Mozart Wolfgang Amadeus

Requiem – Ave verum corpum

Il requiem di Mozart rappresenta uno dei grandi capolavori musicali d’ogni epoca. Quest’esecuzione in particolare si differenzia da molte altre e le supera in bellezza per una presenza straordinaria della sezione strumentale in particolare quella dedicata agli archi. Innegabile il ruolo che questi strumenti hanno nel corso della partitura fin dall'”incipit” del requiem aeternam. Il tappeto sonoro che fa eco alle esclamazioni commoventi dei soli e del coro ci trasporta in un mondo tenero dove la speranza sembra divenire qualcosa di più d’un intimo desiderio. L’uomo ai cospetti dell’eterno si affida a Dio con pacata rassegnazione, si percepisce sì l’angoscia del giudizio divino, ma alla contrizione del cuore umano segue immediatamente la percezione del perdono divino tanto che quando non sono simmetricamente scissi come nel “Confutatis Maledictis” costituiscono un dolcissimo unisono.La percezione offerta in tal modo all’ascoltatore attento è quella di un’opera autentica, senza finzioni scaturita direttamente dal cuore del compositore morente, come sempre accade quando un capolavoro si erge a canto del cigno d’un grande artista. Ogni forma

di teatralità sembra essere bandita. E’ difficile per l’ascoltatore scegliere questa o quella interpretazione dell’opus ultima mozartiana, ma ad un ascolto attento l’interpretazione qui incisa mi sembra veramente superiore a tante altre.

Requiem in re minore per soli, coro e orchestra K 626

Quando il Conte Franz von Walsegg zu Stuppach, aspirante compositore, decise di celebrare l’anniversario della morte della moglie avvenuta il 14 febbraio 1791, scelse di commissionare a Mozart un Requiem che poi avrebbe voluto far passare per suo. La proposta economica era buona e il compositore, che in quel periodo aveva bisogno di denaro per finanziare le sue corpose uscite, accettò. Il 1791 fu però per Mozart un anno pieno di impegni a cui far fronte rapidamente. Così il Requiem fu completato fino al secondo brano, in gran parte abbozzato, e poi lasciato molti mesi fra le carte che furono ereditate, dopo la morte del marito nel dicembre del 1791, dalla moglie Constanze. Fra quelle carte furono rinvenute prove che il compositore conoscesse il committente. È probabile che Mozart non avesse detto nulla alla moglie di quella strana commissione. Era bene, infatti, che a Vienna non se ne avesse sentore; ma che non lo sapesse lui, il cui segreto era stato comprato, e che gli venisse commissionata un’opera da un uomo misterioso, è francamente improbabile.
Tornando al Requiem, il motivo di tanta trascuratezza nel terminarlo è da additare dunque ai pressanti impegni, ma non è da tralasciare il fastidio che Mozart, uomo giustamente orgoglioso e con grande senso della dignità personale, provasse per il gesto di Walsegg e per il Requiem stesso. Eppure quest’opera, anche grazie all’ottimo lavoro di propaganda di Constanze, è diventata uno dei maggiori veicoli della fama di Mozart subito dopo la sua morte. Negli ultimi anni del Settecento ebbe innumerevoli esecuzioni in varie città, prima tedesche poi europee, e fu scelto spesso per commemorare la morte di personalità più o meno importanti. In questa composizione sacra il romanticismo ritrovò subito il suo clima e il Requiem, che alimentava l’aneddotica, anch’essa tutta romantica, della morte tragica e della sua colonna sonora, è divenuta fino ai nostri tempi una della creazioni più famose ed eseguite di Mozart. L’opera fu completata da Franz Xaver Süssmayr, allievo del compositore e amico di famiglia, con l’aiuto di altri e su commissione di Constanze, che consegnò all’incaricato del conte, circa due mesi dopo la morte del marito, la partitura, spacciandola per autentica. In ogni modo Constanze, che aveva fiutato l’affare in termini di immagine e di denaro, ne tenne copia anche per sé e tentò all’inizio di far credere che il Requiem fosse autentico davvero. Mozart invece aveva completato solo i primi due pezzi (Introitus, Kyrie e parte del Dies irae) e aveva lasciato appunti, più o meno nutriti fino all’Hostias, con i quali sviluppare le parti seguenti.

Mozart e il conte Franz von Walsegg

Walsegg diresse la partitura a sua disposizione il 14 dicembre 1793, poi la diresse ancora, utilizzandola con la destinazione per cui l’aveva commissionata, il 14 febbraio 1794, nella chiesa di Neukloster a Wiener Neustadt, località di cui era conte. Ma quando seppe che Constanze aveva fatto eseguire a proprio beneficio la sua partitura già il 2 gennaio 1793 a Vienna, decise bene per il futuro di lasciar perdere. Tuttavia, qualche anno più tardi, quando seppe che il Requiem stava per essere pubblicato, tentò di chiedere un cospicuo rimborso per la frode che era stata ordita ai suoi danni. Lui, che col denaro aveva fatto la stessa cosa, ma in modo più subdolo.

Struttura e natura del Requiem

La struttura

II Requiem è una composizione su testo latino, chiamata con locuzione poco cordiale “messa da morto”; è una messa composta da un insieme di brani finalizzati a celebrare la memoria di un defunto. Nel tardo Settecento la struttura della Missa pro defunctis era stabilita da una lunga tradizione, ma la scelta dei testi era in alcune occasioni lasciata alla discrezione del compositore che poteva adattarsi all’usanza locale.
Il Requiem di Mozart è così ordinato: Introitus (cioè introduzione) costituito dall’invocazione all’eterno riposo contenuta nel Requiem aeternam e seguito dall’invocazione al Cristo salvalore nel Kyrie eleison. Segue la sezione della Sequentia composta da alcuni brani. Il primo è il Dies irae, in cui si descrive il cataclisma del giudizio universale e la fine del mondo. Poi, nel Tuba Mirum è cantato come, al suono della tromba, i morti si risveglieranno. Segue l’apparizione di Cristo giudicante nel Rex Tremendae e la rievocazione salvifica del calvario nel brano successivo, il Recordare. L’attuazione del giudizio divino avviene nel Confutatis, nel quale si dipinge il momento in cui i dannati saranno puniti e i beati saranno salvati. Il Lacrimosa è un’addolorata riflessione sul dramma del giudizio finale e un’ulteriore sottolineatura del ruolo centrale di Cristo come figura salvifica, elemento che caratterizza anche la successiva sezione dell’Offertorium costituita dal Domine Jesu Christe, appassionata richiesta di salvezza, e dal seguente Hostias, in cui si invita il peccatore alla preghiera. Segue il Sanctus, evocazione della grandezza di Dio che termina con il canto dell’Osanna, e il Bendictus, ulteriore omaggio alla figura di Cristo, chiuso ancora dall’Osanna. Nell’Agnus Dei il figlio di Dio compare come agnello sacrificale che dona pace e salvezza. Segue poi la sezione finale della Communio, aperta e chiusa dal Lux aeterna in cui si invoca per i beati la luce eterna della salvazione e si canta la gioia dell’assunzione tra i santi.

La musica religiosa e il misticismo massonico

II Requiem è una composizione dal carattere suo proprio, per natura e qualità sonora dell’insieme. Possiede un colore particolare, scuro e patetico, che lo differenzia dal clima generale dell’opera di Mozart. Bisogna però dire che al momento in cui il compositore si accinse a scrivere il Requiem, erano trascorsi più di dieci anni dall’ultima sua messa, in gran parte a causa dei provvedimenti anticlericali promossi dall’imperatore Giuseppe II. Si deve poi sottolineare che gli esempi rimastici della poca musica sacra del periodo viennese, mostrano come Mozart andasse recuperando un senso del sacro ricco di profondità e magnetismo; per di più nuovo per la società del Settecento, che lo aveva in gran parte perduto. Il discorso rientra però in una problematica più generale. Negli ultimi anni della sua vita egli sentì il bisogno di condurre una personale ricerca spirituale, che innestasse il suo genio espressivo e il suo ruolo di musicista nelle forze intellettuali della società, in quella sorta di sacralità della ragione e del progresso sociale che l’illuminismo aveva individuato. Era un’esigenza interiore che si concretizzò nell’avvicinamento alla massoneria e a quel senso del magico e dell’occulto positivo che propagandava.
È possibile che tale avvicinamento sia stato dettato anche da interesse pratico; ma è pur vero che i risultati ottenuti in ambito lavorativo Mozart li raggiunse solo grazie alle sue capacità. Non si può dubitare che la sua profondità lo condusse a una ricerca laica del sacro, che sentì ben incarnata dai principi massonici, genericamente orientati al progresso civile, alla fratellanza umana e alla virtù. Era anche un modo per sottrarre al tempo e alla caducità la propria interiorità facendola parte di un ideale condiviso da altri, un modo per sacralizzare la propria sensibilità, ritenuta a ragione fonte di civiltà. Questo afflato all’elevazione morale e alla trascendenza è alla base, oltre che delle opere cosiddette “massoniche”, anche della poca produzione religiosa degli ultimi anni. Tuttavia la sfumatura espressiva tra la produzione vicina all’ambito massonico e quella religiosa si nota ampiamente, soprattutto nel Requiem. La fiducia nel magico e nel meraviglioso che caratterizza, ad esempio, Il flauto magico, è qui sostituita dal momento della morte e del giudizio, paure che forse la Massoneria non aveva interpretato appieno e che rimanevano dominio della religione istituzionale e del suo messaggio. Inoltre, se nella produzione massonica il percorso iniziatico sembra risolversi sul piano umano, tema latente proprio della creazione religiosa è invece il celebrare una trascendenza grandiosa e sovrumana con la quale sembra impossibile comunicare; e la musica sacra di Mozart si colora della tragicità derivante da questo bisogno irrisolto.

La musica

La commissione del Requiem offrì dunque a Mozart l’occasione di soddisfare la pulsione mistica dettatagli dalla sua potente sensibilità anche nel campo della

tradizione musicale religiosa e in special modo in un genere da lui mai frequentato, quello della “missa prò defunctis”. Seguiamone le caratteristiche salienti.

Constanze Mozart

Nel Requiem aeternam iniziale la musica si veste subito di un carattere solenne e liturgico che le apparterrà fino alla fine; l’intervento del solista, al centro del brano, acquista il valore di una solitaria invocazione che sposta poeticamente l’attenzione dalla massa al singolo. Molti degli interventi solistici si pongono, infatti, in fruttuoso contrasto con l’uso frequente del coro, e concentrano l’interesse sull’individuale e sull’umano, non scivolando mai in situazioni che ricordano il teatro d’opera. Lo stesso discorso vale anche per i brani successivi in cui compaiono solo le linee vocali dei quattro solisti, che si combinano spesso come se volessero incrementare l’afflato della loro implorazione.
Già nella propria conclusione il Requiem aeternam aveva anticipato il grandioso fugato del Kyrie, nel quale la geometria del contrappunto viene utilizzata per miniare l’imperscrutabilità del disegno divino. Tale scelta stilistica, comune a quasi tutta la musica sacra (anche a Job), si ritrova alla fine del Requiem, precisamente nel Lux aeterna. Inoltre, la struttura contrappuntistica, con le sue entrate a catena, è adatta a rappresentare l’esaltazione delle anime nel canto dell’Osanna, nella sezione finale del Sanctus e del Benedictus, oppure a caldeggiare la realizzazione della promessa che Dio fece ad Abramo, che torna alla fine del Domine Jesu e dell’Hostias. Ma l’orchestrazione del Requiem può procedere anche con intento descrittivo sia psicologico che pittorico, come nel Domine Jesu, in cui l’implorazione del coro sembra all’improvviso turbata dal terrore in corrispondenza delle parole «libera eas de ore leonis» (cioè «liberali dalle fauci del leone», ovvero dalla dannazione), o nell’andamento saltellato delle voci che riproducono il precipitare negli inferi sulle parole «ne absorbeat eas tartarus ne cadant in obscurum». Si pensi poi al Confutatis col suo procedere ostinato degli archi che da una parte evoca le fiamme infernali, dall’altro con la sua ripetitività, crea un clima ossessivo e terrifico. Nell’Agnus Dei, invece, l’elemento espressivo dominante è una scala discendente degli archi, simbologia dell’abbattimento e del dolore.
A volte Mozart adotta, con finalità drammatiche, uno stile considerato già fuori moda nella sua epoca: nel Rex Tremendae, che descrive l’apparizione del sommo giudice, il ritmo puntato che compare subito all’inizio e caratterizza il brano (per chiarire, è come se i suoni si muovessero a scatti) evoca, tramite l’arcaicità del procedimento musicale, la dignità e la tragica solennità del momento.
Non mancano poi oasi di riflessione in cui la preghiera e il desiderio di salvezza si fanno alta poesia, come nel magnifico Recordare, nel Lacrimosa o nell’inizio dell’Hostias, brani dalla natura ritmica più distesa e regolare. Un momento di rilassamento che potremmo definire lirico si trova nel Tuba Mirum in cui la tromba che annuncia la resurrezione dei corpi, interpretata all’inizio dal trombone, dipinge, con tenere movenze, il sorprendente risveglio dei morti. Il brano raggiunge un risultato particolare: abbiamo la sensazione che i morti, aperti gli occhi per risorgere, rimangano essi stessi meravigliati dal prodigio.

Karl Bohm

Dal Sanctus in poi non esistono schizzi guida di Mozart, ma non è facile essere certi che questa parte sia farina del sacco di Süssmayr, le cui opere successive, pur di buona qualità, sembrano inferiori a quello che è stato prodotto qui. Come al termine del Domine Jesu o nella Communio finale in cui rielabora Introitus e Kyrie, Süssmayr ha probabilmente deciso di riproporre materiale originariamente di Mozart per conservare al meglio la paternità del tutto. In ogni modo, il Requiem, sorprendentemente, risulta all’ascolto opera unitaria nella fattura come nell’ispirazione. Nella bellezza della musica, che possiamo ben dire di Mozart, si ritrova quella condivisione per la sofferenza, quella magica capacità di saper muovere e dipingere l’emozione che ce la fa amica e compagna di vita.

Questa è l’incisione più recente del Requiem di Mozart ad opera di Herbert von Karajan, registrata con i Wiener Philharmoniker, al posto dei Berliner Philharmoniker, come nel caso di altre due sue prime registrazioni, entrambe per la DG.
Le preferenze personali variano in riferimento ai solisti e al coro, ma la registrazione mi è davvero piaciuta molto. Interpretazione vigorosa e potente. Estremamente drammatico il “Dies irae” L’audio interamente digitale (DDD) risulta caldo e immediato. Altamente raccomandato.

Requiem in re minore per soli, coro e orchestra K 626

Mozart compose la quasi totalità della propria musica sacra per i servizi liturgici della corte arcivescovile di Salisburgo. Le tredici Messe nate a Salisburgo, in un periodo compreso tra il 1769 e il 1780, non furono pensate dall’autore seguendo la traccia dettata dalla propria libera fantasia, ma nel rispetto dei precisi canoni imposti dal gusto corrente dell’epoca, dalla tradizione locale e dalle predilezioni dell’arcivescovo in carica.
Il trasferimento del 1781 a Vienna comportò per il compositore, con l’emancipazione da cortigiano a libero professionista, anche l’interruzione dei rapporti “obbligati” con la liturgia cattolica. Non è un caso che siano appena
due i grandi lavori sacri degli anni viennesi – la Messa in do minore K. 427/417a e il Requiem K. 626, composti rispettivamente per iniziativa propria e dietro commissione privata, rimasti entrambi incompiuti per motivi diversi (il diminuito interesse dell’autore e la sua prematura scomparsa). Inoltre queste opere, per le imponenti dimensioni e per l’influenza del severo stile contrappuntistico di Bach e Hàndel (con le cui composizioni Mozart era venuto a contatto dal 1782) rappresentano una svolta rispetto alla concisione e alla cordialità delle messe del periodo salisburghese.
Le circostanze della nascita del Requiem sono avvolte nella leggenda. O, per meglio dire, sono state avvolte nella leggenda dalle innumerevoli fantasticherie inventate nel periodo romantico legate, ovviamente, all’aura del tutto particolare che attribuisce a questa partitura mortuaria il fatto di essere rimasta incompiuta in seguito alla morte dell’autore. Spogliate delle tante fantasticherie, le vicende della genesi appaiono piuttosto semplici. Nel luglio 1791 Mozart ricevette la commissione per la stesura di un Requiem da parte di un anonimo che, corrispondendogli un lauto anticipo, metteva quale unica condizione quella di non ricercare l’identità del committente; si trattava di un nobile prematuramente vedovo, il conte Walsegg, che intendeva eseguire l’opera nella ricorrenza della scomparsa della consorte, attribuendosene disinvoltamente la paternità.
Certamente Mozart, di ritorno da Praga, dove aveva curato l’esecuzione della Clemenza di Tito, attese alla partitura nei mesi di ottobre e novembre; non senza che il declinante stato di salute avesse influenza sulle sue condizioni nervose e lo portasse, secondo attendibili testimonianze, ad affermare di comporre l’opera per se stesso. Alla morte del compositore, il 5 dicembre, la vedova Constanze, in difficili condizioni economiche, decise di far ultimare la partitura in modo da consegnarla al committente e ricevere il giusto compenso; senza beninteso rivelare l’apporto di mani diverse da quelle del marito.
Proprio a causa di questo completamento, pur se spogliato della sua macabra aneddotica, il Requiem rimane avvolto ai nostri occhi da un certo alone di mistero. A colmare le lacune fu principalmente Franz Xaver Süssmayr, allievo del compositore, coadiuvato da altri due allievi, Joseph Eybler e Franz Jakob Freystädtler. La situazione complessiva, pazientemente ricostruita dalla ricerca musicologica, si presenta come segue. Dei dodici numeri musicali solo il primo (Introitus e Kyrie) è interamente autografo di Mozart, mentre i numeri 2-9 recano di pugno del maestro solamente la linea del basso, quelle delle voci e qualche più o meno cospicua indicazione di strumentazione (il n. 7, Lacrimosa, è poi drammaticamente interrotto). Gli ultimi tre numeri invece furono composti ex novo da Süssmayr (forse anche sulla base di indicazioni o appunti di Mozart) che, per il conclusivo Lux aeterna, riprese il brano iniziale.

Herbert von Karajan

Difficile dunque sfuggire all’impressione che la coerenza del Requiem appaia irrimediabilmente compromessa dagli interventi degli allievi, di non sempre adeguata fantasia inventiva né tecnicamente sagaci. E tuttavia è indiscutibile che, anche in questa veste, il Requiem appaia un capolavoro. Vi è innanzitutto da parte dell’autore la ricerca di una via nuova per lo stile chiesastico, rispettosa dei precetti dettati dall’imperatore Giuseppe II (cui nel frattempo era succeduto Leopoldo II), per una musica sacra disadorna e di facile comprensione. Via nuova ma basata sull’antico, cioè su un uso della polifonia e del contrappunto ispirato ai modelli barocchi; calibratissimo e antivirtuosistico è l’uso dei solisti, opache – come si vedrà meglio – le scelte strumentali. Il tutto congiunto a una gestualità plastica, di tipo teatrale.
Basterebbe ascoltare l’Introitus e Kyrie, unica sezione del tutto autografa. C’è innanzitutto una atmosfera sonora, livida e desolata, attribuibile in gran parte alla particolarissima strumentazione, dove gli unici legni presenti sono corni di bassetto (della famiglia dei clarinetti) e fagotti; di qui un timbro opaco e spettrale, che intreccia polifonie opponendosi ai pizzicati degli archi. Si staglia come contrasto il purissimo a solo di soprano «Te decet Hymnus». Segue poi la doppia fuga del Kyrie, serratissima e stringata, di carattere arcaico.
La sequenza si divide in sei sezioni, fra loro plasticamente contrapposte in quanto a scelte di organico e contenuto espressivo; il Dies irae, interamente corale, è di impatto massiccio; sintetico, drammatico, ricco di effetti figurati («tremor»). Il Tuba mirum vede alternarsi i quattro solisti (basso, tenore, contralto e soprano), che si uniscono solo al termine; ma l’effetto folgorante è quello iniziale del trombone solista, che dialoga con il basso. Il Rex tremendae
majestatis reca nettissima l’impronta di Händel, nell’alternanza (e poi sovrapposizione) dei ritmi puntati degli archi e della massa corale. Il Recordare, nuovamente affidato ai solisti e costruito secondo lo schema ABA’CA”, è innervato da imitazioni di carattere arcaico, cui conferiscono fascino peculiare le scelte timbriche (l’introduzione strumentale è tutta di mano di Mozart). Il Confutatis contrappone coro maschile e femminile nelle immagini dei dannati e dei redenti. Le otto battute superstiti del Lacrimosa si interrompono al vertice del crescendo: la conclusione funzionale di Süssmayr non compromette l’incanto sofferto della pagina.
L’Offertorio si articola, come di consueto, in due parti, entrambe concluse dalla fuga «Quam olim Abrahae». Il Domine Jesu Christe ha una condotta corale incalzante e agitata, di derivazione mottettistica; l’episodio «Sed signifer sanctus Michael» passa ai solisti, e scivola direttamente nella fuga; nettamente contrastante lo squarcio sereno dell’Hostias, dove la scrittura corale omofonica è accompagnata dal fraseggio in sincopi degli archi.
Impossibile stabilire gli eventuali spunti di Mozart nei rimanenti pezzi, pervenuti interamente nella grafia dell’allievo. L’incedere solenne e corale del Sanctus è nel solco della tradizione, la fuga dell’«Hosanna» scolastica e sommaria. Il Benedictus, affidato ai solisti e perciò intimistico, è singolarmente esteso e rifinito. L’Agnus Dei si basa sul contrasto fra la triplice invocazione e la supplica «dona nobis pacem». Quanto al Lux aeterna, Süssmayr si limitò a riprendere la musica dell’Introitus e Kyrie; una soluzione che può apparire semplicistica, ma che alcuni commentatori hanno fatto risalire alla volontà dello stesso Mozart, orientato anche in altri lavori religiosi a rispettare quella logica circolare, così propria dell’epoca, intesa a ribadire principi eterni. Ma anche questa osservazione è destinata a rimanere nel campo delle ipotesi e degli interrogativi che da sempre si sono sollevati intorno all’ultimo capolavoro di Mozart.

Riccardo Muti sul podio dei Berliner Philharmoniker giganteggia donando a questa partitura un profondo senso religioso e drammatico. Cast di altissima qualità. Il “Dies irae” è impressionante. Un plauso al Schwedischer Rundfunkchor per la magnifica interpretazione. Audio in DDD eccezionale. Registrazione eseguita nel 1887. CD di difficile reperibilità. Altamente raccomandato.

Requiem: Mozart, K. 626
Ave verum corpus K. 618 di Robin Golding

Durante gli anni trascorsi a Salisburgo Mozart scrisse più di cinquanta lavori per uso liturgico, mentre a Vienna, dove ufficialmente non rivestiva alcuna carica ecclesiastica, ne scrisse solamente tre: la Messa in do minore, K. 427/417 a, il mottetto Ave verum corpus, K. 618 e il Requiem, K. 626, il primo e l’ultimo dei quali restano incompiuti.
Il 18 giugno 1791, appena sei mesi prima di morire, compose il mottetto, breve ma straordinariamente toccante e stupendo Ave verum corpus per coro a quattro parti, archi e organo. Le precise circostanze della sua composizione sono ignote, ma sembra probabile che lo avesse scritto per la funzione del Corpus Cristi diretta dall’insegnante e maestro di coro Anton Stoll, originario di Baden
vicino a Vienna. Questo piccolo capolavoro è un tipico esempio della maniera “neoclassica” dell’ultimo periodo mozartiano: come afferma Alfred Einstein, “la perfezione della modulazione e la scrittura delle parti, con quella leggera polifonia introdotta come ad intensificare il finale, non viene più percepita. Qui…… gli elementi liturgici e quelli personali confluiscono assieme. Il problema dello stile è risolto”.
L’incarico di comporre il Requiem fu affidato a Mozart nel luglio 1791 dal conte Franz Walsegg-Stuppach, la cui moglie era morta all’inizio di quell’anno. Il conte si illudeva di essere un compositore ed aveva il vizio di fare passare per suoi i lavori di altri musicisti, e presumibilmente fu proprio per questa ragione che il suo agente si mostrò così circospetto e misterioso durante il suo colloquio con Mozart. Quest’ultimo, ormai malato, non tardò a convincersi che il “forestiero vestito di grigio” fosse un messo nella Morte. Per citare Mary Novello, che visitò la vedova di Mozart, Constanze, nel 1829, “Circa sei mesi prima di morire fu ossessionato dall’idea di essere stato avvelenato: “So di dover morire”, aveva esclamato. “Qualcuno mi ha somministrato aqua toffana (un veleno ad azione lenta) ed ha calcolato il momento preciso della mia morte, in vista della quale mi hanno commissionato un Requiem. È per me stesso che lo scrivo”.
Benché a quel tempo fosse occupato con la partitura del Flauto magico, si mise subito a lavorare al Requiem, e pare che ne abbia completato il Requiem aeternam e il Kyrie prima di essere interrotto da un incarico per La clemenza di Tito (terminata il 5 settembre). Dopo la prima del Flauto magico andato in scena il 30 settembre, si dedicò nuovamente al Requiem, e tra allora e la sua morte, avvenuta il 5 dicembre abbozzò il Dies irae, il Tuba mirum, il Rex tremendae, il Recordare, il Confutatis, il Domine Jesu e l’Hostias (parti vocali complete, basso figurato, e alcune indicazioni circa l’orchestrazione); si sa che l’ultima parte della Messa ad essere scritta di suo pugno fu il Lacrimosa, ma non poté procedere oltre l’ottava battuta.
Siccome l’agente del conte aveva pagato anticipatamente, Constanze era naturalmente ansiosa di veder completata la partitura, e per questo si rivolse a vari musicisti, ma da principio non ricorse per aiuto alla persona più ovvia: Franz Xaver Sussmayr (1766-1803), un allievo di Mozart che era stato costantemente in compagnia del maestro mentre lavorava al Requiem e la cui edizione della partitura fu poi pubblicata nel 1800. Quanto del Requiem sia opera di Sussmayr non sapremo probabilmente mai. Una sua dichiarazione pubblicata due anni dopo farebbe credere che fosse responsabile, se non interamente, per gran parte del Sanctus, del Benedictus e dell’Agnus Dei (il Lux aeterna finale usa la musica dei brani iniziali, il Requiem e il Kyrie), ma si fatica a credere che un musicista dalle doti tanto mediocri possa aver concepito lo straordinario Agnus Dei, sebbene fosse responsabile della goffa trattazione della fuga dell’Osanna e della verbosità musicale del Benedictus.

Patricia Pace

Ovviamente, rientrava nel suo interesse far credere che fosse responsabile per gran parte del lavoro, così come rientrava in quello di Constanze l’affermare che suo marito lo avesse completato pressoché interamente; viene da chiedersi se Sussmayr non possa aver consultato anche gli altri abbozzi di Mozart che però non volle far sapere.
La versione della partitura ultimata da Sussmayr è quella più comunemente eseguita, come appunto in quest’incisione, ma val la pena di ricordare due recenti edizioni che tentano di risalire alla concezione mozartiana del lavoro: l’una a cura di Franz Beyer (1971), la quale “ripulisce” la partitura; l’altra a cura di Richard Mauder (1984) che è anche più radicale, in quanto omette il Sanctus, l’Osanna e il Benedictus, e conclude il Lacrimosa con un Amen fugato che è basato su abbozzi contemporanei di Mozart. L’oscura orchestrazione del lavoro, limitata agli archi, corni di bassetto, fagotti, trombe, tromboni e timpani, è opera dello stesso Mozart, ma egli non l’avrebbe mai svolta dal principio alla fine in una maniera così opaca e impiegando così inesorabilmente i tromboni colla parte.
Tuttavia, sebbene la tessitura della partitura, particolarmente negli ultimi movimenti, tradisca spesso la mano pesante di Sussmayr, ciò non pregiudica seriamente la dignità, la grandezza, nonché la forza e la compassione della concezione mozartiana.

(Traduzione: Marco Dorigatti)

Requiem in re minore per soli, coro e orchestra K 626

Il fascino del tutto peculiare che viene da sempre riconosciuto al Requiem in re minore K. 626, è certamente legato al fatto che questa partitura è l’ultima del catalogo di Mozart, a causa della prematura scomparsa del compositore. Dunque un lavoro funebre che è intrecciato alle vicende della morte dell’autore; non sappiamo se sia vero che, come affermarono a distanza di anni varie testimonianze riconducibili alla vedova, Mozart avesse detto di comporre questo Requiem per se stesso; di fatto è significativo che un frammento del Requiem venisse eseguito a una cerimonia funebre svoltasi a Vienna a distanza di pochi giorni dalla scomparsa del compositore.
Il formarsi di una mitologia intorno al Requiem nasce dunque da questa coincidenza fra lavoro funebre e morte prematura, per lungo tempo avvertita come misterioso segno del destino. Molti altri misteri hanno però interessato fin dalle origini il Requiem, e tuttora non appaiono del tutto chiariti. Singolari sono certamente le circostanze della nascita della partitura. Nel luglio 1791 Mozart
ricevette la commissione per la stesura di un Requiem da parte di un intermediario del conte Walsegg, un aristocratico prematuramente vedovo che intendeva eseguire l’opera nella ricorrenza della scomparsa della consorte, attribuendosene disinvoltamente la paternità. Tuttavia, secondo testimonianze sempre riconducibili a Constanze Mozart, l’intermediario non avrebbe rivelato a Mozart l’identità del committente, invitando anzi il musicista a non ricercarla; vero o non vero, questo presunto anonimato del committente contribuì indubbiamente all’alone di mistero sulla nascita del lavoro. Mozart poi, di ritorno da Praga dove aveva curato l’esecuzione della Clemenza di Tito, attese alla partitura nei mesi di ottobre e novembre, rallentando la composizione solo con il declinare delle sue condizioni di salute.
Il 5 dicembre Mozart muore, lasciando incompiuta la partitura del Requiem; e questa incompiutezza è all’origine di tutta un’altra serie di misteri. La vedova Constanze, comprensibilmente desiderosa di riscuotere il saldo della partitura incompiuta, affidò il completamento dell’autografo a musicisti legati all’entourage del marito. Ad occuparsi di colmare le lacune fu principalmente Franz Xaver Süssmayer, allievo del compositore, ma prima di lui erano stati coinvolti altri due allievi, Franz jakob Freystädtler e Joseph Eybler, sotto il probabile coordinamento di un altro musicista vicino alla famiglia Mozart, l’abate Maximilian Stadler. Tutti costoro furono legati da un vincolo di segretezza; nessuno doveva sospettare che Mozart non fosse l’unico autore del Requiem. È solo nel 1825, quando ormai da molto tempo il Requiem era stato eseguito e pubblicato, che vennero avanzati i primi reali sospetti sul contributo di altre mani nel completamento della partitura, dando luogo a una controversia che sarebbe durata per parecchi anni.
In che misura la composizione, che è ammirata e venerata come una delle più alte del suo autore, è effettivamente di Mozart? Questa domanda è riecheggiata nei secoli, dal 1825 ad oggi, e si pone in modo inquietante ai posteri. Ad essa ha cercato di rispondere in modo il più possibile esauriente la ricerca musicologica, fino all’edizione critica curata nel 1965 da Leopold Nowak, e poi al più recente studio di Christoph Wolff (Il Requiem di Mozart. La storia, i documenti, la partitura, Astrolabio, Roma, 2006), imprescindibile punto di riferimento anche per queste note. Converrà dunque riassumere la situazione oggettiva del Requiem, nella versione completata da Sussmayer e altri, e consegnata dalla vedova al committente. Essa si articola in otto differenti grandi numeri musicali.

nn. 1-2. Introitus e Kyrie

L’Introitus è l’unica sezione della partitura interamente di mano di Mozart. Il Kyrie invece è autografo per le parti corali, mentre i raddoppi strumentali sono stati realizzati nei giorni immediatamente seguenti alla morte dell’autore da

Franz Jakob Freystädtler, per una esecuzione di tutto questo numero musicale alla cerimonia funebre svoltasi nella chiesa di San Michele il 10 dicembre.

Waltraud Meier

In seguito Süssmayer aggiunse le parti di trombe e timpani.

n. 3. Dies Irae

Si tratta del numero musicale più vasto della partitura, diviso in sei sezioni differenti (la cosiddetta “sequenza”). Le prime cinque sezioni sono state composte da Mozart in forma abbreviata, ovvero con le parti corali e solistiche complete, la linea del basso e alcune indicazioni di orchestrazione, più o meno precise a seconda dei vari momenti. L’orchestrazione venne completata in un primo momento da Joseph Eybler, quindi nuovamente realizzata da Süssmayer sulla base del completamento di Eybler. Quanto alla sesta sezione, “Lacrymosa”, Mozart ne scrisse solamente le prime otto battute; il rimanente venne completato da Süssmayer.
Un appunto di un tema di fuga su un foglio staccato suggerisce che Mozart aveva pensato di concludere tutta la sequenza con una settima sezione, una fuga sull”‘Amen”; una soluzione che venne però scartata da Sussmayer, forse per la sua eccessiva difficoltà.

n. 4 Offertorium

La situazione è la medesima dei primi sei numeri del Dies Irae. Il completamento è stato iniziato dall’abate Maximilian Stadler e portato a termine da Süssmayer.

n. 5 Sanctus – n. 6 Benedictus – n. 7 Agnus Dei

Mozart non compose questi numeri musicali, che vennero scritti da Süssmayer. Una analisi dei materiali melodici di base di queste sezioni – nonché dell'”Osanna” che chiude il Sanctus e il Benedictus – mostra delle corrispondenze che suggeriscono come Süssmayer avesse a disposizione alcuni appunti che non ci sono pervenuti.

n. 8 Communio

Mozart non compose questo numero musicale. Süssmayer riprese testualmente la musica dei nn. 1-2. Introitus e Kyrie.
È difficile sfuggire all’impressione che il Requiem così come è arrivato ai posteri si allontani considerevolmente nel risultato da quelle che erano le intenzioni del compositore. C’è, in primo luogo, un problema di architettura complessiva. Non sappiamo se l’idea di riprendere, nella Communio, la musica di Introitus e Kyrie sia ascrivibile al compositore; certamente la progettata fuga conclusiva del “Lacrymosa” doveva assumere nella partitura un ruolo di grande rilievo, anche perché il soggetto di questa fuga può essere considerato una trasformazione del motivo iniziale del Requiem. Ma anche i temi di Sanctus e Benedictus presentano corrispondenze di questo tipo, dando l’impressione di una ferrea coerenza e unità concettuale nella partitura. Proprio questi fattori – in secondo luogo – risultano fortemente compromessi dalla realizzazione di Süssmayer, che semplicemente non aveva gli strumenti tecnici, oltre che la fantasia inventiva, per elaborare gli appunti che aveva a disposizione. La gratitudine dovuta dai posteri a questo onesto artigiano non cancella purtroppo i suoi limiti.
E tuttavia è indiscutibile che, anche in questa veste compromessa, il Requiem appaia come un capolavoro, a cui incompiutezza e ipotesi attribuiscono un fascino ulteriore. Vi troviamo innanzitutto da parte dell’autore la ricerca di una via nuova per lo stile chiesastico. Nelle numerose composizioni sacre degli anni salisburghesi Mozart si era applicato soprattutto a rispettare i precetti dell’arcivescovo Colloredo, che imponevano una grande stringatezza e cordialità nella musica scritta per il culto. Nei pochissimi lavori sacri degli anni viennesi, al contrario, egli tenne certamente presenti i precetti dettati dall’imperatore Giuseppe II – cui nel frattempo era succeduto Leopoldo II – per una musica sacra disadorna e di facile comprensione.

James Morris

La nuova via di Mozart nel Requiem si basa però sull’antico, ossia su un uso della polifonia e del contrappunto ispirato ai modelli barocchi. Lo studio delle partiture di Bach e di Händel, la cui grandiosità nella scrittura corale e orchestrale penetra fin nella Zauberflote e nella Clemenza di Tito, si palesa a maggior ragione nel Requiem.
Non a caso nei primi due numeri della partitura, Introitus e Kyrie, l’influenza di Händel non è generica, ma riferita a due precisi modelli. L’attacco dell’Introitus è infatti ricalcato sul Funeral Anthem for Queen Caroline HWV264; c’è però nella partitura di Mozart, una atmosfera sonora peculiare, legata in gran parte alle scelte di strumentazione, dove gli unici legni presenti sono corni di bassetto (della famiglia dei clarinetti) e fagotti; di qui il timbro opaco e spettrale, che intreccia polifonie opponendosi ai pizzicati degli archi. Si staglia come contrasto, poco dopo, il purissimo a solo di soprano “Te decet Hymnus”. Ancora Händel, con il Dettingen Anthem HWV 265, è il modello di uno dei momenti più impressionanti della partitura di Mozart, la doppia fuga del Kyrie, dove il carattere arcaico della scrittura è significativamente sottolineato.
Ancor più che nei primi due numeri, si palesa nel terzo, Dies Irae, una delle caratteristiche più distintive del Requiem: il fatto che il contrappunto non sia riservato a determinate sezioni della partitura, ma innervi nella sostanza gran parte di essa; non a caso il ruolo dei solisti di canto è nettamente subordinato rispetto al coro, e, pur nell’incompiutezza, la parte corale è sufficiente a
restituire la potenza della concezione. C’è poi, da parte dell’autore, la capacità di avvicendare i vari momenti della partitura secondo una logica di contrasti che segue un preciso percorso interno di evoluzione. Così la sequenza si divide in sei sezioni, fra loro plasticamente contrapposte in quanto a scelte di organico e contenuto espressivo; il Dies irae, interamente corale, è di impatto massiccio; sintetico, drammatico, ricco di effetti figurati (“tremor”). Il Tuba mirum vede alternarsi i quattro solisti (basso, tenore, contralto e soprano), che si uniscono solo al termine; ma l’effetto folgorante è quello iniziale del trombone solista, che dialoga con il basso evocando il giorno del giudizio. Il Rex tremendae majestatis reca nettissima l’impronta di Händel, nell’alternanza – poi sovrapposizione – dei ritmi puntati degli archi e della massa corale. Il Recordare, nuovamente affidato ai solisti, costruito secondo lo schema ABA’CA”, è innervato da imitazioni di carattere arcaico, cui conferiscono fascino peculiare le scelte timbriche – non a caso l’introduzione strumentale è tutta di mano di Mozart. Il Confutatis contrappone coro maschile e femminile nelle immagini dei dannati e dei redenti. Le otto battute superstiti del Lacrimosa si interrompono al vertice del “crescendo”: la conclusione funzionale di Süssmayer non compromette l’incanto sofferto della pagina.
L’Offertorium si articola, come di consueto, in due parti, entrambe concluse dalla fuga “Quam olim Abrahae”. Il Domine Jesu Christe ha una condotta corale incalzante e agitata, di derivazione mottettistica; l’episodio “Sed signifer sanctus Michael” passa ai solisti, e scivola direttamente nella fuga; nettamente contrastante lo squarcio sereno dell’Hostias, dove la scrittura corale omofonica è accompagnata dal fraseggio in sincopi degli archi.
Rispetto ai primi quattro numeri della partitura, la tensione si stempera fatalmente nei tre composti da Süssmayer. L’incedere solenne e corale del Sanctus è nel solco della tradizione, il fugato dell”‘Osanna” scolastico e sommario. Il Benedictus, affidato ai solisti e perciò intimistico, è singolarmente esteso e rifinito. L’Agnus Dei si basa sul contrasto fra la duplice invocazione e la supplica “dona eis requiem”.

Frank Lopardo

Quanto alla Communio, Süssmayer si limitò, come si è detto, a riprendere la musica di Introitus e Kyrie; una soluzione che può apparire semplicistica, ma che lo stesso Mozart aveva adottato in altri lavori sacri, come la Messa dell’Incoronazione K. 317, rispettando in tal modo, con il ritorno della stessa musica iniziale, quella logica circolare, così propria dell’epoca, intesa a ribadire i principi eterni della religione. Forse, più che a questioni teologiche, la scelta di Süssmayer deve essere stata legata alla fretta e alla consapevolezza della propria inadeguatezza. Tuttavia questo riapparire della musica dei numeri
iniziali ha il merito di far riassaporare all’ascoltatore consapevole di tutte le complesse vicende del Requiem di Mozart, dell’ambizione e della novità del suo progetto, dei problemi legati all’incompiutezza, proprio quelle pagine che più strettamente manifestano il pensiero del compositore e ne prospettano la forza concettuale ed espressiva. Quale conclusione migliore, per il capolavoro incompiuto?

Ave verum corpus

L’Ave Verum Corpus K. 618 è un breve mottetto per coro e strumenti (archi e organo) scritto da Mozart nell’estate del 1791 – per l’esattezza l’autografo reca la data del 17 giugno – a Baden, dove aveva raggiunto la moglie Constanze impegnata nelle cure termali. All’origine della composizione si pone un debito contratto con l’amico Anton Stoll, che dirigeva il coro locale; per sdebitarsi Mozart dedicò l’Ave Verum a Stoll, perché fosse eseguito nella chiesa parrocchiale di Baden nel corso delle cerimonie celebrative dalla festa del Corpus Domini. Certamente l’importanza del brano si spinge molto oltre quello che le esigue dimensioni lascerebbero supporre; infatti l’Ave Verum è una delle pochissime composizioni di musica sacra che Mozart abbia scritto negli ultimi anni di vita, insieme alla Messa in do minore K. 427/417a e al Requiem K. 626 (partiture, queste rimaste entrambe incompiute).
Lo stile sacro dell’ultimo Mozart è ispirato alle riforme imposte dall’imperatore Giuseppe II, per le quali la musica sacra doveva essere sobria e di facile comprensione. Così il mottetto K. 618 si riallaccia alla grande tradizione italiana del mottetto polifonico, ma con una disadorna semplicità espressiva. Troviamo nelle appena 46 battute di questo piccolo e preziosissimo gioiello, una scrittura corale omofonica e attentissima al significato della parola, una ricerca di timbri tersi e delicatamente sommessi. Non mancano i tratti più complessi dell’arte del maestro, come la modulazione al tono lontano di fa maggiore, o le entrate a canone nel finale; ma questi tratti “dotti” sono quasi dissimulati e non contraddicono l’assunto di immediatezza e semplicità che ha sempre incantato studiosi e ascoltatori dalla prima pubblicazione dell’Ave Verum nel 1808, fino ai giorni nostri.

Riccardo Muti

Abbado diresse e registrò dal vivo questo Requiem di Mozart, eseguito nel 1999 in ricordo di Herbert con Karajan, nel decennale della morte del grande direttore austriaco.
Eseguito con i Berliner Philarmoniker ma con organico ridotto: Abbado fa suonare la sua orchestra di allora come una piccola orchestra da camera. E, seppure con strumenti moderni i Berliner sembrano suonare come un’orchestra “filologica”, cosa che Abbado ripeterà negli anni a seguire con la sua nuova orchestra, la Mozart.
Ne emerge un Requiem trasparente come l’aria, lieve come la musica che Mozart aveva inteso comporre, di struggente malinconia, quasi un inno di rimpianto alla vita ormai passata piuttosto che un inno di straziante dolore. Il coro é quello straordinario della Radio Svedese, un coro fra i primi tre al mondo e che spesso aveva collaborato con il maestro italiano.
Il quartetto di solisti é all’altezza del compito, ad iniziare da Karita Mattila che canta in modo celestiale già dalle prime note affidate al soprano nell’introitus. Ma anche Sara Mingardo é un contralto eccellente, così come eccellente è il tenore, Michael Schade, già straordinario protagonista del Flauto Magico sotto la bacchetta di Gardiner. Bryn Terfel come basso é una garanzia di bel timbro brunito e grande musicalità (fa un peccatuccio quando sbaglia le parole del ritornello “ante diem” ma per chi non sa le parole del testo latino é un errore che
passa inosservato….ed essendo una ripresa dal vivo non é stato possibile correggerla con nuova ripresa…).

Karita Mattila

Un Requiem straordinario, che è stato anche ben registrato dalla DG, con effetto ambientale “a cappella”. Certamente é una registrazione imperfetta in quanto effettuata dal vivo, peraltro in una chiesa con molto riverbero, ma chi frequenta concerti dal vivo, anche nelle chiese, si rende subito conto di quanto questa registrazione sia bella e assai fedele all’evento dal vivo.
Nonostante le decine di Requiem che ho ascoltato, dal vivo e su CD, ne conosco solo uno che sta al pari di questo, quello interpretato da Bernstein, che adotta criteri esattamente opposti a quelli di Abbado, esaltando gli aspetti drammatici e passionali della partitura con ampi contrasti dinamici e tempi tenuti molto larghi. Certamente sono molto belle anche altre interpretazioni su disco, ad iniziare dalla versione filologica di Herreweghe, poi quella di Harnoncourt e per finire quella di Hogdwood. Ma questa versione di Abbado, insieme a quella di Bernstein, sono di un altro pianeta….. E con tristezza estrema, ascoltando questo CD a pochi giorni dalla morte di Abbado, ho avvertito la perdita enorme che é stata la morte del direttore italiano. E ho
pensato che questo Requiem, dedicato allora a Karajan ritenuto il più grande direttore, sia invece il degno epitaffio musicale per Abbado medesimo, che ha superato per statura musicale il gigante austriaco, e che ci lascia una eredità discografica enorme con cui confrontarsi negli anni a venire….
Buon ascolto a tutte e tutti voi…

Requiem in re minore per soli, coro e orchestra K 626

Fu nel luglio del 1791, quando cioè le sue condizioni materiali cominciavano a diventar disperate e la salute stava già declinando, che Mozart ricevette l’incarico di comporre il Requiem in circostanze che gli apparirono misteriose. Un curioso signore vestito di nero, gli recò un giorno una lettera senza, firma, in cui l’anonimo scrivente dopo aver tessuto le lodi del musicista gli chiedeva se, e per quale prezzo, egli sarebbe stato disposto a scrivere una Messa funebre. Mozart consentì per 50 ducati, senza accettare però una scadenza fissa per la consegna. Qualche giorno dopo il misterioso messaggero tornò con la somma richiesta, promise una maggiore a lavoro finito, assicurò il compositore che aveva piena libertà di seguire il proprio gusto, ponendo come, unica condizione che egli non cercasse mai di scoprire il nome del committente. Lo strano modo in cui gii fu commissionato il Requiem impressionò profondamente il musicista già ammalato e acuì tutti i presentimenti di morte, che da tempo ormai soleva esprimere, fino al punto da assumere l’aspetto d’una ossessionante idea fissa: per Mozart lo sconosciuto non poteva essere che un inviato dall’al di là che gli ordinava di scrivere la sua stessa Messa da Requiem. Il fatto che proprio nel momento in cui Mozart saliva in carrozza per recarsi a Praga (dove lo chiamava, l’incarico di comporre La clemenza di Tito) l’inquietante messaggero riapparve inaspettatamente per sollecitare la composizione, del Requiem, non fece che rafforzarlo nella sua credenza.
Solo dopo la morte di Mozart si doveva chiarire il mistero della strana commissione: il committente era il conte Franz Walsegg zu Stuppach, un dilettante che possedeva una Cappella privata nella quale soleva eseguire musiche che spacciava per sue, ma che in realtà erano composte da altri. Il Requiem era destinato a servire per le annuali funzioni in suffragio della sua defunta moglie. Egli stesso l’avrebbe poi copiato di proprio pugno, scrivendoci «composto dal Conte Walsegg». Nel dicembre del 1793 Walsegg diresse il Requiem nella chiesa cistercense dì Wiener Neustadt. Ma di tutto questo retroscena il povero Mozart era ignaro. Appena tornato da Praga si accinse febbrilmente alla composizione, interrompendola poi solo per finire Il Flauto magico.

Sara Mingardo

Ma le sue condizioni fisiche non gli dovevano permettere di condurlo a termine. Lo stato d’animo in cui egli lavorava al Requiem era tale che la moglie cercò di sottrargliene la partitura ed anche i suoi amici tentarono di consigliargli il riposo per liberarsi dall’incubo che lo attanagliava.
Per rendersi conto della disposizione d’animo in cui lavorava, basta del resto, leggere questo passo di una lettera indirizzata presumibilmente a Lorenzo da Ponte: «Aff.mo.-Signore. Vorrei seguire il vostro consiglio, ma come riuscirvi? Ho il capo frastornato, conto a forza, e non posso levarmi dagli occhi l’immagine di questo sconosciuto! Lo vedo di continuo, esso mi prega, mi sollecita ed impaziente mi chiede il lavoro. Continuo perché il comporre mi stanca meno del riposo. Altronde non ho più da temere. Lo sento a quel che provo che l’ora suona; sono in procinto di spirare; ho finito prima di aver goduto del mio talento. La vita era pur sì bella, la carriera s’apriva sotto auspici tanto fortunati, ma non si può cangiare il proprio destino. Nessuno misura i propri giorni, bisogna rassegnarsi, ma sarà quel che piacerà alla provvidenza.. Termino ecco il mio canto funebre, non devo lasciarlo imperfetto».
Purtroppo, come dicevamo, questo canto era destinato a restare imperfetto. Fino all’ultimo Mozart lottò per strappare qualche giorno di vita che gli permettesse di portare, al termine il Requiem. Fino all’ultimo si faceva passare al pianoforte e cantare da allievi e amici le parti compiute. Non gli fu possibile che stendere la partitura, completa del Requiem iniziale e del Kyrie. Delle sette parti dal Dies Irae fino al Hostias sono scritte in partitura solo le parti vocali e il basso, mentre le parti strumentali sono, indicate sommariamente. Delle ultime tre parti non esiste nemmeno l’abbozzo autografo, né si sa se Mozart arrivò a tracciarle. Temendo che il committente non accettasse il manoscritto incompleto e pretendesse la restituzione degli anticipi ricevuti, la vedova di Mozart chiese ad altri musicisti (tra i quali J. Eybler) di finire il lavoro. Fu l’allievo di Mozart, Francesco Saverio Süssmayer, ad accettare l’incarico. La partitura ultimata fu consegnata al committente e la vedova di Mozart sostenne per molti anni che era stato Mozart a condurre a termine tutta l’opera.
Nel 1800 il Süssmayer scrisse una lettera all’editore Breitkopf coll’intento di «chiarire» la faccenda e asserendo di avere non solo completato la partitura delle sette sezioni dal Dies Irae al Hostias, ma di aver composto per intero la chiusa del Lacrymosa, il Sanctus, il Benedictus e l’Agnus Dei e d’aver ripreso il fugato del Kyrie sulle parole Cum Sanctis.
La maggioranza degli esegeti dell’ottocento non gli prestò fede, ed interpretò il suo atteggiamento come un disonesto tentativo di accrescere il proprio prestigio di compositore.

Bryn Terfel

In tempi più vicini a noi, invece, critici autorevoli quali l’Einstein si dimostrarono inclini a interpretare le asserzioni del Süssmayer come un atto, di «onestà» e di credergli sulla parola. In realtà ci sembra che non sarà mai possibile tracciare un netto confine tra le parti che sono sicuramente della mano di Mozart e quelle integrate dal Süssmayer: qui c’è realmente un velo di mistero che non potrà mai essere del tutto sollevato.
Comunque è da tener presente che il Süssmayer era stato uno dei più fedeli allievi di Mozart e gli fu accanto, giorno per giorno, fino al momento della morte. Pare che quando Mozart sentì che non sarebbe riuscito ormai a portare a termine il Requiem, abbia dato a Süssmayer istruzioni orali su come completare il lavoro, lasciandogli anche numerosi appunti, volanti. Süssmayer conosceva perfettamente le intenzioni del Maestro e godeva la piena fiducia di quest’ultimo tan’è vero che già in precedenza Mozart s’era fatto aiutare da lui nella composizione della Clemenza di Tito: molte arie di quest’opera furono orchestrate dal Süssmayer, il quale compose anche i recitativi secchi. La sua elaborazione del Requiem presta certo il fianco a taluni dubbi e riserve, ma in nessun caso essi arrivano a intaccare la solidità, del complessivo impianto mozartiano e a compromettere la validità di quello che resta uno dei più grandi
capolavori della musica. Al Süssmayer va riconosciuto in ogni caso il merito di aver reso possibile l’inserimento del Requiem nella vita musicale.
Questo inserimento avvenne presto nella Germania dei Nord e si verificò nel resto del continente dopo una memorabile esecuzione che il Cherubini promosse a Parigi nel 1804. Da allora il Requiem si confermò come uno dei capolavori di maggior presa emotiva sugli ascoltatori. In cospetto del supremo momento della morte il diretto rapporto espressivo tra la dolorosa esperienza umana e la realtà sonora che nelle opere precedenti di Mozart era sovente messo come tra parentesi, acquista una tragica, immediata evidenza. Non era la prima volta che la meditazione sulla morte cui Mozart si abbandonava spesso fin dall’adolescenza, trovava un riflesso nella sua musica.
Già nella Maurerìsche Trauermusik, scritta nel 1785 in occasione della morte di due fratelli massoni, un tale riflesso si concreta nel modo più diretto. Ma in quel lavoro lo sgomento della morte è attutito, se non dalla fede assoluta, da un senso di sublime, solenne, rassegnazione. Nel Requiem, invece, fin dell’«Exaudi » dell’Introito, la preghiera tende spesso a tramutarsi in ribellione assumendo così accenti di profonda drammaticità. Una drammaticità che risulta tanto più impressionante se la si proietta contro la sovrumana serenità che il genio trasfiguratore di Mozart era riuscito a realizzare in quasi tutte le sue musiche.
Non è che nel momento di comporre il Requiem, fosse venuta meno in Mozart l’istanza trasfiguratrice, la necessità di superare nella sua arte le contingenze della vita, di trovarvi oblìo e rifugio. Al contrario: questa necessità di evasione era tanto fote nel composito moribondo, che nello stesso anno in cui scriveva il proprio, lacerante canto funebre, egli dava voce ai moti d’animo, candidamente fanciulleschi, che si estrinsecano per esempio nel «Valzerino delle slitte» o in quello «del canarino». Nel Requiem stesso non mancano momenti di rassegnata accettazione e di trasfigurata calma: Ma essi non bastano a modificare il tragico significato di questo ultimo, dolente canto di Mozart.

Claudio Abbado