Saint-Saens Camille

Sinfonia n. 3 in do minore op. 78

Questa versione, egregiamente diretta, è letteralmente meravigliosa. L’organo regna sovrano ma allo stesso tempo si lascia accompagnare da tutta l’orchestra in un equilibrio perfetto, che solo nell’ultimo movimento si rompe maestosamente. Pierre Cochereau all’organo della grande Cattedrale Notre- Dame di Parigi e i Berliner Philharmonker capitanati da un encomiabile Herbert von Karajan formano un binomio difficilmente raggiungibile. Per gli amanti di questa composizione questo CD fa per voi. Registrazione eseguita nel 1982. Audio spettacolare. Altamente raccomandato.

Sinfonia n. 3 in do minore op. 78 – Martin Cooper

Saint-Saens aveva cinquant’anni ed era all’apice della sua fama europea quando compose la Terza Sinfonia, su commissione della London Philharmonic Society, nella cui sede, il 19 maggio 1886, ebbe luogo la prima esecuzione del lavoro. Quando Liszt – che era stato un idolo, un modello influente e un amico – morì due mesi dopo, Saint-Saens la dedicò alla sua memoria. Il disegno della

Sinfonia non è solo nuovo – due movimenti invece di quattro – ma è di una grandiosità inconfondibile e persino teatrale, molto alla maniera di Liszt. Tuttavia dietro a questa consapevole ricerca di novità e di efficacia emotiva militava da un lato lo spirito essenzialmente conservatore di Saint-Saens, profondamente radicato nei classici viennesi e molto vicino per gusto e temperamento a Mendelssohn, dall’altro la sua personalità essenzialmente francese. La serietà indagatrice, lo scavo interiore, i conflitti religiosi e filosofici e i dubbi che Liszt rivela (e spesso anzi ostenta) nella sua musica erano estranei a Saint-Saens, che era un tipico francese del suo tempo, “uno scettico per il quale la musica era questione – come disse – di “linee eleganti, colori armoniosi e una piacevole successione di armonie”.
La sua straordinaria padronanza delle tecniche della composizione, che aveva fatto ammirare la sua musica persino in Germania, era non solo la sua massima forza, ma anche la sua principale fonte di ispirazione; e in questo senso guardava sia indietro ai compositori del Settecento, e sia avanti al neoclassicismo di Stravinski e Hindemith. Gli elementi “romantici” nella sua musica sono solo superficiali, accolti piuttosto che profondamente sentiti, e questa Sinfonia composta in modo superbo è in un certo senso tanto la sua versione personale del romanticismo quanto una dimostrazione della forza e dei limiti delle capacità tradizionali, “classiche”.
Il primo movimento è in due parti: un Allegro moderato (do minore; 6/8) con un Adagio introduttivo di carattere molto lisztiano, seguito senza interruzione da un Poco adagio (in 4/4) nella tonalità di re bemolle maggiore, la cui lontananza fece scandalo tra i musicisti accademici dell’epoca.
L’Allegro moderato è in forma-sonata modificata, ed è dominato dalla fluttuante figura di semicrome che si sente per la prima volta negli archi. La scrittura discretamente contrappuntistica e le scorrevoli modulazioni sono modelli di stile e di gusto accademico. Nel Poco adagio, col suo dialogo fra organo ed archi, e le sue armonie e modulazioni melate, Saint-Saens penetra nel mondo della religiosità lisztiana, un mondo col quale gli anni trascorsi come organista – molto ammirato – dell’elegante chiesa francese della Madeleine l’avevano reso molto familiare.
Il secondo movimento, nel quale sia il pianoforte che l’organo vengono aggiunti all’orchestra, si apre con un altro Allegro moderato (do minore; 6/8); e questa prima sezione dal carattere di Scherzo è di nuovo dominata da una figura di semicrome – brusca questa volta, piuttosto che scorrevole – che compare negli archi in apertura. Qui il compositore è del tutto nel suo elemento, e si abbandona tanto a una immaginazione musicale ricca di risorse che al senso di humour asciutto e malizioso che caratterizza gran parte della sua musica più personale.
Il Trio (Presto: do maggiore-re) è ravvisato da brillanti interventi del pianoforte,

con piatti e triangolo. Un corale che porta la dicitura Maestoso (archi con un accompagnamento in accordi spezzati sul pianoforte, che richiede due esecutori) stabilisce l’atmosfera trionfante e festosa della sezione finale (Allegro: do maggiore; 4/4).

Pierre Cochereau all’organo della Cattedrale Notre- Dame

Il tema del suo fugato di apertura è una variazione in maggiore del tema in do minore del primo movimento, un tributo al principio “ciclico” di Liszt. La musica assume infine la forma di una libera fantasia del genere di quelle che gli organisti francesi imparano a improvvisare. Saint-Saens sfrutta le possibilità teatrali di contrasto fra organo e orchestra, e conclude in modo brillante ed efficace un lavoro sotto molti aspetti strano e ambiguo.

Martin Cooper
(Traduzione: Silvia Gaddini)

Ero curioso di vedere come fosse questa versione paragonata a quella di Karajan. In entrambi i casi l’organo si trova in un altro luogo Ho trovato che la parte dell’organo di questa versione è eseguita da un organista cieco francese di nome Gaston Litaize, con l’organo della cattedrale di Chartres. Sicuramente Daniel Baremboim non possiede il carisma di Karajan comunque la sua versione risulta convincente più di quanto mi aspettassi, anzi gli archi mi sembrano più efficienti e l’organo meglio posizionato. Daniel Baremboim conduce brillantemente la Chicago Symphony Orchestra. La Danse Bacchanale dall’opera Samson et Dalila è estratta dalla registrazione dell’opera del 1978 ed è davvero efficace e molto ben eseguita.
È stata la prima volta che ho ascoltato il Prélude del Le Déluge, quindi non ho materiale con cui paragonarlo. È un’esecuzione del 1979 con la violinista Alain Moglia. Infine, posso dire che mi è piaciuta la Danse macabre del 1980. È una buona esecuzione ma rispetto alla registrazione di Karajan mi ha meno emozionato. Registrazioni eseguite dal 1976 al 1980 e rimasterizzazione effettuata nel 1881. Audio ottimo. Raccomandato.

Sinfonia n. 3 in do minore op. 78

Camille Saint-Saëns, nato nel 1835, e Brahms, nato nel ’33, sono coetanei, e negli ultimi due decenni dell’Ottocento in Europa erano artisti di autorità e fama pari. A quell’epoca, vivi entrambi, si definiva Saint-Saëns “il Brahms francese”, chissà perché! O forse perché per uno e l’altro, e in modo indefinito per entrambi, si parlava, e si parla tuttora, di ‘classicismo’ nell’arte romantica. Ma l’accostamento dei nomi può essere utile solo per separare quanto si può le due figure (che tuttavia si confrontavano davvero, almeno a Vienna, dove Saint- Saëns era famoso): tuttavia la sovrana coerenza di Brahms era radicata nell’Ottocento, nello spirito del sinfonismo tedesco, mentre Saint-Saëns, forte ingegno multiforme e prolifico, come vedremo, irrequieto, sperimentale, brillantemente dispersivo, era l’esponente di una coscienza nuova, di una civiltà estetica che cambiava.
Non si vuole dire che Saint-Saëns abbia anticipato il Novecento (per certi aspetti lo ha anticipato meno di Berlioz), anche se, essendo egli un makrobios, ‘uno di lunga vita’, nel Novecento c’è abbondantemente entrato, e con sua grande irritazione. Rifiutava Debussy, e pare gli sia toccato anche essere presente alla ‘prima’ del Sacre du printemps di Stravinskij, restandone inorridito (ma non è certo, e Stravinskij lo ha smentito). È lecito credere, però, che in molta della sua musica migliore si siano delineati e, a volte, perfino maturati i caratteri ‘francesi’ dell’impressionismo musicale, nella tecnica del colorismo orchestrale (che in lui può essere anche romanticamente sontuoso), nelle sottigliezze, perfino analitiche, dell’armonia, nel gusto dell’ironia e dello scherzo e in qualche caso nella coesistenza, singolare e tipica, di asciuttezza classicheggiante e decorazione.
Certo è che Saint-Saëns intelligentemente si compiaceva della sua felice, inesauribile adattabilità agli stili e agli umori più diversi, e scrisse di tutto (e molti capolavori), tredici tra Opere e Operette, Oratori, tre Sinfonie, cori, Concerti solistici, Poemi sinfonici, squisita musica da camera, melodie vocali, trascrizioni di musiche altrui – e addirittura la musica per un film (nel 1908 L’assassinai du duc de Guise). Il suo impulso musicale onnivoro è testimone, sì, di un’eccezionale energia produttiva e di un sentimento di dominio sui tempi, ma si direbbe anche che nasconda la ricerca di una base appropriata, di un terreno naturale, di una ‘patria’ (un terreno segnato per lui da Wagner all’inizio e da Liszt, ma poi sicuramente francese, anzi parigino!) – e la ricerca di un futuro, di una rinnovata classicità non germanica, del futuro che Saint-Saëns preparava con esperienza e grande sapienza e che non gli appartenne. Egli, insomma, si sentì fratello di Franck, di Fauré, di Duparc, non padre di Debussy e Dukas (che per qualche aspetto gli era simile).

Franz Liszt

La difficoltà per noi oggi sta nel fatto che la musica di un tale artista dominatore nel suo tempo è quasi scomparsa dalle nostre abitudini di ascolto, a parte il capolavoro del Samson et Dalila, la Danse macabre e l’imponente Terza Sinfonia, sì che non abbiamo più idea né del magistero tecnico di cui egli fece eredi i giovani, né, purtroppo, dell’eleganza dei suoi lavori più raccolti (la splendida Sonata per violino e pianoforte in re minore, il Quartetto in mi minore), dell’aristocrazia sentimentale, dell’umorismo (l’incantevole Carnaval des animaux) che egli forni al nuovo stile.
Delle prime due Sinfonie lo stesso Saint-Saëns fece in modo che scomparissero dal repertorio. Cure ben più attente dedicò alla Terza, uno dei suoi opera magna insieme al Samson (1877), destinato a celebrare il sinfonismo francese e poetico dei nuovi tempi: composta nell’inverno tra il 1885 e l’86, fu eseguita a Londra, alla Philharmonic Society, il 19 maggio 1886, diretta dall’autore. Era dedicata a Franz Liszt, che morì a Bayreuth due mesi dopo. E fu degno omaggio dell’artista che molto doveva all’alta e generosa opera spirituale e civile di Liszt.
La costruzione in due tempi, molto originale per una Sinfonia, Saint-Saëns l’aveva già sperimentata dieci anni prima nel suo Quarto Concerto per pianoforte e orchestra, che è restato il suo più bello, e nella Sonata per violino e pianoforte in re minore, contemporanea della Sinfonia e divenuta subito celebre. In realtà la forma bipartita di questi tre magnifici lavori racchiude, e cela in parte, la tradizionale architettura in quattro tempi, Allegro, Adagio, Scherzo, Allegro e Finale. Ho detto che essa cela la forma classica e il suo dinamismo interno perché i quattro tempi sono allacciati due a due in una continuità superiore, confermata dall’invenzione ciclica per la quale alcuni motivi, identici o elaborati, interi o in una loro parte, tornano dall’inizio alla fine. Nel nostro caso è dominante la presenza delle famose prime quattro note del Dies irae, dalle quali alcuni compositori romantici (e anche qualcuno poi) pare siano stati ossessionati.
Il primo Adagio si inizia in modo raccolto, con due brevi disegni tematici, due presagi delle invenzioni dell’intera Sinfonia, uno cromatico discendente (violini) e l’altro melodico ascendente (oboe, poi flauti). È un indugio silenzioso. Ma i brividi (violini e viole in pianissimo) dell’Allegro moderato lo disperdono in una tesa inquietudine, che a mano a mano si fa drammatica. Il moto incessante degli archi si espande per tutta l’orchestra, e sopra e dentro di esso tornano nei legni e nei corni i due disegni dell’Adagio iniziale. Un terzo tema in ritmo ternario sincopato aumenta la fremente drammaticità in uno sviluppo sinfonico esteso e molto complesso, e tuttavia chiaro all’ascolto. Poi la forte agitazione, e con essa le sonorità e i colori, si stemperano in una quieta transizione verso il Poco adagio, pagina di alto lirismo. Gli archi prima, poi i legni e gli ottoni in pianissimo, cantano una struggente melodia, che torna e torna su se stessa. L’organo la sostiene e delicatamente l’accompagna a un chiarore notturno in cui essa si rifrange, si innalza e svanisce. Per chi sa essere ‘sentimentale’ quando occorre, questo Adagio è una pagina che non si dimentica.

Gaton Litaize

Nel secondo tempo la contrapposizione all’Allegro moderato e Presto (che qui insieme hanno la funzione dello Scherzo classico) è all’estremo contrario del liricissimo Adagio del primo tempo. Infatti vedremo che il compito di chiudere con solennità la Sinfonia tocca a un Allegro e Maestoso. Due scattanti invenzioni ritmiche, poco più di due cellule, insistentemente replicate (archi con timpani, quindi flauti, oboi, clarinetti), avviano il secondo tempo, in cui predominano, negli archi prima e nei legni subito dopo, diversi disegni in terzine scandite (anche con gli accenti sui tempi deboli). Con il Presto si ripetono, integri o frammentati, in alternanza e in sovrapposizione contrappuntistica, i motivi fondamentali, con il pianoforte in grande attività, come squillante sfondo sonoro. L’eccitazione musicale, controllata dalla magistrale sapienza sinfonica ma prolungata oltre l’immaginabile, culmina e si disperde in frammenti per tutta l’orchestra (episodio di transizione), in una stupita atmosfera di attesa. Che un poderoso accordo di do maggiore (organo) annienta, seguito dall’esultanza di tutti i settori, dai contrabbassi a un bagliore dei flauti. La grandiosa e sonorissima rievocazione di una festa barocca, la parodia (nel senso di imitazione manieristica, senza caricatura) di una cerimonia di corte, mette fine alla sinfonia. Nella severità accademica del poderoso Finale si nascondono il sorriso e l’ironia dell’autore, che licenzia la sua romantica e francese Sinfonia con l’antiromantica celebrazione del Seicento francese.

Danza macabra in sol minore op. 48

Ottimo pianista e organista, apprezzato direttore d’orchestra, stimato insegnante e compositore prolifico, oltre che polemista vivacemente combattivo e di educazione positivista, SaintSaëns occupa una posizione importante nella storia della musica francese del secondo Ottocento e pre-impressionista. Conservatore illuminato, egli rimase contagiato inizialmente dai bacilli del verbo wagneriano e subì il fascino della personalità e dell’arte di Liszt, che gli fece rappresentare a Weimar il 2 dicembre 1877 per la prima volta il Sansone e Dalila, ritenuto il capolavoro di Saint-Saëns e certamente l’opera in cui si racchiudono i frutti più succosi della versatilità del suo ingegno musicale. Artista colto e aristocratico (“l’art pour l’art” fu uno dei suoi motti preferiti), dotato di una vitalità eccezionale, egli fondò con Romain Bussine la “Societé nationale de musique” alla quale aderirono tra gli altri Lalo e Bizet, ma ciò non gli impedì di sottrarsi al fascino della musa wagneriana e di inserire nelle sue opere modi e forme della tradizione melodrammatica italiana (arie, duetti e concertati), da lui spesso sottoposte a critiche ironiche.
D’altra parte sono ben note le sue incomprensioni e riserve nei confronti di artisti del livello di Debussy, Richard Strauss, Stravinsky, Schönberg e Puccini, colpiti a più riprese dai suoi strali e dalle sue vivaci critiche apparse sul “Voltaire” e su altre riviste. Secondo Norbert Dufourcq, che ne ha tracciato un profilo umano e artistico piuttosto preciso, Saint-Saëns ha contribuito validamente «a restaurare la musica da camera in Francia e fin dal 1867 con il suo Trio in fa offre un esempio che è un capolavoro. Creatore del poema sinfonico nel senso che, con il soccorso del pensiero di Liszt, organizza la materia berlioziana, egli apre la strada a Franck e a Dukas. Fa scoprire ai francesi il violoncello, consacrando a questo strumento una Suite e poi una Sonata in do minore, modello del genere. Alla produzione violinistica di Mozart, Beethoven e Schumann sovrappone le conquiste di Paganini e impone al concerto e alla sonata per violino una forma e uno spirito francesi. Per primo attira l’attenzione sui piccoli complessi, sugli ottoni (Septuor con tromba) e fa rivivere l’umorismo del XVI secolo francese con Le Carnaval des animaux». Al di là di questi meriti va riconosciuta a Saint-Saëns una chiarezza ed eleganza di forma e una profonda conoscenza del linguaggio strumentale, classicamente concepito e sviluppato secondo i canoni di un nobile eclettismo.

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Dodici rintocchi su un re, arpa e corno, scandiscono lo scoccare della mezzanotte. Un violino, che sembra accordarsi, schizza sinistramente un primo tema, sarcastico nella sua successione di quinte giuste e quinte diminuite.

Alain Moglia e Aude Massat

Emerge poi un altro motivo, una specie di lento valzer, dal profilo malinconico nel suo itinerario in parte segnato da cromatismi discendenti. Dottamente ricamato su un disegno imitativo, il secondo tema introdurrà a una parodia sbilenca e bizzarra del Dies irae, spunto questo che peraltro, una decina d’anni dopo e in tutt’altro uso e contesto, ispirerà a Saint-Saëns l’idea ciclica della sua Sinfonia con organo. L’uso virtuosistico dello strumentale – ingrediente importante di questa breve pagina – lascerà spazio anche a un celebre assolo di xilofono che, sul pizzicato degli archi riproduce lo scricchiolio delle ossa degli scheletri danzanti. È lo staccato dell’oboe che, alla fine, imitando il canto del gallo ristabilisce la quiete, con il sorgere del di. E la musica si placa, lasciandoci i fumi ambigui di un’ironia raffinata e burlesca.
Pare che alla prima esecuzione, nel 1875, la Danza macabra fosse accolta da fischi. Se è vero, la nemesi storica è stata fulminea, perché da sempre questa scena di sabba notturno ha incontrato i più divertiti favori: a cominciare da Liszt, che ne ha subito realizzato una trascrizione pianistica. Per la verità, questa musica Saint-Saëns l’aveva composta dapprima per canto e pianoforte – su un buffo, onomatopeico testo di Jean Lahor, pseudonimo di Henri Cazalis – e poi, nel 1874, volta in veste di poema sinfonico.
Anzi proprio in questo campo, del poema sinfonico, Saint-Saëns si può considerare il primo seguace di Liszt, ammiratissimo dall’autore francese; il quale, come discepolo, non punterà alle stesse ambizioni filosofico-metafisiche del suo modello. Infatti i quattro poemi sinfonici, scritti in tutto da Saint-Saëns in una manciata d’anni, sono piuttosto delle pitture musicali, dei brillanti affreschi descrittivi che si ispirano, tre su quattro, a soggetti mitologici. Tutti
però si segnalano per l’assoluta limpidezza della forma e per la riuscita degli effetti strumentali.