Mendelssohn Felix

Sinfonia n. 4 Italiana

Guido Cantelli è morto in incidente aereo nel 1956 a soli 36 anni. Era considerato l’erede di Arturo Toscanini. In quanto tale, i collezionisti lo indicano come il più grande conduttore del XX secolo e queste registrazioni EMI ci mostrano il motivo.
Il titolo “References” include tre delle più grandi esibizioni di Cantelli con la Philharmonia Orchestra, un’esibizione mono di Schuman del 1953 della Quarta Sinfonia, la Sinfonia “Italiana” di Mendelssohn e una esibizione stereo della Sinfonia “Incompiuta” di Schubert. Cantelli fece un sorprendente numero di registrazioni per la EMI nei primi anni Cinquanta, la maggior parte delle quali è stata ripubblicata su CD da parte della stessa EMI nella collana References. Alcune purtroppo sono ora fuori catalogo. I classici fan curiosi delle considerevoli abilità di Cantelli dovrebbero acquistare questo CD prima che abbia lo stesso epilogo. Registrazioni eseguite dal 1955 al 1956 e rimasterizzazione effettuata nel 2001. Imperdibile!

 

Sinfonia n. 4 in la maggiore “Italiana” op. 90

Il «romanticismo felice», come fu ben definito quello di Mendelssohn, trova una delle sue più perfette espressioni nella Sinfonia n. 4 in la maggiore op. 90, detta Italiana perché abbozzata durante il soggiorno dell’autore nel nostro paese, soggiorno che da Venezia a Napoli si protrasse dall’autunno 1831 all’estate 1832. A Roma sono soprattutto Piazza di Spagna (dove il compositore abitava), Trinità dei Monti, il Pincio, il Ponte Nomentano – allora immerso nel verde e nel silenzio della campagna romana – a suscitare nelle sue lettere le frasi di ammirazione più entusiastica. Ascoltando questa musica mendelssohniana non è luogo comune affermare ch’essa, soprattutto nei due movimenti estremi ci appare irradiata di luce mediterranea e animata da una esuberante gioia di vivere: «la musica più gaia che io abbia composto», ebbe a dire, del resto, lui stesso. Quella gioia che esplode nella «partenza» festosissima dell’Allegro vivace e che dominerà tutto il movimento; il cui secondo tema, infatti, lungi dal contrapporsi al primo come negli schemi classici, n’è il riverbero atto a intensificarne e a spanderne le luci.
L’Andante con moto è un momento di contemplazione. I colori sia del motivo delle viole all’unisono con oboi e fagotti sia del motivo del clarinetto, la delicatezza delle figurazioni contrappuntistiche che avvolgono quei motivi, il modo di terminare il pezzo in tenui frammenti, e, in particolare, la piega malinconica delle melodie, tutto sta a suggerire un paesaggio che va stemperandosi in luci occidue. Ma qui, in Italia, niente elfi e fate: un diversivo nel Minuetto (Con moto moderato), vaghi richiami agresti di corni e fagotti nel Trio, infine una danza, danza di uomini e donne in carne ed ossa (e come), quelli che Mendelssohn amava osservare nei quartieri popolari della capitale pontificia e che, allora, nel Saltarello sfogavano la loro esuberanza, cimentavano la loro destrezza tersicorea, esaltavano la loro prestanza fisica.
Questo del Mendelssohn è un omaggio musicale all’Italia che regge il confronto con le più famose opere letterarie e pittoriche che il nostro paese ha ricevuto in dedica nel corso dei se.

Franz Schubert: Sinfonia n 8 in si minore “Incompiuta” D. 759

Non ultimare la propria opera per cause diverse da quelle inevitabili e indilazionabili della morte (come è invece il caso dell’Arte della fuga di Bach, del Requiem d Mozart o della Nona Sinfonia di Bruckner), se da un lato alimenta la legittima curiosità dello studioso, dall’altro investe realtà misteriose e imperscrutabili, di fronte alle quali diventa difficile e sarebbe in ogni caso presuntuoso pretendere di dire una parola definitiva. Perchè Schubert lasciò incompiuta la Sinfonia in si minore? Perchè dopo i due primi movimenti, composti nell’ottobre 1822, dopo aver aggiunte due pagine orchestrate dello

“Scherzo” e lasciato altro materiale allo stato di abbozzo, il compositore si fermò, accantonò il lavoro e non lo riprese più, fino alla sua morte? Sono, queste, domande alle quali sono state date cento diverse risposte; ma una sola di esse si avvicina, pur senza coglierla, alla verità: la Sinfonia in se stessa era finita dopo i due primi movimenti, rimanendo formalmente incompiuti ma compositivamente, sostanzialmente compiuta così.

Franz Schubert

Ottava fatica in campo sinfonico, anteriore soltanto a quell’immenso e conclusivo vertice rappresentato dalla Sinfonia in do maggiore detta “La Grande” (marzo 1828), la Sinfonia in si minore è un punto di arrivo dove il salto rispetto alla produzione sinfonica precedente di Schubert si fa notevole, quasi abissale: non tanto pe lo stile, sempre individualmente riconoscibile (quando Hanslick la ascoltò per la prima volta – molti anni dopo la morte dell’autore – non esitò a sentenziare: “Schubert! È proprio Schubert!”), quanto per la qualità della scrittura, assai riccca e variata, per la flessibilità ed omogeneità del trattamento tematico, per il modo nuovo di concepire la tonalità, non più mero valore funzionale bensì colore armonico inquietante e discontinuo nei suoi nessi associativi; e infine per l’ampliamento della tavolozza orchestrale che Schubert, memore delle conquiste fatte nella musica da camera, maneggia ora con maestria insuperabile, mettendola al servizio di una concezione formale senza confronti ardita.
Apparentemente differenziati nella fisionomia, l'”Allegro moderato” in si minore e il successivo “Andante con moto” in mi maggiore rivelano in profondità strette relazioni, sia sotto l’aspetto ritmico sia dal punto di vista dell’elaborazione tematica: quasi fossero due volti, opposti ma complementari, di un’identica realtà. La consapevolezza compositiva di Schubert ha raggiunto un tale controllo sulla materia che le metamorfosi (ritmiche, melodiche e armoniche) si nutrono alla fonte dell’unità originaria, nello stesso istante in cui questa unità, sfaccettandosi in infinite sfumature, sembra perdere i propri connotati e addentrarsi in territori illimitati, mai prima esplorati. In questo viaggio verso orizzonti sconosciuti, Schubert ha un solo compagno di strada: Beethoven. E come sottrarsi allora all’interrogativo, retorico certo, che già si era avanzato, solo pochi mesi prima, a proposito della Sonata in do minore op. 111 di Beethoven, anch’essa in due soli tempi: sarebbe stato veramente possibile, dopo aver toccato simili vertiginose altezze, un terzo movimento? Schubert, come Beethoven, si fermò là dove nessuno poteva arrivare, un lontano punto illuminato che noi riusciamo appena a intravvedere e che, con la nostra debole vista, continuamo a chiamare “incompiuto”.

Robert Schumann: Sinfonia n. 4 in re minore op. 120

L’inizio di quella svolta compositiva che con la Prima Sinfonia avrebbe aperto la strada all’entusiasmo creativo dell'”anno sinfonico”, il 1841 (due Sinfonie compiute, una terza abbozzata, oltre alla “Sinfonietta” Ouverture, Scherzo e Finale e alla Fantasia per pianoforte e orchestra in La minore, che sarebbe più tardi diventata il primo movimento del Concerto per pianoforte), avviene in Schumann sotto un duplice impulso, nel segno di un allontanamento tanto dal modello dell’ultimo Beethoven quanto dalle “divine lunghezze” di Schubert. Da un lato vi è la volontà di perseguire una concezione unitaria del processo sinfonico per via essenzialmente monotematica, con un procedimento ciclico nel quale le trasformazioni di una figura fondamentale, quasi motto della composizione, si generano l’una dall’altra, senza contrapporsi; dall’altro lato

agisce il desiderio di sperimentare una sintassi poetico-musicale di segno simbolico, contemperando aneliti e slanci in una fioritura estemporanea di divagazioni fantastiche dal timbro accesamente romantico ma tendenti all’eloquenza della musica assoluta. La Prima Sinfonia è da questo punto di vista esemplare: il supporto programmatico previsto all’origine (una poesia “romantica” dedicata alla primavera) venne abbandonato allorché i riferimenti extramusicali si chiarirono in elementi compositivi: quel che rimase da ultimo fu la disposizione ciclica adombrata dal programma, affilata nella logica formale e materializzata nella traduzione sonora.
La genesi della Sinfonia in Re minore fu assai più problematica, tanto da abbracciare di fatto l’intero periplo dello Schumann sinfonista. Iniziata il 30 maggio 1841, fu portata a compimento il 9 ottobre dello stesso anno ed eseguita per la prima volta il 6 dicembre 1841 al Gewandhaus di Lipsia: non sotto la direzione del titolare Mendelssohn, che dell’amico aveva già presentato il 31 marzo con grande successo la Prima, bensì del Konzertmeister David. Essa ottenne consensi assai modesti: anche perché oscurata – e la cosa non deve sorprenderci troppo considerando la moda del tempo – da una esibizione a due pianoforti, avvenuta la stessa sera, di Franz Liszt e Clara Schumann, impegnati a suonare l’Exameron-Duo (una serie di variazioni virtuosistiche su un tema di Bellini composte da sei allora celebri pianisti parigini). Schumann ritirò la partitura, già pronta per la stampa, mettendola da parte. In seguito nacquero e furono pubblicate la Sinfonia n. 2 in Do maggiore op. 61 (1846) e la Sinfonia n. 3 in Mi bemolle maggiore op. 97 detta “Renana” (febbraio 1851). Fu a questo punto, nel corso del 1851, che la partitura della Sinfonia in Re minore venne ripresa in mano e rielaborata. In questa nuova veste venne presentata al Festival del Basso Reno di Düsseldorf nel 1853 e, stampata subito dopo a Lipsia, divenne la Quarta Sinfonia con il numero d’opera 120. Fu in pratica l’ultimo grande successo di pubblico ottenuto in vita da Schumann come direttore d’orchestra e compositore.
Delle quattro, la Sinfonia in Re minore è senza dubbio la più sperimentale e ai nostri occhi moderna.
Sul frontespizio della partitura Schumann indicò che il lavoro consisteva di Introduzione, Allegro, Romanza, Scherzo e Finale “in un solo movimento”; al tempo della revisione, in parte correggendosi, pensò di introdurre il titolo “Fantasia sinfonica”, che gli sembrava più adatto a un’opera tutta contesta di legami tematici tra un movimento e l’altro e senza interruzione fra gli stessi: un po’ come aveva fatto Mendelssohn nella sua Sinfonia n. 3 “Scozzese” (1842).

Robert Schumann

Per il resto la revisione si appuntò soprattutto sulla strumentazione, rinvigorendola e, secondo alcuni, appesantendola. Le presunte inefficienze e debolezze di Schumann come orchestratore furono denunciate dalla critica già lui vivente (e non solo dalla critica: l’ammiratore Brahms ne condivideva molte riserve, e Mahler ritenne addirittura necessario intervenire sull’orchestrazione); oggi ci paiono non soltanto tratti idiomatici del linguaggio schumanniano ma anche una conquista che avrebbe lasciato un’impronta: nella Quarta, soprattutto nella concezione della prima versione originale.

1. Moderatamente lento, Vivace

L’intero primo movimento si basa sullo sviluppo di una frase tematica esposta nell’Introduzione (Moderatamente lento) da violini secondi, viole e fagotti su un pedale sospeso di dominante e poi estesa a tutta l’orchestra con densità
polifonica. E’ una frase aperta e distesa, che procede per gradi congiunti con pensosa gravità, impennandosi poi nei primi violini in un inciso più mosso, che attraverso uno “stringendo” conduce direttamente al tempo Vivace: è questo inciso (quartine di semicrome alternativamente staccate e legate) a costituire il materiale tematico di tutto il movimento. Più che di un tema nel senso classico, si tratta di una figura aperta, slanciata e piena di energia, resa ancora più dinamica dalle sincopi e suscettibile di continue, minute variazioni. Essa occupa tutta l’esposizione.
Nello sviluppo, che presenta accenni di trattamento fugato, le viene contrapposta una linea melodica di marcata contabilità e dolcezza, che attenua ma non interrompe la foga di una corsa che sembra, nel suo anelito, non doversi fermare mai.

2. Romanza: Moderatamente lento

E invece il discorso si sospende e, come voltando pagina, conduce direttamente in tutt’altro clima espressivo. La parentesi lirica della Romanza è l’altra faccia del mondo poetico di Schumann: quella intima, delicata, tenue. L’oboe raddoppiato dai violoncelli intona in La minore una melodia malinconica, quasi trasognata, che viene richiamata alla realtà da una ripresa variata del tema dell’Introduzione (archi). Poi si dispiega in Re maggiore una arabescata melopea in terzine del violino solo, d’infinita dolcezza, che dona luce e consolazione. La ripresa del tema in minore dell’oboe chiude nostalgicamente la breve ma intensa pagina.

3. Scherzo (Vivace), Trio

E la corsa riprende, ancora più fremente, nello Scherzo, squassata dalle ondate degli archi su interiezioni “sforzate” dei fiati. Anche qui il legame tematico con il primo movimento è evidente: Schumann lavora circolarmente su un materiale monotematico, mostrandocene le metamorfosi e trasformandone il carattere timbrico e ritmico.

Guido Cantelli

Nel Trio ritorna la figura arabescata della Romanza, ora però integrata nella nuova scrittura orchestrale e armonica (da Re minore a Si bemolle maggiore). Si ripete lo Scherzo, poi nuovamente il Trio. A questo punto, quando ci si aspetterebbe la definitiva ripresa dello Scherzo secondo la consueta formula A – B – A – B – A, ecco la sorpresa…

4. Lento, Vivace, Più presto

In “pianissimo”, su atmosfere brumose, tremolanti, sospeso sulla dominante e carico di presagi, attacca in modo inatteso un Lento nel quale la nota figura in semicrome dei violini primi, leggera come un soffio, è violentemente contrastata da drammatici appelli di corni, trombe e tromboni, in “crescendo” e “stringendo”. Questa nuova “Introduzione”, che riafferma il tratto ciclico della Sinfonia, immette senza soluzione di continuità nel veemente e decisamente liberatorio tripudio del Finale, sempre più incalzante, da ultimo quasi colmo d’ebbrezza..
L’analogia con il passo corrispondente del Finale della Quinta Sinfonia di Beethoven non può sfuggire. Non vi è però più niente di eroico e di fatale in questo rispecchiamento formale: la luce che squarcia di colpo le nebbie di un paesaggio ossianico, che è anche un paesaggio-simbolo dell’anima romantica, non scandisce il battere di un destino, addita una meta lontana, all’infinito.