Ravel Maurice

Concerto in sol maggiore per pianoforte e orchestra

Sono un fan di Arturo Benedetti Michelangeli (spesso trovo che il suo stile sia coinvolgente, in particolare nel quarto concerto di Rachmaninov), e, secondo il mio modesto parere, il concerto in Sol maggiore di Ravel è davvero uno dei migliori cha abbia mai sentito. È stupefacente, riesce ad articolare ogni nota del pezzo anche nei passaggi più difficili e audaci. Anche l’esibizione del quarto concerto di Rachmaninov non è meno espressiva. I movimenti sono ancora suonati con stupefacente chiarezza e avvincenti. Registrazione eseguita nel 1957 e rimasterizzazione effettuata nel 2000. Nonostante la datazione, l’audio è pulito e corposo. CD giustamente collocato dalla EMI tra le gradi incisioni del secolo scorso. Altamente raccomandato, per non dire imperdibile.

Ravel Concerto in sol maggiore per pianoforte e orchestra

È nel 1901 che Maurice Ravel, appena trentenne, compone Jeux d’eau per pianoforte solo, una composizione che doveva conquistarsi un posto di primo piano nella letteratura dello strumento a tastiera per la sua portata innovativa, che rinnegava i presupposti melodici e polifonici dello strumento ottocentesco in favore di un nuovo utilizzo del virtuosismo, orientato verso immaginifici giochi timbrici. Ravel doveva attendere quasi trent’anni prima di proiettare le conquiste del suo pianismo dal campo solistico a quello del Concerto per pianoforte e orchestra.
Il motivo di questo ritardo deve essere individuato probabilmente nel fatto che l’assunto di base del “Concerto” – il confronto fra un individuo e un gruppo – era considerato all’inizio del secolo un retaggio di una concezione musicale ancora legata alla prassi ottocentesca. Non a caso Ravel compose i suoi due Concerti per pianoforte al termine della sua attività, quando la stagione del neoclassicismo spingeva in qualche modo a reinterpretare i modelli del passato.
I due Concerti vennero scritti quasi contemporaneamente, a partire dal 1929. Difficile dunque scindere l’una dall’altra partitura, poiché esse appaiono fra loro contrapposte e insieme complementari. Differenti le motivazioni all’origine dei due lavori. Il Concerto per la mano sinistra fu commissionato dal pianista Paul Wittgenstein – il fratello del filosofo – che aveva perso il braccio destro in guerra.
Pressoché contemporanea la decisione di Ravel di dedicasi anche a un altro Concerto pianistico riallacciandosi a un vecchio ed abbandonato progetto del 1913-14, un lavoro su temi baschi denominato Zagpiat-bat (Le sette province). Sembra che Ravel volesse sfruttare la partitura per una tournée pianistica negli Usa, ma poi decise di dedicarla a Marguerite Long, riservandosi il ruolo meno rischioso di direttore d’orchestra alla prima esecuzione, avvenuta a Parigi il 14 gennaio 1932.
Nonostante la gestazione pressoché contemporanea – o forse proprio a causa di essa – i due Concerti sono fra loro diversissimi, come se l’autore avesse voluto offrire due immagini antitetiche del genere: nel primo caso una concezione formale arditissima, la netta contrapposizione del solista all’orchestra e un contenuto espressivo oscuro e drammatico; nel secondo il rispetto dell’articolazione classica in tre movimenti, la complicità di solista e orchestra e delle scelte di giocosità e serenità. Indicative, a questo proposito, le osservazioni rilasciate dallo stesso Ravel al “Daily Telegraph” sulla partitura, definita come “un Concerto nel senso più esatto del termine e scritto nello spirito di quelli di Mozart e di Saint-Saëns”, ossia secondo un rapporto dialettico ma fortemente integrato fra solista ed orchestra; e occorre ricordare che era prettamente apollinea l’immagine di Mozart che si era imposta fra le due guerre. E ancora: «Avevo avuto intenzione, all’inizio, di intitolare la mia composizione “divertimento”», per decidere poi però «che non era necessario, stimando il titolo “Concerto” bastantemente esplicito per quanto concerne il carattere della musica di cui l’opera è costituita».

Marguerite Long

Sono elementi essenziali del carattere giocoso del Concerto, nonché della sua chiarezza neoclassica, tanto la scrittura pianistica, improntata a quegli effetti quasi illusionistici che Ravel aveva già sperimentato nella produzione cameristica, tanto il ricorso a un materiale tematico eterogeneo, dal jazz al circo ai temi baschi, assemblato con gusto da vero prestigiatore. Il Concerto in sol si palesa così come il più originale contributo di Ravel alla stagione del neoclassicismo, dove eredità colta e musica di consumo vengono conciliate con uno sguardo distaccato, secondo una poetica di raffinato manierismo.

Nell’attacco dell’Allegramente iniziale, segnato dallo schiocco della frusta, troviamo la ritmica irregolare e jazzistica dell’esposizione orchestrale, impreziosita dalle percussioni, poi il secondo tema, con l’intervento “basco” del pianoforte e la risposta “blues” dell’orchestra; dopo questa esposizione segue un breve sviluppo in cui il pianoforte riprende in modo ludico il materiale già presentato, il ritmo jazzistico, il tema “blues”; la riesposizione riprende le stesse idee donando loro uno spazio differente, e accentuando così il carattere rapsodico della costruzione; e il movimento si chiude con una coda brillantissima.
È il pianoforte solo ad aprire il secondo tempo, Adagio assai, con un vasto intervento cantabile che, per l’incantevole tematismo e il gusto della tessitura cristallina, giustifica pienamente il richiamo dell’autore a Mozart e Saint-Saëns. Si inseriscono poi i legni in una plastica giustapposizione di idee; nonostante un episodio centrale più ombroso e articolato, l’intero movimento si svolge sul continuo ritmo ternario dell’accompagnamento pianistico, che funge da tappeto sonoro; la riesposizione è affidata al corno inglese, mentre il pianoforte ricama preziosi arabeschi. Breve e incisivo il Finale, che si riallaccia al primo tempo, ma secondo una frenesia di moto perpetuo realizzata principalmente dal pianoforte con una scrittura brillantissima e virtuoslstica; all’orchestra spetta il compito di irrompere con temi jazzistici o con liete fanfare da music hall, e di secondare e sostenere il solista nella coda trascinante.

Rachmaninov Concerto n. 4 in sol minore op. 40 per pianoforte e orchestra

A partire dalla fine degli anni Dieci Rachmaninoff iniziò a diradare sempre più la sua attività creativa, giungendo presto a un silenzio pressoché totale, interrotto di tanto in tanto solo dalla revisione di opere degli anni precedenti o da pochi, sporadici nuovi lavori: il Quarto Concerto per pianoforte e orchestra nel 1926, le Variazioni su un tema di Corelli nel 1931, la Rapsodia su un tema di Paganini nel 1934, la Sinfonia n. 3 nel 1936, le Danze sinfoniche nel 1940.
Proprio al Concerto n. 4 in sol minore per pianoforte e orchestra op. 40 spetta probabilmente la palma di lavoro dalla gestazione più sofferta e tormentata e al tempo stesso meno compreso dai critici e dal pubblico. Portato a termine nel 1926, diciassette anni dopo il Terzo, il Concerto in sol minore ha in realtà una storia che parte da ben più lontano, addirittura dagli anni in Russia prima della guerra: il settimanale russo Muzika nell’aprile del 1914 aveva fatto riferimento al fatto che Rachmaninoff stesse componendo un nuovo Concerto per pianoforte e orchestra e in alcune sue lettere di qualche anno dopo egli parla di «un’opera importante che ho iniziato quando ero ancora in Russia».
È comunque nel gennaio del 1926 a New York che Rachmaninoff inizia a lavorare con regolarità al Concerto, per poi completarlo a Weisser Hirsch, nei

pressi di Dresda. Ma prima ancora di passare dallo stadio di bozza a quello di versione definitiva, il Concerto già lo preoccupa a causa della sua lunghezza. In una lettera da Cannes dell’8 settembre all’amico e collega Nikolaj Medtner, che poi sarà il dedicatario del Concerto, scrive: «Ho ricevuto la copia del mio nuovo Concerto. Ho dato uno sguardo alle sue dimensioni – 110 pagine! – e mi sono spaventato. […] Bisognerà eseguirlo come il Ring, in diverse serate successive. […] Apparentemente il vero problema sta nel terzo movimento: che cosa non c’ho messo dentro! Ho già iniziato, nella mia mente, a individuare possibili tagli».
Nella sua risposta del 13 settembre Medtner controbatte alle tesi dell’amico: «Non posso essere d’accordo con te […]. Naturalmente ci sono dei limiti alla lunghezza dei brani musicali […]. Ma all’interno di questi limiti umani, non è la lunghezza di una composizione musicale a creare un’impressione di noia, ma piuttosto è la noiosità che da la sensazione della lunghezza. […] Una canzone di due pagine priva di ispirazione a me sembra più lunga della Carmen di Bizet e Der Doppelgänger di Schubert mi sembra più grandioso di una Sinfonia di Bruckner».
Ma le parole di Medtner non sembrano avere particolare effetto su Rachmaninoff che continua la sua opera di revisione e riduzione del Concerto. Modificare e tagliare un lavoro dopo la prima esecuzione era una prassi per lui: ma questa volta i suoi interventi erano scattati addirittura prima della prima esecuzione! Che finalmente giunse, a Filadelfia il 18 marzo del 1927 con la direzione di Leopold Stokowski, con replica il giorno seguente e poi ancora a New York il 22 marzo. Le recensioni furono assai severe, prendendo talvolta le mosse da un inutile quanto non molto sensato confronto con il suo celebre Secondo Concerto, risalente a circa venticinque anni prma.
Rachmaninoff si rimise subito al lavoro sul Quarto Concerto e il 28 luglio del 1927 scrisse all’amico Yuli Konius, al quale aveva affidato il noioso compito di riportare nelle parti orchestrali tutte le correzioni che nel frattempo aveva segnato in partitura: «Dopo un mese e mezzo di duro lavoro ho finito le correzioni al mio Concerto. […] Ho riscritto le prime 12 battute e anche l’intera coda». Robert Threlfall ha dimostrato che in realtà questi interventi furono ancora più massicci: diversi tagli (che portarono il brano da 1.016 a 902 battute complessive: 21 battute tagliate nel primo movimento, 2 nel secondo e 91 nel terzo) e numerosi interventi nella scrittura orchestrale e pianistica. In questa nuova versione la partitura orchestrale e la riduzione per due pianoforti dell’autore furono pubblicate a Parigi nel 1928 dalla Tair.
Arturo Benedetti Michelangeli

Dopo alcune altre esecuzioni negli Stati Uniti e in Europa fra il 1929 e il 1931, Rachmaninoff decise di ritirare il Quarto fino a quando non avrebbe potuto sottoporlo a un più radicale intervento di revisione, cosa che sarebbe avvenuta solo nel 1941, due anni prima della sua morte. Il lavoro riguardò in particolare l’orchestrazione, il finale che venne riscritto e, al solito, una massiccia serie di tagli (le 902 battute dell’edizione del 1928 divennero 824: 34 battute tagliate nel primo movimento, 3 nel secondo, 43 battute nel terzo). La prima esecuzione di quella che ormai era la terza versione del Concerto m sol minore (che è quella che viene adottata nei concerti di questi giorni) avvenne il 17 ottobre del 1941
ancora con la Philadelphia Orchestra, ma questa volta diretta da Eugene Ormandy. Le cose con la critica, però, non andarono molto meglio rispetto al 1927. Seguirono altre esecuzioni, prima a Chicago con la Chicago Symphony diretta da Frederick Stock e poi a Washington, Baltimora e New York ancora con Ormandy e la Philadelphia Orchestra insieme ai quali il 20 dicembre del 1941 (13 giorni dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor) Rachmaninoff realizzò anche la registrazione in disco per la RCA mentre, sempre insoddisfatto, continuava a ritoccare l’orchestrazione. Un lavorio a cui probabilmente pose fine solo la morte, avvenuta poco più di un anno dopo, il 28 marzo del 1943, a pochi giorni dal suo settantesimo compleanno. Nel 1944 l’editore Charles Foley pubblicò la versione definitiva della partitura, seguita due anni dopo dalla riduzione per due pianoforti che Rachmaninoff stesso aveva iniziato prima di morire e poi affidato a Robert Russell Bennett.
Per chiudere il cerchio della tormentata vicenda di questo Concerto, nel 2000 la Rachmaninoff Estate ha autorizzato la Boosey & Hawkes di pubblicare, sotto la guida di Robert Threlfall e Leslie Howard, la versione senza alcun taglio del manoscritto originale del 1926 che è stata poi registrata in disco dalla Ondine Records con il pianista Alexander Ghindin e la Helsinki Philharmonic Orchestra diretta da Vladimir Ashkenazy. A semplice titolo di cronaca, questa esecuzione discografica del Quarto Concerto dura 31′ e 12″ contro i 24′ e 38″ della versione del 1941 registrata dall’autore.
Il Concerto in sol minore è sicuramente un’opera complessa ed enigmatica che ancora attende di essere ascoltata nel giusto modo e quindi compresa. Accostarsi ad esso aspettandosi di trovare un clone del Secondo Concerto, come spesso è stato fatto, non è certo l’approccio corretto. Naturalmente si sente che la mano è sempre quella, ma molte cose sono cambiate rispetto al mondo più marcatamente ottocentesco del Secondo e perfino del Terzo Concerto: le melodie languide e intensamente appassionate lasciano spesso il posto a temi nervosi e irregolari, i suoni che erano turgidi e caldi si fanno talvolta aspri e graffianti, il respiro ampio e profondo diventa a tratti più corto e affannato, i ritmi si agitano ed increspano, gli accordi fanno spesso l’effetto di macchie di colore. Sembra proprio che Rachmaninoff, contrariamente a quanto continuano fastidiosamente a ripetere molti giudizi frettolosi e superficiali espressi sulla sua musica, stesse facendo i conti con il suo tempo e si confrontasse con la musica del Novecento. E anche per questo, se con il Secondo e il Terzo Concerto poteva bastare un solo ascolto a conquistare per sempre e ad imprimere le melodie principali nella mente e nel cuore, qui occorrono ascolti ripetuti ed attenti. Ma questo non rappresenta certo un limite. Anche per Rachmaninoff, insomma, dovrebbe finalmente essere giunta l’ora di una più attenta e rispettosa riflessione critica capace di collocare correttamente nel proprio tempo sia lavori come il Secondo Concerto, del 1900-1901, sia lavori come il Quarto, appunto, nato da un intenso lavorio fra il 1926 e il 1941, evitando di appiattire tutto in un unico giudizio, ugualmente distorto e scorretto in entrambi i casi.

Ettore Gracis

Il nuovo stile di Rachmaninoff è già perfettamente esemplificato nel primo movimento – Allegro vivace (alla breve) – fin dalle nervose battute iniziali che, rinunciando ai felicissimi gesti introduttivi dei tre Concerti precedenti, ci immettono direttamente in medias res, come se una porta si fosse spalancata all’improvviso su un discorso già in atto.
L’atmosfera si distende nel Largo successivo che, a parte pochissime battute nella parte centrale, è animato da un andamento pacatamente scorrevole e quasi parlante che sembra evocare quello del Preludio del franckiano Preludio, Aria e Finale. Fa quasi sorridere l’ingenuità dei critici dell’epoca che dedicarono tanta attenzione a sottolineare con ironia le analogie tematiche fra il tema principale del Largo e il tema di apertura del primo movimento del Concerto di Schumann o anche con il canto infantile Three blind Mice, non rendendosi conto che si tratta semplicemente di melodie, come ne esistono a centinaia, che iniziano con una serie discendente di tre toni. Di particolare fascino timbrico le ultime quattro battute in pianissimo che collegano direttamente al crepitante e dinamico finale, Allegro vivace, dalla grande vitalità ritmica, dove a volte
sembra di cogliere un’insolita, graffiante ironia e perfino di intravedere fra le righe inaspettati e sorprendenti riflessi del tanto amato jazz.