Prokofiev Sergej

Le Sinfonie

In un’epoca in cui abbondano le integrali sinfoniche beethoveniane, in cui fioriscono le nuove incisioni bachiane e si amplia sempre più la discografia mozartiana, è cosa più che degna di lode vedere ed ascoltare questa prestigiosa integrale delle Sinfonie di Prokofiev, soprattutto perché il corpus sinfonico del grande compositore russo-ucraino non ha mai pienamente ricevuto la stessa attenzione accordata ad altri suoi contemporanei -uno su tutti: Shostakovich. Certamente, questo è in parte dovuto al fatto che Prokofiev predilesse sempre il palcoscenico, affermandosi anzitutto quale autore di balletti ed opere poi divenuti celeberrimi.
Le Sinfonie entrate stabilmente nel repertorio delle stagioni concertistiche dei maggiori complessi orchestrali del mondo includono soltanto la Prima “Classica”, la Quinta e -con un po’ di fortuna- la Settima: per la maggior parte del pubblico, le restanti quattro sinfonie (nelle loro versioni originali o rivedute) rimangono per lo più sconosciute. Dal canto suo, la discografia ha dato la giusta consacrazione a questi lavori con relativo ritardo e con una certa timidezza, se si considera che la prima integrale, che vede protagonisti Walter Weller, la London Philharmonic e la London Symphony, risale solo ai tardi anni Settanta, seguita da quella di Neeme Jarvi alla testa della Scottish National Orchestra (1985-86) e da quella, magistrale, di Seiji Ozawa con i Berliner Philharmoniker (1989-92).
Risale appena al 2006 questa splendida integrale realizzata dal russo Valery Gergiev con i complessi della London Symphony, orchestra a suo tempo “iniziata” al mondo di Prokofiev non solo dal suddetto Weller, ma anche da Claudio Abbado (che consegnò al disco un memorabile “Alexander Nevsky” londinese).
Sin dai suoi più remoti esordi, la carriera di Gergiev è votata ad una costante e sempre crescente scoperta e riscoperta del repertorio musicale russo che va da Glinka ai grandi autori del Novecento: già nella sua veste di giovane e talentuoso direttore dell’allora Teatro Kirov (oggi Mariinsky) di San Pietroburgo, Gergiev fece il suo debutto dirigendo “Guerra e Pace”, uno dei capolavori operistici di Prokofiev, affermandosi da subito come uno dei maggiori e più brillanti esegeti del corpus di questo compositore, giungendo a incidere ben sei opere (oltre a “Guerra e pace”, “L’amore delle tre melarance”, “Il giocatore”, “Fidanzamento nel monastero”, “Semyon Kotko” e “L’angelo di fuoco”), i balletti e, nominato nel 2005 direttore principale dell’orchestra londinese, questa splendida integrale sinfonica, interamente frutto di riprese live dei concerti tenuti al Barbican Center.
Pervasa da un’indescrivibile ed esuberante energia, la lettura di Gergiev è improntata a esaltare le strabilianti potenzialità dell’orchestra e la profondità delle partiture, rifuggendo da un approccio sbrigativo ed anzi gettando luce sui più impercettibili dettagli dell’edificio sinfonico di Prokofiev. Sin dalla Prima Sinfonia (cavallo di battaglia, fra gli altri, di Abbado), Gergiev presenta una interpretazione nitida e luminosa, che al primo ascolto può apparire quasi scabra, quando invece si percepiscono chiaramente la profondità e la pienezza del suono che il Maestro riesce a ottenere nella Seconda o nella Quinta, per non dire dell’atmosfera glaciale che pervade la Settima.
Fatte salve le incisioni di singole sinfonie (celeberrime la Prima di Abbado o la Quinta di Karajan), è questa l’odierna pietra di paragone per chiunque voglia avere una visione globale e coerente delle Sinfonie di Prokofiev, dal momento che la Philips ora Decca (forte peraltro di una ripresa sonora di qualità eccelsa) permette qui di ascoltare la Quarta nelle sue due versioni del 1930 e del 1947. Esaurienti e approfondite le note d’accompagnamento firmate da David Nice.
Cofanetto imperdibile!
Valery Gergiev

Musica molto interessante. Seiji Ozawa conduce splendidamente i grandissimi Berliner Philharmoniker. Una sinfonia classica magnifica e una quinta stupefacente, ma anche tutte le altre che per me erano sconosciute sono interessantissime. Box altamente consigliato. Audio eccellente. Registrazioni eseguite dal 1991 al 1993.

Sinfonia n. 1 in re maggiore op. 25 “Sinfonia Classica”

«Trascorsi l’estate del 1917 nella più completa solitudine vicino a Pietroburgo; leggevo Kant e lavoravo molto. Il pianoforte l’avevo lasciato di proposito in città. Avevo l’intenzione di comporre un opera sinfonica senza l’aiuto del pianoforte. In una tale opera i timbri orchestrali avrebbero dovuto essere più puri. Nacque così l’idea di una Sinfonia nello stile di Haydn, poichè la tecnica di Haydn mi era divenuta più familiare in seguito agli studi compiuti nella classe di Cerepnin… Credo che se Haydn fosse vissuto fino a oggi avrebbe mantenuto la sua scrittura arricchendola però di alcune novità, volevo dunque comporre una Sinfonia in questo genere, una Sinfonia in stile classico. Quando cominciò a prendere forma concreta la battezzai col nome di Sinfonia classica». Così Sergej Prokofiev (1891 – 1953) nella sua Autobiografia. Condotta a termine verso la fine dell’estate 1917, la Sinfonia classica fu eseguita per la prima volta sotto la direzione dell’autore a Leningrado il 21 aprile 1918, due settimane
prima che Prokofiev lasciasse la patria per recarsi in America. La Sinfonia classica è opera emblematica di un musicista del Novecento che seppe conciliare, senza conflitti drammatici, modernità e tradizione. Essa non implica dunque, proprio in virtù della modernità di cui è nutrita, alcuna idea di imitazione pedissequa o di asservimento a schemi prestabiliti, ma è invece una ricreazione musicale di forme antiche con spirito e mezzi moderni. E la modernità di Prokofiev si rivela, hic et nunc nel terreno concreto del processo musicale; in certi scarti armonici che, pur senza stravolgerlo, «arricchiscono» il discorso musicale; o in certe pungenze ritmiche addirittura straordinarie di cui è disseminata la partitura, dove il ritmo diviene, oltre che scheletro della composizione, carne viva dell’organismo sonoro; o, infine nella fantasia e ricchezza della strumentazione, dove l’umorismo di Prokofiev rifulge di continue, inaspettate soluzioni timbriche.
I quattro tempi della Sinfonia seguono con rigore la successione del modello classico: così, al primo tempo in forma di sonata, segue un Larghetto intimamente espressivo e appena increspato di nostalgia, con, fra le righe, un timido accenno di ironia. Il terzo tempo, una Gavotta sull’esempio stilizzato delle danze di corte settecentesche, si raccomanda come il gioiello di tutta l’opera, che ha poi nel Finale (Molto vivace), impetuoso e spumeggiante, il rituale baldanzoso lieto fine. Il tutto in appena quindici minuti di musica bellissima.

Sinfonia n. 2 in re minore op. 40

La seconda sinfonia di Prokofiev fu eseguita per la prima volta il 6 giugno 1925. L’opera era nata in quel particolare ambiente parigino che accoglieva con entusiasmo le manifestazioni dei Sei, e le opere «oggettive» di Stravinsky; e che dopo aver accolto con entusiasmo la Suite Scita, la Sinfonia Classica ed aver acclamato il pianista Prokofiev, cominciava a rimproverargli di vivere su opere composte anni prima, e di non saper essere a la page. Tanto che alla fine il compositore irritato aveva deciso di «frapper un grand coup» (sono parole sue) e di battere Stravinsky e i Sei sul loro terreno con «un’opera di ferro e d’acciaio». E, prendendo lo schema architetturale dell’op. 111 di Beethoven, aveva creato la sua Seconda Sinfonia. Ma se l’architettura seguiva scrupolosamente quella beethoveniana, la materia musicale della nuova opera ben diversa. La Sinfonia si apre con un Allegro aggressivo e animato da uno slancio straordinario in cui temi di carattere decisamente cerebrale, d’una geometria astratta e a zig-zag si oppongono, si urtano o si fondono in un insieme d’una intensità dinamica violenta, meccanica, barbara: una «sauvagerie bien organisée» come affermò uno dei primi critici.

Igor Stravinsky

Una «costruzione enorme, complicata e sovraccarica di suoni la cui spaventosa barbarie ed i muggiti spaventosi non sono giustificati da nessun programma descrittivo», ribadisce uno dei critici russi più recenti, amico ed ammiratore di Prokofiev. A questo Allegro segue un Tema con variazioni (il tema risaliva ad alcuni anni prima: il musicista lo aveva trovato quando dava i suoi primi concerti in Giappone): sei variazioni ognuna delle quali risponde a un clima diverso, ma tutte d’un carattere astratto e cerebralistico (la quinta evoca il ricordo dell’inizio di Petruska. Volontariamente?).
Certamente sarebbe stato interessante vedere come il compositore, in piena maturità, avrebbe rifatto la sua Sinfonia di trent’anni prima (e che si sarebbe trattato d’un rifacimento totale ce lo dice l’affermazione che la nuova versione sarebbe stata non più in due, ma in tre tempi). Così, come ci è rimasta essa resta non di mento un lavoro ben rappresentativo del periodo europeo (ma bisognerebbe forse dire: parigino) del compositore russo.

Sinfonia n. 3 in do minore op. 44

Le delusioni per la mancata rappresentazione dell’opera L’Angelo di fuoco, scritta dal 1922 a Ettal in Germania e tratta su libretto dello stesso musicista dal romanzo del poeta simbolista russo Valeri Jakovljevic Brjusov (1873-1924), spinsero Prokof’ev a utilizzare le pagine sinfonicamente più robuste della partitura, a cominciare dai travolgenti interludi, per la sua Terza Sinfonia in do minore op. 44, completata nel 1928 ed eseguita per la prima volta a Parigi nel 1929 sotto la direzione di Pierre Monteux. Quindi per capire meglio l’atmosfera espressiva e l’accesa tensione strumentale della sinfonia è opportuno rifarsi all’opera originale, il cui soggetto si dibatte in un mondo di diavolerie, pregiudizi, esorcismi, fanatismi e inquisizioni. In questo ambiente, di un espressionismo delirante e allucinante, domina la figura di una donna, Renata, in cui convivono in forma confusa e travolgente i rapimenti mistici e le crisi di erotismo isterico, caratteristiche di una certa tendenza popolare pseudoreligiosa controriformista nella Germania di Lutero. Renata si innamora di un angelo di fuoco, ma è soltanto il simbolo dei suoi sogni di adolescente; ella cerca ansiosamente tra gli uomini la persona che potrà dare pace ed equilibrio al suo spirito tormentato, ma si imbatte soltanto in esperienze dolorose e in delusioni tragiche. Allora si rivolge alla magìa e la sua mente è percorsa da ossessioni psicopatiche, da incubi e da estasi febbrili. Si rifugia in un convento per trovare pace al suo animo sconvolto e coinvolge le suore del monastero in riti indemoniati, furibondi e peccaminosi. All’Inquisitore che l’accusa per la sua assurda e pericolosa condotta, Renata grida la sua profonda fede cristiana e inutilmente si ribella in un accesso di epilessia che contamina le altre suore. Sarà condannata al rogo come strega.
La partitura operistica ha un valore che si arricchisce di tutte le più raffinate acquisizioni della tavolozza strumentale, di tutti i più sottili accorgimenti della dialettica sonora, senza ignorare spregiudicatezze timbriche e armoniche, pur abbastanza distanti dalle astrattezze deformanti di un esasperato espressionismo. In essa si realizza una esperienza musicale di straordinaria efficacia teatrale, avvertita subito da due sensibilissimi direttori d’orchestra, come Sergej Kussewitzky e Bruno Walter (quest’ultimo avrebbe voluto presentarla all’Opera di Stato di Berlino), e fatta conoscere al pubblico solamente nel settembre del 1955, nella celebre edizione data alla Fenice di Venezia sotto la direzione di Nino Sanzogno, con la regìa di Giorgio Strehler e nella interpretazione nel ruolo principale di Dorothy Dow. Da allora L’Angelo di fuoco ha percorso molta strada e occupa un posto preminente nella produzione operistica contemporanea.
La Sinfonia n. 3 vuole essere una sintesi strumentale estratta da alcune scene dell’opera e improntata a quello stile di Prokof’ev densamente ritmico e coloristico. Il primo movimento (Moderato) alterna atmosfere distese e sospese ad altre più accentuate e drammatiche sotto il profilo orchestrale. Il secondo tempo (Andante) si richiama all’inizio del quinto atto del testo operistico e descrive la quiete del convento in cui si rifugia Renata nel tentativo di scacciare dal proprio corpo gli influssi negativi di Satana. Nel terzo tempo (Allegro agitato) si ritrovano situazioni psicologiche del secondo atto, quando appare a Renata in una visione magica la persona amata, il conte Enrico, avvolto nel mantello dell’Angelo di fuoco. Nel movimento conclusivo (Andante mosso) sono riferiti spunti tematici dello stesso secondo atto, con lo scontro fra il bene e il male, sottolineato da un’orchestra ora dolcemente cantabile e ora tagliente e aspra, ma del resto saldamente ancorata alla terraferma tonale della musica.

Sinfonia n. 4 in do maggiore op. 112

Per Prokof’ev mettere in connessione la Sinfonia n. 3 con l’Angelo di fuoco era una specie di casus belli. La Sinfonia n. 4, composta due anni più tardi, nel 1930, poteva essere un altro casus belli… che però non scoppiò. Il suo numero d’opera, 47, segue immediatamente il numero d’opera del balletto Il figliol prodigo, composto nel 1928. Il balletto era andato in scena a Parigi, “accoppiato” a Renard di Stravinskij, il 21 maggio 1929, e aveva ottenuto un trionfo. Il soggetto neotestamentario aveva favorito in Prokof’ev la ricerca di uno spoglio primitivismo o, meglio, di una “nuova semplicità” a cui da tempo del resto aspirava anche indipendentemente dal soggetto del balletto.
Quando Koussevitzky, divenuto direttore stabile dell’Orchestra di Boston, invitò alcuni compositori a scrivere lavori celebrativi per i cinquant’anni della sua compagine, Prokof’ev pensò a una Sinfonia che impiegava materiale del balletto. La prima esecuzione a Boston il 14 novembre 1930, dice Prokof’ev, “non fu un successo”, e non fu un successo neppure la prima esecuzione in Europa, a Montreux il 18 dicembre. Il 13 dicembre l'”omaggio” di Stravinskij al cinquantenario bostoniano, cioè la Sinfonia di salmi, ottenne invece un memorabile trionfo. La concorrenza di Stravinskij, dominatore della vita musicale negli anni Venti, si era già fatta sentire a Parigi. Il confronto fra Prokof’ev e Stravinskij in una occasione celebrativa che richiamava a Boston una vasta platea di critici danneggiò la fama del Nostro e divenne chiaro per tutti che a Prokof’ev veniva riservata la posizione di eterno secondo. Taluni biografi ritengono che proprio l’essere stato posposto a Stravinskij fosse uno dei motivi che indussero Prokof’ev a rientrare stabilmente nel 1936 nell’Unione Sovietica,… sbagliando completamente il tempo del ritorno perché proprio in quell’anno fatale si verificò l’inizio delle grandi purghe staliniane. Nel 1947 Prokof’ev rielaborò radicalmente la Sinfonia n. 4, portandone la durata da circa venticinque a circa quaranta minuti e attribuendole il nuovo numero d’opera 112, ma non riuscì a farla uscire dal cono d’ombra in cui era stata collocata dopo la prima audizione.

Valerij Jakovlevic Brjusov

La “nuova semplicità” non appare dominata nella Sinfonia n. 4 quanto lo sarà invece nella musica per il film Il luogotenente Kijé e soprattutto nella favola Pierino e il lupo. Tipica opera di ricerca, e in quanto tale di estremo interesse, la Sinfonia n. 4 cattura soprattutto l’attenzione dell’ascoltatore, sia nella prima che nella seconda versione, per il terzo movimento, l’incantevole Moderato quasi allegretto. La versione del 1947 amplia a dismisura ma non modifica l’impianto dell’opera, salvo che nella conclusione del finale, trionfale anziché tacitamente secca. Si può preferire l’una o l’altra versione (personalmente preferisco la seconda, la sola del resto che venga oggi comunemente eseguita), ma in entrambe si notano incertezze stilistiche, rare in Prokof’ev. E quindi, come ho già accennato, la Quarta fa compagnia alla Seconda nel cantuccio delle cose che non vengono spesso rispolverate.

Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore op.100

Le sette Sinfonie composte da Sergej Prokof’ev coprono un lungo arco di tempo, dal 1916 al 1952, l’anno che precedette la sua morte. Fra queste la Quinta in si bemolle maggiore op. 100 contende alla Prima in re maggiore op. 25 detta “Classica” il primato in fatto di notorietà e frequenza di esecuzione. Ben poco le accomuna: la “Classica”, concisa, scintillante, vaporosa, è un capolavoro di virtuosismo in punta di penna che si ispira, per ammissione dello stesso autore, a Haydn e alla tradizione settecentesca; l’assai più tarda Quinta, massiccia, granitica, solennemente cesellata, celebra tutt’altre certezze, infondendo nuovo vigore a un genere ormai prossimo all’estinzione ma tutt’altro che refrattario a impennate orgogliose, estreme. Anzi, capace di accettare ogni tipo di sfida.
Che si tratti di una Sinfonia in piena regola lo dimostra anzitutto l’articolazione formale nei canonici quattro movimenti, invertiti però rispetto all’ordine usuale secondo l’alternanza di tempi lenti, qui i dispari, e veloci, conseguentemente i pari; a ciò si aggiunga la disposizione circolare delle tonalità, si bemolle maggiore all’inizio e alla fine, re minore e fa maggiore così accostati in successione nei movimenti centrali: uno schema che più elementare e chiuso non si può. La scelta è chiaramente intenzionale e dimostrativa, di una evidenza apodittica. Circostanza che ha contribuito al successo popolare della Sinfonia per la sua immediatezza comunicativa, creando però non pochi equivoci nelle conclusioni sulla sua vera natura.
Fu Prokof’ev stesso a indicare lo stato d’animo da cui essa era nata: «Nella Quinta Sinfonia ho voluto cantare l’uomo libero e felice, la sua forza, la sua generosità e la purezza della sua anima». Mettendo in relazione questa affermazione con il periodo in cui la Quinta fu composta, l’estate del 1944, e con le reazioni di entusiasmo suscitate dalla prima esecuzione avvenuta a Mosca il 13 gennaio 1945, si è soliti vederne un riflesso degli avvenimenti dell’epoca: l’eco trionfale della vittoriosa liberazione del territorio russo dalle truppe tedesche che l’avevano invaso, e l’adesione a un ottimistico spirito patriottico finalmente obbediente ai precetti del “realismo socialista”. Niente di più falso. La Quinta è la meno russa tra le Sinfonie di Prokof’ev e nello stesso tempo la più “tedesca” per appartenenza culturale: un modo davvero curioso di celebrare le sorti magnifiche e progressive propagandate dall’ideologia del suo Paese.

Le certezze di cui Prokof’ev si fa carico in questa partitura sono di altra natura: non meno utopica di quanto la sua franca, solare dichiarazione inviti a credere. La fiducia nell’uomo libero e felice che l’ispira è di ordine morale e autobiografico: in altri termini, quell’uomo non esiste se non nelle scelte personali dell’artista. E queste scelte travalicano le contingenze della storia, per proiettarsi in un mondo ideale, di ideali che si realizzano, a tacer d’altro, proprio nell’abolizione di barriere e separazioni, di guerre e rivendicazioni, di contrapposizioni di epoche e stili. La Sinfonia così come Prokof’ev la intende è terra d’incontro di spiriti eletti che non si curano delle atrocità della storia, qualunque sia il vincitore. La superano di slancio. E in questo stanno la forza e la generosità, da ultimo la purezza della loro anima.
La disciplina formale che Prokof’ev s’impone nella Quinta Sinfonia proviene dalla convinzione che solo un sistema di regole astratte possa contribuire concretamente a creare la libertà. E non è illusione, la sua. La Quinta è la più atemporale fra le sue Sinfonie, la meno condizionata da uno stile acquisito e riprodotto. L’invenzione si mantiene costantemente alta perché in alto mira la volontà di concentrarsi e di captare le associazioni fra i suoni; l’elaborazione è severa nella variazione delle cellule tematiche (primo movimento, Andante), nitida e vitale nel principio concertante delle famiglie strumentali che dialogano sommessamente e delicatamente, animate da una serena leggerezza anche nella intensificazione dei crescendo (ultimo movimento, Allegro giocoso). Prokof’ev alza il tiro della decantazione lirica, dell’eleganza timbrica, dell’iridescenza armonica: mai come nella tersa distensione dell’Adagio, aperto da una sinuosa frase dei clarinetti arabescata dagli archi, si percepisce la nostalgia di un’intatta purezza, che esiste solo per essere continuamente desiderata. A poco a poco la tensione pare montare, sprofonda nei registri gravi dell’orchestra, si acuisce nella drammaticità delle iterazioni, per sciogliersi arcanamente in progressiva dissolvenza. E quale gioia nel riconoscere ora la funzionalità degli incastri, il sorriso di un’ironia bonaria, ammiccante, nell’equilibrio della totalità idealmente ricostituita, nella misura delle proporzioni ampliate ma non sfigurate.

Sergej Kussewitzky

Solo nell’Allegro marcato questo sorriso diviene ghigno beffardo e sberleffo. Par di assistere, nelle trovate geniali di questo Scherzo con Trio, a una caricatura che ricorda di quale sarcasmo fosse capace Prokof’ev. Il gesto graffiante, nel rincorrersi ostinato di frammenti lanciati per aria all’impazzata, nella baldoria da circo o da banda di paese un pò alticcia, o magari di parate militari che sfilano impettite nel loro stupido orgoglio, è quello di chi sapeva guardare il mondo con divertimento misto a orrore: un umorismo grottesco. L’eco della guerra, e sia pure di una guerra vinta, è tutta nella musica militare di questo movimento, ritmata dalla batteria: un grido lancinante camuffato da insensata allegria, un brivido di angoscia che non trova pace neppure quando è passata la paura. Non v’è trasfigurazione in questa musica ebbra di frenesia, rigonfia di artefatta volgarità. Giacché di fronte alla guerra ogni artista riconosce solo la propria impotenza e, se può, passa oltre, a reinventare in sogno la vita.

Sinfonia n. 6 in mi bemolle maggiore op. 111

La composizione delle sette Sinfonie di Prokofiev appare distribuita piuttosto irregolarmente nei trentasei anni circa delimitati dalla Classica (1916-17) e dalla Settima (1951-52: il progetto di una revisione della Seconda, cui Prokofiev pensava pochi mesi prima di morire, non fu mai realizzato), il che basta a spiegare le fratture relativamente brusche che separano l’uno dall’altro certi momenti dell’esperienza sinfonica del musicista: l’elegantissimo e terso humour della Classica cede il campo, nel ’24, alla vena aggressiva, al vigore dirompente della Seconda, nata all’inizio del decennio parigino di Prokofiev, e seguita da una pagina di ancor più ardita modernità come la Terza (1928), destinata a coronare superbamente la fase «europea» del sinfonismo di Prokofiev. Con questa Sinfonia, come con l’Angelo di fuoco, l’opera teatrale donde quella traeva il materiale tematico e l’impronta stilistica, Prokofiev si conquistò un posto di protagonista nello schieramento più avanzato della musica del Novecento, rivelando un’assoluta originalità di temperamento e di linguaggi e al tempo stesso un profondo inserimento nella realtà della cultura musicale occidentale, salva restando la forte presenza delle sue ragioni native di compositore autenticamente russo. Questo periodo (cui poco aggiunge un lavoro come la Quarta, composta nel ’30 in circostanze un po’ occasionali, e comunque non latrice dì particolari proposte stilistiche) resta come il più felice di tutta l’esistenza artistica e umana di Prokofiev, ed è certo quello che gli vide dettare le opere di più spinta novità. Nel Prokofiev più che quarantenne, viceversa, poca o molta che sia stata l’influenza esercitata su di lui da un brusco mutamento di ambiente come quello determinato dal suo rientro, nel ’33, in una Unione Sovietica che certo aveva ben poco a spartire con quella degli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione, e meno ancora con il brillante
cosmopolitismo culturale della Parigi fra il ’20 e il ’30, si verifica una svolta abbastanza sensibile: la robusta nervatura ritmica del linguaggio in parte si smorza per far posto a un respiro melodico più disteso, alla sconvolgente «matericità» della sua invenzione sonora subentra la semplicità delle linee, al sarcasmo una sincera effusione lirica; in altre parole, la carica rivoluzionaria della produzione giovanile viene come placata e sublimata in una dimensione più riflessiva del fatto musicale.
Il lungo vuoto che separa, per quanto riguarda le Sinfonie, la Terza e la Quarta dalla Quinta, nata sul finire della seconda guerra mondiale, trova una corrispondenza abbastanza puntuale nella distanza che si può registrare fra i linguaggi e le intonazioni espressive di queste due opere: basterebbe paragonare la aperta risoluzione in positivo dei conflitti che pure vi si dibattono configurata nel luminoso e gioioso Finale della Quinta con la violenza – che a qualcuno è parsa espressionista – di tanti momenti della Terza. Con la Quinta, il Prokofiev della maturità, oltre a toccare un nuovo vertice della sua produzione sinfonica, realizza appieno la propria fisionomia, proponendo tutti i caratteri migliori di quella che, con qualche riserva relativa alle prove immediatamente anteriori alla morte, si potrebbe isolare come ultima maniera del compositore. Tant’è della Sesta sinfonia in mi bemolle minore che figura in questo concerto, e che dei caratteri della Quinta ripete molto, aggiungendovi di suo una dimensione espressiva forse più completa e organicamente vitale nella sua varietà. Molte circostanze, del resto, legano l’una all’altra le gestazioni di queste due Sinfonie; così come altre, non meno significativamente, le differenziano. Ambedue, anzitutto, vanno ricondotte a un clima senz’altro particolare, per un sovietico non meno che per il cittadino di un qualunque altro paese d’Europa, come quello degli ultimi tragici anni della guerra: al pari di molti esponenti della cultura sovietica, Prokofiev «sfollò» in centri lontani dal fronte, dapprima a Tiflis, in Georgia, poi ad Alma-Ata nel Kazakistan (dove Prokofiev avviò l’ultima collaborazione con il grande regista Eisenstein, componendo le musiche per Ivan il Terribile), e a Molotov, negli Urali; ma la sicurezza che gli garantiva di poter proseguire nel suo lavoro, non era certo bastante a disperdere l’atmosfera drammatica imposta dagli eventi, e che drammaticamente si riflette su tante composizioni di questi anni (non ultima la grande opera Guerra e Pace, la cui creazione occupò Prokofiev per tutta la durata della guerra e oltre). Così avvenne per il dittico sinfonico che cominciò a prender forma nell’ultima fase della guerra, ossia nel ’43, quando Prokofiev era tornato presso Mosca, alloggiato in quella specie di falansterio per musicisti che era la casa dell’Unione dei Compositori, a Ivanovo: qui, tra l’altro, nacque la Quinta sinfonia, e videro la luce i primi abbozzi della Sesta; e se l’una germinò in Prokofiev, contemporaneamente all’evoluzione dei fatti bellici, come una sorta di anticipata celebrazione della pace ritrovata, l’altra, sebbene posteriore nel

tempo, finì per risentire con più sofferta evidenza di tutto lo choc della tragedia che aveva insanguinato il mondo, e della quale, in tutta la partitura della Sinfonia, sembrano pulsare ricordi inquietanti.
A guerra finita, e dopo aver terminato la Quinta, Prokofiev lasciò la casa dell’Unione dei Compositori (pur serbando un ricordo commosso di un’esperienza che gli aveva permesso di conoscere, condividendone la vita di tutti i giorni, tanti altri protagonisti della vita musicale del suo paese) per ritirarsi con la seconda moglie Mira Mendelssohn nella sua dimora di campagna a Nikolino, soggiorno particolarmente indicato per le sue, condizioni di salute già compromesse, e dove avrebbe trascorso gran parte del tempo che ancora gli restava da vivere.
Qui, nell’inverno 1946-47, condusse a termine la Sesta, completando la partitura il 18 febbraio: l’11 novembre la nuova Sinfonia veniva tenuta a battesimo da Evgheni Mravinski nel concerto inaugurale della stagione della Filarmonica di Leningrado. La Sinfonia apparve subito come una delle migliori realizzazioni della più recente produzione di Prokofiev, ma la sua fortuna ebbe durata breve. Il regime staliniano stava operando una nuova stretta, e in campo culturale Zdanov faceva bravamente la parte sua: nel gennaio del ’48 il Comitato centrale del Partito convocava una conferenza musicale, con il compito di vagliare l’operato dei compositori sovietici e richiamare all’ordine quelli che avessero imboccato strade pericolose; il 10 febbraio fu approvata la risoluzione che metteva in guardia i musicisti sovietici dall’«orientamento formalista e antipopolare» particolarmente manifesto «in compositori come Sciostakovic, Prokofiev, Kaciaturian, Scebalin, Popov e Miaskovski», rei di «tendenze antidemocratiche». Zdanov stesso s’incaricò di spiegare come uno degli scopi principali dei compositori sovietici fosse quello di «difendere la musica sovietica dall’intrusione di elementi di decadenza borghese», ricordandosi come l’Urss fosse, al momento, «l’autentica depositaria della cultura musicale universale». Un’assemblea generale di compositori sottopose ad attento esame l’opera di Prokofiev: quasi tutte le sue opere più significative furono poste all’indice, e fra queste la Sesta sinfonia. A Prokofiev non rimase che fare la sua autocritica, e adeguare il suo linguaggio: da qui, forse, la malinconica decadenza riscontrabile in tante cose sue degli ultimi anni, e qua e là presente in un lavoro pur pregevolissimo come la Settima sinfonia, pensata a esaltazione delle magnifiche sorti e progressive della gioventù sovietica, ma non capace, tutto sommato, di proporsi come un passo in avanti rispetto alla incriminata Sesta.
In questa, si è detto, gli echi psicologici della guerra da poco conclusa recitano un ruolo non secondario, e in modo più marcato che non nella Quinta; così, più della Quinta, e pur respirandone in larga misura l’orientamento stilistico ed espressivo, la Sesta sembra in qualcosa riallacciarsi agli ormai lontani capolavori degli anni di Parigi, la Seconda e la Terza. Cantabilità e lirismo, certamente, ne nutrono abbondantemente lo spirito e la scrittura.

Pierre Monteux

Ma per quanto controllata da una mano sicura della perfetta maestria da tempo raggiunta, pulsano in essa allusioni drammatiche e angosciose, che in musica si traducono nella tensione pesante e allucinata di tanti scorci timbrici, in spettrali scheletri di movimenti di marcia, in incalzanti e taglienti ostinati ritmici, in laceranti contrasti introdotti da una regia musicale di sofferta intensità. Pur non riconoscendosi in un «programma» preciso, che ne avrebbe impacciato il divenire prioritariamente musicale, la Sesta conferma anche nella sua articolazione formale le circostante peculiari della sua nascita, e le stesse reazioni del compositore di fronte a quelle. Prokofiev, del resto, non mancò di ammettere che gli spunti tematici e gli assunti espressivi di fondo della Sinfonia erano in qualche modo legati a impressioni ed esperienze intimamente vissute; tanto che questi specifici caratteri della Sesta non paiono estranei alla suddivisione (abbastanza anomala in Prokofiev: c’è solo il precedente della Seconda, in due soli tempi) in tre movimenti anziché nei quattro tradizionali, quasi a proporre un condizionamento delle stesse strutture formali rispetto alle esigenze della rappresentazione. D’altro canto, tutta la costruzione della Sinfonia, per quanto arditi possano parerne gli sbalzi e i contrasti di atmosfera, risponde a un solido equilibrio, che Prokofiev stesso si preoccupò di ribadire, esprimendo la sua preoccupazione che il terzo e ultimo movimento, nell’insieme meno teso e drammatico dei precedenti, venisse frainteso e considerato come un’appendice di questi, generica conclusione di un itinerario tragico ed epico. Viceversa esso, come gli altri due, partecipa alla densa e cangiante varietà di umori e di suggestioni che costituisce la fisionomia complessiva della Sesta. Già nel primo movimento, di cui Prokofiev ebbe a sottolineare il carattere «inquieto, ora lirico ora severo», gli ampi squarci lirici si accompagnano alla tragica presenza di allusioni guerresche, che trovano un vertice nell’inserzione di una stravolta marcia funebre; tanto vale per il Largo, la cui cantabilità è venata di inflessioni drammatiche nella stessa orchestrazione, e per il Finale, il cui carattere catartico, in qualche cosa affine allo spirito della Quinta sinfonia, come notava Prokofiev, è contraddetto da impressionanti rimandi all’atmosfera tesa e sconvolgente dei primi due movimenti.
Con la Sesta sinfonia, dunque, Prokofiev da un lato confermava le linee del suo stile più maturo, dall’altro le tingeva di una inquietudine tanto espressiva che linguistica senz’altro lontana da quel «ritorno all’ordine» che troppo spesso si tende a riconoscere nelle opere nate dopo agli anni parigini, e che viceversa è doveroso lamentare in tante di quelle successive al ’48. Certamente, la modernità di questa Sinfonia, in relazione al tempo che la vide nascere, è meno accentuata di quella delle opere giovanili, che era valsa a Prokofiev in patria e all’estero una fama di vero e proprio enfant terrible. Ma la dimensione linguistica e spirituale dell’ultimo vero capolavoro sinfonico di Prokofiev è pur sempre tale da meritare a pieno titolo di figurare fra i capitoli attivi della musica del Novecento: gli fece torto l’indignazione reazionaria dei burocrati di regime, accomunandolo alle musiche di compositori ben più innocui; ma il fatto che con esso Prokofiev potesse ancora destare scandalo ne garantisce a più di trent’anni

di distanza l’autentica attualità, contribuendo a restituire al suo autore – che oggi si è troppo tentati di sentire lontano da noi, o comunque da quegli artisti cui siamo debitori del cammino percorso dalla musica del nostro secolo – il ruolo che gli compete, di sincero e inquieto testimone del tempo.

Sinfonia n. 7 in do diesis minore op. 131

La Sinfonia n. 7 in do diesis minore è l’ultima delle Sinfonie di Sergej Prokofev, e uno dei suoi ultimissimi lavori, scritto nel 1952 e presentato al pubblico a Mosca l’11 ottobre di quell’anno, cinque mesi prima della scomparsa dell’autore. Si tratta di una partitura che nel catalogo di Prokof’ev condivide – a ragione o più probabilmente a torto – la sorte di tutte le opere scritte dopo il 1948, guardate spesso con prudenza e sospetto, come manifestazioni di un pensiero creativo indebolito dalle cattive condizioni di salute e soprattutto da una mancanza di indipendenza.
Dopo l’esilio volontario che, dal 1918, lo aveva portato in America prima e in Europa poi, Prokof’ev aveva fatto ritorno alla madrepatria russa nel 1936; una decisione sofferta, alla quale concorsero certamente più motivazioni affettive, di attaccamento e nostalgia verso la terra d’origine, che politiche, di adesione al regime sovietico. E d’altronde complessi e contrastati dovevano essere i suoi rapporti con le autorità sovietiche, destinati a subire una drammatica crisi appunto nel 1948. È in quell’anno che Andrej Zdanov, responsabile della linea culturale del Partito, lancia una campagna contro quei compositori che anteponevano la propria indipendenza creativa al servizio verso lo stato. Con quello di Sostakovic, il nome di Prokofev era in cima alla lista. Le accuse erano quelle di “deviazioni formalistiche e tendenze antidemocratiche”, di “respingere i principi della musica classica”, e di “disseminare l’atonalità”. Prokof’ev fu costretto ad una umiliante autocritica, e di fatto si inchinò ai precetti di Zdanov, che prescrivevano una immediata accessibilità del linguaggio musicale.
Se è innegabile dunque che il compositore sia stato forzato ad adeguare il suo stile, è pur vero che questo cambiamento avvenne secondo un orientamento che già da tempo si era manifestato nel suo pensiero creativo, passato, nel corso dei decenni, attraverso una complessa evoluzione. Gli esordi del giovane compositore e pianista virtuoso erano stati segnati da un rifiuto quasi iconoclasta della tradizione ottocentesca; nell’ultimo ventennio della sua attività Prokof’ev tornò invece all’ideale di una musica in cui la classicità della forma riacquistava un suo alto valore. Questo riavvicinamento alla tradizione era già palese nelle manifestazioni del teatro musicale – si pensi alla commedia settecentesca Matrimonio al convento del 1941, o al balletto Romeo e Giulietta, del 1938 – e doveva ancor più manifestarsi nella musica da camera e nelle tre Sinfonie dell’ultimo decennio – Quinta, Sesta e Settima, terminate nel 1944, 1947 e appunto 1952.

Troviamo dunque nella Settima Sinfonia il retaggio del sinfonismo romantico di Cajkovskij, filtrato attraverso una prospettiva di riconciliazione dei conflitti, dove si impongono lirismo e colori sfumati, e rimangono esclusi o quasi quei tratti di aggressività e di sarcasmo che avevano reso celebre il musicista da giovane. La tonalità di do diesis minore, relativamente poco praticata nella storia della musica – gli esempi più celebri sono quelli di Bach nel Clavicembalo ben temperato, di Haydn in una Sonata pianistica e soprattutto di Beethoven nella Sonata op. 27 n. 2 e nel Quartetto op. 131 – non è scelta per puntare sull’espressività tragica, ma per creare continue evasioni verso regioni lontane, e per essere ottimisticamente superata nell’ultimo tempo.
La tendenza al lirismo puro che segna l’intera partitura si impone già immediatamente nel Moderato iniziale. Il primo tema consiste infatti in una lunga melodia espressiva dei violini, alla quale si contrappone un’altra linea melodica di viole, violoncelli e contrabbassi; tutta la costruzione sinfonica parte dal canto intrecciato di queste due voci, nel quale si sente il retaggio malinconico di canti popolari e religiosi russi. Una più animata sezione di transizione, nella quale il tema viene riproposto ed elaborato, conduce direttamente al secondo tema, nella tonalità lontana di fa maggiore. Si tratta di una melodia dalla passionalità più romantica – potrebbe ben figurare nelle scene d’amore del balletto Romeo e Giulietta – ma, a ben vedere, è anche una logica evoluzione della prima idea, per l’intonazione all’unisono/ottava – da parte di molte voci strumentali. Un terzo elemento, una codetta, giunge poi a concludere la sezione dell’esposizione, una sorta di ticchettio dei legni con il triangolo, unico residuo dello stile sarcastico del compositore. Lo sviluppo si concentra su materiali del primo tema, trattati con grande varietà di atteggiamenti, per lasciare spazio poi a elementi della codetta, trasfigurati in una chiave fantastica, spettrale. Seguono una riesposizione abbreviata e una coda in cui Prokofev ripropone il tema principale giocando con grazia fra il maggiore e il minore.
In seconda posizione troviamo il movimento di danza; non però uno Scherzo, ma piuttosto un Valzer; ed è difficile non riconoscere il modello di questa scelta nel sinfonismo di Cajkovskij. Il tema danzante si avvia quasi casualmente e viene poi pienamente affermato con charme salottiero; progressivamente la danza acquista più colori e più spessori, passa poi a una nuova sezione più intimistica nella quale il discorso scivola da uno strumento all’altro. Il tema principale ritorna e lascia quindi spazio a una coda di densa energia propulsiva, e alla sua brillante conclusione.

Sergej Prokofiev

Anche per il tempo lento Prokofev sceglie una soluzione che alleggerisce il significato del movimento; abbiamo infatti una sorta di intermezzo, costruito come un tema con variazioni. Il tema, per l’esattezza, viene dalle inedite musiche di scena scritte nel 1936 per una versione teatrale dell’Evgenij Onegin di Puskin. Viene esposto dapprima agli archi gravi, ma la sua brevità fa sì che le variazioni costituiscano un vero caleidoscopio di soluzioni strumentali che, cambiando di continuo registri e atteggiamenti, passano dal lirismo alla marcia, trapassano, dal la bemolle, alla lontana e più luminosa regione del mi maggiore, e transitano per gli arpeggi e i tremoli del sol bemolle, riapprodando quindi all’intimismo della regione iniziale
La Sinfonia converge così decisamente verso il movimento finale, un Vivace che finalmente dà modo a Prokof’ev di applicare la sua propensione verso i tempi mossi. Si tratta di un libero Rondò, aperto da un siparietto all’unisono che
porta a un tema da moto perpetuo, leggero e scherzoso, orchestrato con gusto e mutevolezza. Condotto attraverso diverse regioni e varie trasformazioni, il tema riapproda dove era partito; lascia quindi spazio a un episodio contrastante, un tempo di marcia (Moderato marcato), di gusto operettistico. Segue una ricapitolazione del materiale iniziale – abbreviata, come nel caso del primo movimento. E qui giunge la vera sorpresa preparata da Prokofev; la brillantezza dei clangori si apre infatti inaspettatamente verso un tema già udito nel primo tempo, il secondo tema romantico, esposto dall’intera orchestra con un lirismo ancor più marcato; e ad esso succede, sempre dal primo tempo, il ticchettìo della codetta, reso ancor più vibrante dal sostegno di xilofono, campane e pianoforte.
In questa dimensione fantastica si conclude dunque la Sinfonia, con una soluzione che può apparire ripetitiva rispetto al movimento iniziale, ma che ha il merito di garantire direzionalità e coerenza alla partitura. Si può immaginare dunque che Prokof’ev non sia stato lieto, nel corso delle prove per la prima esecuzione, di sentirsi richiedere, da alcuni membri dell’Unione dei Compositori, l’aggiunta di una coda più dinamica e ottimistica, nel solco dei dettami di Zdanov. Prokof’ev obbedì, aggiungendo diciassette battute che affidavano la conclusione a una ricomparsa del brillante moto perpetuo. È con questa appendice che la Sinfonia vinse il Premio Lenin nel 1957. Ma il compositore si era già spento, il 5 marzo 1953, lo stesso giorno di Josif Stalin. Sembra che sul letto di morte abbia espresso la propria preferenza per la conclusione originaria, che viene in genere prescelta nelle esecuzioni di oggi.

Il luogotenente Kize – Suite Sinfonica op. 60

Tra i progetti coltivati da Prokof’ev nell’accingersi a tornare nell’Urss stabilmente nella primavera del 1933, un notevole risalto aveva l’idea di svolgere un ruolo culturale, didattico e sociologico di netto risalto a livello internazionale, diventando una specie di “nume tutelare” della musica sovietica.
Più precisamente le sue intenzioni si manifestarono nel contesto d’un articolo che vide la luce il 16 novembre 1934 sul quotidiano “Izvestja” e di cui vi è cenno anche nell’autobiografia: «Quale musica si debba scrivere oggi è questione di grande importanza per molti compositori sovietici. Ho molto riflettuto su questo problema e credo che la seguente sia la soluzione migliore. Prima di tutto bisogna scrivere della grande musica, adatta all’epoca in cui viviamo… Interessandosi alla grande musica il compositore deve prendere in considerazione il fatto che in Unione Sovietica milioni di persone scoprono la musica… Non è facile trovare il linguaggio adatto. Prima di tutto deve essere musica melodica, di una melodia semplice e comprensibile… La semplicità non deve essere una semplicità passata di moda, bensì una nuova semplicità».

Nella speranza che si potessero realizzare queste condizioni Prokof’ev non ebbe esitazioni ad accettare le difficili condizioni esistenziali che già sopportavano in Urss i suoi amici, di cui era ben al corrente: ma «la musica secondo la mia concezione» aveva la precedenza assoluta per Prokof’ev. La bruciante fine delle illusioni non tarderà troppo tempo a manifestarsi, l’equivoco si preciserà quando il compositore si troverà in trappola, «perché Stalin giocò con Prokof’ev la partita del gatto con il topo. Molte furono infatti le assicurazioni verbali che Prokof’ev ricevette a conferma che avrebbe potuto fare tournées all’estero anche dopo il suo rientro in Urss. Qualche anno dopo il suo definitivo ritorno la gabbia si chiuse e le brevi tournées in America dopo il 1936 furono possibili lasciando in ostaggio i figli a Mosca» (cfr. Prokof’ev di M. R. Boccuni, Palermo 2003).
Tra la primavera e l’autunno del 1933 Prokof’ev tenne alcuni concerti a Mosca e a Leningrado suonando, tra l’altro, il Terzo Concerto per pianoforte oltre a dirigere la Suite scita e la Terza Sinfonia. In parallelo cominciò a ricevere importanti committenze, tra le quali nell’autunno dell’anno precedente vi fu l’invito a scrivere le musiche per un film, il cui soggetto si basava su un racconto di Jurij Tynjanov. Sulle prime il compositore sembrò un po’ interdetto, nonostante il cinema in sé, questo nuovo mezzo di comunicazione di massa, l’avesse sempre molto intrigato: tra i suoi ricordi in proposito vi era anche il gran divertimento provato una volta con Mejerchol’d a Parigi nel programmare alcune riprese dal vivo nel suo giardino, filmandole poi con una piccola cinepresa.
L’insolito dipanarsi del soggetto proposto in vista della realizzazione della sua prima colonna sonora, scatenò sin dai primi momenti l’interesse e l’inventiva di Prokof’ev, in particolare per un certo sapore gogoliano che suggeriva l’opportunità di irridere l’ottusità della burocrazia del mondo militare verso la fine del ‘700, all’epoca dello Zar Paolo I. Nella traduzione italiana – Il luogotenente Kize – si vanifica il doppio senso che vi è in russo (Porutcik Kize) e che determinò l’equivoco che sta alla base della trama romanzesca: un cancelliere del reggimento Preobrazenskij, nel ricopiare un ordine del giorno, si lascia sfuggire un errore di trascrizione, perché invece di scrivere Porutcik-ze annotò Porutcik-Kize dando una identità ad un militare inesistente. Da tale premessa in maniera ineluttabile derivò una vera e propria commedia degli equivoci in tutte le varie tappe della vita di quel soldato, dall’amore al matrimonio sino alla morte, con il corollario di un sontuoso funerale alla presenza dello Zar.
Per rendersi conto di come procedere all’avvio della composizione musicale Prokof’ev prese subito contatto con Aleksandr Michajloviè Fajncimmer, il regista degli studi di Belgoskino. E quest’ultimo riferì il tenace impegno del musicista nel documentarsi sia su tutti i movimenti e i passaggi tecnici delle riprese filmiche sia sull’ambientazione dei luoghi, delle scene, dei costumi del tardo Settecento russo, nonché sulla gestualità, financo la mimica facciale del protagonista.
A differenza di quanto sarebbe accaduto nei futuri lavori cinematografici di Ejzenstejn, ove la collaborazione si sarebbe svolta in parallelo, in questa prima sua esperienza Prokof’ev prese prima visione integrale del materiale filmico registrato, soffermandosi a considerare i dettagli più minuziosi, per comporre poi una colonna sonora articolata in sedici passaggi di maggior o minore ampiezza, ivi compresi alcuni canti popolari, modellati sull’antico folclore urbano. E in ogni pagina, quasi sulla falsariga d’una musica di balletto, v’era un peculiare carattere di segno teatrale inequivoco.
Prokof’ev seguì con attenzione la registrazione della colonna sonora, con l’orchestra condotta da Isaac Dunaevskij, annotando in un suo taccuino: «Dunaevskij dirigeva abbastanza efficacemente. Purtroppo la conclusione del soggetto cambiava in continuazione, complicando ed appesantendo il film che, quando fu presentato al pubblico, non riscosse un grande successo. L’anno dopo ne ricavai che avevo composto per la pellicola notevole materiale sinfonico e mi diedi da fare per ristrutturarlo in una Suite sinfonica, impegnandomi per quest’ultima molto di più rispetto alla musica originaria, dato che era necessario trovare la forma, riorchestrarla, separare i motivi, perfino unire i temi». L’8 luglio 1934 questa partitura fu ultimata nella dacia di Pètr Petrovicf Konc’alovskij, l’amico pittore che gli fece il ritratto. La prima esecuzione assoluta di questa Suite sinfonica ebbe luogo alla Radio russa il 21 dicembre 1934 sotto la direzione dell’autore.
Il primo movimento, La nascita di Kize, si apre con l’eco di un richiamo di cornetta militare che assumerà il ruolo di idea motivica fondamentale nell’andamento dell’intera composizione.

Zar Paolo I

L’atmosfera militaresca, che la sagacissima scrittura strumentale provvede a variegare di sottile humour, progressivamente si espande in una sorta di marciante fanfara di stampo marionettistico sotto la guida dell’ottavino al di sopra del meccanico rullare di un tamburo militare. Questo incedere piuttosto superficiale è seguito da un’ispirata frase melodica russa che si identifica poi nel
tema del protagonista. Nella sezione centrale, a guisa di Trio, della marcia le fanfare degli ottoni si intersecano con gli interventi roboanti delle percussioni. Simmetrica è la conclusione con il ritorno del segnale militare.
Il secondo movimento è una Romanza e si caratterizza per un clima sonoro nettamente diverso, dal momento che dà voce alla canzone d’amore d’un Kize innamorato. Prokof’ev ne compose due versioni: una per il registro di baritono e orchestra, l’altra per orchestra sola. La connotazione tematica di questo tempo è modellata sulla struggente ballata Il colombo cinerino si lamenta notte e giorno di Dmitriev, ove Prokof’ev, invece di seguire letteralmente la melodia originaria, ne inventa una sua propria nello spirito di questo canto popolare del primo Ottocento, con screziature modali e venature malinconiche sull’accompagnamento dell’arpa. All’effusione sentimentale seguono Le nozze di Kize sull’avvio d’un andamento musicale piuttosto pesante e pomposo d’intento celebrativo da cui si staglia una specie di canto di nozze, ove il ritorno stridulo della cornetta funge quasi da sberleffo. Nella parte centrale del terzo movimento la ricomparsa del tema di Kize imprime una connotazione più sensuale per il palpitante intervento del sassofono tenore. E la conclusione ripropone gli accenti fastosi dell’avvio, estroverso e pomposo.
Ecco quindi, in quarta posizione, la Troika – essa pure in doppia versione, cantata e strumentale – sull’incalzante motivo d’un eccitato canto ussaro di taverna, mentre la slitta corre veloce («II cuore di una donna è come una taverna: un mondo pieno di ospiti, ogni mattina c’è chi arriva e c’è chi parte») sul frenetico accompagnamento delle percussioni, del pianoforte, dell’arpa, nonché delle sonagliere mentre una variante del tema del protagonista, a guisa di ritornello, riappare tra un couplet e l’altro del canto soldatesco.
D’ampio risalto sinfonico è da ultimo il quinto movimento, La sepoltura di Kize, in cui ritornano tutti gli incisi motivici dei tempi precedenti, introdotti e siglati dal richiamo della cornetta militare, con la riproposta del tema di Kize nell’assorto e funereo intervento del clarinetto; si ascolta poi di nuovo la frase melodica del “Colombo cinerino”, affidata alternativamente alla tuba sola e agli archi, ma l’apparente tristezza generale è interrotta dalla combinazione divertente, nel gioco contrappuntistico, dell’inciso melodico e del motivo nuziale del terzo movimento, tra varie modulazioni di gusto comico. Da ultimo torna il clima funereo ma il tema di Kize gradualmente si dissolve nell’intervento del flauto mentre sullo sfondo c’è l’eco della cornetta sul rullare del tamburo.