Mozart Wolfgang Amadeus

Sonate per pianoforte

La principale benemerenza mozartiana di Alfred Brendel è sicuramente l’integrale dei concerti incisa negli anni settanta con Marriner e l’Academy of Saint Martin in the Fields, lettura variegata e incisiva dove il pianista moravo mette in luce anche il suo talento di compositore-improvvisatore, inserendovi cadenze di propria creazione che si armonizzano egregiamente col tessuto originale. Ma anche all’universo meno appariscente delle musiche per pianoforte solo egli ha offerto contributi interpretativi di assoluto rilievo: anzi, a ben vedere, è proprio qui, dove le sfumature contano infinitamente più della brillantezza tecnica, che la sua personalità di interprete riesce davvero a fare la differenza, restituendo ad ogni composizione la sua cifra espressiva specifica. Anche se il carattere di Brendel, obiettivamente, è più quello di un geniale artigiano che quello di un fuoriclasse tutto fantasia, nulla è più lontano da queste letture che l’idea di un monotono lavoro in serie.
Purtroppo, al momento, le sonate di Mozart sono uno dei pochi settori della discografia brendeliana, se non addirittura l’unico, di cui non sia disponibile una raccolta organica, sicché chi è interessato a conoscerle si vede costretto a procurarsele alla spicciolata, incorrendo in qualche inevitabile doppione: le pagine di maggior rilievo sono comunque tutte agevolmente reperibili, e anche a prezzi abbastanza convenienti. L’assortimento più nutrito è quello offerto dal doppio album della serie Duo, dove troviamo quattro sonate in cui il pianista, nella sua fase di piena maturità, si dedica ad esplorare soprattutto il versante della drammaticità e quello dell’intimismo.
La sonata in la minore K. 310, di cui l’incisione Vanguard del 1968 offriva una lettura snella e dinamica, diviene qui un prototipo di drammaticità classica, austera e marmorea: l’aggettivo “maestoso” che contrassegna l’allegro iniziale non è forse mai stato preso altrettanto alla lettera. Quanta raffinatezza e quanta umanità si celino sotto quell’apparente freddezza, si comprende però immediatamente dal modo di sfumare l’acciaccatura e la sincope nel primo tema.
La sonata in do minore K. 457, dove il lirismo prevale sulla drammaticità e quest’ultima è risolta in termini di nervosa ed elastica leggerezza, si presenta più che mai come un diretto antecedente della grande sonata schubertiana nella stessa tonalità. Scintillante e carezzevole la K. 333 in si bemolle maggiore, una delle costruzioni sonatistiche mozartiane di più vasto respiro. Nella celeberrima K. 311 in la maggiore, le variazioni iniziali sono improntate a un lirismo particolarmente intimo e disteso, con una dilatazione dei tempi che rende più sensibile lo stacco rapido della coda. L’approccio lirico si conferma nel minuetto e ancor più nel trio, salvo venire completamente sparigliato dalla frizzante vivacità della marcia turca (impagabili, per esempio, le acciaccature del tema principale o certi effetti percussivi), che offre un saggio di quell’umorismo spigoloso ed effervescente che ha contrassegnato soprattutto le interpretazioni haydniane del Nostro.
L’assortimento dell’album tende a privilegiare le sonate della fase parigina; in compenso la piena maturità viennese, oltre che dalla sonata in do minore, vi è rappresentata da una serie di brani singoli di ampio respiro che costituiscono altrettante vette assolute del pianismo mozartiano, e che incarnano un ventaglio più che mai variegato di climi espressivi. Primeggia fra di esse la prodigiosa fantasia in do minore K. 475, avamposto di sensibilità romantica che il solista risolve mediando tra lirismo e veemenza con la consueta elasticità. Seguono il rondò in la minore K. 511 (secondo Badura Skoda il più bel rondò di tutta la lettura pianistica), affrontato in chiave di velato intimismo crepuscolare; il grande adagio in si minore K. 540, più interiorizzato e rarefatto che mai; e le brillanti variazioni in re maggiore K. 573 su un tema di Duport, dove Brendel sfodera quel miniaturismo incisivo e graffiante che ha contribuito a fare di lui uno degli interpreti ideali delle Variazioni Diabelli.

Mozart e il pianoforte di Laura Och

Mozart visse nel periodo in cui il declino economico e politico dell’aristocrazia spingeva i musicisti a organizzare la propria attività in forme adeguate al nuovo assetto sociale; egli fu uno dei primi compositori che imboccarono la strada della libera professione, scegliendo l’attività di concertista come principale mezzo di affermazione nei confronti del pubblico.

Badura Skoda

Almeno fino al 1780 era il clavicembalo lo strumento a tastiera più diffuso; la stessa precocissima educazione musicale del piccolo Wolfgang era stata oculatamente amministrata dal padre Leopold su questo strumento.
Con facilità e naturalezza sorprendenti Mozart, poco più che adolescente, riuscì a fare del pianoforte un mezzo di espressione artistica ideale, adattando gradualmente ma perfettamente il suo pensiero musicale alle possibilità tecniche degli strumenti dell’epoca, dal suono più secco e pungente rispetto al pianoforte moderno.
La continua evoluzione della sua scrittura pianistica, che si protrae senza fratture né sfoggio alcuno di artifici fino a pochi mesi prima della morte, testimonia quanto il linguaggio di Mozart sia un organismo mobilissimo e
attento alle sollecitazioni più diverse. Una delle più spiccate qualità del compositore di Salisburgo fu la sua stupefacente capacità di assimilazione, che lo portò a far suoi pressoché tutti gli stili musicali in uso al suo tempo, come è esemplarmente attestato dalle opere teatrali.
Se pure in maniera meno vistosa, anche la produzione pianistica testimonia le acutissime capacità del compositore di assorbire, convertendole in linguaggio personale, diverse tendenze stilistiche.
Del tutto insolita, quasi stupefacente per un compositore-pianista poco più che ventenne, è ad esempio la forte caratterizzazione espressiva della Sonata in la minore K. 310, dal tono agitato e inquietante, conclusa da un Presto che per la sua incalzante concisione non ha precedenti nella produzione mozartiana.
Ai toni cupi di questo primo esito assolutamente personale del pianismo mozartiano si contrappone il carattere mondano ed elegante della Sonata K. 331. Benché per la data di composizione sussista qualche incertezza, l’opera è comunque ascrivibile al gusto musicale francese, com’è attestato dall’Andante grazioso in forma di tema con variazioni che apre la composizione al posto del consueto allegro bitematico. Celeberrimo, anche per le storpiature di cui lo hanno fatto oggetto legioni di pianisti dilettanti, è il Finale “Alla turca”.
Il titolo si riferisce a una delle mode musicali dell’epoca, quella dell’esotismo orientaleggiante; questo notissimo rondò intende infatti imitare idealmente le sonorità delle bande musicali a seguito dell’esercito ottomano.
Nel mese di maggio del 1781 avviene la svolta capitale nella biografia di Mozart: il compositore lascia l’impiego fisso a Salisburgo, al servizio dell’arcivescovo Colloredo, per trasferirsi a Vienna affrontando i rischi e le incertezze della libera professione.
D’ora in poi, pur non abbandonando questo genere, Mozart dirada numericamente la composizione di sonate, intensificando invece la produzione di concerti per pianoforte e orchestra; questi costituivano infatti il momento di maggior interesse durante le “accademie”, ossia i pubblici concerti di cui egli stesso era il principale interprete in veste di pianista e di direttore.
Significativo frutto del primo quinquennio viennese è la Sonata K. 457 in do minore, stampata dall’editore Artaria nel 1785 al seguito di un’ampia e complessa Fantasia nella stessa tonalità, poi classificata nel catalogo Kochel al n. 475.
Sull’effettiva intenzionalità nell’abbinamento delle due opere, ossia sulla volontà esplicita da parte di Mozart di considerare la Fantasia come composizione introduttiva alla Sonata, forse si può porre qualche ipoteca.
È comunque qui evidente il sempre maggiore allargarsi degli orizzonti mozartiani nel trattare le forme classiche, per la profondità dell’ispirazione e per la ricchezza della scrittura pianistica.
In particolare la splendida Sonata in do minore ripropone il clima conflittuale

che Mozart aveva già sperimentato nella Sonata K. 310; il carattere drammatico della composizione è ora intensificato dalla maggiore frammentazione delle idee tematiche e da un movimento conclusivo, Molto allegro, in cui efficacissime asimmetrie ritmiche creano un clima espressivo di intensa concitazione.
Negli ultimi anni Mozart si trovò isolato e deluso, oberato da impegni economici cui non riusciva a far fronte. La sua musica per il teatro, troppo ricca e complessa rispetto al linguaggio operistico medio dell’epoca, dopo il successo del Ratto dal serraglio aveva incontrato solo tiepidi successi di pubblico. Come concertista egli subiva da perdente l’agguerrita concorrenza dello stile inaugurato da Muzio Clementi, senz’altro più rude rispetto all’elegante pianismo mozartiano, ma ricco di effetti che il pubblico apprezzava per una certa plateale efficacia.
È significativo che nel catalogo mozartiano il genere della sonata per pianoforte dopo il 1788-89 scompaia per essere sostituito da composizione più brevi e dunque di minore impegno, prevalentemente scritte su commissione o destinate all’uso degli allievi. Il lancinante contrasto fra l’assoluta genialità che traspare da alcune di queste pagine e le condizioni di banale occasionalità che ne determinano la nascita è riassunto emblematicamente dal Rondò K. 511, in cui riaffiorano certe ricercatezze fraseologiche dello stile clavicembalistico “sospiroso” tipico di Carl Philipp Emanuel Bach che però Mozart innesta su collegamenti armonici arditissimi, privi di qualsiasi riscontro nella produzione per tastiera corrente in quegli anni; questa straordinaria composizione è datata 11 marzo 1787.
Di un anno posteriore è l’Adagio in si minore K. 540, un’ampia pagina in cui Mozart associa lo spirito e l’intensità espressiva tipica del genere della Fantasia a un rigore formale di derivazione sonatistica, segno, ancora una volta, di quanto all’ultimo Mozart stessero stretti i limiti e le convenzioni del linguaggio musicale dell’epoca.
Registrazioni eseguite dal 1975 al 1992 e rimasterizzazione effettuata nel 1996. Audio ottimo. Altamente raccomandato.

Sonata in n. 8 in la minore K. 310 “ Parigina 1”

La prima delle tre serate dedicate al pianismo di Mozart si chiude con l’unica pagina che non appartiene agli anni viennesi del compositore, e che ciò nondimeno assume un rilievo d’eccezione nel suo catalogo pianistico, la Sonata in la minore K. 310. Si tratta – insieme a K. 309 e 311 – di una delle tre Sonate scritte nel corso del lungo e sventurato viaggio compiuto a Mannheim e Parigi nel 1777-1778, alla ricerca di fortuna e, possibilmente, di un impiego nella capitale francese. In particolare, sulla nascita della Sonata in la minore non abbiamo alcuna indicazione, al di fuori della datazione sull’autografo “Paris 1778”; il brano venne però pubblicato già a Parigi, ad opera dell’editore Heina, primo caso di una Sonata pianistica di Mozart a trovare la strada della pubblicazione a immediata distanza dalla nascita.

Alfred Brendel

Nella prima tappa del viaggio verso Parigi – Augusta, città da cui proveniva la famiglia del padre – Mozart aveva potuto suonare i pianoforti di Johann Andreas Stein, apprezzandone, tutte le qualità che rendevano questi prototipi fra i più avanzati in Europa. Le tre Sonate scritte nei mesi seguenti vedono dunque l’autore ormai consapevole delle potenzialità dello strumento a martelli, e proiettato a definire una scrittura tastieristica effettivamente studiata per sfruttare queste potenzialità
La Sonata in la minore è forse l’esempio più evidente di questo nuovo atteggiamento. Non a caso si tratta della prima e – con la Sonata in do minore K. 457 – di una delle due uniche Sonate per pianoforte scritte da Mozart in una tonalità minore, scelta che si riflette in un contenuto musicale di impronta altamente drammatica. È verosimile che dietro questa scelta ci sia il desiderio di conquistare il pubblico dei salotti parigini richiamandosi allo stile concitato e tempestoso di Johann Schobert, compositore tedesco nato intorno al 1735 e morto prematuramente nel 1767, che aveva abbandonato la Germania per Parigi, dove si era imposto proprio per il suo precoce interesse verso le risorse del nuovo strumento a tastiera. Mozart conosceva e ammirava Schobert fin dall’infanzia, e proprio su una Sonata di Schobert, op. 17 n. 2, si era basato, nel 1767, dietro indicazione del padre, per costruire il movimento centrale di uno dei suoi primi Concerti per pianoforte, K. 39. Non a caso, come risulta dalle lettere, Mozart caldeggiava ai suoi allievi lo studio dei lavori di Schobert, ed è probabile che nei lavori di questo maestro trovasse interessante principalmente la sensibilità Sturm und Drang, che donava nuova animazione ai contenuti decorativi della produzione tastieristica.
La Sonata K. 310 è dunque il frutto dell’incontro di due esigenze, la scelta di un nuovo pathos espressivo, legato alla tonalità minore, e la ricerca sulle risorse dello strumento a martelli. La pienezza armonica delle figurazioni insistite di accompagnamento, l’inversione delle funzioni melodiche e di accompagnamento fra le due mani, gli ampi arpeggi della destra sugli accordi tenuti della sinistra, che mettono in vibrazione tutti i suoni armonici del telaio, sono esempi di un dominio ormai completo degli effetti timbrici del nuovo strumento, che trovano nella Sonata in la minore una folgorante affermazione.
Il tempo iniziale, segnato dalle dissonanze armoniche e dal ritmo di marcia dell’incipit, è in una ampia forma-sonata, con una pronunciata contrapposizione tematica (marcia contro nervosa scorrevolezza di semicrome), uno sviluppo animato dalle figurazioni insistite della mano sinistra e dalle suggestive progressioni polifoniche della destra, una ripresa che converte nel modo minore il secondo tema, riconducendolo alla prevalente ambientazione espressiva del movimento.
L’Andante cantabile con espressione si richiama invece allo schema galante della melodia ornata su basso albertino, ma mostra nella sezione centrale prospettive più complesse, con l’apparizione di un nuovo motivo, presentato nei diversi registri della tastiera con figurazioni di accompagnamento cangianti e dissonanti.
Il Presto conclusivo torna all’ambientazione iniziale; si tratta di una pagina in forma di Rondò, in cui i diversi episodi hanno origine dalla stessa figura ritmica del refrain; questa caratteristica, insieme alla ricchezza del contenuto armonico, garantisce all’intero movimento una varietà espressiva continuamente rinnovata e insieme una ineluttabile coerenza.

Fantasia in do maggiore K. 475

In continuità con il filone della Toccata bachiana per l’immediatezza di scrittura, la spontaneità improvvisativa e la limpidezza del processo stilistico, la Fantasia in do minore K. 475 di Mozart rivela anche caratteristiche diverse se la si osserva dal punto di vista temperamentale. Molti osservatori l’hanno considerata quasi «beethoveniana» per il clima cupo e turbinoso, per la forte personalità e frontalità dei temi, per l’estrema variabilità e l’intenso contrasto delle idee.
La Fantasia K. 475 rivela una trasparente organizzazione formale: un Adagio ai due poli estremi che funziona da Preludio introduttivo e Postludio finale, quasi a perimetrarne il territorio dei contenuti espressivi; al suo interno un Allegro a due temi richiama un’esposizione di sonata ed è seguito da un Andantino tripartito (ABA’).
La Fantasia – scritta in un sol giorno il 20 maggio 1785 – fu pubblicata da Mozart insieme alla Sonata K. 457. Il compositore aveva intenzionalmente avvicinato i due brani giudicandoli in forte affinità, avendo probabilmente sentito l’esigenza di creare una solida base alle qualità prorompenti della Sonata. La Fantasia ne sarebbe stata infatti il suo splendido ed enigmatico preludio. Aveva però contemporaneamente voluto salvaguardare il valore di autonomia della Fantasia stessa (quindi di sua eseguibilità «a parte») costruendola come un congegno del tutto completo sotto l’aspetto architettonico e compiuto sotto quello puramente espressivo.

Muzio Clementi

Sin dall’inizio quel tema misterioso e interrogante, unito all’inquieta risposta all’acuto, sembra un minaccioso addensarsi di nubi. Si tratta di una sorprendente concezione sinfonica della scrittura pianistica: il tema, presentato in forte e unisono, pare ricalcare un partecipato inciso degli archi, mentre la risposta, in pianissimo, simula la voce dei fiati con un’opposizione marcata di timbri sottolineata dai contrastanti f-pp ripetuti, elemento che fra l’altro conferisce a queste prime battute un andamento solenne e teatrale. Il tema si trasforma presto in una melodia lunga sull’ondulato sostegno del grave e ancora passa alla mano sinistra, come fosse intonato dalla tenera voce di violoncelli e contrabbassi. Il secondo elemento è invece di spirito totalmente opposto: stabile tonalmente, tenero e affettuoso, inconfondibilmente mozartiano. È un momento di calma e tranquilla cantabilità che pare voler far superare il dramma iniziale.
Tutto però si prepara a cambiare: d’improvviso irrompe l’Allegro con il suo tema agitato, fratto, disperso in piccoli incisi su registri diversi. Si scatena una sorta di violenta tempesta: nei flessuosi appoggi semitonali della mano sinistra, nelle veementi quartine di semicrome della destra, nei ritmi incalzanti e nelle cadenze evitate. Come era avvenuto nell’Adagio, va ora profilandosi un secondo tema di stampo più moderato; richiama un ambiente galante, costruito com’è su deliziosi arpeggi, morbidi appoggi discendenti, piccole e deliziose ornamentazioni. Poi il basso prende a scivolare progressivamente per semitoni, e così facendo unisce il suo movimento alle mobili e avvolgenti terzine della mano destra. Si apre un grande recitativo declamato che enfaticamente prepara il mutamento di tempo.
È infatti il momento dell’Andantino, aperto da un’idea semplice e graziosa. Proprio da questo movimento in poi Mozart innesca un fitto reticolo di rimandi – espliciti o meno – alle sezioni precedenti, intensificando il ricorso all’artificio della variazione: l’idea graziosa sopra citata, ad esempio, è tratta da un piccolo inciso cadenzale della sezione di collegamento e più volte è sottoposta a vari livelli di mutazione. I ritorni tematici sono ogni volta collegati da un breve interludio, il cui tranquillo procedere per doppie terze – sul regolare e docile accompagnamento del basso – ricorda una dolce frase intonata dai legni. Nel finale l’idea graziosa compare in una forma molto particolare: via via sfaldata e sfrangiata su cadenze irrisolte; ripetuta a oltranza si autodissolve nelle sue stesse ripetizioni.
Brucianti e improvvise, irrompono le velocissime quartine in biscrome del Più Allegro. Richiamano toni e movenze del precedente Allegro e presto si esauriscono in un arpeggio dai toni preludianti, con alcune figurazioni tratte da un’altra sezione dell’Allegro (il moto per terze discendenti). Come si vede il materiale ritorna ancora, ogni volta trasformato, in un fitto e imprevedibile intreccio di richiami. Mozart ci ha così preparati all’avvento dell’epilogo, ovvero il ritorno a specchio dell’Adagio iniziale. Ma si guarda bene dal riproporlo con lo stesso percorso e con le stesse dimensioni. Pochi istanti e una digressione armonica interviene a modificarlo radicalmente: le comparse tematiche e i motivi si presentano ravvicinati, ridotti, come espunti dalla pagina iniziale per essere ora riproposti in termini diversi: un procedimento di sintesi teso a concentrare e addensare le idee, per poterle cogliere in profondità.

Sonata N. 14 in do minore K. 457

Si è detto come la Sonata in do minore K. 457 sia stata pubblicata nel dicembre 1785 insieme alla Fantasia in do minore K. 475. Occorre ricordare però che la Sonata venne completata oltre un anno prima (14 ottobre 1784) la data della pubblicazione, e che per questo motivo deve essere ritenuta un lavoro del tutto autonomo dalla più tarda Fantasia K. 475 (20 maggio 1785). Le grandi ambizioni della Sonata risiedono già nella stessa tonalità minore – scelta assai ambiziosa – che allontanava la composizione da una più facile ricezione, per investirla di complessi contenuti speculativi.
La Sonata K. 457 è dunque una vera Sonata da concerto, che mostra al più alto grado la maestria di Mozart nel dominare anche sulla tastiera le categorie espressive del pathos e del fatalismo, sfruttando tutte le peculiarità tecniche del pianoforte. C’è, in questo spartito, una animazione di contrasti che si basa sul principio di una continua dialettica di princìpi opposti, trasmessa attraverso un virtuosismo drammatizzato, che sfrutta le differenze fra i registri, gli effetti di risonanza, le possenti ottave e la rapida scorrevolezza della mano destra.
Individuiamo così, nel Molto Allegro iniziale, movimento magistralmente costruito, un primo conflitto già all’interno del primo tema, con le forti ottave nel registro medio-grave che si contrappongono a una risposta in piano nel registro medio-acuto. Più oltre troviamo le ottave spezzate al basso, che fanno vibrare tutte le risonanze, una transizione in terzine, un tema intermedio e quindi il vero e proprio secondo tema; questa seconda idea, dal carattere cantabile, viene presentata in maggiore dalla mano destra, che espone delle “domande” e “risposte” nel registro acuto e nel registro grave, passando sopra la mano siistra, impegnata nel registro medio in figurazioni di accompagnamento: un nuovo conflitto, a cui guarderà Beethoven per il secondo tema della sua Sonata op. 13. La sezione dello sviluppo, piuttosto breve, rielabora elementi della transizione, del tema intermedio, e soprattutto del primo tema, attraverso varie peregrinazioni tonali. Nella riesposizione il secondo tema si ripresenta in minore, donando unità e coerenza ai conflitti che animano tutto questo tempo, concluso da una coda riassuntiva dei principali elementi, che porta il movimento a spegnersi in pianissimo.

Hieronymus conte di Colloredo

Il tempo centrale è un Adagio dal contenuto meditativo, che accantona solo apparentemente le tensioni dei tempi estremi; si apre con un tema principale che si ripresenta una seconda e una terza volta sempre più arricchito di fioriture, e al quale fa seguito una seconda idea più cantabile; proprio il frastagliarsi del canto
in spostamenti d’accento, ornamentazioni, escursioni di registro, cadenze, rende sottilmente inquieto il percorso del movimento. Nel finale, Allegro assai, ritroviamo i principi costituivi del movimento di apertura. Indicativa è già la configurazione del tema iniziale, tutto basato su sincopi, ovvero accenti spostati, che stabiliscono immediatamente una forte tensione armonica. La scrittura usata da Mozart è fra le più complesse, non solo nello sfruttare le risonanze della tastiera, con ottave e accordi, ma anche nell’incrocio fra le due mani, che non a caso venne assai semplificato nella prima edizione a stampa. Formalmente il movimento è un Rondò, la cui corsa continua è interrotta spesso da enigmatiche pause; gli episodi secondari, estremamente coerenti, attribuiscono al ritorno del refrain una impressione di ineluttabilità. Anche da questa perfetta costruzione nasce il pathos che informa la mirabile Sonata.

Sonata n. 13 in si bemolle maggiore K.. 333 “Parigina 5”

Nella primavera del 1781, a venticinque anni, Mozart prese una decisione tanto azzeccata artisticamente quanto umanamente azzardata. Aveva a Salisburgo un impiego fisso ed un salario sicuro: vi rinunciò, dimettendosi ed affrontando a Vienna le incognite della libera professione. All’inizio sembrò che il gioco gli riuscisse: tenne dei concerti, trovò molti allievi di pianoforte fra gli aristocratici e i ricchi borghesi, stabilì proficui rapporti con gli editori. Già nel 1781 riuscì a pubblicare sei Sonate per violino e pianoforte. Uscirono poi due Sonate per pianoforte a quattro mani e nel 1784, presso l’editore Artaria, le tre Sonate K. 330, 331 e 332, di media difficoltà e perfettamente calcolate sul gusto dei dilettanti viennesi. Il successo di questa pubblicazione indusse un altro editore, Christoph Torricella, a chiedere a Mozart altre tre Sonate. E Mozart mise insieme la K. 282, scritta nove anni prima, la K. 333, e la K. 454 per violino e pianoforte, composta per la violinista mantovana Regina Strinasacchi e con questa eseguita il 29 aprile 1784, in teatro, alla presenza dell’imperatore Giuseppe II. Le tre nuove Sonate erano assai più difficili delle tre precedenti, e questo, per un libero professionista dalla fama non ancora consolidata, rappresentava un grave errore. Così, il pubblico dei dilettanti… riversò il suo affetto sul più scaltro Leopold Antonin Kozeluch, che si era stabilito a Vienna nel 1778 e che sfornava regolarmente graditissime Sonate per pianoforte solo e a quattro mani, riuscendo a condurre una vita brillante e tranquilla mentre Mozart doveva cominciare a battersi come un leone per non affondare miseramente. La Sonata in si bemolle maggiore K. 333 rispecchia la commedia sentimentale, rispecchia il teatro borghese di Lessing con la sua analisi dei sentimenti razionalistica e insieme affettuosa. Il primo tema del primo movimento è simile al tema d’inizio della Sonata op. 17 n. 4 di Johann Christian Bach. E siccome Bach, che aveva paternamente accolto Mozart bambino a Londra e che gli aveva impartito lezioni di composizione, era scomparso nel 1782, sembra probabile che Mozart intendesse rendere omaggio alla memoria di un musicista che nella sua formazione aveva svolto un ruolo importante. Partendo da Johann Christian, Mozart sviluppa però un’architettura articolatissima e complessa, quale l’ultimo figlio di Bach non aveva mai tentato.
Il secondo movimento della K. 333 è in forma bitematica e tripartita, molto rara nei tempi lenti delle Sonate e… molto insidiosa perché nella sezione centrale, lo “sviluppo”, Mozart si lascia attrarre dalle sirene del cromatismo. Il 13 agosto 1778 Leopold Mozart aveva raccomandato caldamente al figlio di impegnarsi sul “naturale, di scrittura fluida e facile e ben costruito”, sostenendo che ciò era “più difficile di tutte le progressioni armoniche artificiali, incomprensibili ai più, e più delle melodie difficili da eseguire”. Nel secondo movimento della Sonata K. 333 Mozart striscia proprio sugli scogli che il suo vigile padre gli aveva consigliato di evitare. Buon per noi, si capisce,… ma non per le fortune dello spensierato Amadeus. Il tono leggero della commedia borghese ritorna nel finale, vasto Rondò in sette episodi con inserita una sorprendente “cadenza in tempo” che occupa un buon 15% della composizione e che trasferisce nella Sonata un elemento tipico del Concerto, il gioco della contaminazione formale riesce a Mozart splendidamente. Ma anche questo particolare diventava una fonte di disorientamento per il pubblico che aveva accolto con gioia le Sonate K. 330, 331 e 332. Si trattava quindi di un ulteriore errore, di uno dei tanti errori di valutazione verso i quali il demone di Mozart – per nostra fortuna, ripeto – guidò il suo alunno.

Sonata N. 11 in la maggiore K. 331 “Marcia Turca”

La Sonata in la maggiore K. 331è stata pubblicata nel 1784 dall’editore Artaria con il numero d’opera 6, in un gruppo di tre Sonate che comprendeva anche gli spartiti K. 330 e 332. Si tratta delle prime tre Sonate scritte da Mozart negli anni viennesi, anzi probabilmente i tre lavori vennero concepiti nel corso del periodo trascorso da Mozart a Salisburgo nell’estate 1783 – il compositore era tornato nella città natale per presentare alla famiglia d’origine la moglie Constanze Weber – come lascia pensare una lettera del 12 giugno 1784 al padre, in cui Mozart annuncia appunto la pubblicazione delle tre Sonate, definendole quelle “che ho regalato a mia sorella”. Mozart scrisse questi tre spartiti verosimilmente per il proprio uso concertistico e didattico, e si può essere certi che il loro contenuto non mancò di destare la giusta attenzione.

Constanze Weber

In particolare, la Sonata in la maggiore K. 331 era destinata ad imporsi come la più celebre fra tutte le Sonate di Mozart, a causa dell’ultimo tempo, il cosiddetto Rondò “Alla turca”, ben noto anche al di fuori degli ambienti della musica colta. Sulla scia della moda della turquerie, che aveva avuto vastissima diffusione in tutta l’Europa nel corso del Settecento, Mozart aveva scritto, nel 1782, l’Opera Die Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio) che aveva colto una piena affermazione presso il pubblico viennese.
Nella Sonata K. 331 troviamo dunque il desiderio di riallacciarsi a quel successo, di inserirsi sulla scia della turquerie teatrale per riproporre, nei salotti dell’aristocrazia, quegli stessi stilemi che dovevano attribuire alla musica un sapore “turchesco”. Altro esempio di turquerie è il Rondò finale della Serenata per fiati K. 361, eseguita nel marzo 1784, pagina per molti aspetti gemella del Rondò pianistico. Ciò che rende singolare questa Sonata, tuttavia, non è solamente la presenza del movimento “Alla turca”, ma il fatto che, inserendo nello spartito un tempo così fortemente caratterizzato, Mozart decise di costruire una Sonata complessivamente anomala. È infatti questa l’unica Sonata di Mozart – a parte la giovanile Sonata in mi bemolle maggiore K. 282 – il cui primo tempo non si articola in forma-sonata. Il modello della Sonata K. 331 è invece piuttosto quello della Suite, formato da movimenti contrastanti e di danza.
Ecco dunque che l’iniziale Andante grazioso è un tema ingenuo con sei variazioni, che raggiungono progressivamente una eclatante brillantezza tecnica. Purissima è l’idea iniziale, che si arricchisce di fioriture (Variazione I), di intensificazioni nell’accompagnamento (II), trova la strada misteriosa del modo minore (III), sfrutta le contrapposizioni fra diversi registri della tastiera, con la mano sinistra che suona sopra la destra nel registro acuto (IV), si arresta nella pausa contemplativa dell’Adagio fortemente fiorito (V) e cambia infine metro, da 6/8 a tempo quaternario, per chiudere brillantemente il movimento (VI).
In posizione centrale troviamo un Minuetto di intonazione nobile e di mirabili risorse timbriche, che fa ancora ricorso, nel Trio, all’inversione delle mani.
Ma la Sonata gravita, ovviamente, verso il movimento conclusivo, l’Allegretto “Alla turca”, in forma di Rondò francese. Questo carattere francese deriva dalla presenza di un tema principale in minore – ricco di acciaccature o appoggiature e gruppetti, nella dinamica “piano” – e di un refrain in maggiore e in forte; si inserisce anche una nuova sezione in minore, basata sulla misteriosa scorrevolezza di quartine e di scale. Ad attirare l’attenzione è soprattutto la particolare scrittura del refrain, che viene ripresa e potenziata nella coda: vi troviamo infatti una sonora melodia in ottava, accompagnata in modo insistito; gli arpeggi della mano sinistra ottengono l’effetto di far entrare in vibrazione tutti i suoni armonici dello strumento e Mozart aggiunge, alla destra, degli accordi preceduti da acciaccature; ecco dunque che questa particolare scrittura si propone di ricreare sulla tastiera il suono esotico, misterioso e “selvaggio” delle bande militari turche che si avvalevano di tamburo, triangoli e campanelli. Tanto efficace è questa invenzione – che appariva ancor più efficace con i pianoforti dell’epoca, dal suono più aspro di quelli moderni – che il brano ha acquisito fama imperitura.

Adagio in si minore K. 540

Questo breve movimento lento rimasto isolato per ragioni ignote, pubblicato da Hoffmeister senza alcuna ulteriore indicazione, reca la data del 19 marzo 1788 e appartiene dunque al periodo dell’ultimo Mozart (cronologicamente si situa a cavallo delle due versioni, praghese e viennese, del Don Giovanni). E del Mozart maturo ha tutta l’ineffabile, poetica inafferrabilità, la valenza espressiva tragica e la tendenza a risolvere la musica, quasi nella sua essenza, in termini metafisici. Il carattere libero e rapsodico del suo andamento riposa su un equilibrio instabile ma perfettamente disegnato, nel quale l’accesa passionalità, con tratti quasi disperati, si placa in una progressiva decantazione che trova il suo punto di destinazione finale nella trasfigurante coda in maggiore.

Rondò in la minore K. 511

Il Rondò in la minore K. 511 fu terminato da Mozart l’11 marzo 1787, come ci informa una indicazione autografa sul manoscritto. Reduce dal trionfo praghese delle Nozze di Figaro, il compositore si impegnava nella stesura del Don Giovanni, e, parallelamente alla transizione fra le due opere maggiori, il suo stile subiva una trasformazione verso orizzonti che – con un termine certamente eccessivo ma pure indicativo – Wyzewa e Saint Foix definiscono “romantici”. Di questa trasformazione la musica pianistica si fa interprete immediata, e il Rondò K. 511 si mostra così lontanissimo da quel virtuosismo brillante e alla moda che, appena pochi mesi prima, affascinava l’intero mondo culturale viennese. Si tratta di una pagina sorprendente, di dimensioni inconsuete e di contenuto quasi improprio rispetto alla giocosa forma del rondò; sobria nella scrittura, si apre con un tema dal sapore vagamente esotico e dal carattere malinconico, che puntualmente si ripresenta nel corso del pezzo, alternandosi con delle sezioni di ambientazione analoga e coerente. Soprattutto l’elemento più innovativo è quello del cromatismo, che pervade tutta l’invenzione tematica del pezzo; così l’intero brano è pervaso da una tensione passionale che si qualifica come un risultato espressivo inedito e conferisce alla pagina la statura del piccolo capolavoro.