Prokofiev Sergej

Complete Concertos

Questo cofanetto di 3 CD include tutti i concerti per strumento solista di Sergej Prokofiev. La parte migliore sono le esecuzioni dei cinque concerti per pianoforte e orchestra con Vladimir Ashkenzy solista e André Previn sul podio della London Symphony Orchestra. Ashkenazy resta sempre un grandissimo e sensibile interprete dell’opera dei grandi compositori russi.
La perfomance del violinista Joshua Bell nei due concerti per violino è interessane. Eccellente anche l’esecuzione del violoncellista Lynn Harrell nell’unico concerto per violoncello. Sia nei due concerti per violino che nella partitura per violoncello, la conduzione orchestrale è affidata a Charles Dutoit sul podio della Royal Philharmonic Orchestra. La qualità della registrazione (anni settanta) e la perfetta trasposizione su CD ci riporta ai fulgori delle migliori incisioni su vinile di quegli anni (per qualità tecnica e per qualità degli interpreti). Registrazioni eseguite nel 1975 e rimasterizzazione effettuata nel 2002. Altamente raccomandato, per non dire imperdibile.

Concerto n. 1 in re bemolle maggiore per pianoforte e orchestra op. 10

Il primo dei suoi cinque Concerti per pianoforte e orchestra (op. 10 in re bemolle) Sergio Prokofief lo scrisse nel 1911, quando aveva venti anni ed era ancora studente del Conservatorio. Lo dedicò al suo maestro Cerepnin e lo suonò lui stesso nel 1912 al Circolo Sokol di Mosca sono la direzione di K. S. Saragev, suscitando attorno al suo nome, già noto nell’ambiente, un eccezionale interesse che si tradusse in critiche che parlavano di «grossolanità», di «stile da foot-ball» e di «musicista che pare abbia perso il senso della realtà»; però in altri fogli si poteva leggere – con la firma illustre di Nicola Miaskovski – che il giovane Prokofief era chiaramente destinato a infondere nuova energia «nell’atmosfera ibrida, se non addirittura ammuffita, della nostra vita musicale». Prokofief e il suo Primo Concerto erano divenuti oggetto di tale curiosità che due anni più tardi, in occasione del Concorso pianistico, Rubinstein (ch’egli vinse), «quando comparvi dinanzi al pubblico», racconta nell’Autobiografia, «vidi aprirsi la mia partitura su una ventina di ginocchia: uno spettacolo indimenticabile per un esordiente di cui stavano appena uscendo le prime pubblicazioni». Famosa la dichiarazione di quel critico americano che nel 1918 aveva ascoltato Prokofief a New York suonare il Primo concerto: «se questa è la musica, preferisco l’agricoltura».
Con sbrigativa essenzialità Prokofief così ne scriveva più tardi. «A me sembra che vi siano due generi di concerti: nel primo l’autore riesce ad accomunare lo strumento solista con l’orchestra, ma allora la parte del solista non è molto interessante per l’esecutore (il Concerto di Rimski-Korsakof); nell’altro la parte del solista è magnifica ma l’orchestra la sentiamo come un di più (i Concerti di Chopin). Il mio Primo Concerto era più vicino al primo genere».
Sotto il profilo formale esso è un Allegro di sonata disposto in movimenti che si susseguono senza interruzione e collegati ciclicamente. Ad esempio l’introduzione viene ripetuta dopo l’esposizione e alla fine; un breve Andante s’inserisce prima dello sviluppo; sviluppo a sua volta concepito in forma di Scherzo. Una cadenza serve a introdurre la riesposizione, che ricapitola i motivi fondamentali di tutta la composizione.
Concerto n. 2 in sol maggiore per pianoforte e orchestra op. 16
Prokof’ev fu uno straordinario talento musicale, non solo per la sua grande energia creativa e fantastica, ma anche per la precocità con cui essa si manifestò: i primi pezzi per pianoforte il piccolo Sergej li compose quando ancora non andava a scuola. E il pianoforte, che egli suonava con superiore tecnica virtuosistica, rimase il suo mezzo d’espressione più diretto e personale (anche se, come tutti sappiamo, egli ebbe un bell’ingegno di colorista e di narratore con l’orchestra). Studente di successo, geniale e irrequieto com’era, nel Conservatorio di Pietroburgo (dove fu allievo di musicisti famosi, tra i quali

Rimskij-Korsakov, Ljadov, Cerepnin), compose ed eseguì il suo Primo Concerto per pianoforte e orchestra nel 1912, poco più che ventenne (era nato nel 1891) e ancora iscritto al Conservatorio. Nel Primo Concerto il giovane Prokof’ev già ricorre con una certa audacia alla contrapposizione, che restò sua e tipica per almeno altri venti anni, tra brutalità meccanica e lirismo, ma egli ancora contiene la sua esuberanza entro limiti di durata (il Concerto è in un solo tempo di circa un quarto d’ora) e di stile prezioso (le parti melodiche sentono la suggestione di Cajkovskij e, si direbbe, di Rachmaninov). Già un anno dopo Prokof’ev progettò in grande, e in grande lo attuò, il suo nuovo lavoro (“I rimproveri di aver troppo inseguito lo splendore superficiale e una certa esteriore destrezza nel Primo Concerto mi indussero a cercare una maggiore profondità nel Secondo”, scrisse più tardi l’autore). Egli confermò così in modo definitivo, con un lavoro di grande impegno, non solo la forza originale della sua personalità ma anche la sua presenza, ormai chiara e, diciamo, fragorosa quanto era giusto, tra le forze dell’avanguardia artistica russa. Di lì a poco, grazie ai primi contatti con Diaghilev nel 1914 a Londra (contatti non fortunati all’inizio) e poi nei lunghi soggiorni all’estero (che dal 1918 si trasformarono in un dissimulato esilio dalla Russia), il nome del giovane Prokof’ev fu quello di uno dei protagonisti della modernità nella musica europea.
Il Secondo Concerto è concepito e scritto, nella gran parte di esso, con lo spirito della provocazione futurista, dunque con la volontà espressiva dell’autoaffermazione vitale e dell’eccesso. Tutto in questo Concerto, linguaggio, immagini, mezzi sonori, tecnica pianistica, durate (quattro movimenti, l’enorme Cadenza nel primo!), vuol essere strano, grandioso, appariscente. Anche la brusca coesistenza di espressività soggettiva, assorta o passionale nel carattere, e di aspra materialità sonora vi è ostentata senza mediazioni. Questo perché l’artista, nella primissima sua maturità di un ventunenne di genio, più che proporre intende imporre a tutti la contraddizione estetica della sua natura, divisa tra la generosa impulsività tardoromantica (con non poche tracce di malinconia slava e fantasie barbarico-primitive) e l’ entusiasmo per le nuove sonorità meccaniche e percussive. Nella poetica della musica europea progressiva l’aggregato-rumore, la dissonanza metallica, la ripetizione ostinata dell accordo vogliono, o meglio volevano, essere il simbolo della modernità urbana e industriale, anonimo come è anonima la folla della città e della fabbrica (bastò poi un decennio, tra il 1914 e il 1924, con una guerra e una rivoluzione, a confondere l’ottimismo celato in quella poetica della modernità: e, tra i Russi, avvertirono quella confusione di idee e di ideali Prokof’ev e il giovanissimo Sostakovic della Prima Sinfonia, 1926).
Il primo movimento del Secondo Concerto s’inizia con una lunga pagina meditativa e sognante (Andantino), nella quale il pianoforte espone più volte, da solo o dialogando con l’orchestra, un tema lirico di largo respiro (il quale, restando da subito nella memoria di chi ascolta, è ragione non secondaria del successo di questo Concerto). Ad esso risponde il secondo tema (Allegretto), grottesco e ritmico, esposto dal pianoforte e poi dall’ottavino: senza nessun vero sviluppo tematico, in una sequenza di immagini sonore contrastanti, si ripresenta il primo tema dopo che il pianoforte ne ha preparato il ritorno con alcune battute di vellutato virtuosismo all’antica.
Vladimir Ashkenazy

Nulla ci ha preparato all’irruzione dell’impressionante cadenza solistica, che dilaga per poco meno della metà dell’intero movimento, pagina delirante, ardua e a volte aggrovigliata, che suscita in noi una stupita ammirazione. Frantumi e schegge dei due temi, spettri senza fisionomia, si alternano e si sovrappongono in un furioso martellare di accordi, con un’aggressività linguistica espressionista. Viene da Chiedersi, durante questo sfogo di drammatismo pianistico e di gigantismo sonoro che annienta per un po’ la presenza stessa dell’orchestra, – viene da chiedersi, dicevo, che parte tocchi, in quei lunghi quattro minuti e più, al direttore d’orchestra lasciato nell’ombra (ma il gioco degli scambi e delle alternanze di funzioni tra gli esecutori sul palcoscenico appartiene all’idea modernistica dell’esecuzione-spettacolo). Dopo che il pianoforte ha dato una spallata del genere al senso musicale, non stupiamo, no, che l’orchestra riprenda i suoi diritti con una specie di Dies irae; poi, con la solita rapidità dei contrasti non risolti, il pianoforte disperde la drammaticità e conclude silenziosamente con la ripetizione sommessa del primo tema.
Il breve Scherzo (Vivace) è un’invenzione dinamica, un disegno ritmico che si ripete velocemente e meccanicamente, in una specie di rievocazione della Toccata barocca.
Poiché tutto il Concerto nel suo insieme sembra ideato secondo un’architettura circolare, nella quale il quarto movimento è in corrispondenza del primo per contenuto, forma e durata (questa, identica tra i due), l’Intermezzo (Allegro moderato) si congiunge allo Scherzo a formare un pilastro centrale, in cui si confrontano l’agilità formale dello Scherzo con la rudezza fantastica (una marcia pesante, poi alla fine una danza macabra) e descrittiva (un paesaggio invernale) dell’Intermezzo: una pro¬a di stile ironico con un quadro fosco e beffardo, che si estingue nel silenzio (la grandiosa asprezza di questo Intermezzo provocò sconcerto e ostilità alla prima esecuzione del lavoro e molti del pubblico lasciarono con proteste la sala).
La vitalità impetuosa con cui si avvia il Finale, ci ricorda la Cadenza del primo movimento, anche per l’ostentazione virtuosistica del pianoforte. Ma la vitalità si smorza in una triste melodia cantabile, quasi una nenia russa, che si espande in tutta la parte centrale del movimento. Su di essa il pianoforte medita liberamente, prima con lirismo, poi abbandonandosi a un’esuberanza via via maggiore, nella quale interviene l’orchestra per concludere con imponente eloquenza questo Concerto.
La prima esecuzione ebbe luogo a Pavlovsk il 5 settembre 1913 con l’autore al pianoforte (e fu così per tutti i Concerti, escluso il Quarto, pubblicato postumo). Nel 1923 Prokof’ev rimaneggiò ampiamente la prima stesura, che si era perduta, nella versione che adesso conosciamo.

Concerto n. 3 in do maggiore per pianoforte e orchestra op. 26

Il Concerto in do maggiore op. 26 occupò Prokof’ev per molti anni, dal 1911 (parte del primo movimento risale ad allora) al 1921: iniziato in Russia, fu ripreso e ultimato in Francia, prima della partenza per gli Stati Uniti dove, a Chicago, il 16 dicembre 1921, venne eseguito per la prima volta con l’autore al pianoforte e sotto la direzione di Frederick Stock. Il Terzo è il più noto dei cinque Concerti pianistici di Prokof’ev, e riassume molti dei caratteri peculiari del suo stile maturo, sia nel tratto incisivamente motorio e percussivo dei suoi slanci ritmici che nel tono eminentemente russo dei temi e della colorazione armonica. Fu scritto anzitutto col chiaro intento di affermarsi in America come pianista, e solo secondariamente per richiamare sul compositore “moderno” l’attenzione di un pubblico il più possibile vasto. Di qui un’articolazione tendenzialmente rapsodica (vedi il secondo movimento) e ricca di effetti a sorpresa, ma tenuta insieme da un senso della forma fondamentalmente tradizionale, se non addirittura limpidamente classico.

André Previn

Il movimento iniziale è costruito su una duplice alternanza di un Andante con un Allegro. Il primo si basa su un tema vagamente modale esposto dal clarinetto senza accompagnamento, di esplicita impronta russa, che prepara, sostenuto dalle elaborazioni sempre più incalzanti del pianoforte, l’Allegro in forma di sonata: scintillante ma come nervosamente teso nella prima parte, più pacato e quasi serioso nella seconda, dove l’oboe accompagnato dai pizzicati degli archi intona un tema preziosamente settecentesco, con andamento di gavotta. Con calcolata proporzione al centro dello sviluppo si riaffaccia la tranquilla sezione dell’Andante, trattata con maggiore ampiezza di abbandono lirico. Un crescendo vorticoso conduce alla ripresa dell’Allegro, nel quale si compie il confronto fra i due temi contrastanti, rivolto per così dire a integrare gli aspetti complementari di tensione e distensione sul piano di una modernità ben temperata.
Il secondo movimento è costituito da una serie di cinque variazioni incorniciate dal tema in tempo Andantino. La musica si addentra qui nei paesaggi del sogno romantico e vi si adagia con effusivo lirismo, quasi decantandosi in visioni luminose e assorte meditazioni che non escludono la tentazione di sconfinamenti drammatici. La vibrante levità di questo movimento, una delle pagine più felici e ispirate di Prokof’ev, è come sospesa sulla urgenza di un contenuto emotivo che nel processo delle variazioni si depura senza perdere in intensità espressiva.

L’equilibrio si spezza con l’eruzione del terzo e ultimo tempo, Allegro ma non troppo, introdotto da un tema di fremente vitalità prima esposto oscuramente da fagotto, violoncelli e contrabbassi e poi ripreso con slancio perentorio dal pianoforte, che lo trasformerà in un tripudio di invenzioni e di colori. Ma prima che il solista si erga nettamente a protagonista assoluto del pirotecnico finale, con gesto riconoscibile Prokof’ev, quasi a voler richiamare lo spunto iniziale, introduce un tema di marcia lenta (preannunciato solennemente dai fiati, Meno mosso) dal profilo inequivocabilmente russo: ricordo intriso di immensa nostalgia per la patria lontana, ma non perduta nell’anima

Concerto n. 4 in si bemolle maggiore per pianoforte e orchestra op. 53
(per la mano sinistra)

Il Quarto Concerto in si bemolle maggiore per pianoforte (sola mano sinistra) e orchestra op. 53 di Prokofiev risale al 1931 e appartiene a quell’estrema fase neoclassica del compositore che precede immediatamente il definitivo ritorno nell’U.R.S.S. e, per la sua asprezza e, a tratti, esasperata violenza, si distingue dalla sua successiva produzione che, nel clima del neorealismo preconizzato in Russia, cercava di contemperare neo-lassicismo e neoromanticismo. Il Quarto Concerto era stato commissionato a Prokofiev dal pianista austriaco Paul Wittgenstein (1887-1961) il quale aveva perso il braccio destro durante la prima guerra mondiale. Specializzatosi forzatamente nell’esecuzione di musiche per la sola mano sinistra chiese lavori di tal genere a molti compositori contemporanei tra cui anche R. Strauss, Ravel e Britten. Alla sua iniziativa si deve dunque la nascita di un capolavoro come il Concerto per la mano sinistra di Ravel. Meno gradito e comprensibile gli risultò invece il Concerto fornitogli da Prokofiev. Tant’è vero che egli non lo eseguì mai. Ancora nell’edizione francese del 1947, della biografia ufficiale di Prokofiev dovuta al Nestiev si può leggere «purtroppo il Concerto presentò uno stile talmente complicato da dispiacere a Wittgenstein, che rifiutò di eseguirlo e il lavoro non fu mai eseguito da nessuno». Negli anni del secondo dopoguerra il Quarto Concerto cominciò ad interessare dei pianisti più intraprendenti e più aperti alle esperienze moderne. L’opera si articola in quattro movimenti. Le parti estreme sono d’impostazione prevalentemente virtuosistica e motoria. La seconda è un lirico Andante. La terza un Allegro in forma di sonata, vigoroso e intriso di quel dinamismo che caratterizza le più tipiche musiche di Prokofiev,

Concerto n. 5 in sol maggiore per pianoforte e orchestra op. 55

Nessun dubbio che il pianoforte sia lo strumento centrale della creatività di Prokof’ev.

Sergej Prokofiev

Ne fa fede innanzitutto uno sguardo al catalogo del compositore: cinque Concerti pianistici, nove Sonate portate a termine più alcuni abbozzi, una miriade di brevi composizioni, un nutrito catalogo per pianoforte a quattro mani, oltre all’impiego del pianoforte come supporto nella produzione cameristica e vocale. Ma, al di là di questa incidenza numerica, lo stesso Prokof’ev fu uno dei più grandi pianisti del suo tempo, avviato fin da giovanissimo a una carriera di concertista, dopo aver studiato con la madre, poi con Alexander Winkler, infine, dal 1909, con Anna Esipova.
Non a caso la maggior parte della produzione pianistica di Prokof’ev venne composta direttamente per servire il Prokof’ev virtuoso, in una prospettiva che in qualche modo si richiamava alla grande tradizione del pianismo mitteleuropeo. Una diretta correlazione si stabilisce dunque fra compositore ed esecutore. Lasciate alle spalle le esperienze adolescenziali, Prokof’ev assimila uno stile pianistico che risente della lezione di Liszt, filtrata attraverso la scuola di Anton Rubinstein, e le suggestioni simboliste di Skrjabin. L’assimilazione della tradizione, tuttavia, è parallela al suo rigetto; alla scrittura visionaria e timbricamente studiatissima di Skrjabin, Prokof’ev preferisce un suono aggressivo e percussivo, una incisività ritmica, passaggi di carattere toccatistico, derivati anche dallo studio della musica del 700. Nel pianismo di Prokof’ev, insomma, tutta l’eredità del pianismo romantico sfocia in una concezione dello strumento che si potrebbe dire percussiva; e questo tratto percussivo dell’esecutore si traduce, per il compositore, nell’attribuire alle sue composizioni pianistiche un dinamismo che rimane un elemento innovativo e costante, al di là di una logica evoluzione.
Si comprende dunque come proprio attraverso i primi tre Concerti pianistici, scritti nel 1912, 1913, 1921, e segnati da una netta preminenza del solista sull’orchestra, Prokof’ev si affermasse nella doppia veste di compositore- esecutore con un successo di scandalo, prima in Russia, poi in America ed Europa. L’entusiasmo iconoclasta di queste partiture fece il giro dei continenti suscitando le reazioni più diverse, ma lasciando comunque un segno. Storia diversa quella del Quarto Concerto, scritto nel 1931 per la sola mano sinistra e dedicato al pianista Paul Wittgenstein, che aveva perso la destra durante il conflitto mondiale, ma che respinse poi la partitura, destinata ad essere eseguita postuma.
Composto nel 1932 dall’autore quarantunenne, il Concerto n. 5 in sol maggiore op. 55 precede di poco il definitivo ritorno in Russia del compositore, ormai pienamente affermato. Le stesse vicende esecutive di questa partitura mostrano come il caso Prokof’ev fosse stato ormai assimilato dalla cultura musicale europea; la prima esecuzione avvenne a Berlino, il 31 ottobre 1932, sotto la direzione di Wilhelm Furtwängler; al concerto prendeva parte anche Paul Hindemith, come violista in Araldo in Italia di Berlioz; in sala sedevano sia Schönberg che Stravinskij; e sembra difficile immaginare una serata che potesse accostare in modo altrettanto significativo i maggiori compositori europei.

Charles Dutoit

Con la sua nuova partitura Prokof’ev toccò nei due mesi seguenti Varsavia, Mosca e Leningrado, per arrivare subito in America, dove ripetè la sua esecuzione sotto la direzione di Bruno Walter. Quanto basta per rendersi conto che un nuovo Concerto di Prokof ev era destinato a galvanizzare l’attenzione degli ambienti musicali di tutto il globo.
«Il mio problema essenziale, in questo Concerto, fu di creare una tecnica che fosse diversa da quella dei miei precedenti concerti», ebbe a dichiarare l’autore. Di qui, è facile domandarsi che legame abbia questa partitura con le precedenti, e cosa presentasse invece di originale. La risposta risiede probabilmente nell’individuare quei tratti del Concerto che in qualche modo possono essere ricondotti alla poetica del neoclassicismo, che si era imposta un po’ ovunque nel decennio precedente, non trovando tuttavia Prokof’ev fra i primi sostenitori. Dal neoclassicismo Prokof’ev era fermamente distante per uno stile che non contemplava l’oggettivismo assoluto del materiale, ma piuttosto l’iconoclastia ribelle verso la tradizione tardoromantica. Ciò nonostante è proprio la scrittura pianistica, come suggerisce l’autore, il tratto più innovativo del Concerto; se i Concerti pianistici della stagione neoclassica, basti pensare a Stravinskij e Ravel si volgono verso un alleggerimento della scrittura, qualcosa di simile avviene nel Concerto op. 55, dove Prokofev ricerca un equilibrio maggiore fra
solista e orchestra, e affida al pianoforte una scrittura più essenziale, più sobria, volta alla ricerca di una sonorità traslucida. Il che non vuoi dire tecnicamente meno impegnativa; l’uso del registro acuto della tastiera costringe infatti a continui salti e spostamenti di grande cimento tecnico. Nuova è inoltre la costruzione complessiva del Concerto, articolata in cinque movimenti ben distinti fra loro.
Le caratteristiche specifiche di questo Concerto op. 55 possono essere apprezzate immediatamente nel movimento iniziale, Allegro con brio, dove il pianoforte appare subito impegnato in grandi e icastici salti di registro – sottolineati anche dagli spostamenti d’accento – e spesso anche in una funzione di arabesco rispetto alle linee melodiche affidate agli archi e ai fiati. Nell’insieme questo movimento si allontana dalla forma classica, e presenta piuttosto una plastica giustapposizione di situazioni contrastanti, in cui non mancano ritorni tematici e un episodio lirico che stempera l’aggressività prevalente.
Il Moderato ben accentuato che si colloca in seconda posizione è in realtà una marcia graffiante e ironica, una delle tante marce cui Prookof’ev si è magistralmente applicato; i ritmi incisivi di ottoni e percussioni sostengono le volate del pianoforte; questa idea di base si alterna con episodi diversivi e si ripresenta poi ogni volta in una dversa scrittura strumentale. Segue una Toccata, movimento che riprende il materiale melodico del tempo iniziale; per spiegare questa scelta non bisogna pensare a un’idea ciclica di Concerto, ma piuttosto al desiderio di aprire un momento di virtuosismo puro; e d’altronde già l’espressione “Toccata” riporta al virtuosismo libero e fantasioso della musica barocca. Questo breve movimento è insomma una sorta di posticipazione della cadenza che manca nel tempo iniziale.
Con il Larghetto ci troviamo di fronte alla pagina lirica della partitura, unica concessione espressiva che esuli dall’ambientazione prevalente del Concerto. Anche in questo caso, comunque, il tema in ribattuti conserva una connotazione di elegante graffito; come dire che anche questo tempo mantiene i medesimi principi degli altri movimenti, convertiti però verso finalità contemplative. Completa è l’integrazione con l’orchestra; molti materiali tematici passano ai legni, mentre il pianoforte compie delicati arabeschi. Si staglia però l’energia dell’episodìo centrale, che porta a una intensa perorazione di arte retorica, in cui si fondono il lirismo degli archi e gli accordi e arpeggi del solista.

Joshua Bell

L’ultimo tempo si basa sulla giustapposizione di sezioni contrastanti; basterebbe osservare i cambiamenti delle indicazioni di tempo: Vivo – Appena più mosso – Più mosso – Più tranquillo – Coda. Allegro non troppo. Dinamismo e martellamento vitalistico sono le parole d’ordine di questo tempo, che accoglie comunque alcuni passaggi di tecnica semplificata nonché una sezione centrale basata sull’intimismo di sonorità contenute, che si spegne con il pianoforte solo; la coda è costruita come un grande climax che parte da un grazioso motivo degli archi soli per coinvolgere tutta l’orchestra e il solista in una conclusione trascinante di effetto immancabile.

Concerto n.1 in re maggiore per violino e orchestra op. 19

Pochi compositori del nostro secolo hanno coltivato come Prokof’ev le forme della tradizione classica. A testimoniarlo stanno non soltanto i titoli di molte sue composizioni – le Sinfonie, i Concerti, le Sonate, i Quartetti e via dicendo – ma soprattutto il trattamento della materia musicale. Ogniqualvolta Prokof’ev affronta uno di questi generi, lo fa nel fondamentale rispetto dei principi non soltanto nominali che li governano – seminando a piene mani le proprie doti più autentiche: che sono quelle di un magistero tecnico di prim’ordine – ma anche della chiarezza d’idee e di una capacità creativa innata. Il tratto personale di Prokof’ev s’inscrive tutto all’interno della musica, scava a fondo nella sostanza lasciando intatto l’involucro esterno. La sua modernità si rivela non tanto nella critica alle convenzioni quanto nell’adeguamento della soggettività alla
disciplina della forma, in un atteggiamento costruttivo che consapevolmente accetta il confronto con la storia e lascia trasparire semmai sullo sfondo un distacco venato di originalità.
Il giovanile Concerto per violino e orchestra in re maggiore, composto nel 1916-17, mostra esplicitamente questi legami ma è anche un ripensamento della tradizione alla ricerca di una rapida maturazione stilistica. I momenti migliori li raggiunge là dove il solista, stagliandosi su un’orchestra mobilissima e variegata, si addentra in una vegetazione di suoni rari, d’immagini fantastiche e di luminose fioriture. Qui Prokof’ev offre spazio al lato più puramente lirico della sua ispirazione, sospendendosi in assorte melodie che tendono all’oggettività. Questo carattere del Concerto si presenta fin dall’inizio, nella intimità raccolta che apre il primo movimento, Andantino: un tema “sognante”, pieno d’incanti armonici, sale lentamente verso le regioni acute, dipanandosi con semplicità, sostenuto dal tenue accompagnamento dell’orchestra. Ribaltando la disposizione tradizionale Prokof’ev pone all’inizio e alla fine, come primo e terzo movimento, due tempi lenti; lasciando al vivacissimo Scherzo centrale il compito di rappresentare un vivido contrasto sia timbrico (con il rilievo degli ottoni e delle percussioni) sia espressivo.
Nello Scherzo si assiste a una girandola di suoni su un tema di schietta matrice popolare, in un intreccio di figurazioni incisivamente sbalzate nel ritmo. Il Finale (in tempo moderato) ritorna al clima eminentemente lirico del primo movimento caratterizzato da un dialogo più partecipe con l’orchestra, in una veste timbrica che aderisce con l’essenzialità del colore all’articolazione delle parti. Il Concerto si chiude così in un’atmosfera assai delicata e rarefatta, fra i trilli del solista che ornano la ripresa del tema principale nel diafano registro sovracuto.

Concerto n. 2 in sol minore per violino e orchestra op. 63
Sergej Prokofiev

Nel 1933 Sergej Prokofiev è pronto a tornare in Russia. Aveva lasciato la sua patria nel 1918, nel bel mezzo della guerra civile, recandosi in volontario esilio
negli Stati Uniti, dove diventa famoso sia come compositore che come esecutore. È spesso in giro per tournée: a Parigi (dal 1923 al 1933) dove incontra Djaghilev, e a Londra, dove conosce Claude Debussy, Maurice Ravel, Richard Strauss. Una genuina nostalgia e una tenue speranza di opportunità di carriera portano Prokof’ev a ignorare le minacciose nuvole staliniste: era sempre stato pieno di contraddizioni il suo rapporto con il regime, così diviso tra censura e celebrazione del potere, tra riconoscimenti ufficiali e umiliazioni.
Intenzionato a dare un contributo alla crescita del suo paese, il compositore nel 1931 scrive: «È passato il tempo in cui la musica veniva creata per un manipolo di esteti. Oggi vaste folle popolari sono giunte faccia a faccia con la musica seria e se ne stanno in attesa con ardente impazienza. Compositori, abbiatelo in mente. Se respingete queste masse, vi abbandoneranno per volgersi al jazz o alle volgarità. Mentre se ne avete cura, conquisterete un pubblico come il mondo non ne ha mai conosciuto l’eguale. Ma questo non significa che dovete cadere nell’adulazione. L’adulazione implica la non sincerità, dalla quale non può venire niente di buono. Le folle amano la grande musica, la musica di grandi eventi, di grandi amori, di vivide danze. Esse capiscono assai più di quanto credano taluni compositori, e vogliono approfondire la propria comprensione».
Inizia i difficili passi verso il rimpatrio nel 1932 quando accetta la commissione per le musiche del film Lieutenant Kijé (Luogotenente Kijé), basato sulla novella omonima di Yury Tynyanov, che uscirà nel 1934 per la regia di Aleksandr Faintsimmer.
Il suo non è un ritorno in patria del tutto felice, come scrive il grande violoncellista Mstislav Rostropovic, che racconta i giorni in cui, ospite nella sua dacia, aveva visto Prokof’ev piangere ogni mattina per la fame. E va detto a latere che perfino la morte di Stalin fu per il compositore una maledizione. Infatti, il 5 marzo 1953 è la data che tutto il mondo ricorda come quella della morte del dittatore russo. Una notizia eclatante, capace di oscurare una grandissima perdita: mezz’ora prima che fosse dato questo annuncio, Prokof’ev era spirato. A fronte della risonanza data alla fine del grande uomo di potere, quella del compositore si riassume in un trafiletto che la “Pravda” pubblica solo una settimana dopo.
Simbolo di canto e flessibilità, questo è per Prokof’ev il violino. Non induce il compositore russo in stravolgimenti tecnici, come invece fa quando si tratta di scrivere per pianoforte. Se vuole cercare nuove soluzioni, lo fa attraverso una richiesta al solista di presenza e di virtuosismo, di disponibilità estrema e di duttilità. Lo dimostrano ampiamente i due Concerti per violino e orchestra che, a distanza di circa diciotto anni uno dall’altro, restano l’emblema di un genere

del secolo appena trascorso. (Il Concerto n. 1 op. 19 è del 1917, ma la prima esecuzione, prevista per l’autunno dello stesso anno, non ha luogo a causa dello scoppio della Rivoluzione, e il concerto sarà eseguito nel 1923, il 18 ottobre al Théàtre de l’Opera di Parigi, dal violinista Marcel Darrieux, sotto la direzione di Sergej Kusevitzkij). Lo stesso secolo e gli stessi anni che hanno visto nascere il balletto Romeo e Giulietta, commissionato a Prokof’ev dall’antico Teatro Mariinskij, ma che debuttò a Brno nel 1938 perché la partitura era stata giudicata troppo d’avanguardia. E contemporaneo anche del Concerto per violino “Alla memoria di un angelo” che Alban Berg scrive per la morte di Manon Gropius, figlia adolescente di Alma Mahler e Walter Gropius.
Forse pensato in un primo momento come sonata per pianoforte e violino, il Concerto in sol minore n. 2 per violino e orchestra op. 63 viene composto nel 1935 ed eseguito per la prima volta il 1° dicembre dello stesso anno a Madrid dal violinista francese Robert Soëtens con l’Orquesta Sinfónica de Madrid diretta da Enrique Fernández Arbós. È questa l’ultima commissione occidentale per Prokof’ev, che inizia il lavoro dopo aver ascoltato la “prima” della sua Sonata per due violini, la cui esecuzione da parte di Soëtens e Samuel Dushkin nel 1932 gli era piaciuta molto. Proprio in quegli anni, Stravinskij aveva scritto un concerto per Dushkin, così Prokof’ev decide di fare altrettanto per Soëtens, mentre è in tournée con lui. Più tardi il compositore annoterà: «II numero dei posti in cui ho scritto il Concerto dimostrano il tipo di vita nomade che conducevo allora. Il tema principale del primo movimento l’ho scritto a Parigi, il primo tema del secondo movimento a Voronezh, l’orchestrazione l’ho finita a Baku e la “prima” è stata a Madrid». E tale è l’accoglienza nella capitale spagnola che a fine concerto una delegazione di musicisti si reca a ringraziare il compositore.
In terra britannica il Concerto sbarca l’anno successivo, sempre eseguito da Soëtens e diretto da Sir Henry J. Wood nel 1936 e dal compositore nel 1938. L’indole migrante resta come un’impronta caratteristica di questa composizione, che Soëtens suonerà moltissime volte e in ogni parte del mondo, fino al 1972, quando, all’età di 75 anni, la porta in Sudafrica. Il violinista francese continuerà, comunque, ad apparire in pubblico fino al 1992, e morirà nel ’97 all’età di 100 anni.
Il solista, senza accompagnamento e inequivocabilmente in sol minore, apre il primo movimento, Allegro moderato, con una frase meditativa, che, in alcuni passaggi, ricorda la musica tradizionale russa, esponendo il tema principale. Alla fine della sua frase metricamente ambigua, il tema viene riproposto dai violoncelli e dai contrabbassi, questa volta in si minore. Segue un passaggio di virtuosismo violinistico, mentre il motivo rimane all’orchestra sullo sfondo. La tonalità di partenza viene subito ripristinata, fino a che il dolce secondo tema, con le sue ineffabili modulazioni, entra affermando la tonalità della relativa maggiore, si bemolle.

Lynn Harrel

La parte centrale sviluppa alternativamente le due idee; il primo tema, affidato spesso al fagotto, porta a una variazione energica del solista. Nella ripresa, sono i violoncelli e i contrabbassi che riportano il tema d’apertura. Importanti accordi del solista annunciano la coda che si conclude in pizzicato. È sui pizzicati di tutta l’orchestra, raddoppiati dal clarinetto, che inizia il movimento lento, Andante assai, quasi la versione luminosa del cupo lirismo del primo. Il canto del violino solo sovrappone il suo ritmo binario alle terzine dell’accompagnamento: una radiosa melodia la cui divergenza metrica con l’orchestra sembra suggerire più un delicato rubato che una reale tensione. Un dialogo tra il solista e il flauto all’acuto porta all’Allegretto centrale, pastorale e delicato, senza essere peraltro di facile esecuzione. Qualche doppia corda del violino al grave precede la ripresa. Il movimento si conclude con il tema al corno.
Il motivo del terzo movimento, Allegro ben marcato, è un rondò dal gusto spagnoleggiante. Per la “prima” prevista a Madrid, Prokof’ev aggiunge le nacchere e altre ornamentazioni iberiche. E così, mentre i due movimenti precedenti invitano a riflettere, l’ultimo incita all’azione. Le dissonanze si liberano, il tema viene sempre ritmato dalle nacchere. Un ballo scompigliato ed energico, che sfocia in una grande coda, dove il solista danza in 5/4 con le sole percussioni e una linea di basso. La raffica finale è marcata tumultuoso.

Sinfonia concertante in mi minore per violoncello e orchestra op. 125

Anche Prokof’ev, come Sostakovic, Khacaturjan e tanti altri musicisti, fu accusato nei primi mesi del 1948 in una seduta del Comitato centrale del Partito comunista sovietico di perseguire un’arte “formalista e antipopolare”, il che significava un tipo di musica dal linguaggio troppo liberamente aperto allo stile moderno, anche se non di avanguardia vera e propria. Attenendosi a questa direttiva più politica che strettamente artistica l’assemblea generale dei compositori, che si riunì nel febbraio del 1948, espresse tra l’altro una serie di critiche piuttosto severe nei confronti di molte partiture di Prokof’ev, a cominciare dalla Terza, dalla Quarta e dalla Quinta Sinfonia e per finire con i balletti Chout e L’enfant prodigue e l’opera L’angelo di fuoco, in cui, pur tra disuguaglianze tra una scena e l’altra e interventi corali carichi di enfasi oratoria, affiora con slancio e prepotenza la forza inventiva del compositore, specie nelle infuocate polifonie orchestrali. Prokof’ev rimase profondamente amareggiato da queste censure e fu costretto a pronunciare un avvilente mea culpa pubblico, sostenendo che l’artista in URSS avrebbe dovuto d’ora in poi «ricercare una melodia chiara e semplice, senza cadere nel volgare e nella imitazione altrui».
Su questa linea espressiva si muove l’ultima produzione di Prokof’ev, alla quale appartiene anche la Sinfonia concertante per violoncello e orchestra op. 125 risalente al periodo 1950-’52, con dedica al violoncellista Rostropovic, che la eseguì nel ’52 a Mosca per la prima volta. Tale Sinfonia concertante è un rifacimento e un ampliamento del Concerto in mi minore per violoncello e orchestra op. 58, apparso nel 1938 e accolto con riserva dal pubblico sovietico per certe ostentate ricercatezze ritmiche e un acceso cromatismo sonoro, perseguito non solo in questo caso dal compositore. La Sinfonia op. 125 infatti si presenta meglio distribuita e più equilibrata sotto il profilo formale – i tre tempi hanno una durata quasi uguale, rispetto alla brevità del primo movimento e alla lunghezza dell’ultimo tempo dell’op. 58 – con una orchestrazione più scorrevole e lineare, su cui poggia quanto mai melodico il canto del violoncello solista. Tale aspetto si può cogliere sin dall’Andante del primo tempo, caratterizzato da un tema cantabile di sapore slavo. Il violoncello si esibisce in passaggi virtuosistici, attraverso una continua tensione ritmica, che soltanto nella ripresa conclusiva torna al clima iniziale, calmo e tranquillo.
Il secondo tempo (Allegro giusto) è uno scherzo sinfonico, contrassegnato da spunti lirici, trovate ironiche e sarcastiche e schiarite gioiose. Al violoncello sono riservate uscite che richiedono una notevole bravura tecnica. Il finale (Andante con moto. Allegretto. Allegro) è in forma di variazioni e si basa su un tema sereno cantato dapprima dal violoncello e poi sviluppato in tre gruppi di variazioni da un movimento sempre più dinamico e veloce. La frase cantabile viene ripresa dagli ottoni, come un corale ornato dai disegni della celesta e dei flauti; quindi il violoncello, dopo un elegante fraseggio arpeggiato, si lancia verso una merlettata tessitura sonora nel registro sovracuto, nel segno di una musicalità schiettamente umana e cordiale, lontana da ogni atteggiamento di astratto intellettualismo.

Concerto in mi minore per violoncello e orchestra op.58

Il Concerto per violoncello e orchestra, op. 58 è uno dei lavori di Prokofief eseguiti piuttosto raramente. Fu scritto fra il 1934 e il 1938, e fu l’ultimo lavoro del musicista russo composto prima del ritorno definitivo in patria.
Poco tempo prima, a proposito del V Concerto per pianoforte e orchestra (dove la parte orchestrale è talmente sviluppata che l’autore aveva pensato di intitolarlo «Musica per pianoforte e orchestra») Prokofief aveva detto a un intervistatore americano: «Il problema essenziale che mi si è posto per questo concerto è stato quello di creare una tecnica assolutamente diversa da quella dei miei precedenti concerti… Un artista deve cercare sempre nuovi modi di espressione».
Più che al concerto per pianoforte queste parole sembrano riferirsi più esattamente al Concerto per violoncello, specialmente per ciò che concerne la «ricerca di nuovi modi espressivi»: tant’è vero che il pubblico sovietico, alla prima audizione, rifiutò nettamente il lavoro, così che il compositore più tardi scrisse la Sinfonia concertante per violoncello meglio adatta alla sensibilità e ai gusti dei suoi compatrioti.
Per l’ascoltatore occidentale – ormai familiarizzato con la politonalità, con la dodecafonia, ecc. – la scrittura complessa di questo lavoro non è anzi affatto «rebarbativa», Perché Prokofief, che qui utilizza tutte le risorse dello strumento solista con una virtuosità stupefacente, che si abbandona a procedimenti tipici della musica europea quali sembrava aver abbandonato da tempo – ricerche ritmiche, cromatismo esasperato ecc. – riesce sempre ad essere di una chiarezza sorprendente (nonostante la «complessità» della scrittura il Concerto inizia in mi minore e conclude su un inequivocabile accordo di mi maggiore).

Charles Dutoit

Tre tempi: un Andante iniziale di carattere calmo, con un breve episodio centrale «Poco meno mosso», ed una, ripresa abbreviata e variata; un Allegro giusto di più ampie proporzioni, con un alternarsi di episodi virtusistici e lirici, di un lirismo tipicamente prokofiewiano, solidamente costruito e dove ogni tema, ogni inciso è sfruttato sino all’estremo; e un Allegro, Tema con variazioni che è il movimento più ampiamente sviluppato di questo Concerto. Si inizia con l’enunciazione del «tema»: segue un I Interludio, poi tre Variazioni, poi viene un II Interludio che è una variazione libera del primo, e al quale segue la quarta Variazione alla quale si incatena una Reminiscenza costruita con gli elementi dell’Andante iniziale; infine una Coda brillante e virtuosistica.
Ognuno di questi episodi sfrutta un colore orchestrale che gli è proprio (in quasi tutto il Concerto l’orchestra è di una trasparenza ammirevole, anche dove le sonorità sono intense) ; l’accorta economia dei mezzi strumentali non impedisce a questa partitura di essere una fra le più ricche e varie – e più indovinate – del compositore russo.