Mozart Wolfgang Amadeus
Missae – Requiem

Registrazioni eseguite dal 1971 al 1991. Per coloro che amano Mozart e le sue composizioni sacre questo cofanetto fa per voi. Box di difficile reperibilità. Audio più che buono. Altamente raccomandato se non imperdibile! Buon ascolto a tutte e tutti voi….
Le messe di Wolfgang Amadeus Mozart – di Paolo Fabbri
Se si scorre la cronologia della musica liturgica di Mozart, immediatamente è agevole percepire come essa si situi quasi esclusivamente negli anni salisburghesi, e per di più sia riferibile al suo servizio presso la cappella di corte del locale principe-arcivescovo (Sigismund conte di Schrattenbach fino al 1771, Hieronymus conte di Colloredo dal 1772 al 1781).
Su una settimana scarsa di numeri di catalogo vocali e strumenti (tra messe complete e non, brevi composizioni destinate al proprium missae o all’ufficio vespertino solenne, e una ventina di sonate da chiesa in gran parte a tre), solo una quindicina non furono scritte per Salisburgo: dei rimanenti, una cinquantina vanno riferiti proprio al periodo dell’episcopato del conte di Colloredo, assai meno tollerante del suo predecessore nei confronti del suo giovane Konzertmeister, e in genere più attivo e dunque più attento alle esigenze di decoro – anche musicale: il che però non significava capacità di apprezzare il valore di quel suo dipendente d’eccezione.
Limitandosi al caso del sole messe (quelle pervenuteci, tra singoli brani e serie complete, messe normali e da morto, sono in tutto una ventina di titoli), la considerazione può essere verificata con piena agevolezza.
Tranne un Kyrie risalente al soggiorno parigino del 1766, e due messe complete per Vienna (1768), il grosso si colloca a Salisburgo e particolarmente tra il 1773 e il 1780: per di più – significativamente, anche se nel secondo caso soprattutto per le ben note luttuose circostanze biografiche – le uniche due opere posteriori al brusco licenziamento dalla corte di Colloredo (la Messa K. 427 e il Requiem) sono entrambe incompiute.
In via preliminare, sarà bene ricordare che per messa completa in musica s’intende la serie dei cinque testi che costituiscono il cosiddetto ordinarium missae, cioè quelle parti invariabili della celebrazione eucaristica che restano costanti e che si ritrovano in ogni festa lungo l’anno liturgico: nell’ordine, il Kyrie, il Gloria, il Credo, il Sanctus-Benedictus, l’Agnus Dei (la messa pro defunctis o da requiem, in genere musica anche l’Introito “Requiem aeternam”, sostituisce a Gloria e Credo la sequenza Dies irae, e muta l’invocazione finale dell’Agnus Dei (“dona eis requiem sempiternam” anziché “miserere nobis” e “dona nobis pacem”).
Ancora, non si dimentichi che nella sua interezza una messa cantata poteva contemplare anche altri interventi musicali (esclusivamente vocali, vocali con strumenti o solo strumentali; il canto gregoriano o in polifonia o solistici) che si legavano ai vari momenti del proprium (Introito, Graduale, Tratto, Offertorio, Communio), quelli cioè che presentavano un formulario liturgico specifico di una data festività o di una determinata categoria festiva.
Tra le composizioni liturgiche mozartiane di minori dimensioni non mancano ad esempio appunto testi di Offertori per voce sola o coro e orchestra, o brani generici da utilizzare in sostituzione del testo prescritto: mottetti, ma anche sonate strumentali di solito per l’Epistola, come quella di Do maggiore K. 263 (per due trombe, due violini, basso continuo ed organo obbligato) da associare alla Messa K. 259.
La cappella arcivescovile di Salisburgo, destinataria dunque della maggior parte delle messe mozartiane, aveva un organico di una trentina di voci (maschili, ovviamente: alle donne era proibito cantare nelle cappelle ecclesiastiche, e i castrati non venivano quasi più impiegati) tra solisti e cantanti di ripieno, più una quindicina di fanciulli cantori per coprire le parti di soprani e contralti. Affiancavano il coro altrettanti strumentisti (poco più di trenta, per l’esattezza), cui si potevano aggiungere fiati – tromboni e trombe – e timpani delle bande cittadine municipali e reggimentali, ed ovviamente membri aggiunti per le circostanze più importanti.
Sigismund conte di Schrattenbach

Al tempo delle messe mozartiane, maestri di tale cappella furono Joseph Franz Lolli (1762-1778) e Jakob Rust (1777-1778); anche se ufficialmente la carica fu ricoperta da Domenico Fischietti dal 1772 al 1783, vicemaesto dal 1763 (nei vent’anni precedenti vi aveva prestato servizio come violinista) fu Leopold Mozart, il padre di Wolfgang, mentre come primo violino direttore d’orchestra della stessa fu assunto Michael Haydn, fratello di Joseph.
Una descrizione molto interessante della disposizione degli organici musicali del Duomo di Salisburgo si può leggere proprio in una lettera di Leopold Mozart, che menziona anche quella pluralità di organi e cantorie così tipica del tempo in cui quell’edificio sacro era stato costruito (fu consacrato nel 1628) e che non può non far pensare a certe esecuzioni di stile colossale in esso appositamente allestite (il Te Deum di Stefano Bernardi a 48 voci divise in 12 cori, composto nel 1627 per la traslazione dei resti dei santi Ruperto e Virgilio; la Messa per quella consacrazione del 1628, opera di Orazio Benevoli, di identiche dimensioni e con la stessa articolazione; la Missa salisburgensis a 54 voci in 8 cori, già attribuita al medesimo Benevoli ma in realtà forse di Biber e del 1682):
“Nella parte posteriore del Duomo arcivescovile, vicino all’entrata, c’è l’organo grande; nella parte anteriore, presso il coro, vi sono quattro organi laterali, e sotto, nel coro, si trova un altro piccolo organo, vicino al quale stanno i coristi. L’organo maggiore viene usato solo per i preludi alle grandi musiche; queste vengono sempre accompagnate da uno dei quattro organi laterali, e precisamente da quello più vicino all’altare di destra, dove sono i solisti e i bassi. Di fronte, vicino all’organo di sinistra, stanno i violinisti e via dicendo, mentre accanto agli altri due organi laterali stanno i due cori (cioè gruppi) di trombe e timpani. L’organo inferiore del coro e il violone si uniscono anch’essi nel caso che debbano suonare tutti. Raramente si ascoltano l’oboe e il flauto traverso: mai il corno da caccia. Tutte queste persone suonano quindi tra i violini”.
Un esordio fuori del comune
Il più antico gruppo di messe composte da Mozart – quattro: K. 139, K. 49, K. 65 e K. 66 – risale al periodo compreso tra il secondo soggiorno a Parigi del 1766 (durante il quale, come si è detto), ebbe modo di scrivere il suo primo pezzo sacro, il Kyrie K. 33) e i tre viaggi in Italia del 1769-1772. Di esse, due – K. 319 e K. 49 – sono state scritte per chiese viennesi quando nel 1768 Leopold Mozart aveva deciso di trasferire la famiglia nella capitale asburgica per profittare di migliori occasioni professionali da tentare con Wolfgang. Per la verità, la datazione della prima è controversa, come del resto tradisce il numero di catalogazione originario.
La perplessità degli studiosi è di indole stilistica, non parendo opera di un esordiente in quel campo: per di più, se la si confronta con l’altra – pressoché contemporanea – il divario sembrerebbe notevole.
C’è però da tener conto che queste due opere rientrano in sottogeneri distinti, dato che l’una è una missa solemnis e l’altra una missa brevis, e perciò una certa divaricazione stilistica è da mettere in conto.
In ogni caso, sappiamo con certezza che Mozart scrisse una messa per la consacrazione della chiesa annessa ad un orfanotrofio di Vienna, celebrata solennemente il 7 dicembre 1768 alla presenza della famiglia imperiale, come racconta una cronaca apparsa su di un giornale locale:
Mercoledì 7, alle imperiali, reali e apostoliche maestà, nonché ai due arciduchi Ferdinando e Massimiliano e alle altezze reali arciduchesse Maria Elisabetta e Maria Amalia, piacque recarsi nell’orfanotrofio al Rennweg per onorare con la loro presenza la consacrazione e il primo servizio divino della chiesa di nuova costruzione. D’ambo i lati fuori della chiesa erano schierate tutte le compagnie di corte con la loro banda, più tre cori di trombe e tamburi. Le reali e imperiali maestà e le quattro altezze reali sono state ricevute sul portale principale della suddetta chiesa da sua Eminenza il principe cardinale della Chiesa di Roma ed arcivescovo del luogo, alla presenza di tutto il clero, tra il glorioso suono delle trombe e tamburi e in seguito tra le salve dei cannoni e dei mortaretti. Dopodiché, la suddetta eminenza ha consacrato la chiesa secondo il consueto cerimoniale, mentre la messa solenne è stata celebrata dal vescovo ordinario Marxer, tra rinnovate salve d’artiglieria. Tutta la musica eseguita durante la messa dal coro degli orfanelli è stata composta appositamente per questa festività dal figlioletto del maestro di cappella della corte principesca di Salisburgo Leopold Mozart, il dodicenne Wolfgang Mozart, noto per il suo eccezionale talento. Le musiche sono state eseguite e dirette con la massima precisione dal medesimo, suscitando generali consensi e ammirazione; da lui stesso sono stati cantati anche i mottetti.
L’identificazione di questa messa con la K. 139 è abbastanza recente, e per questo essa è ora nota anche come Waisenhausmesse (cioè letteralmente Messa dell’orfanotrofio). La solennità del suo impianto traspare anzitutto dalla presenza di trombe e timpani in un organico orchestrale consuetamente costituito da archi e organo per il basso continuo, più una coppia di oboi “d’harmonia” o di raddoppio dei violini, e tre tromboni di ripieno che rinforzano il coro nei “tutti”.
Ma essa traspare anche dall’estensione dei singoli brani, e dalla loro ampia articolazione interna. Il Kyrie consta ad esempio di un maestoso Adagio introduttivo in breve e fitto dialogo tra coro a blocchi “recitativi” e orchestra, cui segue un Allegro con “sinfonia”, vale a dire iniziato da un consistente preambolo strumentale: esso viene poi immediatamente ripetuto, ma stavolta sovrapponendogli le voci.
Hieronymus conte di Colloredo

L’ingresso del coro chiarisce anche la struttura compositiva: il pezzo è costruito accordalmente con un basso d’accompagnamento, e i violini si limitano a fiorire gli altrimenti nudi tralicci armonici.
Il passaggio al “Christe eleison” è segnato da una repentina riduzione di spessore sonoro (da “Tutti” a “Soli”, il che significa che anche i tromboni e gli oboi tacciano): poi però gli è riservato un apposito Andante più raccolto e melodico, in cui i solisti si avvicendano e si accoppiano sostenuti esclusivamente dagli archi. Dopodiché viene ripresentato l’Allegro precedente. Il Gloria a episodi corali nello stesso stile (salvo un transitorio spunto imitativo al “propter magnam gloriam tuam”), intercala duetti e arie solistiche (“Laudamus” e “Domine”; “Quoniam”), per concludere con una severa fuga a quattro voci (“Cum sancto spiritu”). Un’analoga alternanza ricompare nel Credo, che però mostra una maggiore propensione all’imitazione tra le voci corali, e oltre al duetto dell'” Et incarnatus” e all’aria dell’ “Et in Spiritum Sanctum” presenta una cerimoniale marcia funebre al “Crucifixus” e subitanei raccoglimenti su parole egualmente significative (“mortuos”, “mortuorum”). La sua conclusione (“Et vitam venturi saeculi”) incrementa ulteriormente l’esibizione di dottrina contrappuntistica, stesa com’è in doppia fuga. Dopo iniziali clangori, il Sanctus utilizza la solita scrittura corale, mentre il Benedictus è steso responsorialmente tra soprano solo e “Tutti”. Infine l’Agnus Dei inizia come aria tenorile coinvolgendo prima il coro al completo, e poi concludendo con un ternario e cullante Allegro generale (“dona nobis pacem”).
Nel complesso, si tratta dunque di una tipica messa in quello stile moderno che da tempo i maestri italiani e specie napoletani praticavano e diffondevano nei paesi cattolici, fatto di episodi corali massicci impostati su di una scrittura omoritmica accordale, e di pagine solistiche arieggianti alla lontana vocalità teatrale, oratoriale, cantatistica: né mancavano alcuni opportuni esempi di gravitas stilistica, da sempre connotante la musica da chiesa.
L’altra messa, K. 49, si è detta appartenere invece alla categoria della missa brevis, che comporta dimensioni ridotte, intonazioni del testo senza indugi, articolazione minima di ciascun brano.
Il Kyrie è steso in un’agile e sciolta polifonia di stile moderno (con l’orchestra, di soli archi e organo, che raddoppia le voci), mentre il Gloria è un sol blocco nello stile corale che si è sopra descritto, punteggiato da qualche assolo: i pezzi seguenti ripropongono – si direbbe in miniatura e semplificato – il percorso già delineato in precedenza per la messa K. 139.
Entrambe scritte per Salisburgo rispettivamente agli inizi e nell’autunno del 1769, le messe K. 65 e K. 66 replicano la dicotomia precedente. La prima è infatti una missa brevis nella quale Mozart però sperimenta anche una maggior autonomia strumentale, non facendo agire incessantemente i violini ma assegnando loro – specie nel Kyrie e nel Gloria – funzioni di sutura tra gli interventi corali, durante i quali spesso tacciono.
Padre Giovanni Battista Martini

Da segnalare il canone cromatico del Benedictus, un tratto di stile sublime solitamente non attribuito a questo momento liturgico. L’altra (K. 66) è invece del tipo solenne, scritta per accompagnare la prima messa dell’amico Dominikus Hagenauer entrato nel convento salisburghese di S. Pietro col nome di padre Domenico (la composizione è difatti nota anche per Dominikus Messe).
Accanto ai tratti consueti a questo genere di opere (e si noti l’ampiezza dell’aria per soprano al “Quoniam” del Gloria, subito seguita dalla conclusiva grande fuga a quattro voci), è visibile spesso un’intenzione unificante che ad esempio spinse Mozart a concepire il Kyrie come una struttura bipartita in due sezioni analoghe, e ad utilizzare le medesime figurazioni strumentali ripetute sistematicamente nel corso di un brano (il “Qui tollis” del Gloria, o il Credo negli episodi collettivi). Di non poco interesse è anche il tessuto orchestrale all’interno del quale nel “Laudamus” sono incastonate le due voci, e un tratto singolare l’estroversa platealità di certe soluzioni ad effetto: la drammaticità delle irruzioni orchestrali dopo gli unissoni solistici nel “Crucifixus”, e nell'”Agnus Dei” del salto dalle inquietudini tonali del “miserere nobis” alle grazie del “dona nobis pacem”; oppure la sorpresa della falsa partenza a fuga nel Benedictus, con un soggetto esposto dal basso continuo che però le voci non raccolgono e sostituiscono con uno proprio.
L’evasione dalle convenzioni stilistiche
Il corpus più consistente entro il catalogo delle messe mozartiane è quello, come si è detto, che copre il periodo 1773-1780, quello cioè delle messe scritte per Salisburgo al tempo dell’episcopato di Colloredo. Oltre alla citata lettera di Leopold Mozart, ulteriori informazioni in merito alla liturgia musicale praticata a Salisburgo le fornisce lo stesso Wolfgang in una lettera inviata il 4 settembre 1776 a padre Giovan Battista Martini, il dotto e ammiratissimo francescano bolognese – una vera e propria autorità internazionale nel campo della polifonia e delle competenze storico-musicali – che aveva conosciuto durante uno dei suoi viaggi in Italia: da lui il giovane Mozart aveva ricevuto lezioni di contrappunto, ed era stato grazie alla sua protezione che aveva potuto superare l’esame per essere aggregato alla celebre Accademia Filarmonica di Bologna:
Io mi diverto intanto a scrivere per la camera e per la chiesa: qui ci sono anche due bravissimi contrappuntisti, (Michael) Haydn e (l’organista) Adlgasser. Mio padre è maestro di cappella (in realtà vicemaestro) alla chiesa metropolitana, il che mi dà l’occasione di scrivere per la chiesa quando voglio. La nostra musica da chiesa è assai differente da quella italiana, e lo diviene sempre più. Una messa anche solenne, con tutto il Kyrie, Gloria, Credo, la sonata all’Epistola, l’Offertorio o mottetto, Sanctus ed Agnus Dei, anche quando celebra il principe stesso, deve durare al massimo tre quarti d’ora. Ci vuole uno studio particolare per questo tipo di composizione. E oltre a ciò, una messa deve avere tutti gli strumenti (trombe, timpani eccetera).
Gottfried von Swieten

In base a queste limitazioni che Colloredo riteneva opportuno imporre al ruolo dell’apparato musicale nella liturgia, abbonda in tale sezione salisburghese del catalogo mozartiano il tipo della missa brevis, ben esemplificato dalla K. 140 (databile forse al 1773), e parallelamente è assente quello della missa solemnis.
Esplicitamente o no, nella varietà brevis rientrano la K. 167 “in honorem sanctissimae Trinitatis” (giugno 1773), la K. 192 (giugno 1774), la K. 194 (agosto 1774), la K. 220 (1775 o 1776: per un certo fare cinguettante dei violini nel Sanctus-Benedictus nota anche come Spatzenmesse, cioè (messa dei passeri), la K. 275 (1777). Attorno a questa data appare anche quel tipo di messa che Mozart in seguito preferibilmente praticherà, e che sulla base dell’indicazione che accompagna la K. 262 (del 1776) potremmo definire Missa longa.
Come il nome fa agevolmente intuire, si tratta di una più ampia versione della missa brevis: in termini meno ovvi, fatta di singoli movimenti quasi esclusivamente in blocco (qualche articolazione interna si ha solo nel Credo e nell’Agnus Dei), senza vistose suddivisioni in ampie e autonome pagine solistiche e dunque priva di connotati che per comodità potremmo dire italiani. Concepiti solisticamente potevano dunque al massimo essere alcuni movimenti come il Benedictus o l’Agnus Dei.
Oltre a quella citata che offre il nome alla categoria, ne possono far parte le tre messe in Do maggiore del 1776, cioè la K. 257 (Credo Messe, per la frequente replica dell’affermazione iniziale nel corso appunto del Credo, secondo un’abitudine non ignota ad altri compositori austriaci prima di Mozart), la K. 258 (Spaur-Messe, perché si pensa composta per la consacrazione sacerdotale del conte di Spaur) e la K. 259 (organ-Messe, dato che il relativo Benedictus presenza eccezionalmente una parte per organo solo scritta per esteso), nonché la K. 317 (Kronungsmesse, del 1779: Messa dell’incoronazione perché commemora un solenne atto di omaggio di questo tipo compiuto durante la guerra del 1774 nei confronti di un’immagine della Madonna venerata a Salisburgo) e la K. 337 (1780).
Globalmente, in tutta questa serie di messe salisburghesi si assiste anzitutto per i violini al definitivo abbandono di quella modalità di scrittura che, dal nome del compositore Johann Georg Reutter (1708-1772) che l’aveva resa proverbiale, si diceva “à la Reutter”. Essa prevedeva per queste parti strumentali un’iperattività incessante dall’inizio alla fine di ogni movimento, con figurazioni di semicrome a mitraglia ma prive del minimo interesse melodico.
Dopo la K. 167, che ancora palesa un’anima simile, questo filo conduttore sopravvive solo saltuariamente, ed è sostituito piuttosto da una concezione strumentale differente, analoga a quelle del contemporaneo sinfonismo: i violini conservano ancora un ruolo di guida lungo la composizione, ma con figurazioni ritmicamente assai più varie, individuando alcuni momenti di deciso spicco melodico (per un caso esemplare, si ascolti l’attacco dell’Agnus Dei della K. 259) da sottoporre a sviluppo, ed imparando anche a tacere.
Leopold Mozart

La maggior scioltezza e varietà nella condotta degli archi produce anche una più duttile collaborazione con le voci, soprattutto corali ma anche solistiche, per cui il loro rapporto si fa più compenetrato e multiforme. E la stessa trama del coro, laddove si mantiene accordale, grazie alla ritmica più variata appare meno rigidamente scandita. Per non dire di quelle inusitate forme di reciproco eccitamento che mostrano i “dona nobis pacem” negli Agnus Dei delle K. 257 e 258, con veri e propri crescendo davvero insoliti in testi come questi fin lì inclini all’idillio più che all’esaltato entusiasmo.
Contemporaneamente, a ciò si associano tendenze costruttivistiche miranti a disporre un singolo movimento secondo un progetto melodico-armonico. Già nella K. 167 il ripresentarsi di una stessa figurazione conferisce maggiore unitarietà al Credo (e si noti l’intensità espressiva che un ostinato ritmico unito ad armonie – ed enarmonie – pungenti genera nel “Qui tollis” del Gloria nella K. 262), mentre Kyrie e Gloria sono architettati come una struttura tripartita ABA con B modulante: nel Benedictus essa si fonda su due temi, localizzati rispettivamente alla tonica e alla dominante, riproducendo quindi quello schema noto come forma-sonata che andava affermandosi nei vari generi di musica strumentale solistica e d’insieme.
Così come in essi strutturava di preferenza il primo movimento di una composizione in più tempi, nella messa è soprattutto il Kyrie ad essere interessato da questa articolazione.
Lo mostrano appunto quelli della K. 192, K. 220, K. 262 (assai ampia, con “sinfonia” ed esordio solo corale, come si addice ad una missa longa), K. 257 (la medesima costruzione appare anche nel Benedictus) e K. 259. Il Gloria della K. 262 e i Credo nella K. 257-259 e K. 317 presentano invece elementi ricorrenti tali da poter imparentare il loro procedere con quello di un’altra forma strumentale quale il rondò.
Infine, non va trascurata la trama riccamente polifonico-imitativa che Mozart tesse per le sue prime messe salisburghesi, brevi o meno che siano. Col passar del tempo, questa densità di scrittura si attenua (viene ad esempio limitata esclusivamente ai passi solistici). Di tale progressivo abbandono è spia eloquente anche la scomparsa delle fughe che tradizionalmente concludevano Gloria e Credo, molto ridotte nella K. 194 o circoscritte al solo Gloria nella K. 258, o assenti del tutto nelle K. 220, K. 257, K. 259, K. 275 (il cui solo Sanctus esibisce un’esposizione di fuga), K. 317 e K. 337 (unica fuga, nel Benedictus). Così come, complementarmente, non passa inosservata l’intenzione di puntare con decisione piuttosto sulle risorse di un diverso linguaggio tecnico-espressivo come quello incarnato ad esempio dalle liriche arcate di vere e proprie arie quali i Benedictus della K. 275 e K. 317 (“aria” per quartetto vocale), come pure gli Agnus Dei della medesima K. 317 e K. 337, dei quali è agevole rilevare le valenze melodiche anticipatrici di celeberrime pagine operistiche a venire (rispettivamente, “Dove sono i bei momenti” e “Porgi, amor, qualche ristoro”). A maggior ragione, dunque, suonerà inattesa nella K. 258 l’apparizione nel Sanctus di un “Pleni sunt coeli” in vero e proprio stile antico (un tangibile segno dell’influenza esercitata da padre Martini, con cui in quell’epoca i Mozart continuavano ad intrattenere rapporti epistolari).
Constanze Mozart

L’abbandono di Salisburgo significa anche l’accantonamento del genere “messa” (seppure non immediato ed automatico, secondo quanto mostra – come si vedrà tra poco – la vicenda della K. 427). Ora Mozart non doveva più provvedere per servizio alle necessità liturgiche, e d’altronde le restrizioni imposte alla musica da chiesa dal nuovo sovrano Giuseppe II (1780-1790) e i suoi interventi di nazionalizzazione che limitavano le risorse di molti ordini religiosi, non costituivano certo premesse incoraggianti per possibili richieste di opere sacre.
Il “caso” della Messa K. 427
La Messa in do minore K. 427 presenta la singolarità di essere – a quanto pare – l’unica di Mozart scritta indipendentemente da una specifica commessa. A fine 1782 il compositore aveva progettato un viaggio a Salisburgo per presentare finalmente sua moglie al padre e riappacificarsi con lui dopo la tempestosa vicenda del suo matrimonio, ma a più riprese varie circostanze l’avevano impedito, talché Leopold cominciava a dubitare della sincerità delle intenzioni del figlio.
In una lettera dei primi di gennaio 1783 Mozart però citava come pegno della sua buona fede – singolarmente – proprio quella composizione liturgica: “A riprova della sincerità della mia promessa, valga lo spartito di metà di una messa, che ancora attende di essere conclusa”. Finalmente quel viaggio fu compiuto nell’estate 1783, e al termine di agosto Mozart potè far eseguire nella chiesa salisburghese di San Pietro quanto aveva scritto, con sua moglie come soprano solista. L’opera non era compiuta neppure in quella circostanza, e non lo sarà più in seguito, per cui i primi due terzi del Credo (fino all'” Et incarnatus” compreso) e l'” Hosanna” del Sanctus rimasero lacunosi per ciò che riguarda alcune parti orchestrali di contorno: mancano interamente l’ultima sezione del Credo e l’Agnus Dei, che non figura nemmeno iniziato. Nel 1785 Mozart riutilizzò gran parte di ciò che aveva a disposizione riversandolo nell’oratorio Davide penitente (e nel 1901 la casa editrice Breikopf und Hartel pubblicava una versione della messa K. 427 fatta completare ad Alois Schmitt).
Rispetto a quelle precedenti, in questa messa emergono tratti di sensibile novità, avvertibili fin dal primo ascolto. Colpisce anzitutto l’intensità espressiva del Kyrie: in un cupo do minore – ed è l’unico movimento in questa tonalità, – con le patetiche appoggiature nel continuo dipanarsi delle belle e severe figurazioni violinistiche integrate dagli scossoni dei bassi, sulle quali le voci inseriscono una propria fuga su soggetto cromatico, fatta ancor più risaltare dal contrasto nettissimo con la cantabilità ariosa del sereno “Christe eleison” intermedio per soprano solo e coro.
Nelle altre messe non è che mancassero momenti di forte espressività, ma erano riservati a luoghi obbligati, in un certo senso prevedibili (il “Crucifixus”, ad esempio): meno ovvio era scegliere tinte così drammatiche e contrastate per le invocazioni del Kyrie.
Wolfgang Amadeus Mozart

Altrettanto avvertibile è un modo di fare decisamente anticheggiante, che si lega certo alla frequentazione – iniziata nel 1782 – del barone Gottfried van Swieten, che in campo musicale coltivava gusti spiccatamente “antiquari”, prediligendo autori (Bach e i suoi figli, e soprattutto Handel) morti solo un paio di decenni prima, ma campioni di uno stile nettamente superato.
Queste inclinazioni mozartiane la messa K. 427 le dimostra naturalmente nella diffusa scrittura polifonica imitativa e fugata, che però non era una novità dato che – seppure non in dimensioni così pervasive – era presente già in precedenza. Colpiscono piuttosto altri tratti ugualmente riferibili ad un tale orientamento stilistico: i ritmi puntati del “Gratias” (quasi una ouverture in stile francese), il doppio coro del “Qui tollis” ed ancor più la sua impostazione su basso ostinato cromatico di ciaccona, e perfino l’arcaismo di certe pagine solistiche (il “Domine” e il “Quoniam” del Gloria, l'” Et incarnatus” del Credo, il Benedictus), meno appariscente ma forse ancor più motivo di stupore per le finissime capacità di mimesi dimostrate da Mozart.
Il Requiem K. 626
Come è ben noto, ad una eccentrica commissione va invece fatta risalire la messa da requiem K. 626. Il conte Walsegg, musicista per diletto che aveva la debolezza di far credere scritti da lui pezzi che invece ordinava a compositori di professione, voleva commemorare in musica la scomparsa della moglie, avvenuta nel febbraio 1791. L’estate di quell’anno aveva perciò inviato in incognito il suo amministratore Leutgeb da Mozart, proponendogli di scrivere un Requiem nello stile che a lui sarebbe parso: unica condizione, ignorare il nome del committente. Mozart accettò, ponendosi al lavoro, che però dovette essere momentaneamente accantonato dapprima per l’urgenza di nuovi, improrogabili impegni (La clemenza di Tito per Praga e la “prima” della Zauberflote, nell’autunno del 1791), poi per l’aggravarsi della malattia che il 5 dicembre dello stesso anno doveva portarlo alla tomba.
Altrettanto celebre è la mitologia cresciuta attorno a quest’ultima composizione di Mozart, una messa funebre interrotta dalla morte del suo stesso autore: a dare ascolto alle testimonianze di quanti lo conobbero, questi poi avrebbe interpretato quella singolare e misteriosa commissione come una specie di premonizione della morte vicina. Non è facile sottrarsi alla suggestione di un indubbio dato di fatto (Mozart che scrive proprio in punto di morte l’unico Requiem di un catalogo per altro nutritissimo in cui sono rappresentati tutti i generi e varietà di musica del suo tempo), e tanto meno riuscire a distinguere tra le testimonianze veritiere e quelle distorte dagli anni trascorsi e dalle deformazioni di un gusto romanzesco e romantico, quando non tra quelle autentiche e quelle false affatto.
Mozart e Franz Sussmayr

Sicuro è che quando la morte colse Mozart, la composizione del Requiem era a questo punto: finiti per intero l’Introito (“Requiem aeternam”) e il Kyrie, del Dies irae erano stese le parti vocali e delineata nei tratti essenziali la strumentazione (il lavoro s’interrompeva poche battute dopo l’attacco del Lacrymosa); erano invece abbozzati a grandi linee i due brani dell’Offertorio, mentre tutto ciò che segue mancava completamente. Temendo di dover restituire l’anticipo già versato al marito, la vedova Mozart affidò prontamente il completamento della partitura a persone di fiducia (allievi e collaboratori di Wolfgang: Joseph Eybler in un primo tempo, Franz Sussmayr dopo la rinuncia di questi) e andò poi accreditando trattarsi dell’ultima fatica compiuta dal musicista poco prima della morte. Il conte Walsegg ebbe così il “suo” Requiem, da lui diretto a fine 1793.
Anche se interessatamente minimizzato, il ruolo avuto da Sussmayr era però risaputo già fin dall’anno precedente (almeno presso quel gruppo di estimatori del compositore scomparso che nel 1792 vollero fare eseguire il Requiem a Vienna), e ancor più si riseppe nel 1800, quando la pubblicizzata intenzione della vedova Mozart di far stampare l’opera fece uscire allo scoperto il conte Walsegg: nel 1839 poi la donna si risolse infine a chiarire ufficialmente ogni cosa.
Tuttavia non è facile stabilire in concreto quale fu l’apporto di Sussmayr. La soluzione apparentemente semplice di confrontare l’autografo mozartiano con la partitura ultimata risulta semplicistica: non sappiamo infatti se Sussmayr abbia utilizzato anche altro materiale scritto di provenienza mozartiana (appunti, frammenti, abbozzi), e comunque ci sfuggirà per sempre quanto può aver avuto direttamente per bocca del compositore. In fondo, non è l’unica traccia d’ombra che si proietta su quest’opera non priva di misteri.
Dei due movimenti tutti di pugno di Mozart, l’Introito e il Kyrie, soprattutto il primo offre un saggio davvero mirabile dell’inventiva libertà e complessità di scrittura cui il compositore era pervenuto. Se infatti il Kyrie, con la sua dichiarata fuga in contrappunto doppio non priva di “licenze”, è un esempio eccellente della scioltezza con cui padroneggiava ormai la tecnica polifonica, il “Requiem aeternam” perviene agli stessi esiti ma dopo un percorso di progressiva intensificazione, come in un ideale crescendo: un canone a 4 iniziale anticipato da corni di bassetto e fagotti, e poi eseguito dalle voci; un canone a 3 dei violini mentre i solisti si avvicendano in brevi interventi cantabili (“Te decethymnus”); una zona d’attesa fortemente caratterizzata in orchestra dalle figurazioni di ritmo puntato; infine i due soggetti precedenti trattati imitativamente in contrappunto doppio.
Non meno stupefacente la levità di trama cui riescono a pervenire i distinti canoni vocali e strumentali del “Recordare”, dai quali non traspaiono minimamente le difficoltà di un indubbio tour de force dottrinale. Accanto alla suavitas di brani come questo, si può porre l’intensità patetica del Lacrymosa, tanto più impressionante se si pensa alla semplicità di mezzi con cui è raggiunta. Questi (più il “Voca me” del Confutatis) costituiscono il polo dolente e di fiduciosa supplica di un testo come la sequenza Dies irae ricco piuttosto di passi inclini ad una visionaria tragicità, che Mozart – e Sussmayr per lui – esprimono ricorrendo (nel Dies irae, nel Rex tremendae, nel Confutatis) agli stilemi della terribilità e delle descrizioni tempestose: massiccia veemenza corale e strumentale, e in orchestra grandiosi unissoni, formidabili ritmi puntati, tremoli, serie d’impennate in arpeggio e di sincopi, figurazioni incalzanti (ma neppure i solenni accenti del trombone obbligato, del basso e poi degli altri solisti, col loro canto teso e severo, sfuggono all’aura di gravitas che aleggia su questo corrusco affresco).
Se si accantona la questione – forse insolubile – della paternità di ciò che segue, e ci si appaga di valutare l’esistente, ci si troverà di fronte a soluzioni che adottano la strada della combinazione ravvicinata di caldo lirismo (corale e individuale: la prima parte dell’Hostias, il Benedictus) e sapienza intellettuale (il resto dell’Hostias, che riespone la sezione ultima del brano precedente; l'” Osanna” del Sanctus), o del drammatico contrasto di tinte (tra l’alta eloquenza del recitativo corale nell’esordio dell’Agnus Dei, e l’accorata invocazione successiva del “Dona eis requiem”), o ancora del ciclico ripiegamento sui modi iniziali – dell’Introito e del Kyrie – nel Lux aeterna conclusivo.
Sir Colin Davis

Il brano che più si distingue è però forse il primo dell’Offertorio, cioè il Domine Deus, il quale coro e orchestra in complementare cooperazione attacco con impeto riproponendo tre volte quell’incipit rapinoso, e al massimo dell’eccitazione strumentale – un moto perpetuo trascinante di tutti gli archi e dei bassi in poderoso unissono – propongono via via due esposizioni fugate in piena regola su soggetti differenti ma ambedue percorsi da venature cromatiche (a balzi di settime discendenti il primo, a squilli ascendenti il secondo), per poi cimentarsi in un vasto e compiuto canone cui gli ostinati incisi anapestici degli archi conferiscono indubbi sentori handeliani. In un certo senso, un progetto simile riproduce e amplifica quello dell’iniziale Introito: chiunque l’abbia concepito e a quei livelli d’arte realizzato, ha predisposto un ulteriore splendido esempio di ciò che poteva produrre un fecondo e non pedantesco innesto tra vetustà di tecniche e modernità di concezione.