eppure, nonostante le ripetute cesure che costellarono questa produzione, tutto sembra procedere come di getto.
Ciò significa che Karajan ed i suoi Berliner Philharmoniker, e naturalmente i tecnici della Deutsche Grammophon, seppero quasi misteriosamente creare una continuità interpretativa e musicale tra l’ultima nota della seduta di registrazione del 20 febbraio 1975 (ore 13:00) e la prima nota del pomeriggio del 18 febbraio 1977 (ore 16:00) – la pausa più lunga nella storia di questa incisione.
Per creare tale coesione di sonorità, nel dettaglio come nella sua globalità, e una pregnanza drammaturgica così convincente non era solo necessaria una grande esperienza tecnica, ma anche una forza di immaginazione e suggestione che sfocia nel mistico.
Nelle diverse peripezie di questa sinfonia ciò diveniva quasi un miracolo di moderna produzione musicale, dal momento che la composizione è già per sé un testamento di sensibilità e un pensiero di assillante instabilità.
A tale proposito, nella nota di presentazione pubblicata nella prima esecuzione discografica, Hanspeter Krellmann aveva rilevato: “Mentre la musica di Bruckner si mostra sempre sicura di sé stessa, quella di Mahler cerca di raggiungere tale sicurezza. Nella sua Sesta Sinfonia l’intenzione di fondo rimane sempre manifestamente chiara, dal grave incedere dell’esordio (dove sembrano preannunciate le pesanti movenze della “Sagra” stravinskiana) alla conclusione dispersiva del quarto movimento: quella di descrivere, non in senso programmatico ma quasi psicoanalitico, la tragicità della sua vita d’artista, di presentarne non una riproduzione ma una visione ideale – per parafrasare un’espressione di Paul Klee”.
Le registrazione con Christa Ludwig dei Cinque Lieder su liriche di Friedrich Ruckert dei Kindertotenliede si collocano in prossimità cronologica con la produzione della Sesta.
Le registrazioni si svolsero infatti nel maggio 1974 alla Philhamonie di Berlino. Che per questi dieci Lieder, tutti su testi di Ruckert e composti tra il 1901 e il 1904, Karajan decidesse di chiamare Christa Ludwig, berlinese di nascita, si può considerare una scelta più che naturale nel panorama musicale del Novecento.
Christa Ludwig aveva debuttato al Festival di Salisburgo nel 1955 nella parte della Seconda Damigella del Flauto Magico di Mozart e pochi giorni dopo in quella del Compositore in Arianna a Nasso di Strauss, tutte e due le volte sotto la direzione di Karl Bohm. Già agli inizi della sua carriera Christa Ludwig si era affermata come una delle più valide e sensibili interpreti di Mahler. E anche nei programmi operistici e concertistici di Karajan Christa Ludwig avrebbe avuto un ruolo di primissimo piano, fin negli anni Ottanta. Così quest’interpretazione dei Ruckert-Lieder non è soltanto il documento di una duplice empatia, ma anche di un vitale e duraturo sodalizio artistico.

Peter Cossè
(Traduzione: Gabriele Cervone)

Christa Ludwig

Quando fu registrata la Sesta sinfonia Mahleriana, Georg Solti era da poco divenuto direttore stabile della Chicago Symphony Orchestra. Quando era giovane, gli fu dato il soprannome “il teschio urlante”. Era famoso per la sua capacità di affrontare spartiti complicati e si cimentava sia nel teatro dell’opera che nel repertorio sinfonico. Georg Solti era un direttore d’orchestra che cercava sempre l’eccellenza (vedi il “Ring” wagneriano)
L’approccio di Solti alla Sinfonia n. 6 è drammatico e impulsivo. Per coloro che desiderano semplicemente ascoltare e vivere un’esperienza musicale travolgente ed emotiva, questo disco è per voi. Altamente raccomandato.
Registrazione eseguita nel 1970 e rimasterizzazione effettuata nel 1985.

Sinfonia n. 6 in la maggiore “Tragica

Accettando la proposta di suddividere la vita creativa di Gustav Mahler in periodi distinti, ognuno caratterizzato da un gruppo di opere con tratti comuni, la Sesta Sinfonia in la minore, composta nei mesi estivi del 1903 e del 1904, occupa il pannello centrale di un trittico per sola orchestra completato dalla Quinta e dalla Settima. In questa fase Mahler si allontana definitivamente dal
mondo bizzarro e variopinto del Wunderhorn per immergersi nei tortuosi inferni dell’anima dei tre colossi sinfonici. La coralità del romanzo epico dalle mille voci si focalizza in una dimensione più soggettiva, quasi autobiografica. Ciò vale soprattutto per la Sesta, delle tre sinfonie mediane certo quella maggiormente gravata da interferenze extramusicali, riferimenti personali, citazioni e autocitazioni, complesse simbologie sonore. In una lettera senza data a Richard Specht, il suo primo biografo, Mahler cosi presentava il nuovo lavoro: «La mia Sesta proporrà enigmi che potranno essere affrontati soltanto da una generazione la quale abbia assorbito e digerito le mie cinque sinfonie precedenti». Si riferiva probabilmente ai segnali simbolici disseminati lungo il percorso della Sinfonia, forse più in generale alla problematicità di un’opera che, pur costituendo senza dubbio uno dei cardini della poetica tragica mahleriana, non ha mancato di suscitare profonde avversioni e netti rifiuti perfino nella critica recente.

A complicare le cose dovevano aggiungersi le rivelazioni di Alma Mahler in base alle quali la Sesta potrebbe essere interpretata come una vera e propria Sinfonia a programma, non lontana dal carattere degli ultimi Poemi sinfonici di Strauss, la Sinfonìa Domestica e la Alpensinfonie. Alma insiste sul significato profetico e maleaugurante dell’ispirazione del lavoro, da Mahler stesso qualificato come Sinfonia Tragica, in questo senso associabile ai vicini Kindertotenlieder; un messaggio luttuoso sorprendente se riferito al periodo di composizione, forse il più sereno di tutta la vita del musicista. Vale la pena di rileggere il passo incriminato che tanto ha fatto discutere gli studiosi mahleriani e trarre spunti di condanna per la partitura. Scrive Alma: «Quell’estate fu bella, felice, senza conflitti. Alla fine delle vacanze Mahler mi suonò la Sesta sinfonia, ormai completa. Dovevo rendermi libera da tutti i lavori di casa, aver molto tempo a disposizione per lui. Salivamo di nuovo a braccetto nella sua casupola nel bosco, dove eravamo sicuri di non essere disturbati, in mezzo agli alberi. Tutto ciò si svolgeva sempre con grande solennità. Dopo aver abbozzato il primo tempo, Mahler era sceso dal bosco e aveva detto: “Ho tentato di fissare il tuo carattere in un tema – non so se mi è riuscito. Ma devi lasciarmi fare”. È il grande tema pieno di slancio del primo tempo della Sesta Sinfonia. Nel terzo tempo descrive i giochi senza ritmo delle bambine che corrono traballando nella rena. E spaventoso: le voci infantili diventano sempre piti tragiche, e alla fine non resta che una vocina lamentosa che va spegnendosi. Nell’ultimo tempo descrive se stesso e la sua fine o, come ha detto pili tardi, quella del suo eroe. “L’eroe che viene colpito tre volte dal destino, il terzo colpo lo abbatte, come un albero”. Queste sono parole di Mahler. Nessun’opera gli è sgorgata tanto direttamente dal cuore come questa. Piangevamo quella volta, tutti e due, tanto profondamente ci toccava questa musica e quel che annunciava con i suoi presentimenti. La Sesta è un’opera di carattere strettamente personale e per di piti profetico. Tanto con i Kindertotenlieder che con la Sesta Mahler ha messo in musica ‘anticipando’ la sua vita. Anch’egli fu colpito tre volte dal destino e il terzo colpo lo abbatté. Ma quell’estate era allegro, cosciente della grandezza della sua opera e i suoi virgulti erano verdi e fiorenti».

Richard Specht

Da una descrizione del genere era facile ricavare appigli per denigrare la Sesta come un passo indietro verso l’individualismo romantico del Poema sinfonico e l’esibizione impudica, plateale di atteggiamenti autocommiserativi. Appigli che la maggioranza degli studiosi non si è lasciata sfuggire. D’altra parte la partitura della Sesta è sicuramente una delle più elaborate e linguisticamente avanzate di tutta l’opera sinfonica mahleriana. Ecco allora la predilezione manifestata da Schönberg e soprattutto da Alban Berg che in una lettera a Webern la definì «l’unica Sesta, malgrado la Pastorale» e nel terzo dei suoi Orchesterstücke sottolineò il passo di maggiore tensione con tre colpi di martello alla maniera del Finale della Sesta. Comunque Mahler rinunciò alla stesura di un vero e proprio programma letterario, ricostruibile solo attraverso i Ricordi di Alma e i riferimenti simbolici collegati prevalentemente alla timbrica di alcuni strumenti. Su questo aspetto si è soffermato in particolare Hans Ferdinand Redlich nella premessa alla partitura relazionando il richiamo dei campanacci al «senso dell’allontanamento dalla terra», le campane tubolari ai «simboli dei dogmi ecclesiastici», lo xilofono e le nacchere a un ghigno diabolico, il famoso martello del Finale ai «colpi di scure del destino», ecc. È innegabile insomma la teatralità di uno scenario sonoro minuzioso che fa della Sesta la Sinfonia più estroversa e spettacolare di Mahler e che spesso rivela esplicitamente una componente di forte gestualità, come nel caso del misterioso martello. Per la prima esecuzione, tenuta il 27 maggio del 1906 a Essen, Mahler fece addirittura costruire un’enorme cassa a membrana che peraltro risultò inudibile sul fortissimo del resto dell’orchestra. Questa componente gestuale e spettacolare, che segna probabilmente il punto più vicino fra i mondi opposti di Mahler e di Strauss, basata sulla tridimensionalità timbrica di un organico smisurato, superiore a quelli pur imponenti della Quinta e della Settima, fu stranamente criticata dal musicista bavarese. Gli sfuggi forse proprio la funzionalità visiva di quello spiegamento di forze e giudicò la partitura überìnstrumentìert, sovrastrumentata. In effetti proprio l’aspetto timbrico, talvolta prevaricante rispetto alla stessa elaborazione tematica del processo formale, costituisce uno degli elementi di maggiore originalità e interesse di questa partitura fascinosamente ipertrofica.
Mahler stese tre versioni della Sesta. La prima, quella eseguita a Essen nel 1906, prevedeva lo Scherzo al secondo posto e l’Andante al terzo, mentre nella successiva, risultato di una revisione condotta dall’autore nel giugno dello stesso anno, l’ordine dei due movimenti centrali fu invertito, forse cercando di ottenere un maggiore effetto di contrasto. Curiosamente scomparve dalla seconda edizione anche il terzo colpo di martello lasciando simbolicamente aperta la conclusione della Sinfonia. Nella versione definitiva i colpi di martello rimasero due, fortissimo il primo e piano il secondo, mentre fu ristabilita la successione originaria dello Scherzo e dell’Andante. La stretta parentela fra i primi due movimenti, entrambi in la minore e basati su un ritmo di marcia, richiama l’analogo procedimento adottato nella Quinta, dove il secondo tempo sviluppa diversamente il materiale del primo e quindi appare come la sua logica prosecuzione.
Giusto quindi il ritorno alla disposizione originaria nella versione definitiva e sbagliati gli appunti di quanti avevano suggerito la modifica in un primo tempo accettata da Mahler. La struttura della Sesta, quale che sia la collocazione dello Scherzo, è la più classica e tradizionale dell’intera opera sinfonica mahleriana. Ma al di là del rispetto esteriore della convenzione sinfonica, anche nella Sesta è possibile rilevare la tendenza tipica del sinfonismo mahleriano al raggruppamento dei tempi in unità formali superiori, in questo caso i primi tre movimenti da un lato e l’imponente Finale dall’altro, sintesi e ricapitolazione dell’itinerario precedentemente percorso. Notando invece la fitta rete di relazioni tematiche che cementa l’unità della Sinfonia, addirittura interpretabile come una vasta struttura ciclica, la profonda coesione tonale ruotante intorno al centro di la minore, la costante del ritmo base di marcia, verrebbe fatto di considerarla come un tutto indivisibile, fondato su progressive variazioni, a livelli formali diversi, del materiale presentato nell’esposizione del primo movimento. Unica eccezione l’Andante, dove i legami con la ciclicità tematica degli altri tempi sono provvisoriamente sospesi. Resta solo il lontano ricordo del timbro dei campanacci a rievocare l’atmosfera bucolica della seconda sezione espositiva dell’Allegro energico, quella contraddistinta dal celebre «tema di Alma», mentre scompare del tutto il ritmo di marcia. Anche dal punto di vista armonico l’Andante segna una parentesi divergente rispetto al resto della Sinfonia con il suo luminoso mi bemolle maggiore. Per collegarlo al seguito sarà necessaria l’ampia introduzione del Finale che infatti attacca nella tonalità relativa di do minore prima di volgere rapidamente in la. In questa prospettiva il terzo movimento si configura come un intermezzo lirico isolato dal vivo del discorso e richiama la funzione assolta dall’Adagietto della Quinta, anche per il passaggio al Finale mediato da una introduzione.
Sulla funzione assunta dal ritmo di marcia nella simbologia mahleriana non possono sussistere dubbi. Basterà richiamarsi al moto marziale di molti dei Wunderhomlieder per cogliervi l’emblema musicale della ripetitività automatica e allucinata dell’esistenza, l’ideogramma sonoro dello scorrere angoscioso del tempo. Tutte e tre le Sinfonie mediane di Mahler iniziano con un ritmo di marcia. Questa della Sesta (Allegro energico, ma non troppo. Heftig, abermarkig) si differenzia vistosamente dal Trauermarsch della Quinta e dall’attacco luttuoso della Settima per una maggiore decisione. A qualcuno ha fatto venire in mente Schubert, ad altri Weber, ad altri ancora l’ingresso di Pizarro nel primo atto del Fidelio. Certo non si tratta di un avvio preparatorio di scarsa importanza.

Alma Mahler

Il carattere particolare della Sesta è già tutto presente nella prima pagina della partitura, una fortissima tensione in avanti, uno slancio implacabile accompagnato dal senso ugualmente evidente della progressiva ascesa. Al termine dell’esposizione del primo tema, Mahler presenta una significativa trasformazione di questo ritmo di marcia nei timpani sovrapponendola a un’altra figura simbolica che assumerà grande rilievo nel corso dell’intera Sinfonia: l’enunciazione da parte di tre trombe della triade di la maggiore convertita improvvisamente in triade di la minore su un immediato decrescendo dinamico, dal fortissimo al pianissimo. È il segnale tragico e misterioso che chiuderà la Sesta, forse la cellula generatrice di tutto il lavoro da Redlich interpretata come «motivo del destino». La seconda sezione tematica immette in un clima completamente diverso, a cominciare dalla nuova tonalità di fa maggiore. Alla violenza percussiva del tema di inizio si contrappone la cantabilità spaziosa e impulsiva dell’Alma-Thema, un’escursione melodica così ampia e appassionata da lasciare il sospetto di un pizzico di volgarità teatrale: strano che Alma andasse fiera di un simile ritratto musicale.

Era dal tempo del Titano che Mahler non usava il ritornello per ripetere la sezione espositiva del primo movimento di una Sinfonia, cosa peraltro che dopo la Sesta non si verificherà più. Il ricorso a questo procedimento dello stile classico può essere giustificato con la straordinaria densità tematica dell’inizio della Sesta che starà alla base di tutte le trasformazioni presenti negli altri movimenti e che per questo Mahler intende fissare con precisione nella memoria dell’ascoltatore. Al centro dell’imponente forma-Sonata di questo Allegro energico sta una sezione di sviluppo estesa per centosessanta battute, trenta in più rispetto all’esposizione. Qui tutti i temi presentati linearmente vengono sottoposti a un processo elaborativo che li sovrappone e li deforma. Si distinguono chiaramente due momenti contrapposti come le visioni simboliche di paesaggi lontani. La prima è un paesaggio infernale, ricavato dalla distorsione del tema di marcia dell’inizio, qui contraffatto in una voluta trivialità che suona quasi come sberleffo allo slancio eroico della sua precedente enunciazione. Il secondo è invece un paesaggio alpino dipinto con tratti descrittivi minuziosi che coinvolgono i campanacci, la celesta e l’inevitabile richiamo dei corni. In tutta questa sezione dominano gli elementi del secondo tema, il «tema di Alma», trasfigurato in una inversione melodica che lo rende ascendente. La brusca irruzione di un nuovo vortice infernale conduce rapidamente alla ripresa con il ritorno in maggiore del tema di marcia. Interessantissimo il ritorno della seconda sezione tematica con varianti che tengono conto delle trasformazioni timbriche incontrate durante lo sviluppo. Sarà proprio il «tema di Alma» a chiudere bruscamente il movimento con una repentina caduta verso il basso dopo aver toccato un massimo di intensità delirante.

Già si è detto della strana somiglianza fra il soggetto principale dell’Allegro energico e quello che apre lo Scherzo, ugualmente in la minore. Le affinità aumentano se consideriamo che il rapporto tonale (la minore – fa maggiore) del primo movimento viene riprodotto nel secondo fra le sezioni dello Scherzo e del Trio. Come già era avvenuto nello sviluppo del tempo precedente, anche ora il tema dello Scherzo suona come una variante deformata della solita marcia. La deformazione non tarda ad assumere l’immagine di un ritratto demoniaco, reso ancor piti pauroso e grottesco dall’anomalia ritmica della accentazione del terzo ottavo. Come un mostro claudicante, quasi apparizione hoffmanniana, lo Scherzo trasforma la linearità della marcia in una danza spettrale. La doppia sezione del Trio, con la curiosa indicazione Altväterìsch, traducibile ‘vecchio stile’, non è meno raccapricciante. Il suo presunto arcaismo si risolve in ironia macabra, quasi evocasse il fantasma di un antico minuetto sgangherato. L’intero movimento trova poi una definizione timbrica adeguatissima al contenuto con gli interventi dello xilofono, del glockenspiel, dei piatti e le uscite sarcastiche del primo violino. La Coda funge da ricapitolazione e disintegrazione del materiale precedente lasciando affiorare un’allusione fuggevole al «tema del destino», secondo la solita definizione di Redlich.

Se lo Scherzo poteva essere riferito alla prima sezione demoniaca dello sviluppo dell’Allegro energico, l’Andante riprende la quiete alpestre della seconda. Molti studiosi lo relazionano anche al carattere dei vicini Kindertotenlieder, esplicitamente citati d’altra parte alla nona battuta. La cifra distintiva di questa bellissima pagina deve però essere colta nella sua immagine timbrica, oltre che nel fascino del lungo, sinuoso tema principale. Nella quiete malinconica e spossata di questo Andante, cosi diverso dalle effusioni liberatorie degli altri tempi lenti mahleriani, c’è un’aura misteriosa e indeterminata che oscura la visione pastorale, anche nella sezione mediana dove ritorna l’appello lontano dei campanacci alpini. La linearità dei motivi e il prezioso intarsio strumentale possono inoltre suggerire un parallelo con certe incantate distese raveliane, e specialmente con la Pavane, rievocata dal suggestivo intervento del corno sul moto cullante dell’arpa. Come si è detto è una parentesi isolata, il miraggio di una serenità impossibile, subito dissolto dall’attacco del Finale.

L’ultimo tempo della Sesta è una delle costruzioni sinfoniche pili imponenti e impenetrabili di Mahler, un’avventura sonora che in circa ottocento battute di partitura si protrae per oltre mezz’ora di ascolto. Hans Ferdinand Redlich, che lo ha analizzato minuziosamente, vi ravvisa la preminenza di una struttura sonatistica basata su due sezioni contrapposte, ugualmente determinanti per la logica formale del movimento: una vasta introduzione (Sostenuto) e tre successivi gruppi tematici principali.

Yvonne Minton

A questa parte espositiva seguiranno due sezioni ricapitolative separate dallo sviluppo con i due primi colpi di martello. Infine, con l’ennesimo ritorno del tema dell’introduzione attacca la coda, che nella versione originale prevedeva l’ultimo Hammerschlag successivamente soppresso, conclusa dal terribile diminuendo della figura ritmica dei timpani associata al peso ineluttabile del Fato. In altri termini l’intero Finale potrà essere interpretato come un Rondò,
ricapitolativo di tutta la Sinfonia, composto da ritorni e varianti delle solite figure principali. Il fitto groviglio di citazioni e autocitazioni, dall’Incompiuta di Schubert al Fidelio, dal Klagendes Lied al Titano ha suggerito a Quirino Principe l’immagine pure suggestiva di un’ambiziosa via crucis mahleriana dove la tradizione musicale europea, intesa come collettiva dichiarazione di angosce e di sconfitte, si identifica con Mahler stesso. In questo labirinto di immagini deformate, di slanci eroici e di tetri abbattimenti, le sorprese sonore continue non concedono tregua all’ascoltatore. Basterà ricordare la mirabile definizione timbrica dell’attacco del movimento, una delle evocazioni più sconvolgenti e profetiche di Mahler, dove l’inarcarsi coraggioso dei primi violini sugli arpeggi della celesta e delle arpe, accompagnato dal tremolo degli archi con sordina, sembra davvero concentrare in poche battute un immane sforzo ascensionale dalle tenebre alla luce.
Sul Finale della Sesta ha scritto Bruno Walter: «La tensione crescente e i culmini dell’ultimo movimento somigliano, nella loro potenza sinistra, alle onde colossali di un mare che travolgerà e distruggerà l’imbarcazione; l’opera si chiude nella disperazione e nella buia notte dell’animo. Non placet è il suo verdetto su questo mondo; all”‘altro mondo” non si guarda, neppure di sfuggita, per un solo istante». Alla tragica epigrafe che sigilla la partitura può essere aggiunta la considerazione che la Sesta è l’unica Sinfonia di Mahler conclusa nel modo minore. Ma la tragicità dell’opera, sottolineata nello stesso titolo suggerito da Mahler, va cercata altrove, nel diffuso stato di malessere e nei molteplici segni di inquietudine che affiorano dal conflitto di suggestioni contrastanti: l’impianto classico e l’evidente serpeggiare di un ‘programma’ interiore, il gioco tortuoso di simboli e i nitidi fondali naturalistici, l’accorato romanticismo soggettivo e la volontà di rappresentare con distacco epico l’universalità del dramma. Nella irrisolutezza di tanti elementi contrastanti, accostati e sovrapposti nel segno di una scoperta teatralità, risiedono il fascino particolare della Sesta e il suo significato autenticamente tragico.

Lieder eines fahrenden Gesellen (Canti di un viandante)

Emerge chiaramente dalla corrispondenza di Gustav Mahler che i Lieder eines fahrenden Gesellen (Canti di un viandante) furono concepiti in conseguenza di una dolorosa vicenda privata, l’amore infelice verso la cantante Johanna Richter, primadonna all’Opera di Kassel, teatro presso il quale Mahler prestò servizio dal 1883 al 1885, conquistando le prime alte affermazioni della sua carriera direttoriale. Il 1° gennaio 1885 il compositore poteva scrivere all’amico Fritz Löhr: «Le mie tappe: ho scritto un ciclo di Lieder, sei per ora, tutti dedicati a lei. […] I Lieder nell’insieme sono concepiti come se un giovane segnato dal destino se ne andasse girando per il mondo, vagabondando qua e là».

House Johanna Richter

Qualcosa di simile insomma a una personalissima Winterreise o Die schöne Müllerin, i cicli di Schubert in cui il protagonista narrante vive e rievoca le tappe di un amore infelice. Quattro dei sei Lieder – nulla di preciso si sa sugli altri due, assorbiti nei recessi degli juvenilia – dovevano trovare una sistemazione nel ciclo dei Lieder eines fahrenden Gesellen, su testo dello stesso musicista, che costituisce di fatto il primo importante approdo di Mahler nel campo – del tutto peculiare e specifico del compositore – dei cicli liederistici con orchestra.

La maggior parte dei testi dei Lieder di Mahler proviene da Des Knaben Wunderhorn (Il corno magico del fanciullo), l’antologia di canti popolari raccolti e rielaborati da Achim von Armin e Clemens Brentano, pubblicata nel 1805 – 1808. Mahler scoprì il Wunderhorn nella biblioteca dell’amico Karl von Weber – nipote del compositore – nell’autunno del 1887, ma già doveva conoscere almeno alcuni dei testi di Arnim-Brentano, se, nel primo dei Lieder eines fahrenden Gesellen operò una sostanziale rielaborazione di due distinte strofe del Wunderhorn, dove si legge:

Des Abends, wenn ich schlafen geh’, so denk ich an das Lieben.
(La sera, andando a dormire, penso all’amore)

Mahler modificò invece l’ultimo verso in:
Denk ich an mein Leide! (penso al mio dolore!)

Precise e inequivocabili dunque le scelte del musicista venticinquenne. Da una parte troviamo – sulle tracce di quello che era l’esempio di Brahms – il ricorso alla poesia popolare, da intendersi però più che come richiamo alle radici della nazione tedesca – radici che il compositore sentiva come una soltanto delle componenti della sua identità – come predilezione di un linguaggio umile e non aulico; e appunto in questo linguaggio sono redatti i testi dei rimanenti Lieder del ciclo. Dall’altra parte invece «amore» diventa «dolore», e la parola cambiata è simbolo e quintessenza della poetica che Mahler seguirà negli anni a venire.

La stessa dicotomia si trova nel contenuto musicale dei Lieder. Da una parte le melodie appaiono pianamente cantabili, o giocondamente ingenue, dunque in sostanza “popolari”. Dall’altra questa linearità è contraddetta dai motivi di accompagnamento e dall’orchestrazione, che suonano alienati e quasi sinistri. Non manca un preciso percorso nell’allineamento dei quattro Lieder. Che si tratti di un vero e proprio “viaggio” emerge dal fatto che ogni Lied si conclude in una tonalità diversa da quella in cui è cominciato, dunque non si chiude, ma rimanda a quello successivo, in un continuo slittamento di contenuti. Ed il percorso è quello che contrappone al dolore dell’uomo la natura, che costituisce conforto, poi malinconia, tormento interiore e infine morte. Nel primo Lied, Wenn mein Schatz Hochzeit macht (Quando il mio amore andrà a nozze), sono il motivo circolare dei clarinetti e i timpani sussurrati i segni di pianto e lamento. Nel secondo Lied, Ging heut’ morgen übers Feld (Questa mattina andavo per i prati) l’intonazione spensierata dell’inizio si stempera progressivamente in lirismo nostalgico. Nel terzo Lied, Ich hab’ ein glühend Messer (Ho un coltello rovente), irrompe l’attitudine tragica del compositore. L’ultimo, Die zweì blauen Augen (I due occhi azzurri), è percorso da un ritmo di marcia funebre, trasfigurato in una dolce cantilena che avvicina questo congedo a quello, estremo, cantato, ventitre anni più tardi, nell’ultimo Lied di Das Lied von der Erde.
Concepiti nel 1885 in una versione per canto e pianoforte, i Lieder eines fahrenden Gesellen vennero orchestrati solamente nel 1893 – 1896, ma va osservato che la tardiva realizzazione dell’orchestrazione è già implicita nella prima stesura. Fra la versione pianistica e quella strumentale si colloca cronologicamente la genesi della Prima Sinfonia di Mahler. Il momento è di capitale importanza nella vicenda creativa del compositore: al primo ciclo liederistico succede il primo lavoro sinfonico, e non è certo un caso che fra i due esista un rapporto di filiazione, che riguarda non solamente il materiale tematico – la Sinfonia si avvale infatti di alcune delle melodie dei Lieder – ma anche di poetica, di concezione ideale, che ha al suo centro uomo e natura.