Mozart Wolfgang Amadeus

Sinfonie integrali

Registrazioni eseguite dal 1960 al 1969. Imperdibile!

Il principale merito storico di Karl Böhm come direttore sinfonico – senza nulla voler togliere alle sue benemerenze su altri fronti, in particolare quello straussiano – sta quasi sicuramente nell’aver realizzato (con i Berliner) la prima integrale veramente grande delle sinfonie di Mozart, che costituisce un riferimento per molti versi tuttora ineguagliato. Certo non tutte le interpretazioni sono di pari livello, e in particolare le ultime tre sinfonie non reggono del tutto il confronto con certi esiti miracolosi di interpreti come Bernstein, Walter, Klemperer o Krips. Il che, beninteso, non equivale a dire che siano fiacche o impersonali. Anzi sono tutte specificamente caratterizzate: per esempio, mentre le n. 39 e 40 sono concepite in chiave prevalentemente lirica e con tempi moderati, la Jupiter è rapidissima; e in tutte si osserva d’altro canto un tratto stilistico caratteristico di Böhm, la tendenza a demarcare con un’accelerazione di tempo la fase di transizione dall’esposizione allo sviluppo dei brani in forma sonata.
È comunque nelle sinfonie della prima maturità (diciamo indicativamente dalla n. 18 alla n. 38) che risulta quasi impossibile immaginare un interprete altrettanto ispirato. Il vertice interpretativo assoluto sta probabilmente nella n. 25, autentica quintessenza musicale dello Sturm und Drang, di cui forse nessun altro ha saputo cogliere in ogni sfumatura l’autentico spirito di giovanile drammaticità (in cui le due componenti sono davvero inscindibili): tant’è vero che quando altri direttori di personalità totalmente diversa, e magari anche più geniali di Böhm (si pensi a Bernstein o a Kertész) hanno voluto accostarsi a questa pagina, non hanno potuto fare a meno di seguirne le orme.

Karl Bohm

Ma le vette interpretative, a voler essere sinceri, si sprecano su tutti i versanti: dalla trasparente e spumeggiante n. 33 a una n. 34 più che mai esuberante e straripante di contrasti timbrici e dinamici (nella quale Böhm è uno dei pochi ad includere il poderoso minuetto K. 409); dalla sotterranea densità polifonica della sottile n. 18 alla freschezza primaverile di capolavori come le n. 19 e 21 o le tre splendide brevi sinfonie all’italiana n. 22-24. E che dire della sinfonia di
Parigi, dove i tempi meno rapidi del consueto conferiscono uno straordinario risalto ai crescendi del primo movimento e alle trame contrappuntistiche del finale? O dell’atletica ariosità della Linz, una delle più belle versioni mai incise? Perfino la “Neue Lambacher”, che in genere viene presa sottogamba o addirittura esclusa dalla rassegna perché ritenuta opera di Mozart padre, sotto la bacchetta di Böhm si rivela quasi un capolavoro: o, se non si vuole esagerare, comunque certo un’interessante sinfonia di ampio respiro dove convivono freschezza tematica e solidità di costruzione, chiunque sia stato a comporle.

Registrazioni eseguite dal 1966 al 1978 e rimasterizzazione effettuata nel 1990.

Mozart, superficie e profondità di Sergio Sablich

Discusso, il Mozart di Karajan è sempre stato. Soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, quelli del “Nuovo testamento” affidato al disco, che coincisero con i grandi cicli monografici realizzati con le nuove tecniche di registrazione stereofonica e digitale.
Questo Mozart che viene qui ripresentato in CD apparve per la prima volta su L P e cassette nel 1978 (fanno eccezione la Sinfonia n. 29 in la maggiore K. 201 e la Sinfonia n. 33 in si bemolle maggiore K. 319, che risalgono invece al 1966) e recava come marchio il triplice pentagono racchiuso in un quadrato delle registrazioni effettuate nella nuova sala della Philhamonie a Berlino; sede che consentì a Karajan e ai tecnici del Deutsche Grammophon di sperimentare nuove soluzioni di ripresa del suono in stereofonia prima dell’avvento del digitale.
Erano gli anni in cui il mito di Karajan si diffondeva in tutto il mondo ancor più di sempre attraverso il disco, grazie a queste moderne tecnologie: il famoso, unico “suono di Karajan” eternato in ogni casa come se provenisse direttamente “dal vivo”.
Il cofanetto con le Sinfonie di Mozart dirette da Herbert von Karajan fu
indubbiamente un evento e un successo commerciale, ma non nella misura di altre sue incisioni dei massimi autori classici e romantici, e fece arricciare il naso a molti; stupì, per esempio, ritrovarle assai presto, non solo in Italia, tra le “offerte speciali”, quasi in svendita. E fu lì, per così dire in seconda battuta, che molti le acquistarono, magari solo per curiosità, e con scetticismo.
D’altronde, non va dimenticato che fino ad allora il Mozart ufficiale della Deutsche Grammophon era stato rappresentato, e in modo integrale, da Karl Bohm; a cui il titolo di “mozartiano autentico” sembrava calzare a pennello, anche nella tana del lupo, cioè a Salisburgo. Mentre Karajan era considerato un direttore “romantico” e decadente per eccellenza, straussiano più che mozartiano.

Kerbert von Karajan

Che cosa non andava, o non piaceva a tutti, del modo di eseguire Mozart da parte di Karajan?
Come spesso accade in questi casi, le riserve erano di natura diversa, spesso opposta.
Ad alcuni il Mozart di Karajan, con i suoi tempi rapidi e i suoi eleganti virtuosismi, sembrava troppo superficiale ed edonistico, sbrigativo e poco profondo; ad altri invece troppo ricercato e sofisticato, non di rado svenevole e caramelloso: dunque stilisticamente inattendibile. Perfino la conclamata bellezza del suono dei Berliner – in formazione grande, con il raddoppio dei fiati imposto dal direttore – non pareva rispondere a quelle proporzioni e a quei rapporti che si richiedevano, per antica tradizione, a un’orchestra mozartiana. Bohm s’identificava con un modo di intendere Mozart consolidato e sicuro, cordiale e gradevole, elegante e moderato: il Mozart viennese consolatorio e “giusto”, che si fa capire da tutti.
Karajan guardava invece a Mozart con molti dubbi e molte inquietudini, per così dire a squarci e con escursioni violente; mettendo in luce, nelle ultime Sinfonie, aspetti problematici del linguaggio e della forma che già avevano indagato prima di lui, e sia pure in maniere assai diverse, Toscanini, Furtwangler e Klemperer.
Si può dire che Karajan vedesse in Mozart non un autore risolto una volta per tutte, da affrontare con tranquille certezze e con il sorriso sulle labbra, ma un enigma, una cima da scalare, insomma una questione sempre aperta. E non è un caso che aspettasse tanto prima di fissarlo su disco. Quella miscela esplosiva di apollineo e di dionisiaco, di fanciullesco e di diabolico, di tragico e di sublimemente ironico, Karajan l’aveva già portata in singole esecuzioni alla soglia estrema di sicurezza.
Nessuno potrà mai dimenticare il modo in cui egli rendeva questi caratteri nelle Nozze di Figaro, nel Don Giovanni o nel Flauto magico. Ma lì era aiutato dal testo. Nelle Sinfonie, invece, si scontrava con una materia per sua natura più resistente. E il compito di un esecutore intenzionato comunque a interpretare, si faceva più arduo.
Interpretare o iperinterpretare! Questa, forse, è la domanda che ci dobbiamo porre ascoltando il Mozart di Karajan. Perché se da un lato Karajan, che amava il volo dell’aquila più dei pascoli d’altipiano, non si limitava a seguire uno stile consolidato, foss’anche di altissimo livello, d’altro lato non poteva accontentarsi semplicemente di registrare dei dubbi, di lasciare insoluti i problemi, di giocare con l’immagine enigmatica di Mozart.
Non erano queste, cose da Karajan. Doveva invece imporre il suo marchio personale anche sul ritratto di Mozart. Iperinterpretarlo per interpretarlo. Ciò può spiegare certe scelte di fondo che lasciano interdetti e fanno discutere, certo, ma che comunque indicano una via a Mozart ricca di molteplici attrattive. E forse l’obiettivo finale a cui Karajan tende è proprio quello di rendere percettibile la saldatura fra ciò che avviene in superficie e ciò che sussiste in profondità: anche a rischio di apparirci ora troppo “superficiale”, ora troppo “profondo”.

Si prenda, per fermarsi ad esempi di pagine universalmente famose, il celeberrimo inizio della Sinfonia in sol minore K. 550. Fin dall’attacco, lo slancio che Karajan imprime al movimento è rapinoso, travolgente; le figure sciolte di accompagnamento hanno un rilievo inusitato e contrastano con la melodia dei violini in modo sensibile, come se lo sfondo, anziché integrarsi, volesse assorbire il primo piano, quello che di solito spicca nettamente; secchi, taglienti, sono gli accordi a piena orchestra che concludono l’esposizione tematica. Ma già nel ritornello Karajan assottiglia quasi impercettibilmente il tessuto sonoro, distendendolo nel “piano”: sicché lo stesso materiale si ricompone in un’altra visione, più trasognata, quasi elegiaca.
Nello sviluppo, allorché si presenta bruscamente la tonalità di fa diesis minore, il contrasto tra la figura tematica e il penetrante staccato dei bassi assume un tono drammatico di spessore inaudito, quasi si annunciasse una catastrofe.
Ciò che prima appariva scorrere in superficie, si espande ora nel senso della profondità, per precipitare in abissi smisurati.

Karajan e i Berliner Philharmoniker

Qui Karajan esagera, certamente; ma infonde alla partitura di Mozart una densità e una vitalità, una verità bruciante, che non è al di là bensì nella musica stessa.
E tutto ciò si verifica in un incalzare sempre più incisivo del tempo: il massimo degli eventi si produce nel minor tempo possibile. Senza che per questo venga pregiudicata, quasi valore a sé stante, la pastosità e la morbidezza del suono orchestrale, la sua risplendente purezza.
più quello della “Praga” (in re maggiore, K. 504), sono documenti eloquenti di una poetica interpretativa che rasenta l’enfasi, la forzatura espressiva. Con un ampio gesto, Karajan deliba ogni particolare e lo carica di un’intenzione solenne, austera e insieme fastosa. Qui il tempo è dilatato ad arte, teatrale l’indugio; e difatti il guizzo con cui viene introdotto l’Allegro (nella “Praga” con l’incalzante sincopato dei violini scolpito come nelle pieghe di un bassorilievo, mentre trombe e corni esplodono la loro luminosa fanfara) è un vero colpo di scena, dove il protagonista è il direttore, non altri.
Queste intenzionali estremizzazioni, in cui Karajan era maestro insuperabile, possono cogliere di sorpresa e perfino indisporre chi si attenda da una sinfonia di Mozart un pacato piacere, magari da gustarsi ad occhi chiusi e senza sussulti; ma suscitano nell’ascoltatore attento, e non solo per la tecnica con cui sono realizzate, un’emozione intensa.
Per avere un’idea adeguata del Mozart di Karajan bisogna però partire dalla fine, ossia dalla “Jupiter”. Che per Karajan non è solo il monumento classicamente proteso a coronamento della produzione sinfonica di Mozart in una ferma dichiarazione di ideali razionali. Il motto iniziale è inciso nella pietra, netto e poderoso, e determina subito l’atmosfera incombente su tutto il primo tempo; le pause che seguono sono cariche di presagi e di destino: in questi elementi è già contenuto in nucleo da cui si svilupperà il tema della Marcia funebre dell'”Eroica” beethoveniana. In questo clima, con Karajan tutta la Sinfonia s’erge come un’erma solitaria su un paesaggio di rovine classiche.
Ed è un’immagine di folgorante bellezza contemplata al crepuscolo di un mondo. Superficie e profondità assumono un significato tangibile nella lontananza che ormai ci separa da quel mondo; ed è alla soglia di quel limite che Karajan ci conduce, prima di liberare l’estasi della fuga finale in un fervido canto d’addio.
Un atteggiamento decadente? Forse. Certo è che Karajan si sentiva uno degli ultimi sommi sacerdoti eletti a officiare quel rito, e a rievocarne tutti gli incanti.

Sinfonia n. 32 in sol maggiore, K 318

Secondo le più recenti indagini musicologiche di Hans Hegel ed Erich Schenk, Mozart ha scritto 53 sinfonie complete in un arco di tempo di 24 anni che va dalla fine del 1764 all’agosto del 1788. Una produzione certamente inferiore a quella di Haydn che compose almeno 104 sinfonie in un periodo di circa quarant’anni, ma nettamente rilevante se si confronta, sotto il profilo numerico, con le nove sinfonie di Beethoven e con le quattro di Brahms. Il fatto è che originariamente la sinfonia non aveva quella struttura strumentale dialetticamente articolata e complessa alla quale ci riferiamo oggi quando parliamo di questa forma orchestrale, ma era intesa come un brano da concerto destinato ad aprire o a chiudere un programma musicale, il cui pezzo forte era costituito dalla esibizione dei solisti, sia cantanti e sia virtuosi di un determinato strumento, specie il pianoforte. Era imperante, intorno alla prima metà del Settecento, l’influenza della cosiddetta sinfonia all’italiana o meglio dell’ouverture in stile italiano e secondo lo spirito dell’opera buffa che era articolata in tre tempi (Presto – Adagio – Presto) distinti fra di loro soltanto esteriormente ma che in sostanza era in un tempo solo. Si sa che Mozart, pur partendo dall’esempio italiano filtrato attraverso l’insegnamento prima di Johann Christian Bach e poi di Haydn, riuscì a modificare e a sviluppare la sinfonia a tal punto da cambiarle i connotati, nell’ambito di quel processo di trasformazione e di approfondimento del discorso strumentale che, secondo Alfred Einstein, passò dal decorativo all’espressivo, dal superficiale all’intimo, dalla pura esteriorità alla confessione spirituale. Basti pensare alla armonica compiutezza dei risultati raggiunti con le sinfonie di Linz (K. 425) e di Praga (K. 504) e con la famosa trilogia delle ultime sinfonie in mi bemolle, sol maggiore e do maggiore (K. 543, 550, 551).
La Sinfonia in sol maggiore K. 318 è stata scritta nell’aprile del 1779 a Salisburgo e, secondo alcune fonti critiche, sarebbe servita come introduzione all’opera Zaide, Singspiel musicale composto in quello stesso periodo di tempo. Questa opinione è avvalorata dal fatto che nell’attacco della sinfonia si avverte un gioco di imitazioni tra violini, violoncelli e viole tipico dello stile dell’ouverture. Ad un certo punto il ritornello si arresta sulla dominante di re e apre la strada alla seconda frase, più brillante e vivace. Le imitazioni si infittiscono, finché nella tonalità di si minore le viole e i secondi violini ripropongono il tema ritmico con cui si era aperta la composizione. L’Andante in tempo 3/8 si presenta con un accento delicatamente morbido e persuasivo, in linea con la migliore tradizione mozartiana. Intervengono flauti, oboi e corni e l’orchestra assume un tono più robusto e marcato, prima di sfociare nel Tempo primo, in cui soggetto e ritornello si snodano con varietà di sonorità, tra fortissimo e piano, conferendo un rilievo preponderante agli strumenti a fiato. Certo, non una grande sinfonia, ma piacevole e scorrevole e soprattutto un tassello prezioso del magnifico mosaico della creatività mozartiana.

Sinfonia n. 33 in si bemolle maggiore, K 319

Il lungo viaggio a Mannheim e Parigi si doveva rivelare fondamentale nella formazione di Mozart, per le preziose acquisizioni stilistiche; doveva costituire tuttavia una esperienza dolorosa per l’indifferenza incontrata sul piano professionale e, sul piano privato, per la perdita della madre e la disillusione amorosa per Aloysia Weber. Mozart fu costretto a far ritorno a Salisburgo, dove venne riassunto dall’arcivescovo in qualità di organista di corte. Privi di grandi eventi, i due anni successivi furono ovviamente anni di insoddisfazione per il giovane Mozart, costretto a prestare servizio nella rigida corte salisburghese; ma furono, contemporaneamente, anni di intenso lavoro, nella ricerca di quello stile maturo che doveva trovare la prima abbagliante manifestazione nell’Idomeneo.
Nascono in questo periodo tre sinfonie – K. 318, 319, 338 – che sono lavori segnati da una parte dalla ricerca di una stile sinfonico personale e sofisticato, dall’altra da una concezione formale che è volta invece al passato, soprattutto per il trattamento degli sviluppi.
Ecco dunque che la Sinfonia n. 33 in si bemolle maggiore K. 319, datata 9 luglio 1779, pur mantenendo un organico forzatamente ridotto, secondo la prassi esecutiva della corte di Salisburgo (2 oboi, 2 fagotti, 2 corni e archi), ha, nei suoi tre movimenti, delle dimensioni nettamente più ambiziose delle precedenti. Non a caso, facendola eseguire a Vienna nel 1785, Mozart riterrà opportuno aggiungervi un Minuetto, che verrà ad integrare adeguatamente la robusta struttura di questa partitura. Maturata è anche la scrittura orchestrale, arricchita di tutte le sfumature espressive apprese a Mannheim (come i piccoli “crescendo” che hanno la funzione di mediare gli scarti fra il “Tutti” e il Concertino) e dall’emancipazione del fagotto dalla linea del basso.
Nella Sinfonia K. 319, il primo movimento, in forma sonata, evita una forte contrapposizione fra i due temi principali, mantenendosi prevalentemente nella medesima ambientazione idilliaca, non turbata neanche dall’apparizione, al principio dello sviluppo, di un motivo (si bemolle, do, mi bemolle, re) derivato dalla liturgia cattolica e presente a più riprese nella produzione di Mozart (dalla prima Sinfonia K. 16 al finale della “Jupiter”). L’Andante moderato, governato dalla preziosa scrittura dei Mannheimer, non crea un contrasto con il primo movimento, ma ne privilegia i caratteri arcadici. Una certa frattura si ha con il Minuetto che, con la sua configurazione essenziale, i calibratissimi giochi strumentali, il Trio di carattere villereccio, si accosta alle danze dell’ultimo periodo viennese. Il Finale è una pagina spigliata e divertita, in cui elementi stilistici di differente suggestione (come il giocoso motivo iniziale in terzine e il tema cantabile che gli si contrappone) vengono fusi da una propulsiva energia ritmica.

Sinfonia n. 35 in re maggiore “Haffner”, K 385

Il titolo aggiunto a questa sinfonia deriva dalle circostanze che ne videro la nascita. Nell’estate del 1782 Mozart, impegnato con l’allestimento dell’Entführung aus dem Serail (II ratto dal serraglio), fu interpellato da Salisburgo per la composizione di una serenata. La commissione, o meglio l’invito, arrivava da Sigmund Haffner, un ricco commerciante, che in passato, quando ricopriva l’incarico di borgomastro della città, aveva già commissionato a Mozart una serenata (la K. 250) in occasione delle nozze della figlia. I rapporti cordiali fra le due famiglie indussero il compositore, nonostante i suoi impegni, a scrivere questa nuova serenata: fu costretto peraltro a lavorare anche di notte e a spedire uno alla volta i pezzi a suo padre immediatamente dopo averli completati. In seguito Mozart si fece rimandare la serenata a Vienna per eseguirla come sinfonia; per questo scopo eliminò dalla partitura una marcia (poi catalogata come K. 385a) e uno dei due minuetti (in seguito andato perduto). In questa nuova forma questa composizione è stata ed è tuttora una delle sinfonie mozartiane più popolari.
Sarebbe difficile immaginare un inizio più imperioso di quello del primo movimento (Allegro): i salti di una o due ottave e l’energico ritmo puntato del tema principale non tradiscono certo l’originaria destinazione a serenata della partitura. Si è detto degli influssi di Haydn sul sinfonismo mozartiano; in questa sinfonia, il più evidente è la costruzione monotematica del primo movimento: il tema principale lo percorre infatti da capo a fondo, dominandolo con la sua forte presenza; i contrasti sono solo quelli determinati dalle diverse aree tonali e dai procedimenti di variazione. Va notato che già dalla prima riapparizione il tema dà origine a un canone, cui segue una transizione basata su ripide figurazioni scalari, che conduce verso la tonalità della dominante.
Una volta raggiunta la dominante, il materiale tematico non è altro che una serie di variazioni del tema principale; la prima vede il tema affidato ai violini primi e accompagnato da un perpetuum di crome di fagotti, violoncelli e contrabbassi; nella seconda, il cui inizio è marcato da un forte improvviso, sono gli archi gravi e i fagotti a presentare il tema, con un brillante controtema dei violini; il tema passa alle viole nella terza variazione, contrappuntato da primi e secondi violini in imitazione tra loro; infine, nella quarta variazione, del tema principale rimane soltanto il ritmo, marcato dal forte dell’intera orchestra. Solo verso la fine dell’esposizione si ode l’unico vero motivo contrastante, affidato a fagotti, corni, viole, celli e bassi; ma l’episodio conclusivo è ancora basato sui grandi salti del tema principale. Questo autentico tour de force compositivo prosegue nel pur breve sviluppo, costruito su tre elaborazioni in canone del tema principale. La ripresa è simmetrica all’esposizione, con l’aggiunta di un brevissimo prolungamento cadenzale di fastosa sonorità.
Il secondo movimento (Andante) è, secondo tradizione, una sorta di oasi lirica, in questo caso arricchita di un che dì sbarazzino: il tema di apertura dei violini primi è infatti accompagnato da una pulsazione di semicrome in arpeggio dei violini secondi, che sembra anticipare lo scherzoso atteggiamento di Haydn nella sinfonia detta appunto L’orologio o di Beethoven nell’Allegretto scherzando della Sinfonia n. 8. Nella transizione verso il secondo tema la pulsazione arpeggiata passa ai fagotti; poco prima che il vero e proprio secondo tema entri, sono i violini primi a impadronirsi di questo continuum, ritmico, la cui fissità è qui acuita dall’essere ribattuto su di un’unica nota, che fa da sfondo al divertente spunto tematico di violini secondi e viole, cui risponde un frammento più lirico, segnato da un forte improvviso, affidato ai violini primi. La semplicità formale di questo brano, conforme all’originaria destinazione di serenata, è confermata dall’assenza di un vero e proprio sviluppo, sostituito da una zona di raccordo verso la ripresa, caratterizzata inizialmente dall’arpeggio di violoncelli e contrabbassi e dall’andamento sincopato degli altri archi e poi, poco prima della ripresa, da civettuoli trilli dei violini primi in contrattempo.
La ripresa non presenta varianti rispetto all’esposizione, se non quelle dovute alla riconduzione alla tonalità d’impianto del secondo gruppo tematico.
Molto semplificata, rispetto alle sinfonie successive, anche la struttura del Menuetto, dal tematismo di sapore popolareggiante: la prima frase contrappone una figurazione arpeggiata ascendente in forte a una scalare discendente in piano, con un effetto dinamico quasi tardo barocco. La frase contrastante è dominata dagli ampi sbalzi melodici dei violini primi, seguiti da un ripiegamento che conduce alla ripresa della prima frase.
Nel Trio lo strumentale è alleggerito, secondo tradizione — sono ovviamente gli strumenti più fastosi, trombe e timpani, a tacere — e i toni si mantengono sommessi, cosicché la ripresa del Menuetto sembra ancora più sonora di quanto non fosse l’inizio.
L’ultimo movimento (Presto) si rifà chiaramente allo spirito della serenata, come evidenziano le dimensioni relativamente ridotte del brano, la semplicità della sua struttura e il carattere giocoso e brillante. L’atmosfera richiama quella dei momenti più spumeggianti dell’Entführung: il tema iniziale, esposto dagli archi all’unisono, è addirittura derivato da quello della celebre aria di Osmin «Ha, wie will ich triumphieren». Il successivo, rapido disegno in crome dei violini anticipa il motivo che, annunciato da un forte improvviso, informa di sé tutta la sezione successiva, accompagnato da squilli di fanfara dei fiati, e conduce verso il secondo tema di spensierata cantabilità. L’episodio che conclude l’esposizione è aperto ancora dal motivo in crome di mentre la chiusa è affidata a un arpeggio discendente all’unisono su un ritmo sincopato.
La già accennata semplicità formale del brano è particolarmente evidente nello sviluppo. Niente elaborazioni contrappuntistiche o complesse derivazioni motivico-tematiche: dopo una breve frase di collegamento, riappare infatti il primo tema, nella tonalità originale, che da il via a una sostanziale ripresentazione del materiale dell’esposizione, con l’unica variante del secondo tema al relativo minore, che dà al brano l’unica sfumatura malinconica. È ancora il vorticoso disegno in crome già apparso più volte a fungere da raccordo con la ripresa, simmetrica all’esposizione.
Il brano è chiuso da un’ampia coda, che rielabora gli elementi del primo gruppo tematico in un brillante crescendo.

Sinfonia n. 36 in do maggiore “Sinfonia di Linz”, K 425

Negli ultimi dieci anni di vita, trascorsi a Vienna, Mozart ebbe occasione di scrivere sei sinfonie (K. 385, 425, 504, 543, 550, 551); un numero decisamente scarso rispetto alla intensa produzione sinfonica degli anni salisburghesi. Le sei sinfonie composte a Vienna si configurano come opere isolate e dalle dimensioni più ampie, espressioni meditate della matura individualità dell’autore. E’ opinione corrente della critica che l’influenza di Haydn sia stata determinante nei nuovi orientamenti del compositore; Mozart comunque tardò ad affrancarsi dalla maniera salisburghese; ancora la prima sinfonia viennese, K. 385 detta “Haffner”, è in realtà un adattamento di una Serenata commissionata da una eminente famiglia della città natale.
Il vero distacco dalle esperienze salisburghesi verso il modello haydniano avviene, alla fine del 1783, con la Sinfonia K. 425, composta in quattro giorni a Linz, dove Mozart si era fermato tornando a Vienna da un viaggio a Salisburgo. “Martedì 4 novembre darò qui un concerto, al teatro, e non avendo con me neppure una delle mie sinfonie ne scrivo a precipizio una nuova, che deve essere eseguita” scrisse al padre il 31 ottobre 1783. Tutte le principali scelte stilistiche della partitura rimandano a Haydn, nella brillante strumentazione (un organico corposo: coppie di oboi, fagotti, corni, clarinetti, oltre ai timpani e agli archi) come nell’impostazione strutturale; ma i frequenti cromatismi e i chiaroscuri espressivi mostrano palesemente la mano dell’autore.
Per la prima volta nel sinfonismo mozartiano un Adagio introduce il primo movimento, sull’esempio di Haydn; ma il gioco delle voci interne e delle armonie cangianti è del tutto mozartiano. Segue, senza soluzione di continuità, un Allegro spiritoso festoso ed estroverso; al tema iniziale, sussurrato e ripreso con trasformazioni, fanno riscontro incisivi motivi di marcia; si impone comunque il carattere “sinfonico” della scrittura, ossia il continuo intreccio fra i diversi gruppi strumentali, il carattere plastico del fraseggio.

Wolfgang Amadeus Mozart

E’ il tema iniziale a porsi alla base dello sviluppo, che si segnala per i lunghi e arditi giri armonici, per l’uso espressivo dell’armonia. Dopo la ripresa, è una coda breve ed energica a chiudere il movimento. Il secondo tempo è una siciliana (danza assai frequente negli Adagi di Haydn) dal tema ingenuo, impreziosita dalle malinconiche sezioni in minore, in cui Mozart fa uso del completo organico strumentale. Dopo un Minuetto dal carattere popolare, con un Trio in forma di Ländler, troviamo il Presto conclusivo. Mozart si avvale di tutte le tecniche in suo possesso per donare varietà al movimento: improvvisi contrasti dinamici, una lunga sezione dal carattere contrappuntistico, una sorta di moto perpetuo da opera buffa, i consueti giri armonici dello sviluppo, che prende l’avvio da un frammento secondario. In definitiva una pagina di trascinante vitalità, che chiude con coerenza la composizione e mostra la raggiunta maturità e indipendenza dell’autore nel genere sinfonico.

Sinfonia n. 29 in la maggiore, K1 201 (K6 186a)

Terminata il 6 aprile 1774, la Sinfonia K. 201/186a rappresenta – insieme alle Sinfonie in do maggiore K. 200/189k e in sol minore K. 183/173dB – una autentica svolta all’interno della produzione sinfonica mozartiana; le tre composizioni segnano infatti l’ultima tappa di un lento processo di affrancamento dall’influenza dominante del gusto italiano. Questo orientamento, avviato già all’indomani del terzo viaggio in Italia e del trionfo milanese del Lucio Silla (inverno 1772-73), potè trovare esiti adeguati solamente dopo il viaggio a Vienna della successiva estate 1773. I frequenti e proficui contatti avviati nella capitale imperiale con le più significative tendenze contemporanee (prima fra tutte quella di Joseph Haydn), spinsero Mozart ad abbandonare quella struttura in tre concisi movimenti e quei limpidi contrasti di matrice italiana che, appresi fin da bambino tramite la decisiva influenza di Christian Bach, erano rimasti, in seguito, costanti punti di riferimento.
Soprattutto al carattere dialettico del bitematismo haydniano, alla solida costruzione e ai raffinati impasti timbrici del maestro più anziano si ispirò Mozart nella ricerca di nuovi riferimenti stilistici. I risultati espressivi, tuttavia, mostrano una personalissima rielaborazione del modello, un’impronta soggettivistica che ha fatto spesso parlare – anche se in termini decisamente eccessivi – di una “crisi romantica” del compositore, di una sua adesione alla nascente poetica dello Sturm und Drang; comunque di un netto distacco dagli obiettivi decorativi e puramente intrattenitivi del genere sinfonico.
A questo proposito l’Allegro moderato che apre la Sinfonia K. 201/186a mostra caratteri quasi programmatici, con una conciliazione inedita dello stile “dotto” (contrappuntistico) con quello “galante”. L’ambientazione del movimento non si distanzia sostanzialmente dall’atmosfera tenera ed esitante della prima idea; la particolare tornitura della frase, con il salto di ottava e le appoggiature, le imitazioni al basso, la veste timbrica intimistica (l’orchestrazione prevede appena archi, oboi e corni), la preziosità cameristica della cura del dettaglio, rappresentano certo una nuova conquista espressiva per il compositore. Anche l’Andante, che prescrive gli archi in sordina, e il Minuetto, segnato da netti contrasti dinamici, mostrano una partecipazione che esorbita dai limiti degli stilemi consueti per questi movimenti. Il Finale presenta un chiassoso tema da Sinfonia italiana; ma la sezione di sviluppo è di una estensione insolita, e viene condotta attraverso implicazioni quasi drammatiche, secondo un tratto peculiare dello stile dell’autore maturo.

Sinfonia n. 38 in re maggiore “Sinfonia di Praga”, K 504

La Sinfonia «Praga» fu completata da Mozart il 6 dicembre del 1786 e deve il suo nome alla città nella quale fu eseguita per la prima volta, il 19 gennaio dell’anno successivo. Mozart aveva trovato a Praga la considerazione e il successo di pubblico che non riusciva a ottenere a Vienna, dove il suo sostentamento continuava a basarsi essenzialmente sulle lezioni private e sulle accademie; in una lettera all’amico Gyrowetz che partiva per l’Italia troviamo queste parole eloquenti: «Oh uomo fortunato! Come sarei felice di viaggiare con Lei! Guardi, devo ancora dare una lezione per guadagnare qualcosa!». Questa situazione determinò, per reazione, una profondità di pensiero creativo ancora maggiore; come scrisse il biografo mozartiano, Hermann Abert: «La sua concezione del mondo si allontanò poco a poco da quanto lo circondava e la sua arte divenne sempre più soggettiva; il lato passionale, “demoniaco” della sua natura prese il sopravvento, come dimostra Ira l’altro l’arricchimento armonico e contrappuntistico della sua scrittura».
Il monumentale movimento di apertura della, Praga (Adagio – Allegro), il più ampio brano sinfonico composto da Mozart, rappresenta una delle più eloquenti dimostrazioni delle affermazioni di Abert. La maestosa introduzione, con la sua complessità armonica e la densità del discorso tematico, richiama alcune atmosfere del Don Giovanni, l’opera che Mozart avrebbe composto proprio per il Teatro Nazionale di Praga in quello stesso 1787 che vide la prima esecuzione della Praga: la seconda parte dell’introduzione, in particolare, con il colore cupo del modo minore e l’alternanza tra piano e forte, sembra anticipare la musica legata al Commendatore. L’orizzonte si rasserena di colpo all’inizio dell’esposizione con il ritorno al modo maggiore.
Il tema principale è formato da diversi motivi: la sincope dei violini primi, il cantabile dei secondi, viole, celli e bassi, anch’esso sincopato, un motivo in crome ribattute dei violini primi e un elemento discendente dì flauti e oboi che non riapparirà più nell’esposizione, ma costituirà il materiale principale dello sviluppo.
Non meno complessa è la successiva sezione, il cui inizio è segnato dal forte dell’intera orchestra, costituita da tre motivi che torneranno più volte, quasi a mo’ di ritornello. La transizione verso la tonalità della dominante non è altro che una zona di elaborazione di alcuni dei motivi che aprivano l’esposizione. Il secondo tema, di pacato lirismo, viene subito ripetuto nel modo minore, ricollegandosi così idealmente all’introduzione. L’episodio che conclude l’esposizione è basato sui tre motivi a piena orchestra che chiudevano, posti in diverso ordine e inframmezzati da un’ultima apparizione del tema principale.
Lo sviluppo si basa inizialmente sulla combinazione e l’elaborazione di due motivi: quello discendente visto all’inizio dell’esposizione, poi mai più riapparso, e il ribattuto di crome del quale si è sottolineata la parentela con la Zauberflöte. Allorché ricompaiono i tre motivi «ritornello» sembra che ci si avvii verso la ripresa, ma la ricomparsa del tema principale è soltanto una falsa ripresa, come evidenzia il repentino passaggio al modo minore: si tratta in sostanza di una rìtransizione tra lo sviluppo e la vera ripresa, che è leggermente modificata e abbreviata rispetto all’esposizione. Al termine, non troviamo una vera e propria coda, ma soltanto la ripetizione dell’ultima riapparizione del tema principale, ripetizione che rafforza il senso di conclusione.
Il primo elemento tematico del secondo movimento (Andante) ha evidenti rapporti di parentela con uno dei motivi principali del movimento di apertura e nella sua prosecuzione si caratterizza per un ricco cromatismo che informerà di sé gran parte del brano. Il secondo elemento del primo gruppo tematico, un motivo balzante esposto dagli archi all’unisono, viene poi brevemente elaborato. La transizione verso la dominante inizia con un brusco passaggio al relativo minore; è poi l’elemento cromatico a condurre verso il secondo tema, del quale Abert rileva la parentela con la seconda parte del celeberrimo duetto Don Giovanni-Zerlina («Andiam, andiam mio bene»). Anche l’ultimo episodio dell’esposizione è derivato da questo motivo. Le tensioni armoniche giungono al loro apice nello sviluppo, nel quale sono i motivi del primo gruppo a venire riccamente elaborati in un discorso sempre più teso e drammatico, prima che la ripresa riporti alla serenità iniziale.
La Praga è priva di minuetto. Molte congetture sono state fatte al riguardo, nessuna delle quali appare del tutto soddisfacente. Ci si limiterà qui a sottolineare come Mozart avesse già operato altre volte una scelta di questo genere, ad esempio nella Sinfonia in sol maggiore K. 318 e in quella in do maggiore K. 338. Nel Finale (Presto) ritroviamo per alcuni aspetti la complessità formale del movimento di apertura: la transizione verso il secondo tema è infatti ottenuta con una complessa elaborazione del tema di apertura; e dopo che il secondo tema è stato presentato e quindi ripetuto, ci troviamo di fronte a una nuova zona di elaborazione del primo tema, che domina anche la codetta, accompagnato da un nuovo elemento in terzine dei violini primi. L’elemento dell’intera orchestra in forte che apre lo sviluppo, e verrà utilizzato anche per variare la ripresa, comparendo subito dopo il primo tema.
A partire dal secondo tema il succedersi degli episodi ricalca l’esposizione e porta alla sonora e festosa conclusione.

Sinfonia n. 39 in mi bemolle maggiore “Schwanengesang” (Canto del cigno), K 543

La Sinfonia in mi bemolle maggiore è la prima delle tre grandi sinfonie scritte da Mozart nell’estate del 1788, concepite in origine per essere inserite nel programma di una serie di concerti per sottoscrizione – allora chiamati «accademie» – concerti che però, a quanto si sa, non ebbero mai luogo. Era questo l’ennesimo tentativo di Mozart di risollevarsi da una situazione economica disastrosa, determinata principalmente dalla scarsa comprensione di cui godevano a Vienna i suoi ultimi capolavori teatrali.
Il Don Giovanni, ad esempio, che aveva avuto la sua prima, trionfale rappresentazione il 29 ottobre del 1787 a Praga, andò in scena al Burghtheater di Vienna soltanto il 7 maggio del 1788, segnando un clamoroso insuccesso; le modifiche operate successivamente da Mozart e Da Ponte non servirono a modificare in misura sostanziale la situazione, favorendo al massimo ciò che oggi definiremmo un successo di stima. Da Ponte stesso, nelle sue memorie, riportò l’opinione dell’imperatore Giuseppe II su quest’opera: «L’opera è divina, forse ancora più bella del Figaro, ma non è pane per i denti dei miei viennesi».
Nulla si sa, ovviamente, sulla veridicità di quanto affermato dal geniale librettista italiano; ma se anche non fosse vera, la frase sarebbe comunque indicativa dell’atteggiamento dei viennesi verso il teatro musicale di Mozart.
Della situazione di Mozart verso la metà del 1788 sono eloquente e tragica testimonianza alcune lettere scritte dal compositore all’amico Puchberg, un ricco mercante, per chiedergli aiuti finanziari; eccone alcuni passi: «A forza di stenti e di preoccupazioni le cose si sono messe così male da ridurmi a dover elemosinare un pò ‘ di denaro con queste due bollette del monte dei pegni»; «La mia situazione è tale da costringermi a chiedere denaro in prestito. Ma, Dio, a chi potrei rivolgermi? […] Se non mi aiuterete in questa situazione perderò l’onore e il credito, le uniche cose che speravo di salvare».
L’ultimo stralcio è preso da una lettera datata 7 giugno 1788; pochi giorni dopo, il 26 giugno, Mozart completava la partitura della Sinfonia in mi bemolle. È certo sorprendente, per chi è solito cercare legami diretti tra la vita e l’opera di un artista, il fatto che questa composizione non rispecchi nulla delle circostanze in cui vide la luce: la sua energia vitale, la sua solarità sono invece testimonianza, per citare ancora una volta Hermann Abert, di «quanto poco il mondo fantastico di Mozart, il suo vero mondo, avesse a che fare con le miserie quotidiane».
La Sinfonia in mi bemolle maggiore, spesso definita «l’Eroica di Mozart» – su questa definizione influiscono ovviamente alcuni rapporti con l’Eroica di Beethoven: la comune tonalità di mi bemolle maggiore, il metro ternario del movimento di apertura, il vigore complessivo della partitura – è l’ultima del catalogo mozartiano a essere aperta (Adagio) da un’introduzione lenta, introduzione che con i suoi vigorosi ritmi puntati e le rapide figurazioni scalari discendenti si rifà al modello storico dell’ouverture alla francese.
Il primo tema dell’esposizione (Allegro), la cui cantabilità di stampo vocale è affidata agli archi, con morbidi echi nei fiati, è fondamentalmente basato sul!’arpeggio; e su figurazioni arpeggiate è costruito anche l’episodio successivo, pur fortemente differenziato per la dinamica (forte) e per gli energici ribattuti dei fiati degli archi gravi. La transizione è dominata dalle scale discendenti dei violini – evidente il richiamo all’introduzione, il che rafforza la coesione strutturale tra le due parti del brano – cui si alternano massicci accordi dei fiati, sottolineati dai timpani; poco prima del secondo tema, le scale lasciano il posto a una nuova cellula motivica, basata su note di volta e sul ritmo croma- due semicrome, più volte reiterata ad altezza decrescente con una progressione di sapore tardo-barocco. Il secondo tema sembra ricondurre, con i suoi colori soffusi e con il dialogo archi-fiati, all’atmosfera espressiva dell’inizio dell’esposizione, così come l’episodio che conclude la parte espositiva si ricollega alla transizione: si noti che la chiusa è affidata alla stessa cellula che aveva annunziato il secondo tema, cellula cui è affidato anche il compito di aprire lo sviluppo e che riappare dopo una breve elaborazione di elementi del secondo tema. Compare quindi il materiale dell’ultimo episodio dell’esposizione, che porta anche lo sviluppo verso la conclusione; la definitiva riconduzione, dopo una pausa generale che interrompe bruscamente il discorso, è affidata a un motivo morbidamente cromatico dei legni. La ripresa è simmetrica all’esposizione, con l’unica variante di un prolungamento cadenzale nel quale trombe e corni declamano un ritmo puntato che richiama, una volta di più, l’introduzione.

Constanze Mozart

I ritmi puntati dominano anche il tema principale del secondo movimento (Andante), la cui struttura richiama quella di un minuetto (A-A’-A). Un brevissimo collegamento di legni e corni conduce alla zona modulante che segna un’improvvisa e drammatica virata verso il modo minore, con ampi gesti melodici dei violini verso la zona acuta; l’energico tematismo di questa sezione ne fa un vero e proprio secondo gruppo tematico (come vedremo, con elementi
del primo) e non una semplice transizione. Si tratta fra l’altro di uno dei pochissimi punti nei quali la serenità di questa sinfonia viene sia pure momentaneamente turbata. E la riproduzione della sezione A’ del tema principale, in dialogo tra legni e archi gravi, a cercare di riportare al clima dell’inizio; ma prima che quest’ultimo venga definitivamente ristabilito, c’è ancora spazio per un momento di tensione, segnato dal forte dell’intera orchestra, escluse trombe e timpani, non utilizzati in questo movimento. Quando finalmente appare il tema che conclude l’esposizione, dialogato tra clarinetti e fagotti, ci sentiamo trasportati in un clima fiabesco, che ricorda quello dell’aria di Susanna nell’ultimo atto delle Nozze di Figaro. La reiterazione dell’elemento motivico più importante di questo tema conduce direttamente alla ripresa: l’assenza di una sezione di sviluppo, peraltro abbastanza normale nei movimenti lenti, può essere vista in questo caso come conseguenza dell’elaborazione già contenuta nella sezione intermedia dell’esposizione. La coda vede ancora assoluto protagonista il tema principale.
Il Menuetto (Allegretto) ha la semplicità e la rustica vigoria del Ländler, una danza popolare austriaca molto in voga ai tempi di Mozart; al motivo principale dei violini, sostenuto dell’energico ribattuto dei fiati, risponde una frase più cantabile degli archi soli; la frase contrastante rielabora elementi del motivo principale e ne prepara il ritorno.
Tutt’altro carattere per il Trio, nel quale Mozart fa a meno degli ottoni e dei timpani per ottenere una sonorità più soffusa. Sono i clarinetti gli assoluti protagonisti: al primo è affidata la popolareggiante melodia principale, con un’eco nel flauto, mentre il secondo lo sostiene con un morbido andamento arpeggiato; ridotto al minimo l’accompagnamento degli archi. L’insieme sembra anticipare alcune caratteristiche di una danza destinata a grandi fortune nell’Ottocento: il valzer. Anche in questo caso, come già nella Haffner, il grande contrasto espressivo tra minuetto e trio fa sì che quando il minuetto viene ripreso determini quasi un effetto di maggiore energia rispetto alla sua prima apparizione.
Con il Finale (Allegro) torniamo, in un certo senso, al punto da cui eravamo partiti con il movimento di apertura della Haffner: siamo infatti di nuovo in presenza di una forma sonata monotematica. Il tema principale percorre il brano da cima a fondo, improntando della sua scanzonata vitalità ritmica tutta la struttura formale. Solo la transizione verso la dominante sembra fare a meno della sua personalità tematica, ma ne richiama il carattere con il continuum ritmico di semicrome dei violini, sostenuto dal ribattuto acefalo dei fiati e dal ritmo anapestico di viole, celli e bassi. Una volta raggiunta la dominante, ecco rispuntare il tema principale, questa volta diviso tra violini e legni e poi subito sottoposto a una prima elaborazione in uno scherzoso dialogo tra fagotto e flauto. Il forte dell’intera orchestra porta all’unico vero motivo contrastante, una figurazione sincopata di legni e archi, che conduce verso l’episodio conclusivo dell’esposizione, una volta di più dominato dal tema principale, prima rimbalzante fra i legni e poi esposto all’unisono, ironicamente, da violini e viole.
Anche lo sviluppo è interamente costruito su ricche e complesse elaborazioni del tema iniziale, con frequenti incursioni nel modo minore.
La ripresa non porta sostanziali novità rispetto all’esposizione, se non per il fatto che la conclusione è affidata a un’ultima, divertita e quasi sbeffeggiante doppia apparizione del tema principale.

Sinfonia n. 40 in sol minore, K 550

Le ultime tre sinfonie di Mozart recano le date rispettivamente del 26 giugno, del 25 luglio e del 10 agosto 1788: dunque questi tre capisaldi della storia della sinfonia furono composti con una rapidità e una facilità stupefacenti, perfino inquietanti! Ma questa era la prassi, prima dei tormenti creativi del romanticismo. Piuttosto – poiché queste sinfonie non furono mai eseguite durante i tre anni di vita che restavano a Mozart – dovrebbe stupire che il compositore abbia dedicato tanto (!) tempo a lavori che non avevano una precisa destinazione, contravvenendo alla regola universale di lavorare solo su commissione o comunque in vista d’una esecuzione garantita e immediata. Si può avanzare l’ipotesi che Mozart le abbia scritte con la speranza d’inserirle nei concerti a sottoscrizione da lui organizzati periodicamente a Vienna e che poi il progetto non sia andato in porto, a causa della sua declinante fortuna presso il pubblico e del conseguente diradamento delle sue esibizioni. In tal caso sarebbe stata soltanto una previsione sbagliata ad assicurare alla posterità questo splendido dono!
Se non si conosce con certezza l’occasione esteriore della nascita di queste sinfonie, si può almeno cercare di capire quali furono le ragioni profonde che indussero Mozart a comporle. Dobbiamo risalire indietro di qualche anno. Nel 1782 Haydn aveva pubblicato i Quartetti op. 33, “scritti in una maniera nuova e particolare”, che reinventavano radicalmente il genere del quartetto: l’attento studio di quei sei straordinari capolavori e il desiderio di inoltrarsi lungo la strada da essi indicata sono evidenti nei sei quartetti che Mozart iniziò a comporre subito dopo e che dedicò a Haydn. Nel 1787 questi pubblicò le sei Sinfonie n. 82-87 note come “Parigine”, che impressero nuovi grandi sviluppi al genere sinfonico: pochi mesi dopo Mozart scrisse le tre sinfonie, ancora una volta seguendo l’esempio del più anziano amico e maestro, e forse anche superandolo. Sarebbe stato questo il suo testamento nel campo della sinfonia, ma lui, a soli trentadue anni, non poteva saperlo.

Fino ad allora la sinfonia non aveva avuto un ruolo di particolare spicco nel catalogo di Mozart. Eppure quarantuno sinfonie non sono poche per un compositore vissuto appena trentacinque anni. Ma la maggior parte di esse risalgono al periodo dell’infanzia e dell’adolescenza, tra i nove e i diciotto anni d’età, e sono quindi una delle tante stupefacenti dimostrazioni della sua precocità, senza però apportare nulla di determinante alla storia di questo genere musicale. Invece dai ventanni in poi Mozart compose solo nove sinfonie, che sotto l’aspetto puramente quantitativo sono quasi trascurabili in mezzo ai circa trecentocinquanta numeri del suo catalogo risalenti a quegli stessi anni. Anche la trasformazione di serenate in sinfonie mediante la semplice soppressione di qualche movimento, come nel caso della Sinfonia n. 35 “Haffner”, è indicativa della scarsa attenzione del giovane Mozart al carattere specifico della sinfonia. Ma le nuove sinfonie di Haydn vennero a risvegliare il suo moderato interesse per questo genere musicale.
La sinfonia, che fino a pochi anni prima era ancora gracile e incerta, era infatti diventata grazie a Haydn la massima espressione della musica strumentale, un organismo possente dalla strattura perfettamente definita ma anche duttile, che si articolava con razionale chiarezza attraverso sviluppi rigorosi ma allo stesso tempo accoglieva un’inesauribile varietà d’idee, spesso sorprendenti e giocose, presentando tutto con la massima ricchezza di colori e sfumature orchestrali. Mozart afferrò pienamente queste nuove possibilità e, come se avesse voluto riguadagnare il tempo perduto e dimostrare che aveva da dire una sua parola di fondamentale importanza anche in questo campo, compose rapidamente le tre grandi sinfonie del 1788, facendo tesoro delle prospettive aperte dalle recenti sinfonie di Haydn, ma andando anche oltre, tanto che Haydn avrebbe a sua volta tenuto presente l’esempio di Mozart nelle sue ultime sinfonie, le dodici “londinesi” del 1791-1795.
L’aspetto più nuovo di queste tre sinfonie mozartiane sta non tanto nelle splendide soluzioni puramente musicali ma soprattutto nel fatto che ogni sinfonia esibisce un proprio carattere, difficilmente definibile ma inconfondibile: sotto questo riguardo Mozart anticipa la concezione beethoveniana della sinfonia come possente creatura musicale, dotata di una sua personalità unica e inconfondibile, che la rende diversa da tutte le altre.
Due sole volte Mozart scrisse sinfonie in tonalità minore e in entrambi i casi si tratta del sol minore, che evocava in lui colori cupi e ad atmosfere patetiche e violentemente agitate. Quindi le due sinfonie in questione rivelano un particolare impegno espressivo, che viene a incrinare l’olimpica serenità della maggior parte delle sinfonie mozartiane. La prima (K. 183, del 1773) è infatti vicina allo spirito corrusco e tempestoso dello Sturm und Drang, il movimento letterario considerato un preannuncio del romanticismo. L’altra è la Sinfonia n.40 K. 550, non per caso la prediletta nell’età romantica e ancora oggi la più popolare tra tutte le sinfonie di Mozart. Questa sinfonia è ammantata di colori quasi lividi, percorsa da un’agitazione oscura, angosciata da una tensione senza sbocco, come una tragedia interiore che si svolga sotto la minaccia d’una forza trascendente e fatale. La concezione illuministica del mondo, rischiarata dalla solare luce della ragione, si è incrinata e vediamo qui il volto problematico e ambiguo di Mozart, che lascia intuire mondi misteriosi, inaccessibili e incomprensibili con i mezzi della sola razionalità.
Subito, nel Molto allegro, il primo tema dei violini, che sorge sul brusio delle viole, introduce un’atmosfera inquieta e febbrile, che non svanisce completamente nemmeno con la brusca modulazione a si bemolle maggiore e col secondo tema, esposto dagli archi, cui rispondono oboi e clarinetti (è da notare che quest’ultimi, inizialmente non previsti nell’organico della sinfonia, furono aggiunti in una seconda versione). Nel successivo sviluppo l’affannoso primo tema viene portato a un punto di massima incandescenza attraverso tormentate modulazioni a tonalità distanti e alterazioni melodiche, con uno spirito agitato e ribelle che va ben oltre un semplice sviluppo tematico. Un passaggio scoperto degli strumenti a fiato porta alla ripresa, che riserva delle sorprese: la seconda parte del primo tema infatti diventa il teatro d’un nuovo scontro tra violini e bassi e il secondo tema è ora molto più sviluppato. Ormai ossessionante, il tema iniziale ritoma anche nella coda.
L’Andante – l’unico movimento della sinfonia in una tonalità maggiore, mi bemolle – ha un andamento cullante alla “siciliana” ed è arricchito da ornamentazioni violinistiche di gusto “galante”, ma sotto quest’atmosfera luminosa s’insinuano inflessioni che sembrano una dolente confessione intima. Anche qui sono le viole a introdurre, mormorando, il lancinante primo tema, su cui, quando viene ripetuto, si stende una delicata melodia cantabile dei violini; lo riprendono i bassi, che v’innestano un motivo d’impalpabile leggerezza. Una frase dolcemente malinconica dei legni conclude la prima parte. Improvviso e forte entra il secondo tema, che prosegue con un delicato motivo di flauto e oboi. Inizia così un episodio sereno ma transitorio, perché l’atmosfera s’incupisce e il primo tema ricompare tormentato da cromatismi, in un tragico do minore. La ripresa riporta al mi bemolle maggiore, senza che però il clima si rischiari veramente.
Il Menuetto ha ben poco del carattere proprio di questa danza settecentesca: non solo è rude e quasi aggressivo, ma fa anche ampio uso d’un severo stile contrappuntistico. Al centro si apre un Trio dal carattere contrastante, lieve, idilliaco e un po’ rococò.
L’Allegro assai finale si riallaccia per spirito, struttura e dimensioni al movimento iniziale. A stabilirne il tono espressivo è la focosa irruenza del primo tema, che, dopo la parentesi d’un secondo tema più lirico e malinconico, domina interamente lo sviluppo, passando attraverso contrasti tonali e dissonanze, con una tensione straordinaria, che tocca punti di violenza quasi insostenibile. Lo sviluppo culmina in un fugato potente e affannoso: anche questa tecnica dotta e severa assume qui tratti di parossistica veemenza. Questo fugato si blocca su un accordo di settima diminuita, carico di tensione e d’attesa: ricompare allora il primo tema, che dà inizio alla ripresa, interamente in sol minore, in cui non è luce di speranza ma solo una tragica angoscia, senza rassegnazione. Mai prima di allora una sinfonia aveva dato prova di tale energia e violenza.

Sinfonia n. 41 in do maggiore “Jupiter”, K 551

È intorno alla metà del 1788, tre anni prima della morte, che Mozart scrive le sue ultime tre Sinfonie, K. 543, 550, 551, completate rispettivamente, secondo il catalogo personale dell’autore, il 26 giugno, il 25 luglio e il 10 agosto. Nei giovanili anni salisburgesi la creazione di lavori sinfonici, destinati a una funzione di intrattenimento, era stata una prassi piuttosto consueta per il compositore, legata a commissioni nobiliari o a specifiche occasioni celebrative, e Mozart vi si era dedicato con regolarità. Dopo il trasferimento a Vienna del 1781, venuti meno i rapporti con la corte salisburghese e con gli ambienti nobiliari della cittadina, le Sinfonie si diradano nel catalogo del compositore, e non è un caso che la nascita di lavori di questo tipo appaia legata spesso a città diverse da Vienna. La Sinfonia K. 385 è detta “Haffner” perché riprende la musica di una precedente Serenata scritta per la rinomata famiglia salisburghese degli Haffner; le Sinfonie K. 425 e K. 504 sono dette rispettivamente “Linz” e “Praga” perché legate a visite in queste due città.

Herbert von Karajan

Piuttosto oscure sono, invece, le circostanze della nascita e la destinazione delle ultime tre partiture sinfoniche. È possibile che l’autore pensasse alla loro pubblicazione, o anche a un impiego per un viaggio a Londra che non si concretizzò mai; o ancora che le tre Sinfonie siano state concepite in funzione
di una serie di “accademie” – ovvero concerti per sottoscrizione – destinate a raccogliere fondi, accademie delle quali sembra si sia effettivamente tenuta solo la prima, per mancanza di sottoscrittori. È assai probabile comunque che le partiture siano state eseguite nel corso di alcuni viaggi del 1789 e del 1790 in diverse città tedesche. Come è anche verosimile che le due differenti versioni della Sinfonìa K. 550 – con e senza clarinetti – siano state approntate in occasione di due diverse esecuzioni; quasi certamente la versione con clarinetti venne eseguita in un concerto dell’aprile 1791 sotto la direzione di Antonio Salieri.
Le ultime tre Sinfonie portano al più alto grado quel processo di maturazione che si riscontra nella tarda produzione strumentale di Mozart. La loro straordinaria ricchezza musicale deriva dalla stratificazione di numerosi stili, di diversa origine e provenienza. Soprattutto, si manifesta la straordinaria abilità raggiunta dall’autore nelle elaborazioni tematiche, nella padronanza delle forme, negli effetti strumentali, sulla base dell’esempio di Franz Joseph Haydn. I confini della costruzione sinfonica si dilatano così fino ad assumere delle dimensioni assai più vaste rispetto alle Sinfonie scritte da Mozart appena un decennio prima; e, parallelamente, anche i contenuti della Sinfonia divengono più ambiziosi, trasformando lo stile di intrattenimento in una speculazione di alta complessità, destinata a un pubblico di intenditori.
Questo stile sinfonico è sviluppato in ciascuna delle tre ultime partiture secondo categorie affettive differenti, fortemente connesse alla scelta della tonalità di base: il mi bemolle maggiore (K. 543) era la tonalità legata a nobiltà e profondità espressiva, il sol minore (K. 550) quella del patetismo, il do maggiore (K. 551) quella di dinamismo, positività, eroismo marziale. Ogni Sinfonia, dunque, possiede una propria luce che illumina diversamente, e per contrasto, le altre due. È appunto in direzione delle categorie espressive legate al do maggiore che si sviluppa la Sinfonia “Jupiter”, che deve il suo nomignolo, postumo, editoriale ed apocrifo, all’equilibrfo interno, olimpico, dei due grandi movimenti estremi, animati da una dialettica interna che si risolve nella conciliazione degli opposti.
Il grande Allegro vivace che apre la Sinfonia si basa su elementi tematici assai diversi fra loro: una marcia festosa, un tema cantabile di gusto galante, esposto dai violini e, verso la fine della esposizione, un terzo tema di opera italiana (tratto dall’Arietta buffa “Un bacio di mano” K. 541, scritta poco tempo prima per essere inserita in un’opera di Pasquale Anfossi). Il percorso che allinea questi temi è, tuttavia, piuttosto frastagliato, fatto di ripetizioni che illuminano diversamente i medesimi temi, di improvvise pause e apparenti divagazioni; eppure si impone la perfetta consequenzialità di tutto questo discorso musicale,

per cui le tensioni accumulate lungo l’esposizione vengono stemperate dal più leggero tema di opera buffa.
È proprio da questo tema che parte la sezione dello sviluppo, che riserva quasi subito una sorpresa; il tema “buffo” diventa protagonista infatti di una elaborazione “dotta”, contrappuntistica, in stile antico; è questo un elemento tipico dell’ultimo Mozart, derivato dallo studio della musica di Händel e Bach, che il compositore aveva imparato a conoscere frequentando la casa viennese di un facoltoso appassionato con una passione “antiquaria”, il barone Gottfried van Swieten. Lo sviluppo approda poi a una finta ripresa – espediente tipicamente haydniano – e quindi alla vera riesposizione; non si è inteso, nello sviluppo, il tema di marcia, che quindi si ripresenta con rinnovata energia, proponendosi come il carattere più autentico del movimento, che i vari temi e procedimenti secondari non fanno che sottolineare, fino alla sua chiara affermazione nella coda.
Rispetto a questo complesso tempo iniziale, il seguente Andante cantabile – in cui significativamente tacciono trombe e timpani – segna un forte trapasso espressivo; si impone subito la melodia appunto cantabile dei violini, a tratti raddoppiata da altri strumenti; essa ritorna più volte con varie sembianze e intrecci che la impreziosiscono, interrotta da improvvisi drammatici chiaroscuri (mirabile il rilievo lirico e coloristico dei fiati), da un nuovo tema ascendente, e condotta attraverso peregrinazioni sempre consequenziali ma spesso non prevedibili; la forma della canzone viene qui dilatata fino ad assumere altissime ambizioni concettuali.
Il Minuetto, in terza posizione, non ha solo sembianze di danza, ma con le trombe e i timpani ritrova accenti marziali che riconducono la Sinfonia verso gli stilemi del do maggiore. Si tratta quasi di una introduzione verso ciò che seguirà.
L’intera Sinfonia, infatti, gravita verso il finale; un movimento che ha un rilievo unico in tutto il sinfonismo di Mozart, per il peso predominante che vi ha la tecnica contrappuntistica, tanto che spesso si è impropriamente parlato di “fuga conclusiva”. In realtà questo finale rimane saldamente ancorato alla forma- sonata; esso si apre con un tema già molte volte usato da Mozart (due precoci Sinfonie, la Sinfonia K. 319, il Credo della Messa K. 192), e noto anche a Haydn (Sinfonia n. 13, del 1763); in definitiva un tema dal carattere neutro, utile per impieghi molto diversi. Si aggiungono nella esposizione del movimento, altri quattro frammenti tematici, ascoltati di seguito e anche combinati fra loro. Mozart riesce dunque a fondere due principi di scrittura contrastanti, quello di un sinfonismo “moderno” e dialettico e quello dell’antico contrappunto, ossia dell’intreccio serrato di più melodie parallele ed autonome. Così i cinque differenti temi del movimento – protagonisti anche di uno sviluppo non lungo ma molto complesso – vengono nella coda ripresi contemporaneamente e sovrapposti, con un intreccio di linee musicali di straordinario virtuosismo compositivo. L’esultanza di trombe e timpani conclude la Sinfonia: una affermazione di fede nell’ordine e nel razionale, condotta attraverso la limpida, programmatica trasparenza del do maggiore.