Mozart Wolfgang Amadeus
Symphonies

Quest’edizione in video non è un estratto dell’arcinota integrale mozartiana di Böhm con i Berliner, bensì una versione del tutto autonoma, realizzata a Vienna nel periodo immediatamente successivo (da fine anni sessanta a metà settanta), dove vengono riprese, in pratica, tutte le sinfonie più significative: 25, 28, 29, 31 e da 33 in avanti, con l’aggiunta della K. 16 e delle due serenate notturne, la celeberrima “piccola” in sol maggiore K. 525 e quella ancor più piccola in re maggiore per doppia orchestra K. 239.
Ovviamente non ci si può attendere che un direttore ottuagenario cambi radicalmente visuale sui capisaldi del suo repertorio: e in effetti le differenze rispetto all’edizione berlinese sono più che altro questione di dettaglio. In particolare, nelle incisioni più tarde si nota una lieve tendenza al rallentamento dei tempi: così i primi movimenti delle n. 29 e 40, già alquanto lenti nelle incisioni degli anni sessanta, lo diventano ancor più nel decennio successivo, mentre quello della Jupiter, che era velocissimo, si fa lievemente più moderato. Impercettibilmente più veloce è invece il primo tempo della n. 39, risalente al 1967, appena un anno dopo la versione di Berlino (questa e la n. 33 sono eseguite dai Wiener Symphoniker anziché dai Philharmoniker).
I punti deboli (pochi) e i punti di forza (molti) restano comunque all’incirca gli stessi della precedente edizione. Il vertice interpretativo, ora come allora, deve probabilmente vedersi nella n. 25 in sol minore, il manifesto dello Sturm und Drang mozartiano, realizzata con un mirabile senso architettonico e con un fraseggio e una timbrica mirabilmente incisivi e variegati: davvero una delle vette assolute nel repertorio sinfonico di Böhm, accanto a Sesta di Beethoven, Quarta e Quinta di Schubert e a qualche pagina di Bruckner e di Strauss. Un’altra sinfonia particolarmente congeniale al maestro di Graz, l’estroversa e grandiosa n. 34 in do maggiore, è quella che presenta il più appariscente cambio d’impostazione rispetto all’integrale berlinese: se là era presentata in quattro movimenti inserendovi il minuetto K. 409, qui viene adottata la più usuale versione in tre tempi (osservando in compenso il ritornello del finale, tagliato nella precedente edizione). Il minuetto non viene comunque messo del tutto in disparte, ma fa la sua riapparizione sotto forma di “bonus”, in una lettura più grandiosa che mai.
Fra le riuscite più felici vanno poi segnalate la sinfonia di Parigi, ancor più maestosa che nella precedente versione; la Linz e la Praga dinamiche e trasparenti; la Jupiter snella e luminosa, e una Haffner dal fraseggio straordinariamente nervoso e articolato (si faccia caso allo stacco della terzina nel tema dell’andante). Qualche perplessità, come già s’è accennato, possono forse suscitare certe lentezze nei primi tempi delle n. 29 e 40, che in compenso vantano degli andanti di straordinaria espressività.
Il terzo DVD contiene anche un documentario di circa un’ora dal titolo “I remember”, in inglese senza doppiaggio e con sottotitoli disponibili in parecchie lingue ma di consueto escluso l’italiano. Un limite che non può essere sottaciuto, ma che neppure può incidere sulla valutazione artistica delle interpretazioni, sicuramente degne delle cinque stelle.
Sinfonia n. 29 in la maggiore, K1 201 (K6 186a)
Rientrato dall’Italia nel marzo 1773, Mozart attraversa per qualche tempo un periodo di raccoglimento, conseguito alla decantazione di due opposte e parimenti avvertite tendenze: quella dell’esperienza italiana e l’altra di accensione affettiva scaturita dagli spiriti dello «Sturm und Drang». Una serie di nove «Sinfonie» mette in luce il superamento di questa dualità, ovvero l’interpretazione personale (e per la prima volta riflessiva) delle correnti artistiche e delle poetiche più vive dei due paesi. In giovinezza, si sa, i tempi assimilativi sono sempre corti: più lente, invece, sono le scelte. Cosi, in quella produzione sinfonica Mozart estrinseca una sintomatica combinazione dello stile italiano e di quello austriaco. Sono infatti presenti ancora le ripetizioni tematiche, le opposizioni dinamiche di piano e forte, la proposizione breve dei motivi musicali e l’episodicità degli sviluppi: che sono tutti fattori tipici della maniera di Sammartini, ma che nondimeno già tendono a coordinarsi secondo una logica coerenza di discorso, dietro una rivalsa dell’elemento formale austriaco, desunto da una ventata di memorie di Joseph Haydn, il già affermato maestro della forma-sonata. Tuttavia, qualcosa del robusto e nobile contrappuntismo praticato dalla scuola di padre Martini, qualcosa del pathos tardo-barocco appreso soprattutto dalla produzione sacra italiana, resta in lui, collegandosi a certa appassionata inquietudine espressa dal clima wertheriano dello «Sturm und Drang». Insomma, in questa felicissima e geniale osmosi, si decanta e cade ciò che è superfluo, mentre si evidenziano assimilazioni più decisive e partecipate. Il vigore giovanile, il brio gioioso all’italiana, il riecheggiamento anche di locuzioni operistiche, perdono certa nitidezza d’accento in ragione di un più chiaro quadro formale, di un melodismo più plastico: e ricompare il gusto del contrappunto (eredità anche della vecchia scuola salisburghese di Eberlin e Michael Haydn), nonché l’individuazione timbricamente più spiccata, dietro l’impiego articolato degli strumenti a fiato, sperimentato in opere stilisticamente difformi, quali «Divertimenti» e «Messe». Ed allora si fa luce, in questo fecondo dualismo, l’atteggiamento tipico del futuro Mozart maggiore: ossia l’accento semplice, graziosamente leggero, teneramente espressivo e qua e là austeramente pensoso.
Durante il viaggio compiuto a Vienna nell’estate 1773, questi elementi si precisano sul modello già illustre di Joseph Haydn, fatto di solidità di mestiere ed altresì di serio ideale musicale. E comincia di qui lo scambio — per ora ad una sola direzione — tra Haydn ed il giovane Mozart, che più tardi genererà fruttuose influenze reciproche. Tutti gli artifici tecnici di Haydn (ma anche di suo fratello Michael nonché di Gassmann, il maestro della cappella di corte) vengono presi a prestito, vagliati e piegati ad una personale interpretazione: la forma ora si amplia, l’intensità espressiva cresce e con essa l’individuazione
stilistica, gli sviluppi tendono ad accentuarsi per l’uso ripristinato del contrappunto, i finali ricuperano la forma-sonata sostituendola al tradizionale Rondò. Cosi nascono, nella fusione della melodiosità italiana e del solido formalismo austriaco, i primi capolavori mozartiani, soprattutto incentrati in un gruppo di «Sinfonie» che suggeriscono egregiamente i futuri sviluppi del suo genio: e cosi, accanto alla triade delle brillanti «Sinfonie» in do, la e re maggiore (K. 200-02), si situa quella «Sinfonia» in sol minore K. 183 che con la sua trepida inquietudine anticipa la sorella maggiore K. 550 nella stessa tonalità. Delle altre tre, la migliore è certo la seconda (K. 201), ove il gioco ornamentale trapassa ad espressione di sentimenti, mentre le altre due riflettono il passaggio già allo stile galante di puro divertimento che prende a contagiare, sullo scorcio del 1773-74, anche l’ambiente viennese.
Ma Mozart vigila questa moda europea che dilaga rapidamente, quasi preoccupata dalla nuova tensione pre-romantica dello «Sturm und Drang», moda che interessa Haydn ma soprattutto il più predisposto suo fratello Michael. Ed avviene infatti che Mozart smetta di comporre «Sinfonie» per qualche anno: occorrerà il viaggio a Parigi successivo all’incontro con la famosa orchestra di Mannheim (1778), per rassicurargli l’ideale formale. Il gusto dello stile galante intacca indubbiamente anche questa «Sinfonia in la» K. 201, composta nei primi mesi del 1774, ma ancora non la coinvolge del tutto, seppure le proporzioni formali siano qui assai ridotte e lo sviluppo risulti come atrofizzato (e sono proprio queste le caratteristiche salienti del cosiddetto stile galante). In seguito, Mozart si dedica a «Serenate» e «Divertimenti», cioè ad un genere più brillante ed attraente, ove la sua fantasia brilla, ma l’eleganza si fa esteriore e l’espressione perfino convenzionale, generica. Una restrizione di ideali, un arresto evolutivo? Quand’anche, ciò non manca di un aspetto salutare, hanno ben osservato il Wyzewa ed il Saint-Foix, se nello stile galante il musicista si rende più padrone dei propri mezzi, riducendo l’elemento virtuosistico, eliminando effetti facili ed insomma raggiungendo l’epurazione più radicale delle sue idee, delle sue ascendenze.
La «Sinfonia in la maggiore» K. 201 costituisce un test esemplare in questo senso, perché valorizza, con una strumentazione particolarmente accurata, ancorché affidata ad una compagine ridotta, la timbrica dei singoli strumenti ben rilevati nel gioco imitativo, e perché raduna gli atteggiamenti più elementari e sostanziali del suo stile, da verificare ed elaborare più tardi. Essa è un’ipoteca sicura, una sanzione importante della virtuale grandezza di Mozart. Ove basta vedere come, dietro frequenti scoppi di schietta allegria, certi momenti di ispirata estaticità (come nello splendido «Andante») diventano per cosi dire il cantuccio privato che il musicista riserva per la migliore parte di sé: atteggiamento pronto ad iniziare l’ascesa verso la potenziale e possibile bellezza ideale della maturità.
Il distacco dallo stile galante si manifesta, nell’«Allegro moderato», fin dall’iniziale e sottile gioco di imitazioni ed aggregazioni tematiche, in virtù d’un ricercato gioco contrappuntistico. La maestria di Mozart sta proprio in questa commistione di contesto rigoroso e di risvolti quasi in chiave operistica, più espliciti nel secondo tema, che con assoluta fantasia dispone di materiali usati. Da notare anche il piacevolissimo sincretismo stilistico nell’ancor embrionale sezione dello «sviluppo», con la novità di idee tematiche che si rigenerano con magnifico agio.
Affettuoso ed effusivo l’«Andante», immerso nella sonorità morbida degli archi in sordina, a realizzare un clima autenticamente viennese, anticipatore di certo tono amoroso del «Don Giovanni». Il gusto crittografico della citazione e della variante di un materiale musicale duttilissimo, si coglie perfettamente nel secondo tema, intimo e cantabile, ove i primi violini delineano un motivo che ritroveremo nell’«Andante cantabile con espressione» della celebre «Sonata in la minore» (K. 310), composta a Parigi nel ’78: a dire come Mozart in questa «Sinfonia» mostri uno stile personale ormai delineato. Inoltre, certo breve gioco di pause che intimizzano il discorso, prefigura già il Mozart della maturità.
Il «Minuetto», contrariamente all’uso, inizia sommesso per raggiungere scansioni ritmicamente incisive e poi pieghe più espressive, ove i due oboi ed i due corni suggeriscono modulazioni pastorali: un chiaroscuro che si fa più disteso e lirico nel «Trio» atteggiato a danza, vero esempio di Minuetto viennese.
Brioso e vivacissimo l’«Allegro con spirito» conclusivo, certo la pagina più alta della «Sinfonia» anche per la maestria tecnica e strumentale. Un cicaleccio continuo e vario si comunica a tutta l’orchestra, presagendo i grandi Finali sinfonici, dalla «Haffner» in poi; mentre certo tono agreste alla Watteau si coglie nel secondo tema, umoristicamente popolaresco, che conclude con accenti operistici. Sul contesto fremente, la scala conclusiva degli archi è davvero sigla di felicità; ma prima, nella sezione centrale, un’improvvisa concitazione dà la misura anche di cadenze drammatiche inattese, le più ricche (ha notato l’Einstein) che Mozart abbia scritto fino a quel momento. Per tali fattori, questo grande «Finale» mozartiano preserva l’intera «Sinfonia» dalle sirene del gusto galante: piuttosto, è presentito vicino il mondo neo-classico, quel clima «viennese» che sarà del primo Beethoven e del primo Schubert.
Sinfonia n. 34 in do maggiore, K 338
La Sinfonia in do maggiore ha la data del 29 agosto 1780, fu creata, dunque, in un giro di mesi, quelli tra il 1780 e l’81, fondamentali nella vita di Mozart. Certo, i concetti di svolta e mutamento sono solo generici per una vita che fu sempre evoluzione e scoperta, ma in questo caso non sono del tutto inappropriati.
Arcivescovo Colloredo

Nel 1777-78 Mozart aveva fatto uno dei suoi giri europei, durante il quale aveva abitato e lavorato in tre capitali della musica: Parigi, Mannheim, Monaco. Tornato a Salisburgo all’inizio del 1779 aveva ripreso di malanimo il servizio nella corte dell’arcivescovo Colloredo, con il quale ricominciarono subito i contrasti: Mozart era oppresso dalla ristrettezza mentale dei concittadini e esasperato dalla sgarbata autorità dell’arcivescovo. Aveva bisogno, insomma, di libertà e di vivere in un mondo degno di lui (era un mondo che non esisteva, ma col suo inguaribile ottimismo egli voleva che esistesse). Si che per la miracolosa collaborazione del suo genio e del destino con i casi quotidiani e le necessità della vita ci sembra che Mozart abbia allestito, diciamo così, gli imprevisti vivendoli anche in anticipo. Oltre alla Sinfonia in do maggiore nel 1780 egli scrive due dei suoi capolavori, l’ldomeneo (Monaco, 29 gennaio 1781) e le Vesperae solemnes de confessore, non altro, il che basterebbe a chiunque sia, ma è poco per lui che affollò di lavori ogni anno della sua esistenza. Mozart tirava il fiato e preparava la sua libertà.
I lunghi congedi che si prese di sua iniziativa, da Salisburgo, prima a Monaco e poi a Vienna, offesero a tal punto Colloredo che lo cacciò una volta per tutte (9 maggio 1781) e in modo drammatico (infatti due mesi dopo il suo segretario, il conte Arco, coprì Mozart di improperi e gli assestò il leggendario calcio nel sedere: per mesi Mozart sognò di restituirlo).
Mozart era libero, aveva venticinque anni, lasciò l’odiata-amata Salisburgo per sempre (ci tornò solo occasionalmente e per pochi giorni) e visse a Vienna i dieci anni che gli restavano da vivere. La vigorosa serenità che nutre tutta la Sinfonia in do maggiore, è il riflesso di uno stato d’animo teso al futuro.
Mozart scrisse 41 Sinfonie, la prima quando aveva otto anni, l’ultima quando ne aveva trentadue, nel 1788 (ed è l’altra in do maggiore, lo Jupiter delle sinfonie, un vertice “finale”, oltre il quale Mozart non volle andare: anche in questo caso fu lui che fissò il corso delle cose). I capolavori del suo sinfonismo sono sette, scritti tra il 1780 (quattro fino al 1786) e il 1788 che vide nascere gli ultimi tre (K. 543, K. 550, la celeberrima Sinfonia in sol minore, e K. 551). La Sinfonia in do maggiore K. 338 del 1780 apre non indegnamente il grande ciclo.
Haydn aveva fissato l’architettura della sinfonia in quattro tempi (Allegro, Adagio, Minuetto, Allegro), realizzando un ideale dinamismo di valori espressivi e di mediazioni (la funzione della forma di danza, che sta a metà fra il movimento e la sosta) – dinamismo e mediazioni che mancavano sia allo strumentalismo tedesco del nord sia a quello di tradizione napoletana, in cui lo schema era tripartito (Allegro, Adagio, Allegro). Azione e riflessione sono principi dell’umanesimo illuministico che il tranquillo ma attivissimo Haydn condivideva e che rese fondamentali per il classicismo musicale, principi di cui anche Mozart, genio attivissimo e non tranquillo, era persuaso. Ma l’antica architettura in tre tempi non fu abbandonata in ogni caso e per sempre, almeno fino a Beethoven.
Infatti la Sinfonia K. 338 è in tre tempi. Nella costruzione essa è insolitamente simmetrica ed equilibrata (i tre tempi hanno durate quasi uguali, anzi l’ultimo è, contro l’uso, un poco più breve), tuttavia esprime, come ho detto, una forte vitalità. In una lettera del 1781 da Vienna al padre Mozart scrive che una sua sinfonia, eseguita con organico molto allargato (40 violini, 6 fagotti, tutti i fiati raddoppiati), è andata magnificamente ed è stata un grande successo. Otto Jahn identificò questa sinfonia nella nostra, K. 338, ma poi la sua tesi è stata messa in dubbio. Tuttavia la possibilità che in un’occasione speciale Mozart abbia ampliato l’organico di questo suo lavoro non è da escludere (allora i musicisti praticavano interventi ad hoc sulle loro musiche), dato anche il carattere esplicito e fastoso della musica. La tonalità d’impianto, luminosa e affermativa, do maggiore, conferma che Mozart concepì la pagina con animo entusiasta. Un tema marziale, deciso e ben scandito (tempo in 4/4), mette in moto l’Allegro vivace: l’intenzione è quella dello stile grandioso. Ma un “grandioso” non creato per effetto e per imporre l’attenzione (come accade nella sinfonia scritta da Mozart due anni prima per Parigi, la K. 297), bensì come espressione immediata di idee forti e della volontà di agire. Non è un caso il fatto che questa animazione già anticipi lo spirito operistico dei capolavori maggiori: qui l’Ouverture e il concertato del II atto del Figaro e nell’ultimo tempo il ballo del Don Giovanni. Al gesto del primo tema si contrappone la melodia, interiore, riflessiva, discendente e ascendente per contrappunto a specchio (eppure semplice!), di un mirabile secondo tema (gli elementi costruttivi dell’Allegro sono almeno quattro, ma i significativi sono questi due). Il passaggio senza ripetizioni dall’esposizione dei temi allo sviluppo conferma l’impressione di una volontà creativa risoluta ed energica. Lo sviluppo ha passaggi arditamente modulanti nei quali avvertiamo l’ansiosa malinconia sempre nascosta in Mozart, ma la ricapitolazione dei temi e la “coda” ci riportano alla vitalità vittoriosa dell’inizio.
L’Andante, che è una netta espressione di stile affettivo, qui realizzato in un intimo colloquio tra gli archi e i due fagotti, ha la quieta concentrazione della musica da camera. Con il tema iniziale, in fa maggiore, si confronta un secondo tema, in do, più luminoso e sereno. L’elaborazione tematica sviluppa il senso di malinconico raccoglimento verso una conclusione rasserenante. Il finale, infatti, riespone il primo tema con un più appagato lirismo. C’è da notare, infine, che Mozart ha indicato il movimento con “Andante di molto”, in un suo italiano impreciso che vuol escludere uno stacco troppo riposato, eccessivamente raccolto (nel senso che si dà oggi ad “Andante”): quasi certamente l’indicazione significa Andante con moto.
Lo spirito festoso del primo tempo è pienamente confermato dall’Allegro vivace, tutto percorso dal ritmo di una danza popolare: all’ascolto viene spontaneo evocare una tarantella. La spinta, in certi passi perfino affannosa, al movimento, all’azione, all’esplicita allegria, è molto più marcata che nel primo tempo. È l’immagine sonora di una festa all’aperto, di foga gioiosa, di voci e di luci.
D. F. Tovey ha scritto con finezza che pochi avvertirebbero una sostituzione se questo brano, trasportato in mi bemolle maggiore, diventasse la musica del ballo nel Don Giovanni.
Sinfonia n. 35 in re maggiore “Haffner”, K 385
Dopo aver composto circa quaranta Sinfonie fra il 1764 e il 1780, negli ultimi dieci anni della sua vita Mozart ebbe un rapporto estremamente saltuario con questo genere musicale. Stabilitosi definitivamente a Vienna nel 1781, per imporsi al pubblico della capitale dovette concentrarsi soprattutto sulle forme allora più in voga, il concerto per pianoforte e l’opera, e dedicare le sue residue energie a brani cameristici e vocali di facile vendibilità presso gli editori. Del resto per le sue molte accademie del periodo 1782-1786 non aveva necessità di scrivere nuove Sinfonie, visto che poteva ricorrere tranquillamente a quelle scritte negli anni precedenti, apportando all’occorrenza piccoli cambiamenti nell’orchestrazione e aggiungendo eventualmente un minuetto a quelle in tre soli movimenti per andare incontro alle abitudini del pubblico viennese.
Così, in quell’ultimo decennio, videro la luce solo sei lavori nel genere sinfonico – uno nel 1782 (K. 385 “Haffner”), uno nel 1783 (K. 425 “Linz”), uno nel 1786 (K. 504 “Praga”) e tre nel 1788 (K. 543, K. 550, K. 551) – ma ciascuno di essi costituisce senz’altro un capolavoro.
Il primo lavoro di questa straordinaria serie, la scintillante ed euforica Sinfonia in re maggiore “Haffner” K. 385, nacque in realtà come arrangiamento di un lavoro precedente, ma non di una Sinfonia, bensì di una Serenata. Nel luglio del 1782, infatti, mentre era alle prese con le prove della Entführung aus dem Serail (che sarebbe andata in scena il 16 di quello stesso mese al Nationaltheater di Vienna), con i duri contrasti epistolari con suo padre a proposito dei suoi progetti nuziali e, nonostante quelli, con i preparativi per il suo matrimonio con Konstanze Weber (celebrato poi il 4 agosto nel duomo di Santo Stefano a Vienna), aveva ricevuto dal padre l’invito di comporre al più presto una Serenata per conto di Sigmund Haffner, figlio del defunto borgomastro di Salisburgo che sei anni prima gli aveva già commissionato la celebre Serenata K. 250/248b.
Leopold Mozart

La nuova Serenata per la famiglia Haffner nacque dunque in grandissima fretta, in un periodo di attività febbrile, senza che Mozart potesse dedicarle una particolare attenzione; lo dimostra anche il fatto che quando pochi mesi dopo, nel febbraio del 1783, ebbe bisogno di una nuova Sinfonia per un accademia da tenersi a Vienna in marzo e si fece spedire dal padre la partitura della Serenata per poterla «rimodernare» trasformandola in una Sinfonia, scrisse con
meraviglia: «La mia nuova sinfonia Haffner mi ha positivamente sorpreso, dato che non me ne ricordavo nemmeno una nota».
Gli interventi apportati da Mozart al brano composto per Salisburgo furono molto semplici: sopprimere due degli originari sei movimenti che costituivano la Serenata (la Marcia iniziale e il secondo Minuetto), aggiungere flauti e clarinetti nei movimenti estremi e altri piccoli ritocchi all’orchestrazione.
La Sinfonia K. 385 deve probabilmente il suo brio spensierato e il suo smagliante colore orchestrale con trombe e timpani proprio al fatto di essere stata concepita inizialmente come Serenata, genere leggero e di intrattenimento, brillante e disimpegnato per antonomasia. Ma in realtà proprio la maturità espressiva e la sapienza di scrittura raggiunte in questo lavoro (tutti i movimenti, tranne il Menuetto, come è ovvio, guardano al modello della forma sonata), nato con pochissime modifiche dalla costola di una Serenata, la dice lunga sulla straordinaria evoluzione compiutasi nello stile compositivo di Mozart.
L’Allegro con spirito si impone fin dal perentorio e trascinante salto d’ottava iniziale, da cui trae vita l’intero movimento, come una pagina solare e dai colori sfavillanti, ricca di energia e buonumore. Dopo un Andante delicato e poetico e un breve e vigoroso Menuetto, si giunge al finale (Presto), un movimento di irresistibile vivacità ritmica e coloristica, costruito fondendo la forma sonata con quella di rondò e basato su continui contrasti tra forte e piano, il cui tema d’apertura cita quasi letteralmente l’aria di Osmin nel terzo atto della coeva Entführung, «Ha! Wie will ich triumphieren».
Sinfonia n. 40 in sol minore, K 550
La nostalgia quasi dolorosa che Cajkovskij nutriva verso il passato musicale classico aveva le sue radici nell’amore sconfinato per Mozart. Musicista del suo tempo, viveva nell'”estasi agonizzante” dei romantici coevi, ma l'”estasi estetica”, la gioia della pura bellezza la traeva interamente dal salisburghese: “La musica di Don Giovanni è stata la prima ad avere su di me un effetto sconvolgente… a Mozart sono debitore della mia vita dedicata alla musica”. Parole definitive che riallacciano anche corrispondenze segrete. Nel Don Giovanni e nell’ultima produzione sinfonica sta anche il Mozart più privato e visionario, ancora un musicista che scrive per se stesso, per privatissime raisons du coeur e senza una specifica commissione.
Per questo delle ultime tre Sinfonie (K. 543, K. 550, K. 551) si parla solitamente come di un testamento spirituale del genere Sinfonia che, pur salvaguardando le specifiche peculiarità di ciascuna, le presenta come un unico grande affresco creativo. Esse nacquero infatti tutte nel giro di pochi mesi estivi del 1788 (in realtà 45 giorni, dal 26 giugno al 10 agosto!), uno dei periodi più tormentati dell’esistenza del compositore, deluso per il debole successo viennese del Don Giovanni, e trasferitosi in una casa alla periferia di Vienna pochi giorni prima in seguito a ristrettezze economiche alle quali sopperiva il sostegno di un confratello, il commerciante Puchberg. Mozart probabilmente contava di poter fare eseguire le Sinfonie, e forse anche per questo fu così veloce nello scriverle, ma il desiderio non si realizzò mai durante la sua vita, circondando questa estrema produzione di un’aura di mistero sulla esplosione del suo genio creativo. Nello schema analogo dei movimenti delle Sinfonie (Allegro-Andante-Menuetto-Finale) vi fu chi, come Paumgartner (che le avvicinava alle ultime Sonate per pianoforte), ravvisava un disegno quasi programmatico di successione di stati d’animo: una “vigorosa energia nel primo tempo, massima intensità emotiva nel secondo, vittoriosa affermazione di vita nel Finale”.
Letta nell’ottica degli ideali massonici si direbbe una sorta di via verso la luce fondata sulla fiducia nel Bene. Un “sottotesto” non impossibile da leggervi dato che, a ben vedere, oltre al numero delle Sinfonie – “tre” per l’appunto – esso si potrebbe ravvisare anche nella scelta delle tonalità di impianto: mi bemolle, sol minore, do maggiore, le tre fondamentali della Zauberflöte, cioè proprio il percorso dalla “verità” dei tre accordi “massonici”, all’inganno della Regina della Notte, alla luminosa apparizione di Sarastro nel Primo Atto.
In questa triade alla K. 550 in sol minore spetterebbe dunque la funzione di Sinfonia notturna, o romantica, o sturmisch. La tonalità e l’organico la collegano infatti al passato Mannheimer di Mozart, che di altre Sinfonie in sol minore scrisse solamente la K. 183 nel 1773. In questa opera giovanile, il tono inquieto e il colore “sombre” sono ascrivibili ad una catalogazione affettiva preromantica rispecchiata anche nell’organico – oboi, fagotti e quattro corni.
Quindici anni dopo, Mozart, che pure aveva conosciuto e sperimentato l’uso dei clarinetti, li elimina dall’organico (li aggiungerà nel 1791 forse per un’Accademia) tornando a quel colore dominante, aggiungendo il flauto ed eliminando anche le trombe, presenti nella K. 543.
Tuttavia ciò che nella K. 183 era programmatico e proteso alla ricerca di una più originale veste formale, nella K. 550 si eleva ad un livello universale, tonalità e organico costituendo nient’altro che lo scheletro all’interno del quale si depositano, senza sforzo alcuno, contenuti più profondi, che lasciano in ombra il problema delle compresenze e della fusione degli stili “dotto” e “galante”. Mozart qui non si lascia andare all’originalità dell’invenzione, non usa gesti retorici per comunicare contenuti “drammatici”; al contrario, sintetizza e asciuga il suo materiale, offerto in una luce nuova; l’economia dei mezzi appresa da Haydn si fa quasi ascetica, tanto da far dire a Giovanni Carli Ballola che la Sinfonia è “reticente”, anche se così profondamente pervasa di una forza esplosiva che sembra trattenuta.
Esempio massimo di questa winkelmanniana “inquieta serenità” – se ci si passa l’ossimoro – è proprio il tema iniziale dell’Allegro molto, poche note carezzevoli sostenute dai soli archi in piano che immette in medias res, grazie all’anacrusi che sposta l’accento sul tempo debole, dando l’impressione di un rassegnato inesorabile cammino già da tempo intrapreso. La dialettica del conflitto si innesca però subito dopo la ripetizione del tema, in una figura formale di “ponte” assai affermativa e in forte che, dopo una pausa di straordinario effetto sospensivo, introduce il secondo tema, una figura discendente in sequenza cromatica, dal carattere sospiroso e vinto. Con questi pochi elementi Mozart costruisce l’edificio della sua forma-sonata, mirando alla trasparenza delle sezioni strumentali e alla dialettica tra archi e fiati. Il primo tema assurge a Leitmotiv ostinato di tutto il movimento, specie nello sviluppo, quando frammenti dello stesso vengono passati nelle diverse sezioni e gli archi acquistano forte impulso ritmico e dinamico.
Anche l’Andante in mi bemolle maggiore è scritto in forma-sonata. L’attacco presenta un classico “sipario” che passa il tema di note ribattute ad imitazione dalle viole ai violini, mentre gli archi gravi hanno un andamento cromatico. I fiati si inseriscono rispondendo ad una figura sospirosa di biscrome che fungerà in seguito da elemento di dialogo tra le sezioni. Anche nello sviluppo di questo movimento si intensifica il contrappunto, ma in direzione della rarefazione, sia dei temi frammentati che delle dinamiche che si stabilizzano, nella ripresa, nel piano.
Il Menuetto in sol maggiore presenta un tema dall’accento spostato sulla sincope del tempo debole che gli conferisce un andamento assertivo e pesante di Ländler viennese. Anche qui Mozart gioca sulle asimmetrie e sul fitto gioco dei contrappunti e del cromatismo. Solo il Trio scioglie il tono severo della danza in una nostalgia che emerge dalla trasparenza del gusto concertante tra le sezioni archi-fiati.
Wolfgang Amadeus Mozart

E la conclusione in piano prepara ancora l’attesa per l’attacco del Finale Allegro assai, in tempo tagliato. Il tema – una figura ascendente, in minime dal carattere vilain – è in stretta relazione con quello del Menuetto e dà l’avvio all’alternarsi di domande e risposte tra forte e piano – un’eco dello stile “a terrazze” di ascendenza barocca. Solo nella seconda parte si scioglie in una corsa disperata
di tutti gli archi, mentre i fiati martellano omoritmicamente in forte. Il secondo tema, in si bemolle concede una brevissima pausa poiché, proprio come nel primo movimento, è ancora il primo tema ad affermarsi con prepotenza. È così anche nello sviluppo, la cui linea melodica Abert vede, non a torto,”corrosa fino all’osso nel fuoco della passione”. Tutto si scarnifica infatti nel passaggio dei frammenti tematici ai singoli strumenti: anche il secondo tema, variato nella ripresa e “sporcato” con salti nella linea melodica e cromatismi, è appena un ritorno prima delle pesanti e disperate arcate ascendenti che concludono con violenza il movimento.
È in questa urgenza espressiva che trova spazio l’emozione dell’ascolto sempre rinnovato di quest’opera celeberrima. La straordinaria coerenza strutturale, l’unità tematica e la sapienza compositiva – come accade solo nei vertici dell’arte -, non si avvertono più; si fondono nel puro suono che si tramuta in noi nel segno di una bellezza commovente e imprescindibile.
Sinfonia n. 41 in do maggiore “Jupiter”, K 551
Nel breve spazio di tre mesi, durante l’estate del 1788, in un momento della sua vita rattristato dallo scarso successo del Don Giovanni a Vienna, dalla povertà, dalla morte della piccolissima figlia Theresia, Mozart scrisse, forse in vista di qualche progettata “accademia”, le tre Sinfonie che sarebbero state le sue ultime, nate fra le amarezze ma anche attingendo a un misterioso e inesauribile fondo di gioia musicale. Dopo la calda luminosità della Sinfonia in mi bemolle maggiore K. 543, a cui la solennità di certi “segnali” massonici non toglie niente dello smalto festoso, e la drammaticità raccolta e nondimeno tormentata della Sinfonia in sol minore K. 550, la Sinfonia in do maggiore K. 551 (terminata in partitura il 10 agosto 1788) celebra il trionfo di un magistero tecnico ed espressivo tanto spontaneamente dissimulato quanto pazientemente costruito nel confronto con il presente (Haydn) e con il passato (lo studio del contrappunto bachiano e händeliano), fino a creare una sintesi emblematica del pensiero sonatistico classico e della fuga barocca. Dopo la scelta di un organico più concentrato per la Sinfonia in sol minore, Mozart ritorna al fasto timbrico di quella in mi bemolle, reintegrando trombe e timpani, ma rinunciando ai clarinetti: una tavolozza timbrica tesa a valorizzare il carattere vittoriosamente, solennemente affermativo di un lavoro che, con la lucentezza abbagliante delle sue snelle geometrie formali, si allontana, per superarli, non solo dalla robusta opulenza della Sinfonia K. 543 ma anche dal cupo patetismo della Sinfonia K. 550.
Theresia Mozart

La Sinfonia K. 551, nella sua maestà solare intonata a olimpica grandezza (donde il soprannome di Jupiter, postumamente attribuitole dagli editori, forse su suggerimento dell’impresario londinese Salomon), coniuga la solidità comunicativa di un do maggiore dimostrativamente epico e monumentale con la forza inquietante della ricerca contrappuntistica: come a voler mettere alla prova una conquista, artistica non meno che professionale, perseguita in orgogliosa solitudine, oltrepassando le stesse delimitazioni temporali e spaziali della forma sinfonica. La Jupiter è una sorta di apoteosi dei principi dialettici della forma-sonata, estesi prodigiosamente a ciascuno dei quattro movimenti e tuttavia innervati da un uso del contrappunto così organico da aprire nuovi orizzonti espressivi: di cui il grandioso edificio polifonico della fuga finale si pone al vertice come il capolavoro dello stile classico nella sua stagione più matura.
Il movimento iniziale (Allegro vivace), privo di introduzione lenta quasi a voler entrare subito autorevolmente in mediar res, si apre con un incipit tra i più famosi, la proposta delle notine “in levare” dell’orchestra che piomba
assertivamente sull’accordo di do maggiore d’impianto, cui segue il più flebile inciso degli archi. E’ quasi una commediola a due motti musicali che si prolunga in un fine tessuto di elaborazione prima che subentri con la sua grazia il secondo tema, e poi un tema ulteriore, apparentato a un’arietta che Mozart aveva scritto qualche mese addietro per l’edizione viennese di un dramma giocoso di Pasquale Anfossi. Anche quest’idea sorridente si incorpora a fondo nella ricca trama contrappuntistica che caratterizza lo sviluppo, rivelando un tratto peculiare, supremamente gestito, sotteso alle sue olimpiche certezze: l’incrocio di “alto” e “basso”, facile e difficile, severo e popolare.
L’assorto Andante cantabile in fa maggiore ha anch’esso una latente struttura sonatistica nell’interazione raffinata delle due idee principali: quella iniziale dei violini con la sua inconfondibile movenza di candore (prolungata e incrociata con la sua prosecuzione, in un respiro più ampio e drammatico che sale dai suoni gravi dell’orchestra), seguita da una seconda sezione espositiva dominata da una nuova idea, affine alla prima nel profilo ma di tutt’altra intonazione. Essa prende slancio e dà all’Andante quell’improvvisa, emozionante apertura sul sublime che in Mozart è una porta sempre aperta a spalancarsi. Porta che, come in questo caso, gira sui cardini delle straordinarie caleidoscopie armoniche in modo minore, animate da sincopi e dissonanze che drammatizzano stilemi arcaici e chiesastici.
Il Minuetto è una pausa di grazia volteggiante, nelle cui pieghe l’orchestra lascia intendere il plastico tema-soggetto del colossale Finale, già usato da Mozart in vari lavori, soprattutto a destinazione sacra: le famose quattro note da cui il tema-soggetto prende avvio hanno infatti un tono di oggettività atemporale che ne rivela l’origine ecclesiastica e al tempo stesso la trasfigura in materiale di costruzione sinfonica. E’ un Finale in cui la fuga e la forma-sonata, il passato e il presente, si fondano in una struttura perfettamente compiuta: il principio dell’imitazione e della lavorazione del soggetto fra le varie voci, e quello dialettico della contrapposizione fra aree tematiche e armoniche, vi hanno pari peso: di fatto tutto il materiale tematico deriva da quel tema-soggetto per via di procedimenti squisitamente contrappuntistici come l’inversione ed elaborativi come la variazione. Questi procedimenti si prolungano fin nella ripresa e nello stretto conclusivo, dove i temi sono presentati insieme, sovrapposti e trionfanti. Mozart si impegna e si diverte a rendere il più possibile ampia, tesa, articolata, sorprendente la conciliazione tra i principi della fuga e della forma-sonata, combinando con estrema naturalezza elementi “gioviali” ed “ermetici”. Viene così realizzato il sentimento della Sinfonia come estesa geometria e costruzione salda, oggettiva campitura formale che è il risultato di un pensare in grande, senza che venga abbandonata la ricerca di un carattere e di un colore dell’espressione, la conquista più evidente del tardo stile mozartiano.
Karl Bohm

Sinfonia n. 1 in mi bemolle maggiore per orchestra, K 16
Mozart compose la sua prima Sinfonia K. 16 tra la fine del 1764 e l’inizio del 1765 a Londra, dove il piccolo Wolfgang – ha solo nove anni – stringe amicizia con il figlio di Bach, Johann Christian, stimato come direttore d’opera e sinfonista. Soprannominato “il milanese” per il lungo soggiorno nella città lombarda, Johann Christian prese a modello il tipo di sinfonia all’italiana e specie quella di Sammartini, che era concepita come una forma strumentale in tre brevi movimenti: un adagio racchiuso fra due movimenti, il primo dei quali di respiro abbastanza ampio e l’ultimo modellato su una danza. Questo genere di composizione era una filiazione diretta dell’introduzione strumentale operistica, molto diffusa in Italia sin dal principio del Settecento, e continuò a chiamarsi sinfonia anche durante l’Ottocento, mentre altrove assunse il nome anche di ouverture. Non va dimenticato inoltre che la derivazione operistica aveva conferito alla sinfonia alcuni caratteri tipici: scorrevolezza ritmica e invenzione melodica di scintillante vivacità. Quest’ultimo era forse l’aspetto più rilevante della sinfonia, in quanto per la prima volta veniva trasferita nel campo
strumentale la freschezza melodica dell’opera buffa napoletana, ritenuta una esperienza di portata storica nel campo della musica. C’è poi una seconda osservazione da fare, relativa alla destinazione di queste prime sinfonie: esse venivano eseguite in apertura e chiusura di concerti i cui pezzi forti erano costituiti dalla esibizione di solisti, cantanti o strumentisti, conservando così la fisionomia originaria di musica d’introduzione.
Il primo gruppo delle sinfonie di Mozart, così come le prime sinfonie di Haydn – che iniziò a scriverne intorno al 1759, soltanto 5 o 6 anni prima di Mozart – sono concepite secondo questo schema d’impostazione generalmente definito italiano. Ma ben presto in terra tedesca tale modello italiano subisce delle trasformazioni, dettate da una diversa struttura dell’organismo orchestrale. Sia Haydn ad Esterhàzy che Mozart a Mannheim si trovarono di fronte a orchestre di dimensioni più ampie di quelle italiane, fornite di una più evoluta tecnica individuale e di una più severa disciplina di gruppo. Queste orchestre erano quindi in grado di produrre un volume di suono più robusto, di creare contrasti di sonorità più evidenti e un fraseggio più espressivo. Il discorso sinfonico diventava in tal modo più complesso e non era affidato soltanto ad una successione di brillanti trovate melodiche, ma ad una tematica più elaborata e giocata sulla diversità delle modulazioni. In tal modo la forma sinfonica risultava ampliata, sia allungando sensibilmente i singoli movimenti, specie il primo, e sia aggiungendo un quarto tempo, cioè un Minuetto o uno Scherzo, fra l’Adagio e il Finale. Così la Sinfonia non è più semplice introduzione ad una esibizione di solisti, ma diventa il corpus centrale di un programma.
L’autografo della Sinfonia in mi bemolle maggiore K. 16 reca sul frontespizio la seguente scritta: “Sinfonia del signor Wolfgang Mozart a Londra”, il che fa immaginare che sia stata composta prima della fine del gennaio del 1765. Essa ha una struttura molto semplice e sin dall’Allegro iniziale, formato da due temi, tutto si svolge con estrema chiarezza nel rapporto tra invenzione e modulazione delle melodie, secondo il gusto strumentale italiano. L’Andante in do minore contiene un solo soggetto, variato dal maggiore al minore, nell’ambito dello stile patetico, ispirato probabilmente ai modelli di Schobert. Va sottolineato, inoltre, il piacevole effetto provocato dalla precisa diversificazione ritmica tra i primi violini e i violoncelli.
Conte Esterhàzy

Il Rondò finale ha un piglio fresco e brillante e non si discosta sostanzialmente dal tipo di scrittura, nel gioco fra piano e forte, usato da Christian Bach, un autore al quale Mozart bambino guardò con particolare ammirazione e devozione.
Sinfonia n. 25 in sol maggiore, K1 183 (K6 173dB)
È dopo un viaggio a Vienna compiuto nell’estate 1773 che lo stile sinfonico del diciassettenne Mozart – fino allora vincolato al semplice modello in tre movimenti e agli agili contrasti propri del gusto italiano, appresi attraverso lo studio delle partiture di Christian Bach, e poi sostanzialmente seguiti fino allora, sia pure con progressivi arricchimenti e con personali contaminazioni stilistiche – subisce un autentico rinnovamento. A Vienna, dove si trattenne due mesi e mezzo, Mozart era andato con il padre nella speranza di ottenere qualche incarico stabile che lo sottraesse al soggiorno salisburghese. Sotto questo profilo il viaggio fu deludente, ma il compositore trasse enormi stimoli dallo studio delle opere strumentali di Franz Joseph Haydn. L’influenza di quest’ultimo era già avvertibile in alcune delle sinfonie degli anni precedenti. Al servizio dei nobili Esterhàzy, splendidi mecenati che avevano al loro servizio una orchestra, una compagnia d’opera e una di teatro di prosa, Haydn lavorava in condizioni di splendido isolamento, attentissimo però a quanto avveniva sulla scena europea, e soprattutto impegnato a portare a definizione un “proprio” stile sinfonico basato su sperimentalismi formali e su una ricchissima scrittura, animata da risorse ingegnose e sempre rinnovate. Che Mozart potesse trovare in questa straordinaria esperienza compositiva una pietra di paragone ineludibile è cosa che non può stupire.
Soprattutto al carattere dialettico del bitematismo haydniano, alla solida costruzione e ai raffinati impasti timbrici del maestro più anziano si ispirò Mozart nella ricerca di nuovi riferimenti stilistici. I risultati espressivi, tuttavia, mostrano una personalissima rielaborazione del modello, un’impronta soggettivistica che ha fatto spesso parlare – anche se in termini decisamente eccessivi – di una “crisi romantica” del compositore, di una sua adesione alla nascente poetica dello Sturm und Drang; comunque di un netto distacco dagli obiettivi decorativi e puramente intrattenitivi del genere sinfonico. Va osservato, d’altronde, che lo stesso Haydn nei primi anni Settanta attraversò un periodo Sturm und Drang, con la stesura di numerose sinfonie in minore, la più celebre delle quali è la n. 44 detta “Musica funebre”.
Tornato dunque da Vienna a Salisburgo all’inizio dell’ottobre 1773, Mozart scrisse cinque nuove partiture sinfoniche – le Sinfonie K. 182, K. 183, K. 201, K. 202 e K. 200 – che, nella quasi totalità, costituiscono il passo avanti decisivo nell’affrancamento dal gusto italiano. Forse la partitura più avveniristica del gruppo è proprio la Sinfonia n. 25 in sol minore K. 183, dell’ottobre 1773. Nel catalogo mozartiano le Sinfonie impostate nel modo minore sono appena due su quarantuno, le Sinfonie K. 183 e 550, entrambe nella medesima tonalità di sol minore, impiegata da Mozart sempre con alte ambizioni drammatiche. Già questa circostanza è emblematica della trasformazione che il genere sinfonico
subisce ad opera del maestro salisburghese, da una destinazione cordiale e disimpegnata, di puro intrattenimento, a veicolo di complesse strutture ed elaborazioni che rispecchiano le riflessioni più profonde dell’autore.
La precisa scelta della tonalità minore implica in sé un coacervo di inconsuete soluzioni espressive, che allontanano la composizione dalla funzione intrattenitiva e decorativa di cui si è detto. Con l’aggiunta del Minuetto, i movimenti sono ampliati da tre a quattro; i bruschi contrasti dinamici, le settime diminuite, i frequenti sincopati, il rilievo espressivo dei fiati caratterizzano la pregnante drammaticità dell’iniziale Allegro con brio. L’Andante, nonostante la sua semplicità di struttura e il modo maggiore, non crea una frattura espressiva con il resto della partitura. A un severo Minuetto all’unisono (con la serena pausa del Trio, affidato ai soli fiati), succede il finale, Allegro, che riprende ed esalta la drammaticità iniziale, conferendo all’intera composizione una interna coerenza: non ultimo dei motivi che attribuiscono a questa Sinfonia la statura del capolavoro giovanile.
Sinfonia n. 31 “Parigi” in re maggiore, K1 297 (K6 300a)
La Sinfonia K. 297 viene detta “Paris” dalla città nella quale fu scritta, ed alla cui prassi musicale era indiscutibilmente legata. L’insofferenza verso il provincialismo della città natale, la ricerca di una affermazione internazionale e di un impiego prestigioso spinsero Mozart, nel 1777, ad abbandonare Salisburgo per compiere un lungo viaggio che lo avrebbe portato ad Augsburg, Mannheim e Parigi. Nella capitale francese il compositore era già stato da bambino, nel 1763-64 e nel 1766, accolto allora con grande ammirazione. Assai più amaro fu il soggiorno del 1778; l’ambiente parigino mostrò una sostanziale indifferenza verso il compositore ventiduenne, che stentò ad inserirsi anche per la sua scarsa propensione verso il gusto francese. L’occasione di scrivere una Sinfonia per la società del Concert Spirituel fu comunque estremamente preziosa. Abituato al ridotto organico strumentale della corte salisburghese e a uno stile segnato dall’esperienza di Haydn, Mozart si trovò a scrivere per un grande complesso orchestrale e a rispettare i canoni riconosciuti del sinfonismo parigino; ma anche a cercare di colpire il pubblico con particolari effetti eclatanti.
Emblematica a questo proposito la lettera inviata da Parigi al padre, rimasto a Salisburgo, il 3 luglio 1778, lettera da cui traspare anche l’antipatia del compositore verso la prassi musicale parigina.
Wolfgang Amadeus Mozart

“Ho dovuto comporre una Sinfonia per aprire il Concert Spirituel. È stata eseguita il giorno del Corpus Domini fra il plauso generale. […] Alla prova ero molto preoccupato, non avendo mai sentito in vita mia nulla di peggio; non si può immaginare come abbiano stravolto e straziato la mia Sinfonia per due volte consecutive. […] la Sinfonia è cominciata, [il tenore] Raaf stava accanto a
me e proprio a metà del primo Allegro c’era un passaggio che sapevo bene che doveva piacere: tutti gli ascoltatori ne sono stati rapiti ed è scoppiato un grande applauso.
Poiché nel comporlo ero ben conscio dell’effetto che avrebbe prodotto, l’avevo nuovamente inserito alla fine… e così stessa accoglienza Da capo. È piaciuto anche l’Andante, ma soprattutto l’Allegro finale. Poiché avevo sentito che qui tutti gli Allegri finali cominciano come quelli iniziali, con tutti gli strumenti insieme e per lo più all’unisono, io ho cominciato solo con due violini, piano per otto battute, e immediatamente dopo con un forte. In questo modo gli ascoltatori, come previsto, al momento del piano hanno fatto sst, poi è venuto immediatamente il forte; e sentire il forte e battere le mani per loro è stato tutt’uno. Così per la felicità subito dopo la Sinfonia sono andato al Palais Royal a gustarmi un buon gelato […] “.
Ecco dunque che la Sinfonia K. 297 costituisce un unicum nel catalogo mozartiano, e tuttavia, nonostante il distacco del compositore dal gusto francese, contiene una varietà di effetti di cui Mozart saprà fare tesoro negli anni seguenti. L’Allegro assai si apre con il rituale “premier coup d’archet”, con un potente effetto di unisono; e tutto questo primo movimento si svolge secondo una logica di grandi contrasti, con due temi di carattere opposto, momenti aulici alternati a passaggi delicati, sempre secondo una grande fluidità espressiva.
Il tempo centrale, un semplice Andante in 3/4, non piacque al direttore del Concert Spirituel, Legros, e Mozart lo sostituì con un Andantino in 6/8, di grande eleganza melodica, che poi si è imposto nell’uso. E questo movimento presenta una fluidità nel fraseggio che viene appena turbata da qualche screziatura espressiva. Il Finale, così bene descritto da Mozart nella sua lettera, è una sorta di moto perpetuo brillantissimo, aperto da quel brusco scarto dinamico (da piano a forte) che sollevò gli applausi del pubblico alla sua prima esecuzione; non mancano però quegli intrecci contrappuntistici e quelle implicazioni drammatiche nello sviluppo che rappresentano il marchio inconfondibile dell’autore; né una conduzione complessa e variata, che garantì alla partitura la permanenza nel repertorio della società concertistica che lo aveva commissionato.
Sinfonia n. 36 in do maggiore “Sinfonia di Linz”, K 425
In una lettera del 31 ottobre 1783 Mozart scriveva al padre: “Martedì 4 novembre darò un concerto in teatro, ma, non avendo portato con me nessuna Sinfonia, ne sto componendo una a gran velocità, perché devo terminarla per questa data”. Il concerto era fissato nella città di Linz, dove egli si trovava di passaggio durante il viaggio che da Salisburgo lo avrebbe portato a Vienna. Per completare un programma di musiche già stilato mancava solo un pezzo d’apertura, sicché ci si rivolse a lui. Mozart lo scrisse frettolosamente, in poco meno d’una settimana, aggiungendo al suo catalogo una pagina bifronte, un’opera che, mentre si congeda dal sinfonismo della Haffner, si affaccia sul misterioso silenzio di tre anni in cui matura la stagione delle ultime quattro Sinfonie.
La Sinfonia di Linz K. 425 formula a pagine alterne il debito del suo autore nei confronti dell’arte di Joseph Haydn. Fuori dettaglio, lo spirito del collega suggestiona il concepimento di un’introduzione lenta all’Allegro iniziale, una strategia che, fra il 1780 e il 1782, Haydn aveva praticato in una dozzina di occasioni. Quello della Linz non è ancora il complesso ed esteso corpo che prelude la Sinfonia di Praga, ma ne è l’esplicito presupposto. Si tratta di un’idea che darà frutti anche sui binari paralleli della musica da camera: si consideri l’introduzione alla Sonata in fa maggiore K. 497 per pianoforte a quattro mani (di rumorosa scrittura sinfonica) e quella del Quartetto in do maggiore K. 465. Nondimeno, la concezione haydniana e quella mozartiana differiscono nella sostanza. Se, infatti, per il primo l’accumulo della tensione sortisce dal sottile incunearsi di stralci melodici che acquisteranno piena voce solo nell’Allegro, nel salisburghese la porta per trattenere l’esondazione del materiale tematico è chiusa dal giro di chiave dell’armonia, dal progressivo intricarsi della dimensione verticale della musica. Nella Linz il digradare del basso è la guida meno ovvia per un rapido disorientamento della percezione auditiva.
Con ciò, l’introduzione di Mozart (Adagio) avanza promesse d’una temperie emotiva che nel seguito dell’opera saranno con puntualità mantenute. Gli unisoni che inaugurano la pagina paiono l’obbligata concessione a un’opera che, come si è detto, era d’apertura ad un’accademia musicale. Le trombe e i timpani ne rappresentano il giusto corredo. Ma l’altro volto è quello del ripiegamento su sonorità intime quali sono preannunciate dal delicato motivo lanciato dai fagotti e dall’oboe. In conclusione, è fra questi due poli, l’appariscente e il preziosismo fuggevole, che la Linz divarica le sue maniere.
Il gesto monumentale è ribadito poco dopo nell’Allegro, dove il tema principe, affidato inizialmente al quartetto degli archi su una sonorità tenue, è replicato dal clangore della piena orchestra: si tratta di un’esplosione che poi giustifica il seguente passo marziale sui bassi passeggiati di viole e violoncelli, nonché l’episodio di musica turca in minore che fonda il secondo tema. Ma l’elemento tematico decisivo della Sinfonia in do maggiore si leva nelle misure conclusive dell’esposizione, sulle corde dei violini primi. Sembra un effimero tessuto connettivo, materiale anodino, ed invece nello sviluppo acquista un ruolo prioritario, degno d’un ancor più vasto credito al termine della ripresa, in corrispondenza della nobile coda.
Il secondo movimento, Poco adagio, in fa maggiore, mantiene curiosamente i timpani, ma fa anche un uso dei fiati assolutamente estraneo alla prassi del puro rivestimento coloristico, consentendogli invece di interagire con gli archi. È specialmente l’episodio centrale che avanza i momenti di maggiore bellezza. In realtà, si tratta di una sezione di sviluppo, ma sono le scale ascendenti seguite da un doppio salto d’ottava che fendono drammaticamente la pagina.
Il Minuetto si muove ancora al passo di Haydn, tradito da un andamento rustico e pesante, scandito ritmicamente dal battito cadenzato delle percussioni. Col Trio l’atmosfera cambia, in grazia di un decisivo alleggerimento.
Il Presto finale possiede un primo tema di piglio operistico, drammatizzato di nuovo dalla contrapposizione del quartetto degli archi con l’orchestra nella sua interezza. Talvolta l’invenzione indugia in passi di routine, ma, l’affiorare del secondo terna segna l’episodio più originale dell’intera Sinfonia: nella tonalità della dominante si leva un disegno di tre crome che ripiega puntualmente su se stesso. Si tratta di lievi singulti che, come ha acutamente osservato. Giovanni Carli Ballola, spingono infine la Linz molte miglia lontano dal pur ammiratissimo modello di Haydn.
Sinfonia n. 38 in re maggiore “Sinfonia di Praga”, K 504
Il numero delle sinfonie composte da Mozart è molto alto, come si conviene ad un musicista del Settecento: dalle quaranta alle cinquanta, a seconda che vi si contino o meno le opere dubbie, o quelle che hanno soprattutto carattere e dimensioni di Ouverture. La composizione della maggior parte di esse si condensa negli anni giovanili di Mozart: soltanto sei sinfonie risalgono al periodo più importante della sua vita, quello trascorso a Vienna dal 1781 al 1791. Al rarefarsi della produzione sinfonica corrisponde puntualmente una regolare crescita dell’importanza assunta dalla stessa forma della Sinfonia: che sempre meno è semplice voce nell’ordinaria amministrazione di un artigianato altissimo, e sempre più è prova massimamente impegnativa, tanto tecnicamente che spiritualmente. Nella propria opera Mozart riassume la transizione fra due concezioni della sinfonia alquanto diverse fra loro: fra quella che caratterizza la produzione, mettiamo, di un Haydn, e quella che informa le «opere uniche» di Beethoven.
Karl Bohm

Nel decennio viennese vediamo le sinfonie di Mozart assumere proporzioni ampie, attestandosi definitivamente sulla struttura in quattro tempi. L’organico strumentale è ormai quasi sempre ampio: vi si affaccia il timbro sommamente espressivo dei clarinetti; corni trombe e timpani concorrono a caratterizzare un
ripieno orchestrale che contiene già in potenza la grande compagine strumentale del sinfonismo romantico. Soprattutto, è la stessa scrittura che respira una dimensione «sinfonica» nel senso ottocentesco del termine: alla facilità decorativa del discorso melodico tipica del periodo galante subentra un’elaborazione tematica conscia delle possibilità strutturali del contrappunto; il principio della sonata acquista importanza, e nel Finale si sostituisce al Rondò; il giuoco delle modulazioni conferisce all’itinerario armonico alta valenza espressiva.
Tale processo evolutivo tocca il punto più alto con la grande triade del 1788, ultima prova di Mozart in campo sinfonico: la Sinfonia in mi bemolle K. 543, quella in sol minore K. 550, la «Jupiter». Ma su un piano non certo inferiore si pone l’opera che precede direttamente quel grande sforzo creativo: la Sinfonia in re maggiore K. 504, composta a Vienna e datata 6 dicembre 1786. In misura senz’altro maggiore delle sinfonie che la precedono (la «Haffner», che è dell’agosto 1782 e la «Linz», finita il 3 novembre 1783), questa pagina reca i connotati della maturità sinfonica mozartiana. In apparenza, le manca una delle caratteristiche principali dell’arte sinfonica viennese, la struttura in quattro tempi. Ma niente potrebbe essere più agli antipodi dello sbrigativo modello italiano Allegro-Adagio-Allegro di questa opera tanto felice e scorrevole quanto complessa, composta con una profondità ed un impegno formale senz’altro eccezionali.
Essa respira infatti costantemente il clima delle più grandi creazioni dell’ultimo periodo di Mozart: quello delle opere teatrali «italiane», anzitutto (il 1786 è l’anno delle «Nozze di Figaro»; e proprio durante il viaggio di Mozart a Praga, che vide anche la prima esecuzione della Sinfonia K. 504, nel gennaio dell”87, prese forma il progetto del «Don Giovanni»); quello degli ultimi stupendi Concerti per pianoforte; quello dello stesso «Flauto magico» (il primo tema dell’Allegro anticipa quasi alla lettera quello dell’Ouverture dell’opera). È un orizzonte affettivo dove è ben presente un’intenzione espressiva che forse è esagerato chiamare preromantica, e storicamente non corretto riferire all’esperienza dello Sturm und Drang; ma che certo è profetica se non altro di alcuni modi linguistici dell’Ottocento tedesco. Basterebbe pensare a come l’impasto timbrico dei gruppi strumentali sa sottolineare l’oscuro, tortuoso cammino delle armonie di certi squarci in modo minore; alla capacità di creare zone di condensazione espressiva in attesa di dar sfogo all’energia del flusso ritmico.
Ludwig von Koechel

Il primo movimento della Sinfonia si apre con un’introduzione in tempo lento: caso abbastanza raro in Mozart, che impiegò questa formula, oltre a qui, soltanto nella «Linz» e nella Sinfonia K. 543. È un Adagio ampio e profondamente sviluppato: il re maggiore della tonalità d’impianto sembra affermarsi sin dall’inizio, ma la cadenza che conclude il primo episodio conduce bruscamente ad un cupo re minore da cui prende le mosse un discorso armonico inquieto, sottolineato dai gruppetti «alla napoletana» dei violini e dal severo ritmo del timpano. Una corona sull’accordo di dominante prepara lo slancio liberatorio del primo tema, in uno scorrevole Allegro. Questo gruppo tematico, ricchissimo di spunti motivici, viene ampiamente sviluppato in un lungo episodio di transizione, già prima del secondo tema, più cantabile, esposto dai violini. Gli sviluppi ricorrono quasi esclusivamente al materiale del primo gruppo tematico. Per quanto concisa, rispetto all’ampiezza dell’introduzione, questa sezione assume un rilievo di primo piano per la miracolosa agilità del densissimo ordito contrappuntistico che la informa: gli incisi tematici si combinano l’un con l’altro e, in canone, con se stessi; la leggerezza della scrittura, l’inarrestabile scorrere del ritmo, la chiarezza del discorso tonale dissimulano una sapienza contrappuntistica non inferiore, nell’apparente disimpegno di un disegno costruttivo assai meno monumentale, a quella che giganteggia nel Finale della «Jupiter». La ripresa giunge con naturalezza dopo un ben dosato placarsi dell’incalzante spinta contrappuntistica, e sfocia in una coda breve e festosa.
Il tempo centrale è un Andante in forma di sonata. Fra i due temi principali, strettamente legati fra di loro, non si stabilisce contrasto. La continuità percepibile fra esposizione sviluppo e ripresa trova un suo compenso nella estrema mobilità del fatto espressivo: una cantabilità distesa si alterna con movenze più ritmate, quasi nello spirito del Minuetto (l’assenza di questo movimento non si fa certo sentire nella Sinfonia «di Praga»); mentre brusche impennate del «tutti» orchestrale sull’addensarsi delle armonie riportano a tratti l’atmosfera inquieta dell’introduzione, interrompendo la serenità pastorale del sol maggiore d’impianto. Il movimento si conclude come in punta di piedi, in un esitante pianissimo.
Nel Finale ricompare il principio della forma sonata elaborata contrappuntisticamente. Già nell’esposizione, il primo tema, presentato dai primi violini, è subito contrappuntato, quasi di rincorsa, dai secondi e dalle viole. La spinta ritmica data dalle tre crome in levare, seguite dalle sincopi di una progressione discendente, impone a questo leggerissimo Presto un’andatura aerea, da vero pezzo di bravura, che non si inceppa nemmeno nel breve ma densissimo sviluppo. La tecnica usata è ancora quella del canone: il susseguirsi del giuoco imitativo, applicato esclusivamente al primo tema, consente nuovamente un collegamento quasi inavvertibile con la ripresa. Il vorticoso, luminosissimo disegno di terzine dei violini che già aveva concluso l’esposizione introduce una brevissima coda terminata su un pedale di tonica.
Sinfonia n. 28 in do maggiore, K1 200 (K6 189k)
«Vienna è cosi ricca di compositori, e cela fra le sue mura tanti musicisti, che a buon diritto può dirsi la capitale della musica tedesca. Lo dimostrano i nomi di Hasse, Gluck, Wagetnseil, Hoffmann, Giuseppe Haydn, Ditters, Vanhall e Huber, che han dato prova d’essere tutti dei grandi compositori. Le sinfonie e i quartetti degli ultimi cinque son capolavori del genere». Così il Burney nel «Giornale di viaggio» del 1773. Ed è proprio in quella musicalissima Vienna, dove nello stesso 1773 il diciassettenne Mozart soggiornò per sei settimane, che il contatto con le opere di quei compositori – specialmente di Haydn – dischiuse nuovi orizzonti artistici al Salisburghese e promosse quel rinnovamento stilistico i cui frutti maturi sono le quattro ampie Sinfonie composte durante tale periodo (K. 183, 200, 201, 202): opere, peraltro, nelle quali egli raggiunse pienamente quella maestria professionale che avrebbe conservato fino al termine della sua esistenza. Dietro l’esempio di Haydn, in queste Sinfonie «noi vedremo accrescersi – nota il Saint-Foix – la lunghezza degli sviluppi, le code divenire possenti ricapitolazioni dei tempi estremi, i Finali rivestire una importanza pari a quella dei movimenti iniziali ed assumere la forma-sonata: in una parola, una elaborazione condotta più a fondo, un linguaggio più nettamente sinfonico ed una concezione architettonica più ampia». Ed inoltre, un profumo viennese, un gusto italiano, una grazia adolescente, che non ritroveremo più.
Oltre tali caratteristiche, la Sinfonia K. 200 rivela una evidente cura per l’unità tematica: i motivi, all’interno di ciascun tempo, non sono semplicemente allineati, ma posseggono delle affinità strutturali, per cui sembrano sorgere l’uno dall’altro; parentele tematiche, inoltre, legano tra loro i vari movimenti: così, ad esempio, la testa del tema del primo tempo è la stessa – trasportata in fa maggiore – e volta in direzione ascendente – dell’inizio del secondo movimento; e si riode, a valori ritmici raddoppiati, a guisa di appello sulle rapide crome degli archi nel Finale; il tema trillato di quest’ultimo, poi, prende lo spunto dalla terza battuta del primo tempo e segue la linea che soggiace al disegno ornato della codetta del primo tema dell’Andante; ed altre interessanti relazioni si potrebbero citare: ma basti aver rilevato una salda coerenza strutturale che è certo il risultato dell’esempio di Haydn.
Col che, nulla si vuoi togliere all’intima originalità di questa Sinfonia, dove tale esempio fruttifica in termini assolutamente mozartiani e non privi, peraltro, di suggestioni anticipatrici: quali si trovano nel Minuetto che, con l’estrosa spezzatura del fraseggio, con di ritmo nervoso di alcuni passaggi e certi bruschi trapassi tonali, preannuncia dei tratti che saranno propri dello Scherzo beethoveniano; e nel Finale, la cui aerea leggerezza e fantasmagorica vivacità fanno pensare al Mendelssohn shakespeariano.
Sinfonia n. 33 in si bemolle maggiore, K 319
L’organico di questa partitura, presentata a Salisburgo il 9 luglio 1779 ed edita nel 1785, comprende due oboi, due corni e archi. Il 1779 è un anno particolarmente ricco in fatto di produzione mozartiana: infatti raccoglie la «Messa in do», tre sinfonie, una serenata, due marce, sonate, canti religiosi tedeschi, arie, vari pezzi sacri e il dimenticato Singspiel «Zaide», che venne rappresentato a Salisburgo e non più ripreso forse perché la partitura manca, presentemente, della chiusa e, si dice, dell’intero terzo atto.
Partitura svolta con ampiezza, ricca di idee e di sviluppi, che va crescendo via via d’importanza. L’Allegro assai comincia con un accordo deciso e con un tema ascendente, battute che dimostrano chiaramente come Mozart desideri applicarsi con fervore alla partitura, concedendole una speciale attenzione. Il tempo procede sempre con la stessa gioiosità, tenendo ben compatti tutti gli strumenti. E quando, qua o là, sembra risolvere, le riprese tornano con tutto il fervore, impegnando tanto gli archi quanto i fiati in un succedersi senza soste, riprendendo il primo tema, insistendo sugli sviluppi e preferendo sempre le sonorità più decise, tanto che gli strumenti sembrano moltiplicarsi. Indubbiamente Mozart si impegna a fondo, in questo Allegro, dando l’avvio alla partitura nel modo più deciso.
Il secondo tempo è un Andante moderato dove le sonorità risultano più analizzate che non nel primo tempo, ma che, nascostamente, non tradiscono la iniziale animazione. Il tema affidato ai violini è assai dolce ed elegante, con qualche nota puntata che anima al giusto punto l’idea musicale e il suo sviluppo. Tutto è affidato ai violini, ma poco più avanti anche i fiati si fanno sentire. Il colloquio continua con nobiltà e senza perdere quelle caratteristiche note puntate che lo avevano animato subito dopo la prima idea. Poi tutto si affievolisce, anche se i violini tengono a mostrarsi sempre in primo piano, fino ad assumere nuovi contatti con i fiati.
Il Minuetto, una delle pagine più squisite di Mozart, palesa gentilezze e inchini senza soste, con speciali animazioni nei primi violini, con risposte ben equilibrate dei fiati. Il «Trio» è estremamente scorrevole, assai fine, come l’iniziale tempo di minuetto. Poi, ecco la ripresa del tema principale d’obbligo: tutto è estremamente elegante e impeccabile.
Il tempo finale, Allegro assai, ha una vitalità che fa pensare alla futura animazione dei quartetti beethoveniani. Anche questo tempo non presenta soste: tutto procede in modo vivo, specialmente là dove archi e fiati si fondono insieme in una gioiosità e rapidità di schietto carattere strumentale. Un Mozart che vuol farsi notare per importanza di sviluppi, come del resto aveva bene annunciato nel primo tempo. Non è facile seguire il compositore in tutte le sue successioni di idee. In questo finale c’è qualche cosa che trascina, così come accade in certe creazioni sinfoniche di autori posteriori che, certamente, non mancarono di studiare a fondo questa smagliante pagina, tipica rispetto allo stile mozartiano.
Sinfonia n. 39 in mi bemolle maggiore “Schwanengesang” (Canto del cigno), K 543
Il pianista Edwin Fischer, che fu un fervente mozartiano anche come interprete, fece una osservazione molto giusta quando disse che alla comprensione dell’arte di Mozart ci si arriva con la maturità e dopo aver amato musicisti dallo stile più corposo e drammatico. «Il naturale sviluppo musicale – ha scritto Fischer – ci porta da principio molto vicini a Mozart a causa del carattere popolare delle sue melodie, della facile intelligibilità della sua struttura armonica e agogica. Poi segue quasi sempre un periodo d’inclinazione verso un grande apparato di forza, l’amore del pathos; non esiste nessuna espressione esteriormente troppo forte, niente di abbastanza grandioso, virtuoso, travolgente. Siamo così lontani dall’insegnamento di Mozart, in quel momento, come lo siamo nel periodo che segue, dominato dalla ricerca di tutto quello che è assolutamente nuovo raffinato, surriscaldato, rivoluzionario o formalmente problematico. Fino a che un giorno si fa per noi la luce. Qui c’è tutto: contenuto, forma, espressione, fantasia, effetto strumentale, e tutto ciò è ottenuto con mezzi più semplici».
È evidente che la “luce mozartiana” non è fatta soltanto di quantità di opere scritte in un arco di vita di appena 34 anni (lo studioso Ludwig von Koechel ne ha annoverate nel suo catalogo ben seicentoventisei, cui vanno aggiunte altre cento, incompiute o di incerta attribuzione), ma piuttosto va considerata per la varietà dei generi musicali praticati e la perfetta riuscita di ognuno di essi. Nella musica profana e sacra, strumentale e vocale, teatrale e da concerto, sinfonica e da camera, seria o buffa egli è riuscito a lasciare il segno della sua genialità. Non a caso Massimo Mila ritiene che l’arte di Mozart è «un mare dove confluiscono e convivono pacificamente le più disparate tendenze del suo secolo. Anche in questo egli rassomiglia a Raffaello, cui viene sempre paragonato per la levigata perfezione esteriore e per l’assoluta finitezza formale.
Karl Bohm

Artisti compendiatori e coronatori di un’epoca, artisti la cui forza è forza di civiltà, non primitiva barbarie: e civiltà è prima di tutto conservazione, religiosa pietà di ciò che è stato prima di noi e che ha contribuito a crescerci quali siamo. Vi sono artisti ribelli ed essenzialmente rivoluzionari che nelle epoche di lotta e di trasformazione svolgono un lavoro prezioso di demolizione delle vecchie sovrastrutture, dei pregiudizi ritardatori, e sbarazzano il terreno per la manifestazione di un ordine nuovo. E vi sono artisti, invece, i quali edificano la casa dell’uomo, cioè la civiltà, sopra quanto rimane dei vecchi edifici, utilizzando tutti i mattoni salvabili dalle rovine, trovando con naturale spontaneità la conciliazione e la continuità fra le testimonianze del passato e le esigenze del presente».
Mozart appartiene certamente a questa seconda categoria di compositori e la sua immensa produzione si distende idealmente fra i due estremi della facilità galante e dello stile severo dettato dalla polifonia strumentale, inglobando le posizioni intermedie comprese tra il linguaggio brillante ed eclettico delle opere teatrali e delle composizioni vocali e l’impegno rigoroso della scrittura quartettistica. Ma, al di là di queste classificazioni tecniche, ciò che conta è la sigla espressiva della musica di Mozart, dove l’allegrezza si sposa alla malinconia, il sorriso spunta tra le lacrime e il senso di ilarità e di umorismo fa capolino tra le pieghe della tristezza. Un’arte semplice e lineare in apparenza, ma dai risvolti complessi e profondi, dove l’animo umano si specchia e si osserva alla ricerca della propria misteriosa identità.
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La Sinfonia in mi bemolle maggiore K. 543 appartiene all’ultima stagione creativa di Mozart. Infatti fu composta nell’estate del 1788, ed è la prima di una ideale trilogia composta dalle ultime tre sinfonie mozartiane: nell’ordine questa K. 543 – datata per l’esattezza 26 giugno – quella in sol minore K. 550 terminata il 25 luglio e quella in do maggiore K. 551 del 10 agosto, conosciuta come la “Jupiter”.
Non erano anni facili quelli per Mozart che, perduta ormai la popolarità che aveva reso sereni i primi anni del suo soggiorno viennese dopo la clamorosa rottura con l’Arcivescovo di Salisburgo, non era riuscito a risalire la china della fortuna neppure dopo il successo che aveva salutato la rappresentazione delle Nozze di Figaro, e il trionfo con il quale lo aveva accolto la città di Praga in occasione della rappresentazione del Don Giovanni: che anzi la ripresa viennese di quest’ultima opera si era risolta in un mezzo insuccesso.
Una situazione penosa dunque e tanto economicamente difficile da costringere il Maestro ad abbandonare la sua casa in città trasferendosi – era il 17 giugno 1788 – in una casa rustica nei sobborghi di Vienna. È in questa nuova casa che egli trasse dalla serenità campestre dei luoghi nuove energie e che, pur tra le penose difficoltà finanziarie e le reiterate ed angosciose richieste di aiuto all’amico Puchberg, egli si accinse alla composizione di questo gruppo di tre sinfonie quasi in un unico poderoso respiro. Di esse il Paumgartner nota come «riproducano perfettamente la successione degli stati d’animo delle ultime Sonate per pianoforte: vigorosa energia nel primo tempo, massima intensità emotiva nel secondo, vittoriosa affermazione di vita nel finale» sia pure – aggiunge lo stesso Paumgartner -nell’ambito di caratteristiche espressive diverse; che sarebbe «viennese e romantica» la K. 543, «appassionata e cupa» la K. 550 e «volo di suprema liberazione» la “Jupiter”.
Queste sinfonie di cui non ci è nota l’occasione compositiva, rimasero però nel cassetto e Mozart non avrebbe mai conosciuto la gioia di dirigerle, o almeno di ascoltarle. Forse le scrisse per sfuggire alla solitudine e alla miseria anche se probabilmente egli sognava di poter con esse riconquistare un pubblico ed un
posto di rilievo nella società viennese, un posto che gli fu peraltro negato. Sicché – come scrive Massimo Mila – esse ci restano soprattutto come testimonianza genuina del «mondo interiore di Mozart che qui ci appare svelato per intero».
Nella Sinfonia in mi bemolle K. 543 che si esegue stasera c’è da osservare innanzitutto come lo strumentale preveda per la prima volta in una sinfonia mozartiana – i soli precedenti nella produzione del Maestro si riferiscono ai Concerti per pianoforte e orchestra K. 482 e 488 – l’uso dei clarinetti al posto degli oboi. E c’è ancora da aggiungere che il linguaggio del musicista si è in questa occasione arricchito di nuovi colori nei quali non è difficile scorgere l’influenza di Joseph Haydn.
L’Adagio iniziale di cui l’Albert nota il «profondo pessimismo» con il suo ritmo persistente segnato dalle scale ascendenti e discendenti dei violini e dei bassi sembra voler introdurre l’ascoltatore in un mondo assolutamente romantico. E sono queste scale degli archi a preparare l’idea principale del successivo Allegro che si distende in una melodia tranquilla e contenuta che passa dagli archi ai fiati finché nella seconda parte dell’esposizione i passaggi degli archi pieni, vigorosi e scanditi ci riportano per un istante all’atmosfera gaia del sinfonismo viennese. Presto però quest’atmosfera viene cancellata dal secondo tema pensoso e raccolto che dà l’avvio ad uno sviluppo breve e serrato carico di contrasti drammatici e troncato netto al punto culminante da una pausa generale dopo di che la breve “ripresa” si conclude con una luminosa fanfara degli ottoni.
L’Andante, anch’esso come l’Allegro costruito secondo lo schema della forma- sonata, è quasi un movimento di marcia idealizzata, che apparenterebbe questo movimento ai Divertimenti mozartiani se l’appassionato fervore della parte centrale non lo riconducesse subito alla sfera espressiva del resto della Sinfonia. «C’è in questo Andante -scrive il De Saint-Foix – una atmosfera di rimpianto infinitamente poetica dove si incontrano le modulazioni più rischiose e sapienti con dei bruschi risvegli».
Il Minuetto è uno dei più celebri di Mozart; in esso si ritrovano i ritmi che figurano nel primo Allegro. Ritmi energici che si mantengono sino alla fine e creano un evidente contrasto con il “Trio” caratterizzato dalla tenera dolcezza del canto del clarinetto che dialoga con il flauto in un gioco di commovente semplicità ed eleganza evocante – come nota ancora De Saint-Foix – la candida semplicità schubertiana dei valzer e dei Laendler. Il Finale, sviluppato secondo lo schema della forma-sonata, è caratterizzato dalle contrapposizioni dei due temi principali che si assomigliano fino a confondersi in un impetuoso sviluppo. E con esso si chiude l’opera definita dal Moser «la dolce sorella del Don Giovanni».