Mozart Wolfgang Amadeus

Concerti per violino

Il Mozart di Arthur Grumiaux è pulito, chiaro e riflette accuratamente lo stile del periodo classico. A differenza di altre interpretazioni, Grumiaux non indulge in vibrati e trilli esagerati. Si può immaginare che Mozart sia stato così eseguito nelle corti e nelle sale da concerto dell’Europa nel XVIII secolo. Registrazioni eseguite dal 1962 al 1967 e rimasterizzazione effettuata nel 1993. Nonostante la datazione l’audio è più che soddisfacente. Altamente raccomandato per non dire imperdibile!

Espressione gioiosa e solare
Le composizione per violino e orchestra di Mozart – Carlo Vitali

Leopold Mozart fu ai suoi tempi un apprezzato violinista e a questo strumento dedicò anche un trattato didattico di eccellente qualità, molte volte ristampato e tradotto in varie lingue. Non meraviglia dunque che il figlio Wolfgang già sapesse maneggiare l’archetto a quattro anni e a sette componesse le sue prime sonatine per violino e tastiera.
Dovevano però trascorrerne altri dodici perché egli si sentisse in grado di

affrontare sistematicamente la più impegnativa forma del concerto solistico. Fra l’aprile e il dicembre del 1775, nell’adempimento delle sue funzioni di Konzertmeister dell’orchestra di corte salisburghese, egli produsse cinque concerti per violino e orchestra (sono i numeri 207, 211, 216, 218 e 219 del catalogo Kochel) che erano destinati al suo vice è futuro successore, il napoletano Antonio Brunetti.
Bisogna convenire che Brunetti fosse un interprete di tutto rispetto, capace di trascendere i limiti del puro virtuosismo tecnico per addentrarsi nella dimensione eminentemente espressiva, gioiosa e solare di questi brani, la cui successione dimostra come nel corso di pochi mesi l’autore si andasse man mano impadronendo di un linguaggio personale, a partire dai modelli italiani di tendenza cantabile (Nardini, Pugnani, Boccherini – quest’ultimo in special modo per l’architettura dei finali in forma di rondò).
E comunque qualche piccola tensione tra il diciannovenne maestrino e il più maturo interprete finì per nascere e dovette essere amichevolmente risolta, come apprendiamo dalle dirette testimonianze contenute nel carteggio intercorso tra Wolfgang e il padre Leopold durante l’ottobre del 1777.
I primi due lavori, K. 207 e 211, sono ancora timidamente contenuti entro un semplice modello di melodia del primo violino accompagnata dai violini di ripieno e dalle viole, mentre i fiati e gli archi bassi si limitano ad interventi accessori, tali da non compromettere il generale impianto di “trio per orchestra”. Ma già a partire dal K. 216 Mozart inaugura un tipo di scrittura più complessa, tanto nella condotta della parte solistica che nella strumentazione – e perfino nella ricerca di speciali effetti d’atmosfera, come l’uso della sordina sugli archi nell’Adagio che, fondendosi con i richiami in lontananza dei corni e col canto sommesso dei flauti, produce un clima di sognante idillio notturno. Lo stesso artificio ricompare nell’Adagio in mi maggiore K. 261, scritto a Salisburgo nel 1776 dietro precisa istanza del Brunetti – ed in analoga circostanza nascerà ancora nel 1781 l’agile e galante Rondò in do maggiore (K. 373) che il virtuoso aveva criticato perché a suo dire “troppo studiato”.
Tale tratto di condiscendenza, che il Mozart nel periodo viennese conserverà anche nei confronti degli interpreti delle sue opere teatrali, vale altresì ad illuminare il ruolo dell’interprete nel determinare le scelte stilistiche di questo gruppo di composizioni.
Certamente Brunetti non temeva le difficoltà tecniche (lo dimostrano se non altro il due movimenti esterni del K. 218: l’Allegro iniziale coi suoi passaggi trillanti disinvoltamente affrontati sul registro sopracuto e il danzante rondò finale costellato di continui cambiamenti agogici e spunti di variazione), ma d’altro canto la sua formazione partenopea esigeva nei movimenti centrali il

massimo sviluppo dell’elemento cantabile e “affettuoso”, esente da soverchie complicazioni contrappuntistiche.
Nel Concerto in la maggiore K. 219, datato 20 dicembre 1775, davvero insolito è l’esordio del solista nell’Allegro aperto iniziale, con una melodia in Adagio senza alcun apparente rapporto col materiale esposto dall’orchestra; peraltro dopo sole sei battute una nuova partenza rimette a posto le cose, rielaborando il tempo ed il tema iniziale nella più usuale dialettica del principio concertante, sicché il primo violino può liberamente inanellare aeree divagazioni sui ricorrenti spunti di marcia che percorrono il resto del movimento.

Arthur Grumiaux

Segue poi un Adagio dalla ricchissima ornamentazione, dove per lunghi tratti il solista e il primo violino del tutti procedono affiancati. Fu probabilmente tale menomazione del suo ruolo di protagonista assoluto a suscitare le riserve di Brunetti circa questo movimento da lui definito “troppo studiato”, e Mozart, come già detto, lo accontentò scrivendo in sostituzione l’Adagio K. 261; ritoccò inoltre l’orchestrazione di tutto il concerto, sostituendo gli oboi con i più elegiaci flauti.
Ma entrambe le innovazioni non hanno avuto fortuna nella posteriore tradizione esecutiva, che ha preferito tornare alla stesura originale. Al centro del rondò conclusivo in tempo di minuetto spicca in luogo del più usuale trio una sezione ritornellata in minore, le cui piccanti armonie di sapore orientaleggiante rimandano al diffuso gusto tardosettecentesco per l’esotismo e le turqueries. Si tratta in effetti di un’autocitazione dal balletto Le gelosie del serraglio (K. 135), che Mozart aveva composto tre anni prima a Milano come entr’acte per l’opera seria Lucio Silla – donde il sottotitolo a volte attribuito al K. 219 di “Concerto turco”.
La sinfonia concertante (ovvero, a seconda dei punti di vista, “doppio concerto” per violino e viola) in mi bemolle maggiore fu composta anch’essa a Salisburgo tra il luglio e il settembre del 1779. La sua collocazione all’interno della produzione mozartiana è tutto sommato isolata, per il rilievo unico dato alle tessiture e alle sonorità del registro intermedio – conseguentemente alla scelta della viola come strumento solista a titolo perfettamente paritario con il violino, anzi semmai con qualche vantaggio in più. Sappiamo infatti che Mozart partecipava di preferenza alle sedute quartettistiche private con la viola, strumento che suonava a perfezione non meno del violino.
Un lontano precedente del compatto primo movimento (Allegro maestoso) è già riscontrabile nel Molto presto che apriva l’ouverture K. 184, composta nel 1773. Ma qui l’intuizione iniziale appare trasfigurata in un ripensamento monumentale: con le sue 382 battute esso supera addirittura per dimensione gli omologhi movimenti delle grandi sinfonie dell’ultimo periodo. Fin dall’accordo iniziale a piena orchestra si avverte lo spostamento verso il basso del centro gravitazionale, particolarmente nelle figurazioni ostinate del secondo violino. Segue una serie di temi, tutti strettamente collegati al primo, del quale rappresentano l’evoluzione realizzata con logica stringente. La prima entrata dei due solisti è quasi clandestina, occultata fra le pieghe dell’orchestra; lo sviluppo è introdotto da una sezione a mo’ di recitativo, permeata dalla nobile eloquenza del miglior pathos teatrale. La cadenza in parallelo dei due protagonisti introduce un brusco rallentamento del discorso, sul quale si innesta la solenne coda in Adagio dei tutti. In un ombroso do minore si snoda poi un Andante 3/4 di tragicità quasi beethoveniana, costruito sulle lunghe catene antifonali, sempre più serrate e intensamente modulanti, che il violino e la viola si rilanciano a gara.

Il Presto finale, ancora una volta in forma di rondò, si distingue per l’alacrità del suo impeto ritmico, nel quale il gioco delle alternanze bitematiche e delle relative modulazioni non è nemmeno interrotto da vere e proprie sezioni di sviluppo.

Concerto n. 1 in si bemolle maggiore K. 207

Primo dei cinque, il Concerto in si bemolle maggiore K. 207 presenta tre movimenti in forma-sonata caratterizzati da un’accurata scrittura strumentale.
L’Allegro moderato inizia con l’Esposizione orchestrale, nella quale vengono presentati i temi principali del movimento, tutti nella tonalità d’impianto. Spicca fra di essi il tema d’esordio – sul quale avviene anche l’ingresso del solista – per lo slancio e la fisionomia marcata, tipicamente violinistica. Gli interventi orchestrali si riallacciano alla tecnica barocca del concerto a ritornelli; ma un legame ancor più esplicito con i modelli preclassici del concerto risiede nella caratteristica alternanza di piano e forte, di sezioni piene e di altre vuote, ciò che produce una dinamica «a terrazze».
L’Adagio, una pagina tranquilla nello spirito della serenata, mostra invece punti di contatto con lo stile galante nella cura del dettaglio, nelle inflessioni rococò, nella grazia sovrana della linea melodica. Accenti poco più accorati intervengono nel breve, ma intenso Sviluppo; la Ripresa, che è priva del tema secondario, è seguita dalla consueta cadenza solistica e da una breve coda.
Il Presto che conclude il Concerto si avvale di figurazioni dal ritmo scattante, che conferiscono una certa brillantezza a un brano nel quale la scrittura violinistica (impostata per intero su scale e arpeggi) ha ancora un carattere largamente convenzionale.

Concerto n. 2 in re maggiore K. 211

Scritto un paio di mesi dopo il primo, il Concerto in re maggiore K. 211 è analogo al precedente nell’impianto formale, ma è meno pretenzioso dal punto di vista della tecnica violinistica: tanto che nella prima edizione a stampa veniva definito «Concerto facile». L’assenza di passi scopertamente virtuosistici, tuttavia, non impedisce al violino solista di porsi in risalto come il vero protagonista del Concerto: dello strumento, infatti, Mozart sfrutta intensamente la capacità cantante in tutti i registri, spingendolo spesso anche nell’estrema tessitura acuta.
Il taglio netto dei temi, quale traspare già a partire dall’Allegro moderato iniziale, va di pari passo con una scioltezza e un gusto per i dettagli raffinati nei quali è probabilmente avvertibile l’influsso di Johann Christian Bach. Lo stesso influsso si avverte nel Rondeau finale (Allegro), una pagina che mostra un senso perfetto delle proporzioni formali, dove la grazia è sempre preminente sulla brillantezza virtuosistica.

Arthur Grumiaux/- Arrigo Pellicia

Il movimento centrale, Andante, è inconfondibilmente mozartiano: presenta melodie ampie e aperte, un canto spiegato che richiama un’aria amorosa all’italiana.

Concerto n. 3 in sol maggiore K. 216

Nel Concerto in sol maggiore K. 216 si fa palese il notevole passo avanti compiuto da Mozart e il distacco, frutto di una maturazione, dai due precedenti concerti.
L’ispirazione e la tecnica compositiva si pongono, qui, su un piano superiore; qui Mozart raggiunge, per la prima volta, un equilibrio perfetto tra il brio strumentale richiesto da un concerto e la contenuta espressività della musica. Lo strumento solista è messo nel giusto rilievo, senza tuttavia concedere troppo al virtuosismo. I passi di bravura non vanno mai a discapito delle idee musicali, il registro acuto è impiegato con parsimonia, mancano quasi del tutto i passaggi in doppie corde e gli altri artifici della tecnica violinistica. Significativo è anche il fatto che il Concerto, come i due successivi K. 218 e K. 219, termini con un

piano, senza nulla concedere alle velleità esibizionistiche del solista; nel rondò finale il violino non prende nemmeno parte all’ultima ripresa del ritornello. Gli effetti strumentali brillanti, che pure non mancano, non sono mai fini a se stessi, bensì subordinati alla qualità delle idee musicali.
Queste ultime sgorgano abbondanti dalla fantasia del compositore, che le profonde senza risparmio all’interno di un concerto dalle forme più ampie del solito: nell’Esposizione dell’Allegro iniziale, ad esempio, si susseguono almeno cinque idee distinte (il tema principale proviene dal ritornello orchestrale della seconda aria di Aminta, «Aer tranquillo e dì sereni», nel Re pastore). Nuova è anche l’emancipazione completa del violino solista, che suona alcune melodie riservate a lui solo; e nuova è la scrittura orchestrale, fattasi più corposa e «sinfonica». Nello Sviluppo Mozart indugia su caratteristici contrasti di colore armonico, inserendo nel discorso episodi in modo minore. Ma in generale il movimento scaturisce da un atteggiamento estroverso e comunica, coi suoi temi e il fraseggiare ben disteso, esuberanza e gioia di vivere.
Un’espressività cantante, che fa leva sulla capacità del violino di emulare la voce umana, caratterizza l’Adagio: è un canto amoroso all’italiana, dal carattere luminoso e sognante, sostenuto dai violini in sordina e dal pizzicato degli archi gravi. Gli oboi, in questo movimento, sono rimpiazzati dai flauti, con una soluzione timbrica che accresce l’intimismo dell’atmosfera e crea un colorito particolarmente adatto al carattere vocale del brano.
Il movimento finale, Rondeau. Allegro, mostra una spigliata esuberanza giovanile; il tempo ternario gli conferisce un carattere danzante. Il ritornello iniziale ricompare periodicamente, immutato o solo leggermente variato, in alternanza con episodi nettamente separati. Assai caratteristico è l’episodio centrale, nel quale Mozart inserisce materiale melodico di schietto sapore popolare: consiste in una prima parte, un Andante in tempo binario e in modo minore, nella quale una melodia dal vago carattere di romanza è sostenuta da un accompagnamento pizzicato, e in una seconda, un Allegretto, nella quale il violino presenta un motivo popolare, che dal musicologo ungherese Dénes Bartha è stato identificato in una danza detta «strasburghese» (del linguaggio etnico non manca neppure il cosiddetto «bordone», dato dai suoni gravi tenuti dal solista sotto la melodia). Mozart crea, in questo modo, un tipo inedito di rondò, un brano fantasioso e «policromo» dall’effetto stravagante.

Colin Davis

Questo tipo di composizione, che si rifà allo spirito del divertimento e mostra una concezione formale più libera rispetto al rondò dei concerti per pianoforte, comparirà ancora nei due concerti successivi e resterà peculiare dei concerti mozartiani per violino.

Concerto n. 4 in re maggiore K. 218

Mozart scrisse cinque Concerti per violino e orchestra, tutti nel periodo compreso fra l’aprile e il dicembre 1775, quando il musicista diciannovenne si trovava alla corte dell’arcivescovo di Salisburgo. Sono il Concerto in si bemolle maggiore K. 207 terminato il 14 aprile; in re maggiore K. 211 terminato il 14 giugno; in sol maggiore K. 216 terminato il 12 settembre; in re maggiore K. 218 terminato nell’ottobre; in la maggiore K. 219 concluso il 20 dicembre. Ciò che è più importante rilevare sta nel fatto che questi Concerti per violino e orchestra
risentono l’influenza della musica italiana e di certi analoghi modelli che recano la firma di Nardini, Tartini e Boccherini, autori che Mozart certamente aveva ascoltato nel corso del suo viaggio in Italia avvenuto qualche anno prima e che avrebbe inciso profondamente sulla evoluzione dell’arte del musicista salisburghese. Infatti vi si notano uno stile virtuosistico particolarmente spiccato e una piena valorizzazione delle qualità timbriche del violino, che sono caratteristiche molto diffuse della scuola violinistica italiana del Settecento di derivazione barocca. Totalmente mozartiani sono però la fantasia, la scioltezza con cui si dispone la materia musicale, l’equilibrio formale che trova stimolo e ragione d’essere in un sottile gioco di variazioni sviluppate con magistrale mano di artista, capace di infondere il tocco della spontaneità a tutto quello che affronta. Il musicista dispiega sonorità squillanti, episodi di sottile umorismo e abbandoni sensuali, il tutto accompagnato da quell’ambiguo sorriso che distingue la creatività mozartiana sin dall’epoca giovanile.
Un esempio in tal senso è racchiuso nel Concerto in re maggiore, il cui Allegro iniziale costituisce come un preludio articolato in due temi ben distinti e seguiti dal ritornello. Il primo tema è ripreso dal solista, che poi sviluppa una frase più propriamente violinistica con coloriture virtuosistiche. Dopo un richiamo al secondo tema si giunge alla prima cadenza dello strumento solista che utilizza, rielaborati e variati in diverse modulazioni, i frammenti tematici introduttivi sino alla ripresa del dialogo con l’orchestra, comprendente anche i due ritornelli del primo e del secondo tema, tra i quali si inserisce un’altra cadenza facoltativa. L’Andante in la poggia essenzialmente sull’a solo del violino solista, sorretto con discrezione dall’orchestra, quasi timorosa di sciupare la poetica espressività del canto melodico. Nel Rondò conclusivo il violino solista si espande con libertà di accenti e di movimenti e con suoni elegantemente arabescati: si passa da un Andante grazioso annunciato subito dal violino ad un Allegro ma non troppo dal ritmo leggero e scanzonato per giungere all’Allegretto, così piacevolmente gioioso e ricco di un charme musicale di straordinaria finezza tutta mozartiana. L’orchestra gioca un ruolo di semplice supporto, senza ombra di elaborazione tematica e contrappuntistica.

Concerto n. 5 “Turkish” in la maggiore K. 219

L’ampiezza dei movimenti, la ricchezza tematica, l’originalità delle soluzioni formali sono alcuni degli aspetti salienti del Concerto in la maggiore K. 219, che da sempre gode di una meritata popolarità.
La vitalità e l’esuberanza della composizione traspaiono già a partire dall’Allegro aperto iniziale, un movimento in forma-sonata che presenta un’abbondanza di temi, seppur omogenei.

L’esposizione orchestrale sfoggia idee tematiche proprie, diverse dal tema principale che verrà presentato, più oltre, dal solista. Al suo ingresso, il violino esegue un’introduzione in tempo Adagio, dal carattere quasi improvvisatorio. È un passaggio enigmatico, che esula completamente dalla tradizione; è il momento del libero eloquio del solista, che pare aver bisogno di un attimo di preparazione prima di attaccare, senza interrompersi, il tema principale carico di slancio. Nuove idee fioriscono poi senza sosta per tutto il movimento, nel quale non viene mai meno la straordinaria freschezza dell’inventiva mozartiana.
A un senso d’intimità, di raccoglimento è ispirato l’Adagio, in forma-sonata, che si dipana nel segno di un lirismo discreto, risvegliando gli accenti di un’emozione dolorosa ma controllata con le inflessioni cromatiche dello Sviluppo. Più che singoli temi, il movimento allinea gruppi di motivi che si susseguono con continuità. Emblematico è il passaggio dal termine dello Sviluppo alla Ripresa: qui il tema principale fa ritorno al termine di una triplice presentazione, a canone; si insinua così nelle pieghe del discorso quasi inavvertito. E la Ripresa stessa, con i suoi momenti di tensione armonica, le dissonanze, l’instabilità, conserva qualcosa dello Sviluppo. Mozart, così facendo, pone l’accento sulla continuità anziché sulle articolazioni chiare e nette, in perfetta armonia con l’effusione lirica di cui si nutre il movimento intero.
L’ultimo movimento del Concerto K. 219 è un Rondeau in Tempo di Menuetto. Il ritornello è costituito da un tema in due parti: la prima è un’elegante melodia dal ritmo e dal carattere spigliato; la seconda un motivo più caricaturale e malizioso. Tra gii episodi interposti fra un ritornello e l’altro, il terzo é enormemente dilatato e presenta un carattere indipendente: è costituito da varie sezioni, tematicamente differenziate, nello stile «alla turca».
Vi troviamo riuniti tutti gli elementi linguistici che determinavano, all’epoca, lo stile turchesco nella musica colta occidentale: l’irregolarità fraseologica, il cromatismo e gli intervalli esotici, gli effetti percussivi a imitazione degli strumenti in uso presso le bande dei giannizzeri. Mozart qui strizza l’occhio a una moda assai diffusa, come farà in seguito nel celebre ultimo movimento «Alla turca» della Sonata per pianoforte K. 331 e in numerosi passi del Ratto dal serraglio.

Raymond Leppard

Uno dei motivi impiegati in questa sezione è tratto da Le gelosie del serraglio, un balletto abbozzato da Mozart tre anni prima (durante l’ultimo viaggio in Italia) per il Lucio Silla, ma rimasto incompiuto: l’irregolarità del materiale e la stranezza della forma si spiegano, in questo caso, con l’originale destinazione coreografica del brano. Tutto l’episodio in stile turchesco, che inserisce nel rondò una nota di colore pittoresco e fortemente contrastante, è anche interpretabile come il Trio di un Minuetto. Ma l’ambiguità formale del movimento è ancora maggiore, quando si pensi che vi sono presenti anche elementi della forma-sonata: infatti il primo episodio, che si svolge alla dominante, è ripreso alla fine nella tonalità della tonica, ricoprendo così una funzione analoga a quella del secondo tema in uno schema sonatistico.

Adagio per violino e orchestra in mi maggiore K. 261

Mozart in diverse circostanze si applicò alla composizione di singoli movimenti di concerto, per compiacere un determinato solista: l’italiano Antonio Brunetti, attivo a Salisburgo dal 1776 in qualità di Konzertmeister. Per Brunetti Mozart scrisse tre movimenti di concerto, un Adagio K. 261, un Rondò K. 269/261a e un altro Rondò K. 373. All’origine dei brani si pongono diverse motivazioni.
L’Adagio K. 261 fu pensato come movimento sostitutivo del tempo centrale del Concerto K. 219, forse troppo impegnativo per Brunetti. Sebbene pochi mesi separino il Concerto K. 219 dall’Adagio K. 261, l’Adagio mostra una sensibile evoluzione stilistica, ed è inoltre una delle pagine più felici destinate dal compositore allo strumento ad arco. Già la breve introduzione orchestrale
(organico: archi e coppie di flauti e corni) definisce l’ambientazione intima, lirica e soffusa dell’intera pagina; la linea del solista è levigatissima e continuamente rinnovata nelle curvature melodiche; da notare, nella sezione centrale, il giro continuo di modulazioni che porta il solista alla riesposizione; questa poi non è pedissequamente testuale, ma piuttosto libera.

Rondò per violino e orchestra in do maggiore K. 373

Il Rondò K. 373, scritto nell’aprile del 1781 a Vienna, appartiene invece al periodo immediatamente precedente il licenziamento di Mozart dalla corte arcivescovile di Salisburgo; si tratta infatti di un brano a sé stante, destinato a una accademia organizzata dall’arcivescovo Colloredo (presente a Vienna con la sua corte per i festeggiamenti dell’incoronazione di Giuseppe II). Il refrain, proposto immediatamente dal solista, presenta un carattere amabile che si mantiene per tutta la pagina, nonostante il contrasto degli episodi centrali; il virtuosismo della parte solistica, quasi sempre in primo piano, non perde mai una definizione di eleganza, come nella riproposizione variata del refrain; la pagina si spegne in pianissimo, sui pizzicati del solista e dei fiati.

Sinfonia concertante per violino, viola e orchestra in mi bemolle maggiore K. 364

Composta a Salisburgo nell’estate del 1779, è il massimo risultato raggiunto da Mozart nella composizione con più strumenti solisti e orchestra. È un concerto doppio in piena regola: il nome di “sinfonia” qui sembra alludere soprattutto alla matura e intensa scrittura sinfonica dell’opera, sempre al di sopra di un banale concetto di accompagnamento, non a una qualche riduzione del ruolo degli strumenti solisti, impegnati in sortite di notevole rilievo ciascuno per suo conto e in un dialogo costantemente teso e articolato. Proprio a questo, nel primo movimento, più che al contrasto fra i temi, stemperato dalla loro appartenenza alla stessa tonalità e dalla presenza di numerose idee secondarie, si affida la dialettica formale. Assente qualsiasi tentazione brillante, qualsiasi tributo ai modi buffi o galanti consueti a questo genere di musica, l’opera dimostra fin dall’inizio il suo carattere serio e severo, del tutto propizio alla presenza di uno strumento come la viola, di voce assai più scura e velata che non il violino, con il quale tuttavia essa è in grado di convivere in piena pariteticità.

London Philharmonic Orchestra

L’attenzione che Mozart prestò alla viola – è del tutto probabile che abbia pensato per sé la parte dello strumento in questa sinfonia – è testimoniata anche dalla cura che le è riservata nella partitura orchestrale, dove la suddivisione della fila delle viole porta a cinque il numero delle parti d’arco. In questo clima l’alternarsi di proposte solenni e imponenti, come lo stacco del primo tema dell’Allegro maestoso, o distesamente cantabili, trova unità in un’approfondita elaborazione contrappuntistica, costantemente stimolata dall’ininterrotto scambio di idee fra i due solisti e fra questi e l’orchestra.