Schubert Franz

Sinfonia n. 8 Incompiuta

Guido Cantelli è morto in incidente aereo nel 1956 a soli 36 anni. Era considerato l’erede di Arturo Toscanini. In quanto tale, i collezionisti lo indicano come il più grande conduttore del XX secolo e queste registrazioni EMI ci mostrano il motivo.
Il titolo “References” include tre delle più grandi esibizioni di Cantelli con la Philharmonia Orchestra, un’esibizione mono di Schuman del 1953 della Quarta Sinfonia, la Sinfonia “Italiana” di Mendelssohn e una esibizione stereo della Sinfonia “Incompiuta” di Schubert. Cantelli fece un sorprendente numero di registrazioni per la EMI nei primi anni Cinquanta, la maggior parte delle quali è stata ripubblicata su CD da parte della stessa EMI nella collana References. Alcune purtroppo sono ora fuori catalogo. I classici fan curiosi delle considerevoli abilità di Cantelli dovrebbero acquistare questo CD prima che abbia lo stesso epilogo. Registrazioni eseguite dal 1955 al 1956 e rimasterizzazione effettuata nel 2001. Imperdibile!

 

Sinfonia n. 8 in si minore “Incompiuta” D. 759

Il 17 dicembre 1865 la Società viennese degli Amici della Musica organizza una serata singolare: nel programma, diretto da Johann Herbeck, figura come «novità» una sinfonia composta da Schubert quarant’anni prima e sino ad allora rimasta ineseguita. Nessuno dei presenti può immaginare come quel concerto sia già un evento, o tanto meno è in grado di comprendere appieno il valore di quella musica, ma quella sera, d’improvviso, un’anonima sinfonia in si minore in soli due tempi è già divenuta l’«Incompiuta» di Schubert.
Oggi, rispetto ad allora, sembra dunque incredibile come uno dei capolavori della storia della musica, quello che con maggiore immediatezza conduce alle fibre più profonde dell’arte schubertiana, sia rimasto per tanto tempo celato. Ma così, spesso, si compie il destino: e l’«Incompiuta», la gemma perduta, una volta riscoperta rifulse nel suo splendore agli occhi di tutti.
Schubert aveva donato l’autografo della sua Sinfonia – con firma 30 ottobre 1822 – all’amico Anselm Hüttenbrenner, esponente dell’Unione Musicale Stiriana di Graz in segno di riconoscenza per la nomina a membro onorario. Da Anselm la partitura passò al fratello Joseph che solo molti anni dopo, nel 1860, informò del manoscritto Herbeck, il quale alla fine ne entrò in possesso, ma con una certa difficoltà e solo in seguito a ripetute richieste.
Non abbiamo notizie certe sui motivi per cui il compositore non l’avesse portata a compimento: della Sinfonia conserviamo infatti i due primi movimenti, mentre ci rimangono le misure di apertura di uno Scherzo parzialmente orchestrato e l’abbozzo non strumentato e nella sola versione pianistica dello Scherzo stesso. Se alcune congetture hanno portato a formulare l’ipotesi che la Sinfonia fosse nata volutamente in due tempi sull’esempio dell’ultima sonata per pianoforte di Beethoven, è forse più verosimile che fosse stata interrotta e poi non più ripresa per sopravvenuti altri impegni. Dopo Alfonso ed Estrella Schubert si era fatto attrarre da nuovi lavori per il teatro e da musiche di scena: Die Verschworenen, Fierabras e Rosamunde vedono la luce nel 1823; quando mette mano all’«Incompiuta» è già impegnato nella Messa in la bemolle e soprattutto ha avuto il remunerativo incarico per la Wanderer-Fantasie; ma ancora, nell’autunno del 1823 inizia il ciclo della Bella mugnaia. Un accavallarsi di impegni lo tiene dunque occupato procrastinando il lavoro della Sinfonia, sino a fargli abbandonare il progetto.
Ma qual era il suo stato d’animo, quali erano le sensazioni che provava alla vigilia della stesura dell’«Incompiuta»? Forse più di ogni altra considerazione valgono le toccanti parole tratte dal suo diario del 1822, in quella pagina intitolata «Il mio sogno»: «Per molti anni intonai canzoni. Ma quando volevo cantare l’amore non riuscivo a esprimere che il dolore e quando provavo a

intonare il dolore ecco che si trasformava in amore». Un dualismo dunque, uno scontro di sentimenti, un meraviglioso confronto di energie è la forza che si sprigiona dalla Sinfonia.
Lo vediamo sin dall’inizio, nel primo tempo (Allegro moderato), dove un enigmatico, livido motto introduttivo tracciato dai bassi si presenta come un doloroso presagio che dà il via al primo tema; quest’ultimo, sinuoso e avvolgente nella trama agitata dei violini, ha qui il respiro inquieto di oboi e di clarinetti. In seguito la melodia si apre e diviene un fiume in piena, prima di approdare alle movenze tenere di ländler del secondo tema, presentato nell’inattesa tonalità di sol maggiore: in pochi attimi un genuino sentimento di serenità subentra come quiete dopo la tempesta.
Poi, d’improvviso, il motivo si interrompe, spezzato da icastici accenti che fanno fremere e vibrare l’orchestra; ancora per un istante fa capolino il profilo del secondo tema, ma altri intensi accordi lo raggiungono, sopravanzandolo con forza sino a tacitarlo, come se lo spirito drammatico del primo elemento ne avesse preso possesso, trasformandolo. Con l’Epilogo torna ancora il secondo tema: ma attenuato e attutito com’è diventa quasi irriconoscibile e rischiara l’orizzonte come un tenue sole al tramonto.
Nello Sviluppo è il motto introduttivo a dominare il campo: quella che era una triste premonizione diviene ora un lancinante lamento di dolore gridato al mondo. Il suo profilo, espresso pesantemente dai bassi, rende instabile la materia sonora e scatena un vortice di sentimenti; l’orchestra, come un vascello in balia degli elementi, cade in un tormentoso mulinare, disegna saettanti figurazioni e rimbomba cupa, mentre solo nel finale sembra schiudersi un filo di speranza. Al termine della Ripresa si aggiunge una Coda ancora basata sul motto introduttivo; questa volta, però, il conflitto drammatico si stempera e il motivo viene pronunciato sommessamente nell’eco sotterranea di violoncelli e bassi, nel triste canto dei violini, nel richiamo malinconico dell’oboe. La lotta si è compiuta e ha pronunciato il suo inappellabile esito: il motto introduttivo, come un ricordo che va stemperandosi, lentamente si estingue nelle sue stesse ripetizioni, prima dei perentori accordi finali.
Con l’avvio del secondo tempo, l’Andante con moto lo scenario cambia radicalmente. È un gioioso aprirsi alla vita, il sollievo dopo la tempesta, anche se latenti venature scure sollevano il ricordo del dramma che si è compiuto, rammentando la precarietà dell’esistenza umana. In apertura un luminoso primo tema disegna immagini aurorali nel delicato e pacato scambio dialogico tra archi e fiati: si leva come il sorgere di un nuovo giorno, annunciato dal risuonare bucolico dei corni.

Una linea sospensiva quasi eterea dei violini si trasforma nel moto sincopato degli archi; è questo un dolce andamento oscillante che sostiene come in un caldo abbraccio il secondo tema, intonato docilmente dal clarinetto e poi dall’oboe.

Franz Schubert

La burrascosa sezione di Epilogo, che ci mostra un paesaggio letteralmente scolpito dal fremente ribollire dell’intero corpo orchestrale, interrompe in modo violento questo idillio e confluisce senza soluzione di continuità nello Sviluppo, basato su varianti e incisi del secondo tema. Quando interviene la Ripresa, Schubert propone lo stesso materiale tematico, ma con qualche inaspettata novità: il secondo tema, ad esempio, è presentato in la minore anziché nel do diesis minore dell’Esposizione, mentre l’ordine di entrate degli strumenti è inverso, prima l’oboe e poi il clarinetto. Inoltre, alla fine dell’Epilogo sono aggiunte le figurazioni circolari-ponte della frase secondaria, per quel loro spiccato carattere di congedo. Con il sopraggiungere della Coda il percorso intrapreso dal «viandante» Schubert si compie: esempio di sintesi estrema, la sezione finale racchiude il digradare in pizzicato degli archi, l’aurorale primo tema, l’eterea linea levitante dei violini e le plastiche figurazioni circolari di commiato. È un saluto calmo e sereno che riporta a quel sentimento positivo, a quella quiete dell’animo tanto agognata e finalmente raggiunta.

Schumann: Sinfonia n. 4 in re minore op. 120

Gli anni 1840-1841 costituiscono una tappa fondamentale nell’evoluzione della creatività schumanniana: se il primo vide l’erompere di una autentica fiumana di

Lieder, quale per abbondanza e livello artistico non s’era più data dai tempi di Schubert, il secondo fu l’anno dell’orchestra. Trenta giorni, tra gennaio e febbraio, bastarono alla stesura della Sinfonia n. 1 (la celebre Sinfonia della Primavera); seguirono l’Ouverture, Scherzo e Finale e il primo movimento del Concerto in la minore per pianoforte e orchestra; in settembre vedeva infine la luce un altro lavoro sinfonico, in re minore, che come «Seconda Sinfonia» ebbe la prima esecuzione il 6 dicembre al Gewandhaus di Lipsia, sotto la bacchetta non eccelsa di Ferdinand David. Il successo fu scarso: il tono severo dell’opera, cosi lontano dalla gaia comunicativa della Frühlings-symphonie, spiacque a molti. Schumann ritirò allora la partitura e, fedele al monito oraziano («nonum prematur in annum…»), la ripose nel cassetto per un decennio. Nel dicembre 1851 il vecchio manoscritto venne ripreso, e la strumentazione sottoposta a una profonda revisione, specie nella sezione dei fiati; sedici mesi più tardi, il 3 marzo 1853, la Sinfonia, ormai numerata come quarta, veniva tenuta a battesimo nella nuova veste a Düsseldorf, con lo stesso autore sul podio, ed è divenuta giustamente celebre in questa seconda versione, anche se non sono mancati in Germania sporadici tentativi di riproporre la prima.
Schumann aveva pensato originariamente la Sinfonia «come «fantasia sinfonica»: e l’opera, malgrado il titolo classico e l’articolazione in quattro movimenti, presenta un’architettura che si discosta considerevolmente dalla tradizione. La ricerca di nuovi elementi per l’integrazione del processo compositivo è evidente in primo luogo nella successione ininterrotta dei vari movimenti, nonché nei collegamenti tra un brano e l’altro attraverso l’innesto di materiali tematici già ascoltati. Il modo con cui Schumann ripresenta questi episodi è assai interessante: la loro riproposizione non è mai letterale, ma le alterazioni non sono tali da modificarne l’immagine complessiva, si che oltre a costituire uno dei primi esempi di forma ciclica, quest’opera sembra prefigurare anche la prassi mahleriana della variante, come principio tecnico-compositivo alternativo a quello della variazione.
Il primo movimento è preceduto da una solenne introduzione dove, sul sordo pulsare del timpano (Brahms amplificherà questa idea nella Prima Sinfonia), archi e legni espongono una linea melodica da cui deriverà poi, per diminuzione dei valori, il complesso tematico del successivo Lebhaft (vivace), che attacca impetuoso dopo un incalzante accelerando. Non si tratta di un tempo di sonata: nella prima sezione, malgrado il tradizionale ritornello, il muscoloso tema principale domina incontrastato, con scattante energia, appena temperato da accenti più concilianti nei legni. La sezione centrale è introdotta da un perentorio mi bemolle all’unisono di archi e ottoni, e conduce a un drammatico climax cui risponde il vero e proprio secondo tema, cantato dai primi violini e dai legni su delicati arpeggi dei secondi violini; poi tutto l’episodio viene ripetuto in una variante simmetrica e su gradi armonici diversi.

Robert Schumann

La terza sezione, più che una ripresa, presenta una nuova elaborazione dei materiali tematici già ascoltati, e culmina in una trionfale apoteosi del secondo tema, seguito da una trascinante coda. La successiva Romanza è basata su un mesto tema in la minore, affidato al timbro malinconico dell’oboe rafforzato da una parte dei violoncelli; la strumentazione, altrove massiccia e scura (sono noti i problemi di Schumann su questo delicato terreno), è qui assai suggestiva. Un particolare curioso è rappresentato dalla chitarra, che Schumann aveva originariamente inserito in questo brano, e che poi tolse dalla versione definitiva, giudicandolo evidentemente un esperimento timbrico poco riuscito (e il pensiero corre alla seconda Nachtmusik della Sinfonia n. 7 di Mahler, prima opera ad accogliere nell’orchestra sinfonica il timbro prezioso e penetrante dello strumento, che avrebbe trovato qui un illustre precessore). Al tema d’apertura fa seguito la ripetizione della introduzione al primo movimento, preludio alla parte centrale, dominata da un rigoglioso assolo del primo violino, che si snoda con un moto di terzine su una fitta tessitura degli archi e dei corni. Il vigoroso Scherzo è ispirato ai grandi modelli beethoveniani; nel trio viene riproposto l’episodio centrale della romanza, modificato nella pulsazione ritmica (moto di sestine invece che di terzine). Dopo la ripetizione dello Scherzo, la conclusione del brano segna uno dei vertici di tutta la composizione: ritorna dapprima la melodia del trio, che si frantuma progressivamente e ristagna alla fine in un Poco ritenuto dei legni e degli archi più gravi; poi, su un tremolo dei secondi violini e delle viole, i primi violini ripropongono il tema del primo movimento, mentre i tromboni intonano un corale di bruckneriana solennità; l’atmosfera si anima sempre più, con interventi delle trombe e dei corni, sino alla travolgente stretta di cinque battute che sfocia nel movimento finale. Qui vari elementi del primo movimento vengono sottoposti a un interessante lavoro di trasformazione e compressione, generando un nuovo organismo tematico potente e incisivo, cui si contrappone, nella forma ma non nello spirito, un indimenticabile secondo tema: felicissima pittura sonora, se vogliamo, di quei due aspetti della propria personalità che Schumann aveva idealizzato nelle figure di Florestano e Eusebio. L’appassionato fervore del brano si accresce ancor più nella coda, che cambia due volte tempo e conclude la Sinfonia in un’atmosfera di febbrile esaltazione.

Felix Mendelssohn: Sinfonia n. 4 in la maggiore “Italiana” op. 90

La lunga gestazione della Sinfonia Italiana sembra contraddire l’immagine di un Mendelssohn compositore dalla vena fluente. Il primissimo spunto dell’opera risale all’estate del 1829, allorché il giovane musicista di Amburgo si trovava in Inghilterra, insieme ai primi abbozzi della Sinfonia Scozzese. Durante i lunghi vagabondaggi in Italia, nei due anni successivi, il progetto si consolidò senza tuttavia mettere capo a una stesura completa del lavoro, e fu solo dietro un invito della Società Filarmonica di Londra, nel 1832, che il compositore si risolse a riprendere e ultimare il manoscritto messo da parte. La prima esecuzione ebbe luogo nella capitale britannica il 13 marzo 1833; malgrado il successo,

Felix Mendelssohn

Mendelssohn non giudicò opportuno dare l’opera alle stampe (nel suo ricchissimo epistolario con gli editori, pubblicato da R. Elvers nel 1968, non si fa neppure menzione dell’Italiana), e quattro anni piti tardi sottopose la partitura ad attenta rielaborazione. Altre modifiche e ritocchi vennero apportati negli anni seguenti, e solo la morte prematura dell’autore rese definitiva la versione
che Julius Rietz fece conoscere nel novembre 1849 a Lipsia, alla guida dell’orchestra del Gewandhaus.
La più celebre sinfonia di Mendelssohn è un omaggio all’Italia, alla forma classica, e indirettamente alla grande arte di J.S. Bach. Vi si cercherebbero però invano temi popolari di chiara individuazione, come sarà in altri illustri affreschi sonori, da Caikovskij a Dvorak: il carattere ‘italiano’ della composizione andrà rintracciato piuttosto nella sua spumeggiante freschezza, nella cantabilità davvero mediterranea di molti temi, nella luminosità della magistrale strumentazione, che privilegia spesso i colori solistici sugli impasti, e fa un uso parsimonioso degli ottoni. La cornice formale è quella classica, in quattro movimenti con ordinati ritornelli e riprese, che nella snellezza delle proporzioni sembrano guardare soprattutto ai modelli haydniani e mozartiani, anche se è avvertibile qua e là (ampliamento degli sviluppi, ripresa variata), l’influsso della grande lezione beethoveniana. Ma in molti punti traspare anche il grande amore che Mendelssohn nutriva per Bach: emblematico è in tal senso l’Andante con moto, dove i contrappunti dei flauti al tema principale e soprattutto il movimento dei bassi sembrano realmente rievocare lo spirito barocco.
Il primo movimento, scritto nel trascinante ritmo di 6/8 tanto caro a Mendelssohn, presenta nella esposizione i due temi tradizionali della forma sonata: il primo guizza subito nei violini, su vibranti ottavi ribattuti dei legni, mentre a questi ultimi è affidato il più pacato secondo tema, accompagnato da arpeggi degli archi. Nello sviluppo, assai ampio, Mendelssohn introduce un terzo elemento tematico, che compare dapprima negli archi e viene subito sottoposto a una fitta elaborazione contrappuntistica, per poi intrecciare un serrato dialogo con il primo tema. La ripresa, magnificamente preparata da un lungo crescendo, è molto diversa dall’esposizione, e presenta una ulteriore elaborazione dei vari motivi; di particolare bellezza è la riproposta del secondo tema, affidato stavolta a viole e violoncelli che duettano per seste, su delicati arabeschi del flauto e del clarinetto. Di grande suggestione è l’inizio dell’Andante con moto che segue: archi e legni intonano all’unisono un solenne motto, basato sulla nota la, dominante di re minore; poi, sull’incedere dei bassi, l’oboe e i fagotti con le viole espongono la melodia principale, «leggermente malinconica, ma serena, che procede lenta come un dondolare di ninna nanna» (Della Corte e Pannain); nella sezione centrale i due clarinetti fanno udire un nuovo tema, sino al perentorio ritorno del motto di apertura che introduce la ripresa, sempre sostenuta dall’incessante moto dei bassi, cui è affidata la concisa coda.

Guido Cantelli

La venerazione di Mendelssohn per i grandi maestri del classicismo viennese traspare anche dal terzo movimento: che non è uno Scherzo, genere prediletto dall’autore, quanto piuttosto una nostalgica rievocazione dell’antico minuetto, pieno di grazia sfuggente e percorso specie nel trio, caratterizzato da marcati interventi di fagotti e corni, da una sottile inquietudine. La parentesi del Con moto moderato accentua ancora di più, per contrasto, l’esplosione di vitalità
ritmica del celebre Saltarello finale, l’unico brano dichiaratamente ‘italiano’ della sinfonia. Si tratta di una sorta di stilizzata tarantella, autentico banco di prova per il virtuosismo di orchestre e direttori: dal turbinio di terzine degli archi agli spericolati passaggi in staccato dei legni, tutto il brano è un’apoteosi del ritmo, pur mantenendosi lontano dai toni dionisiaci della Settima Sinfonia beethoveniana, e presenta straordinarie assonanze con il mondo fiabesco delle musiche per il Sogno dì una notte dì mezza estate. Verso la fine flauti e clarinetti sembrano citare il tema del primo movimento, e la prorompente energia scemare d’intensità, prima della brillantissima chiusa.