Schubert Franz

Sinfonie integrali

L’integrale schubertiana di Karl Böhm ha goduto di alcuni anni di sostanziale egemonia prima che entrassero in circuito quelle di Karajan, Abbado e Muti (per tacere di altri). Oggi, a confronto con tale e tanta concorrenza, le sue letture di alcune sinfonie rischiano, magari per illusione ottica, di figurare a tratti un po’ gracili e scolastiche, o comunque lapidarie e disadorne. Il che non toglie che, complessivamente, questa continui ad essere un’integrale di riferimento, e che per alcune sinfonie possa addirittura considerarsi insuperata.
La Terza (per la cronaca, salvo errori, l’unica della serie in cui vengano eseguiti tutti i ritornelli) è un autentico capolavoro di freschezza, vitalità ed equilibrio (molto più, ad esempio, di quella leggendaria di Kleiber, splendida nel suono ma strozzata da tempi nevrotici), in cui non si sa se apprezzare maggiormente la pienezza del suono o la trasparenza delle sfumature.
La riuscita più esemplare va però con ogni probabilità vista nella Quarta, anche perché si tratta del contrario di quel che ci si attenderebbe da un direttore apparentemente compassato come Böhm: la Tragica possiede la più tesa strumentazione della storia del disco, in cui colore orchestrale e scelta dei tempi

valorizzano in sommo grado il potenziale drammatico della partitura (l’unica sulla stessa linea è forse quella, troppo poco nota, di Kubelik). L’adagio introduttivo (di cui non si ricorda abbastanza spesso il legame col preludio della Creazione di Haydn) è teso ma senza retorica; l’Allegro vivace, rapido e scattante, ma senza gli eccessi di velocità di Karajan o di Kertész. L’Andante raggiunge straordinari livelli di respiro, cantabilità e trasparenza, mentre il minuetto è reso più compatto ed energico dal tempo rapido adottato nel trio. Al finale, per contro, giova l’andamento relativamente più moderato del consueto, che conferisce maggior rilievo drammatico alle figurazioni anelanti che accompagnano il tema principale. Registrazioni eseguite dal 1963 al 1975 e rimasterizzazione effettuata nel 1987. Nonostante la datazione, l’audio è più che buono. Imperdibile!

Karl Bohm

L’integrale delle sinfonie di Schubert, pubblicata nel 1978, è stata uno degli ultimi grandi cicli sinfonici presi in considerazione da Karajan, e l’unico, salvo errori, a venire inciso con i Berliner soltanto per la EMI. Soluzione che pare non aver giovato molto alle sue fortune commerciali, almeno a giudicare dalla non ottimale diffusione che ha avuta sinora sul mercato italiano. E’ lecito dunque auspicare che questa edizione economica faccia finalmente segnare un’inversione di tendenza, perché si tratta sicuramente di una delle versioni più belle di un ciclo che può vantare parecchie edizioni molto pregevoli, ma forse nessuna veramente perfetta.
Debbono ovviamente essere tenute distinte le ultime due sinfonie, eseguite e ripetutamente incise da Karajan lungo tutta la carriera, e le sei giovanili (oltre gli estratti dalla Rosamunda), affrontate praticamente soltanto qui (si ricorda un’isolata Quinta successiva, spiccatamente rapida e tagliente, incisa nel 1983). I due capolavori dello Schubert maturo non potrebbero essere più differenti sul piano poetico e più affini nella concezione musicale. L’Incompiuta è intrisa di autentico spirito tragico, lapidaria, austera e disperata dall’inizio alla fine, mentre la Grande è solare, luminosa e battagliera. Quel che le accomuna sono i
carismi specifici dell’interprete: non solo le consuete raffinatezze timbriche, ma soprattutto quella miracolosa fluidità ed elasticità organica che consente di individualizzare ogni passaggio e di conferirgli la giusta portata espressiva senza bisogno di alterare significativamente il tempo base (si confrontino, a contrario, l’Incompiuta dell’ultimo Bernstein e la Grande dell’ultimo Furtwängler, per non citare che due direttori della stessa levatura).
Nulla di sostanzialmente diverso, comunque, dalle altre incisioni: al massimo si può rilevare che lo Scherzo della Grande dura circa tre minuti più del solito perché vi viene eseguito un ritornello omesso altrove.

Kerbert von Karajan

Nelle sinfonie giovanili, ciò che più si fa ammirare è la (solita) pienezza e duttilità del suono, che è sontuoso nelle introduzioni alla francese delle prime sinfonie, ma sa anche, all’occorrenza, assottigliarsi sino all’impercettibile; e uno dei momenti più ammirevoli è il repentino effetto di “morendo” ottenuto nelle ultime battute dell’esposizione nel primo tempo della Quinta (c’è da domandarsi quanto di un simile effetto sia dovuto all’arte del direttore e quanto a quella dei tecnici di laboratorio).
Qualche sorpresa riserva la scelta dei tempi: che di solito si attestano nel giusto mezzo, ma proprio ciò fa maggiormente risaltare talune soluzioni estreme. E’ il caso della notevole rapidità impressa al primo e all’ultimo tempo della Quarta, a rischio di pregiudicarne la tensione drammatica; o all’opposto, della lentezza del minuetto della Prima (che, fra i minuetti delle sinfonie di Schubert, è forse l’unico ad essere tale di fatto e non solo di nome, ma è pur sempre indicato Allegro).
Il tempo più curioso resta però quello che s’incontra nel finale della Sesta, dove l’Allegro moderato è concepito con tale moderazione da farne quasi un andante: col risultato, a sorpresa, di farlo apparire come una sorta di premonizione dell’Andante della Grande (eseguito invece piuttosto rapido). Il che dimostra che sotto le stravaganze del genio spesso si celano le illuminazioni.
Resta da dire che questa singolare Sesta fu scelta dalla Filodiffusione italiana, nel pomeriggio del 16 luglio 1989, per dare l’ultimo saluto al Maestro. Registrazioni eseguite dal 1977 al 1978 e rimasterizzazione effettuata nel 2010. Audio ottimo. Altamente raccomandato

Dopo l’uscita della monumentale “Symphony Edition” nel 2014, già l’anno scorso la Deutsche Grammophon aveva iniziato una sistematica pubblicazione delle integrali sinfoniche realizzate da Claudio Abbado, riproponendo l’eredità del Maestro milanese in nuovi cofanetti divisi per autori, presentando in prima battuta le celebri integrali di Bruckner, Brahms, Mahler e la raccolta delle incisioni concertistiche e sinfoniche mozartiane con i complessi bolognesi dell’Orchestra Mozart. Ora l’avventura continua (e si completa) con la pubblicazione delle integrali di Beethoven, Schubert, Mendelssohn e Haydn, che si distinguono dalle precedenti per racchiudere al loro interno non solo i lavori sinfonici, ma anche altre composizioni non strettamente sinfoniche e precedentemente “sparse” in altre incisioni effettuate da Abbado lungo tutta la sua carriera.
Pur essendo trascorsi solo quattro anni (2011) dall’uscita del cofanetto con la celeberrima integrale sinfonica schubertiana, la Deutsche Grammophon ha deciso di pubblicarlo in questa nuova veste, riunendo in 8 cd tutte le splendide interpretazioni di Abbado nel repertorio del compositore viennese, corredate dai lavori sacri, precedentemente pubblicati in due cd separati e accompagnati dal “Requiem fur Mignon” di Schumann. I più affezionati seguaci di Abbado sanno bene che, tra il 1988 e il 1989, il Maestro realizzò con la Chamber Orchestra of Europe una integrale delle Sinfonie di Schubert rimasta memorabile (un vero banco di prova per le successive interpretazioni comparse in discografia), perché vantava non solo una coerenza interiore ed esteriore, ma anche una naturale solarità, una freschezza, un’eleganza ed una espressività che traevano la loro forza dal profondo lavoro filologico promosso da Abbado: egli, lavorando sui manoscritti originali conservati a Vienna, ebbe modo di portare a nuova luce importanti pagine che hanno permesso di guardare con occhi nuovi ed ascoltare con orecchie altrettanto nuove i capolavori di questo pilastro della Scuola Viennese, liberi dalle ‘incrostazioni’ e dalle convenzioni interpretative accumulatesi in duecento anni. Allora Abbado, forte di quest’opera di riscoperta, consegnò al disco le otto sinfonie in una veste completamente diversa dalle precedenti, abolendo le eccessive leziosità dalle sinfonie giovanili, e lasciando all’orchestra la libertà di esprimersi in tutta la sua forza e solarità quando necessario: ne risultò uno Schubert quanto mai umano, che dunque non solo nel Lied, ma anche nella sinfonia, con mezzi e sonorità diverse, eppure con lo stesso linguaggio, si confessa e apre completamente il suo più profondo intimo all’ascoltatore, lasciandogliene intravedere le ombre, i chiaroscuri, le luci, in un impareggiabile tripudio di colori e stati d’animo. Una integrale, questa di assoluto riferimento sotto ogni aspetto, perché esalta lo slancio romantico delle prime Sinfonie, esalta senza pesantezze la drammaticità della Quarta “Tragica”, analizza a fondo e nel dettaglio l’apparentemente semplice discorso musicale della Quinta e della Sesta, e fa vere e proprie faville nell’Ottava “Incompiuta” e nella Nona “La Grande”, confrontandosi ad armi pari con le versioni più celebri, da Karajan a Kertesz, passando per Karl Bohm. Nella Nona, tuttavia, Abbado è riuscito a battere sé stesso con la acclamata e recente uscita della “Grande” con l’Orchestra Mozart, che non dovrebbe davvero mancare al melomane che desiderasse avere l’estrema testimonianza abbadiana in questo pilastro del repertorio sinfonico.
Il cofanetto del 2011 comprendeva anche il magnifico “Grand Duo” D812, originariamente per pianoforte a quattro mani e successivamente orchestrato da Joseph Joachim, ma questo box si spinge ben oltre, aggiungendovi le splendide musiche di scena complete dalla “Rosamunde” D797, i lieder in versione orchestrale usciti nel 2002 con le ottime voci di Anne Sophie von Otter (magistrale nel lied “Die Forelle”/”La Trota”) e Thomas Quasthoff (eccelso nel tenebroso “Erlkonig” e struggente in “An Die Musik”), le Messe n. 2 D167 e n. 6 D950 (1986- 1990), il “Tantum Ergo” D962 ed il Salmo 23 “Gott meine Zuversicht” D706 (1990), con protagonisti il fulgido Coro dell’Opera di Stato di Vienna, Barbara Bonney (soprano),Marjana Lipovsek (contralto), Andreas Schmidt (basso), Jorge Antonio Pita (tenore), Margaretha Hinterheimer (mezzo soprano) e Dalia Schaechter (contralto). In particolare, le opere sacre di Schubert, pur ricche di passaggi musicali elevatissimi e geniali, mostrano tutte le sfaccettature della peculiare spiritualità del compositore che, in personale conflitto e polemica con le autorità ecclesiastiche e con l’opprimente autorità paterna, decise di sopprimere dal testo del “Credo” la parte che recita “Et unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam” (“Credo la Chiesa una, Santa, Cattolica e Apostolica”), gesto eloquente e rivoluzionario di un suddito austroungarico decisamente anticonformista.
Peccato che nella presente raccolta non sia ricompresa (chissà perché?) anche la celebrata incisione live del “Fierrabras” del 1988, che vedeva protagonisti la fedele Chamber Orchestra e lo splendido Arnold Schonberg Chor di Vienna, insieme a un cast che vantava la presenza di Thomas Hampson, Karita Mattila, Laszlo Polgar e Josef Protschka, tuttavia reperibile da tanti anni e a prezzo accessibile nella collana “DG 2CD”. Si tratta di una delle poche prove operistiche di Schubert, e per questo è grande il merito di Abbado per averla riscoperta ed essersi impegnato nella sua diffusione.
Salvo questa piccola ma non trascurabile dimenticanza, questo cofanetto rappresenterà certamente un’ottima occasione per scoprire gli splendori schubertiani di Abbado, e per i melomani più navigati un’opportunità per riscoprirli o per aggiungere alla propria collezione il repertorio sacro e liederistico- orchestrale meno noto ma validissimo.
Buon ascolto!

Sinfonia n. 1 in re maggiore D. 82

Il problema dei temi ripetuti più volte, in quanto tali e senza sviluppo, costruttivo, o delle lungaggini anche se celestiali, secondo il noto giudizio di Schumann riferendosi alla Sinfonia in do detta «La grande», ha sempre suscitato discussioni e pareri discordi sulla musica di Schubert; soprattutto per quella strumentale e sinfonica, che nei primi esperimenti risentì in modo evidente l’influenza dei modelli mozartiani e beethoveniani. Per questa ragione Nietzsche considerò Schubert un artista inferiore agli altri grandi maestri che lo precedettero, «pur avendo fra tutti la maggiore ricchezza ereditaria musicale», mentre il critico musicale tedesco Walter Dahms, autore di un importante studio biografico sul grande liederista viennese, ha cercato di giustificare e spiegare questo modo di comporre di Schubert scrivendo che l’«estensione e la lunghezza dei suoi tempi sono da riferirsi al fatto che Schubert, da spirito eminentemente romantico, non viene lasciato in pace dal tema una volta proposto. Deve continuamente rivoltarlo e rimaneggiarlo, e può plasmare la sua opera d’arte solo dietro l’impulso di codesto gioco, non già in rapporto all’architettura musicale. Poiché non era dato alla sua natura di agire in profondità con l’evocare e l’elaborare forti tensioni, egli sentiva il bisogno, per esprimersi compiutamente, di agire in estensione con le sue combinazioni sonore».
Anche Brahms, che pur teneva in molta considerazione la struttura formale della composizione, cerca di capire le ragioni per cui Schubert tornava spesso sullo stesso tema e, a proposito delle prime sinfonie di questo autore, osserva: «Contrariamente a Beethoven, che mira costantemente a raggiungere un’estrema concisione espressiva, Schubert ci dimostra, con queste alterazioni nei suoi valori, l’autentico piacere che prova nel servirsi di mezzi musicali ampi e liberi, che non possono soffermarsi con sufficiente precisione sul materiale sonoro in essi contenuto». Ciò vuol dire, in poche parole, che Schubert concepiva e scriveva le sue composizioni sinfoniche con spontaneità e immediatezza di sentimento e secondo una freschezza inventiva, ricca di idilliaca innocenza, increspata da quel senso elegiaco della vita, tipico della personalità di questo musicista. Tali caratteristiche si ritrovano nella Sinfonia n. 1 in re maggiore, finita di scrivere il 28 ottobre del 1813 e dedicata a Franz Innocenz Lang, rettore del Reale Imperiale Convitto Civico di Vienna nel quale l’artista sedicenne si distinse nello studio del canto e del violino. Non si sa bene dove e come venne eseguita questa Sinfonia mentre l’autore era in vita; è certo però che la prima esecuzione completa dì questa partitura ebbe luogo il 5 febbraio 1881 al Palazzo di cristallo di Londra, sotto la direzione di orchestra di August Manns. Probabilmente il fatto che essa sia stata composta nello spirito haydniano e mozartiano ha influito negativamente sulla sua diffusione e ancora oggi viene inserita raramente nella programmazione dell’attività concertistica. Nell’Adagio introduttivo, caratterizzato da vigorose figurazioni in ritmo puntato e su armonie nelle tonalità di tonica, dominante e sottodominante, si riscontrano affinità beethoveniane con l’ouverture del Prometeo e con la Sonata Patetica. Una frase degli strumentini, sostenuta da un pianissimo di tutta l’orchestra, sfocia nell’Allegro vivace in re maggiore, avviato da un tagliente unisono seguito da una scaletta ascendente dei violini, su un ritmo spigliato e fosforescente. Al primo tempo ne segue subito un altro di straordinaria scorrevolezza melodica, abbastanza elaborato e sviluppato alla maniera mozartiana. Su una modulazione dei fiati si ritorna al tema introduttivo e quindi il discorso assume un tono classicamente regolare, con l’immancabile coda.
L’Andante in sol maggiore in tempo 6/8 si distingue per la sua cullante cantabilità, resa particolarmente penetrante nel gioco timbrico tra gli archi e i legni, trattati quest’ultimi in maniera molto delicata e suadente. La forma è quella del Lied, in cui il tema principale viene ripetuto e variato più volte in diverse tonalità. Il Menuetto si articola in due parti: la prima scandita ritmicamente e la seconda più dolcemente sfumata nell’espressione. Il Trio, nella stessa tonalità di re maggiore, è tipicamente schubertiano per la spensieratezza e ingenuità dell’andamento melodico (ogni sezione reca il segno del ritornello). L’Allegro vivace finale in re maggiore è un rondò costruito su due temi, contrassegnati da brillanti figurazioni in varie tonalità e da una invenzione melodica cordialmente festosa e ottimistica.

Sinfonia n. 2 in si bemolle maggiore D. 125

La «Seconda Sinfonia» in si bemolle maggiore fu cominciata da Schubert all’età di diciassette anni, il 10 dicembre 1814, e terminata due mesi dopo. Come tutte le composizioni sinfoniche di Schubert, anche questa non conobbe alcuna esecuzione pubblica vivente l’autore. Essa entrò, probabilmente, a far parte del repertorio dell’orchestra di dilettanti che Otto Hatwig prima e Anton Pettenkofer poi diressero in case private viennesi fra il 1815 e il 1820: sembrerebbero provarlo le numerose parti d’orchestra che sono state ritrovate. Per vedere la sua prima esecuzione pubblica la sinfonia dovrà attendere quasi cinquant’anni dopo la morte del musicista, e precisamente il 20 ottobre 1877, quando sotto la direzione di August Manns fu presentata al Crystal Paiace di Londra.
Il primo tempo, di singolare estensione, fu forse originariamente concepito come una ouverture indipendente e solo successivamente adottato come parte di sinfonia. Esso consiste in un «Largo» introduttivo, che richiama l’analogo della «Sinfonia» in mi bemolle maggiore di Mozart per l’alternanza fra gli accordi ribattuti dei fiati e i disegni discendenti degli archi, e in un «Allegro vivace», che invece ricorda andamenti beethoveniani, segnatamente della «Seconda Sinfonia», del «Triplo Concerto» e dell’ouverture del «Prometeo». Restano cosi chiaramente indicati i modelli sinfonici a cui il giovanissimo Schubert si ispira. E tuttavia, la lunghezza stessa di questo primo tempo già denota il carattere poetico tipicamente schubertiano, lontano sia dalla stringatezza mozartiana, sia dalla serrata dialettica beethoveniana, e derivante dal lirico isolamento dell’immagine per entro la sconfinatezza del discorso musicale, il quale dilata i limiti della forma sonata anche in virtù di un’invenzione armonica di ineffabile ricchezza. Brahms vide appunto nella dimensione della composizione schubertiana, e proprio a proposito di questa «Seconda Sinfonia», «la testimonianza della freschezza e dell’immediatezza con cui egli programmava e scriveva le sue opere».
Cosi, se a Haydn può essere riportata la melodia del secondo tempo («Andante»), schubertiane al cento per cento suonano le cinque variazioni e la coda che seguono, per i miracolosi riflessi armonici e timbrici che il tema vi acquista e per l’abbandono contemplativo con cui si offre ogni volta. Né meno personale è il «Trio» che inframmezza il vigoroso «Minuetto» (terzo tempo), con la deliziosa melodia dell’oboe imitata dal clarinetto.

August Manns

Mentre il finale («Presto vivace») il suo potere incantatorio lo esercita per via del modulo ritmico che vi domina da capo a fondo, insistito sino ad additare, di là dalla forma che lo costringe, più liberi sviluppi.

Sinfonia n. 3 in re maggiore D. 200

Schubert, che nei Lieder aveva scoperto nuove ragioni della sensibilità umana con incredibile precocità, nelle Sinfonie era rimasto fedele ai modelli di Haydn e Mozart senza quasi misurarsi con la creatività espletata da Beethoven in questo settore; nei Lieder aveva bruciato le tappe del genio romantico (Margherita all’arcolaio è del 1814, il compositore aveva diciassette anni), nelle Sinfonie restò un classico, anzi un classicista (da questa etichetta, naturalmente, sono escluse l’Incompiuta e la Sinfonia in do maggiore detta “Grande”); tuttavia anche nel delicato drappello di quelle prime prove orchestrali la misura e la mano del gusto schubertiano conquistano con l’emersione di frasi, momenti e pagine incantevoli.
La maggior parte delle Sinfonie nascono fra il 1813 e il 1818, nella prima giovinezza di Schubert; nessuno di questi lavori non che imporsi, circolò presso i contemporanei; sorte comune del resto ai due capolavori sopra ricordati, nati nel 1822 e nel 1828 ed entrambi divenuti famosi molti anni dopo la morte del compositore. La Terza Sinfonia in re maggiore viene alla luce nel 1815 (l’avvio, per una cinquantina di battute, nel mese di maggio, tutto il resto fra l’11 e il 19 luglio), anno assai fitto di creazioni; basti pensare alla marea di 145 Lieder e a vari lavori teatrali tra cui il Singspiel Claudine von Villa Bella. Come quasi tutte le Sinfonie di Schubert anche la Terza si apre con un adagio introduttivo (particolarità più cara a Haydn che a Mozart), qui un conciso Adagio maestoso che sfocia nell’Allegro con brìo: è il clarinetto che apre il discorso con un tema dall’arguzia rossiniana ed è un altro legno, l’oboe, che espone il secondo tema, per nulla desideroso di azzuffarsi beethovenianamente con il primo. Non c’è movimento lento, ma un Allegretto nella più semplice forma ternaria; il primo episodio ricorda ancora Haydn, in qualche sua preziosa orologeria, l’episodio centrale è affidato al clarinetto e si presenta con una cordialità di tipo operistico. Di umore più bizzarro, per l’anomalia dell’accentuazione ritmica, è il Minuetto che strapazza un po’ la cerimoniosità della vecchia danza; nel Trio intermedio, oboe e fagotto, a braccetto come due vecchi bricconi, abbozzano un passo di danza, qualche riverenza, ma si sente subito che muoiono dalla voglia di ridere. Finale alla tarantella (Presto vivace) in una pagina scintillante che preannuncia la soleggiata Italiana di Mendelssohn.

Sinfonia n. 4 in do minore D. 417 “ Tragica”

La Terza Sinfonia di Beethoven è del 1804: Vienna l’ascoltò nella prima esecuzione pubblica, il 7 aprile 1805, al Theater an der Wien. Schubert aveva compiuto da poco otto anni. Con l’Eroica, come tutti sappiamo, il genere sinfonico e il suo stile mutarono indole e intenzioni perché con l’Eroica essi si erano impegnati in ideali e in modi espressivi fino a quel momento inimmaginabili. Fu, dunque, un cambiamento radicale di civiltà e di spiriti musicali, o almeno tale appare a noi posteri che leggiamo, e ascoltiamo, il grande passato del sinfonismo austro-tedesco secondo un “prima” e un “dopo” Beethoven. E certamente vero che la Terza di Beethoven ha segnato un confine, di cui furono consapevoli anche molti dei contemporanei, tuttavia le abitudini, i gusti, le tecniche non si dissolsero lì per lì, dopo il successo di quel 7 aprile 1805. E le scuole, gli istituti musicali, le accademie, le serate dei dilettanti continuarono a prosperare con la musica del Settecento. E così visse Schubert i suoi primi anni di pratica musicale.
Nel 1808, quando aveva undici anni, Schubert aveva già ampiamente dimostrato di possedere superiore genio musicale, al padre, ai fratelli, al suo primo maestro di armonia e contrappunto, l’eccellente organista della parrocchia di Lichtenthal, Michael Holzer (molti sono gli aneddoti relativi alla stupita ammirazione di Holzer per il suo piccolo allievo: «Ha l’armonia nel sangue», pare abbia detto; oppure, in seguito: «Se gli voglio spiegare qualcosa di nuovo, lui la sa già. In verità non gli ho insegnato nulla, mi sono intrattenuto con lui ammirandolo in silenzio»). Nel settembre 1808, dunque, Schubert fu il primo nel concorso per l’ammissione al Convitto dei cantori per la Cappella di Corte. Soggiorno, mantenimento, studi letterari e musicali erano gratuiti. Il padre sperava di farne un maestro di scuola, ma con suo dispetto (che nei primi anni fu vero sdegno) ne uscì un musicista, grande e maturo. Nel Convitto Schubert s’era istruito, o meglio perfezionato, in tutto, ammirando, criticando, assimilando, perché cantava in coro nelle funzioni religiose e nelle cerimonie, copiava le parti e soprattutto era il migliore (come violino o viola) nella minuscola orchestra. Suonavano tutte le sere, Sinfonie e Quartetti di Haydn e di Mozart, Ouvertures, e altro repertorio di moda allora: i Quartetti di Johann Albrechtsberger, le musiche della cosiddetta scuola di Vienna (specialmente dei maggiori, Karl Ditters von Dittersdorf e Georg Wagenseil) e le Sinfonie di Leopold Kozeluch o quelle di Franz Krommer, che Schubert detestava. E di Beethoven? Le prime due Sinfonie e qualcuna delle Ouvertures (per esempio quella del Coriolano), che per una scuola tradizionale segnavano il massimo della modernità.
Schubert e Beethoven – un rapporto artistico profondo e sfuggente, di cui hanno già parlato tutti e di cui non si può evitare di parlare. In quel primo decennio del secolo la perplessità e l’incertezza comuni tra i musicisti di fronte a un’innovazione così radicale del linguaggio e dei fini della musica sorpresero anche Schubert, anzi lui per primo. E per quanto miracolosamente precoce egli fosse, era pur sempre poco più che un bambino. Anche su questo rapporto ci sono arrivati numerosi aneddoti e ricordi, perché i molti amici, fedelissimi, che Schubert si conquistò, dall’infanzia alla morte tragicamente prematura, hanno molto parlato di lui. Per esempio, a Joseph von Spaun che lodava con calore alcuni Lieder, Schubert rispose: «Qualche volta anche io sento dentro di me che potrei concludere qualcosa di buono. Ma chi mai ci riesce dopo Beethoven?».
Dunque, il più giovane artista visse e consolidò le sue energie creative all’ombra dell’artista sommo, lo incontrò più volte in occasioni pubbliche, non lo conobbe mai di persona. “All’ombra”: anche questa è l’espressione che sempre ricorre quando si deve riflettere su Schubert e Beethoven. È una parola efficace, forse necessaria (ché un genio della statura di Beethoven ha gettato ombra nonché sulla sua epoca, sull’intero suo secolo), ma può essere anche ingannevole a proposito di Schubert, perché egli era sereno, forte, perfino nelle tristezze e nelle desolazioni, luminoso, immensamente fecondo e originale. Perciò venerò, sì, Beethoven come pochi o nessun altro in quegli anni, ma ciò che di assoluto e grande egli ha creato “all’ombra” di Beethoven non è “beethoveniano”. Un po’ diverso sarebbe il discorso per le composizioni che Schubert creò dopo la morte di Beethoven, nel prodigioso anno e mezzo che gli rimase da vivere (soprattutto riguardo alla grande Sinfonia in do maggiore, nella quale Schubert attuò in modo originale e perfetto la grande forma sinfonica). Ma qui restiamo all’artista adolescente.
«…Ma chi mai ci riesce dopo Beethoven?». Nella Sinfonia Schubert si cimentò per la prima volta a sedici anni, nel 1813, quando la Settima di Beethoven era compiuta ma non era ancora nota. Del resto, in nessuna delle prime tre Sinfonie del ragazzo (ottobre 1813, marzo 1815, luglio 1815) si riconosce una qualche impronta certa del sinfonismo beethoveniano. Nello stile strumentale Schubert si era formato, come ho già detto, sugli autori, maggiori e minori, del Settecento e le sue prime Sinfonie ne continuano i caratteri o, almeno, appartengono al processo di trasformazione estetica tra il “prima” e il “dopo” Beethoven: e, al massimo, ripercorrono gli elementi di sintesi linguistica e di drammaticità espressiva tipici delle pagine più ardite di Haydn e di Mozart. Di suo Schubert ci mise, e già non è poco, l’irrequietezza armonica e il delicato piacere della divagazione.
Differente è il discorso per la Quarta Sinfonia, compiuta il 27 aprile 1816 (sarà bene ricordare che tra il 1815 e il 1816 Schubert compose, per tacere di altro, più di duecentocinquanta Lieder, tra i quali ci sono capolavori supremi).

Crystal Palace di Londra

Già il sottotitolo Die Tragische (Sinfonia Tragica), che si deve all’autore stesso, riecheggia il ben più celebre epiteto della Terza di Beethoven e dimostra una volontà espressiva elevata e forte e il proposito di accogliere il nuovo spirito della Sinfonia. Già Haydn, e non lui solo, aveva assegnato un sottotitolo a qualcuna delle sue Sinfonie, riferendosi però all’occasione del lavoro o al suo contenuto specifico, non al suo significato ideale, e dunque non destinando la musica a un fine drammatico e umanitario-etico. Anche nel rinforzo dell’organico orchestrale (quattro corni) intravediamo un impegno maggiore, un progetto di sonorità più robusta, più moderna. Eppure in quel sottotitolo c’è una certa ingenuità perché in queste pagine, che sono vigorose e concitate, di veramente “tragico” non c’è traccia. E se l’accento vi è anche virile ed eroico, non sentiamo tuttavia una vicenda di contrasto tra volontà e destino e di sconfitta o di eroica rassegnazione. Anzi, se non fosse per la lirica malinconia del primo tema nel secondo movimento, il carattere di questa musica è fervido e luminosamente affermativo, limitandosi per lo più lo svolgimento sinfonico alla contrapposizione, talora originalmente brusca, tra modo minore e modo maggiore (con il decisivo successo del do maggiore nel finale del primo e del quarto movimento) e alle modulazioni, quasi sempre sorprendenti ed efficaci, tra varie tonalità, anche tra quelle tra loro lontane (che del resto è un tratto inconfondibile dello stile di Schubert).
Una breve introduzione mesta e grave ci accompagna allo slancio agitato del primo tema in do minore, la cui cellula iniziale (tre note ascendenti) torna come elemento costitutivo anche altrove. La presentazione del secondo e terzo tema avviene tra molte sorprese armoniche, perché si arriva al do maggiore del terzo
tema, passando per la bemolle maggiore e mi maggiore. Lo sviluppo tematico è conciso e la conclusione energica e positiva. L’Andante del secondo movimento è in forma doppia tripartita (A-B-A A’-B’-A) con opposizione tra melodia lirica (la bemolle maggiore, la prima volta) e stacco agitato (fa minore, le tre note ascendenti). Il Menuetto (Allegro vivace) mantiene il carattere di concitazione affettiva e di irrequietudine che si conclude in affermazione vigorosa; nel Trio ricompare la cellula delle tre note. Il movimento conclusivo, che muove da do minore a do maggiore attraverso aree tonali remote, è, come il primo, in forma- sonata, cioè si evolve in una dinamica molto movimentata di tre temi con agili modulazioni. Nemmeno nel grandioso Finale Schubert rinuncia, in prossimità degli ultimi accordi di do maggiore, a una sua ardimentosa e fulminea divagazione.

Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore D. 485

Con la semplicità e l’intelligente modestia che erano in lui naturali, Schubert diceva: «Scrivo musica tutte le mattine e quando ho finito un pezzo, ne comincio un altro». Veramente, i suoi pezzi non sempre li finiva (lasciò a mezzo molti lavori, nell’urgenza di commissioni occasionali o per mutamento di umore), ma di comporre musica e ancora musica, ogni genere di musica, non fu mai stanco.
Nel 1815 e nel 1816 Schubert lavorò, di sicuro, «tutte le mattine», col suo solito orario, dalle nove alle due del pomeriggio, e lavorò forse anche in altre ore del giorno, che la produzione di quei due anni è impressionante per quantità e qualità. Poco più che un ragazzo, a diciotto anni era un artista originale e maturo: e tra le angustie materiali era anche un artista felice. L’amicizia era per lui l’affetto primario della vita ed egli aveva, ormai, alcuni amici solleciti e fedeli (e fedeli gli restarono oltre la sua morte: lo sventurato poeta Johann Mayrhofer, i cui modesti versi sono eternati in tanti Lieder, non potè rassegnarsi alla perdita dell’amato Schubert e nel 1836 si uccise); cominciava poi a guadagnare con la sua musica (e annotava nel diario: «17 giugno 1816, oggi per la prima volta sono stato pagato per un mio brano»; che era la cantata Prometheus, purtroppo perduta) e a diventare famoso. Lo stimava anche qualche personaggio illustre, primo fra tutti il celebre tenore dell’Opera Johann Michael Vogl (solo Goethe e Beethoven, che entrambi Schubert venerava, non si occuparono mai di lui).
Nel 1816, dunque, il giovane Franz scrisse, a tacer d’altro, un’opera, Die Bürgachaft, che però lasciò incompiuta, la Messa in do maggiore, uno Stabat Mater su testo tedesco di Klopstock, un Magnificat, due Tantum ergo, il meraviglioso Quartetto in mi maggiore op. 125, le tre Sonate per pianoforte op. 137, trenta Danze per pianoforte, molti lavori per coro – e 115 Lieder! Ma non basta: ci sono anche, in quell’anno, due tra le sue grandi sinfonie, la Quarta in do minore, detta “Tragica”, e la Quinta in si bemolle maggiore, conclusa alla fine di ottobre.
Tra il 1815 e il 1820 in casa Schubert si tenevano concerti con un’orchestra di dilettanti (Franz, che però dilettante non era, suonava la viola), dapprima minuscola e adatta solo a trascrizioni per archi di sinfonie di Haydn, Mozart e altri minori, poi via via più consistente e tale da eseguire lavori di un certo impegno nella stesura originale (anche qualche sinfonia di Beethoven). Schubert scriveva spesso musica per l’orchestra di famiglia e, variando di essa l’organico secondo gli impegni dei componenti, egli adattava caso per caso la strumentazione. Se aveva progettato una sinfonia e per la serata sarebbero stati assenti un flauto, il clarinetto, la tromba e il timpanista, Schubert scriveva la sua sinfonia, facendo di essi a meno; e così scrisse lo stesso un capolavoro, la sua Quinta, appunto.
È naturale che l’organico ridotto abbia regolato le proporzioni, e ridotte anch’esse, e certi caratteri formali che di proporzioni e durate sono la premessa. La Quinta sinfonìa di Schubert è, infatti, semplice, breve, cordiale ed è anche sobria e spedita nella tecnica propriamente sinfonica (il che, in passato, è stato definito un suo limite, ma a torto): ma è serena, armoniosa, classicamente aristocratica. Siamo nel 1816 e Beethoven ha già scritto la sua Ottava: il genere della sinfonia ha cambiato in tutto lo stile, col tono alto e grandioso, e il carattere, nel contenuto di tensioni drammatiche e conflitti. Con Beethoven il musicista di una sinfonia è veramente «l’eroe che parla all’umanità» (come dice Paul Bekker).
Nessuno di questi mutamenti si avverte nella Quinta di Schubert, il quale aveva, sì, provato lo spirito beethoveniano nella sua Quarta, ma con risultati incerti. Con la Quinta egli torna a Haydn e a Mozart (che è il modello esplicito di questa Sinfonia, almeno per quel che riguarda l’invenzione tematica: esplicito fino alla citazione scoperta, come accade nel sublime secondo movimento, il cui avvio ripete il Rondò della Sonata in fa maggiore per violino e pianoforte K. 377); anzi, nei quattro movimenti tradizionali della Quinta la dinamica espressiva è perfino più essenziale e schietta che nelle Sinfonie “Londinesi” di Haydn. Sempre, infatti, sulla elaborazione tematica prevale la cordiale e fiduciosa invenzione lirica: non c’è contrasto, non c’è dramma, c’è solo l’evoluzione di sentimenti positivi verso una franca, trasparente allegria conclusiva. E l’andamento generale della Sinfonia è spedito e vivace, il suo passo è energico e euforico. Certo, c’è l’intenso, commovente Andante con moto, il mirabile secondo movimento (uno dei capolavori strumentali di Schubert e forse, osiamo dire, del sinfonismo romantico), malinconico e pensoso: qui ci sono, e si nascondono, le divine irregolarità dello stile di Schubert, le modulazioni ardite, le screziature armoniche, le sentimentali ombreggiature di colore. Questo, nella naturale evoluzione degli affetti, è il momento dell’introspezione (ed è vero che in interiore del genio noi percepiamo il dolore del mondo). Poi la luce si rifà chiara, e il giovane artista, sorridente, riprende a parlare, senza accenti eroici, agli amici e a noi.

Sinfonia n. 6 in do maggiore “La Piccola” D. 589

Delle otto Sinfonie di Franz Schubert che sono giunte ai posteri in forma completa – laddove il concetto di “completezza” si riferisce non al numero dei movimenti compiuti ma all’integrità e all’eseguibilità della loro stesura; dunque fra le complete ha posto anche la celebre “Incompiuta” – solamente le ultime due (appunto l'”Incompiuta” e la “Grande”) sono opere dell’autore maturo, giunto al pieno possesso dei propri mezzi espressivi. Le prime sei Sinfonie, scritte fra il 1813 e il 1818 (fra i sedici e i ventuno anni) sono da considerarsi piuttosto alla stregua di esperienze formative, lavori di fattura anche pregevolissima e di interesse sommo, ma esercitazioni nella difficile tecnica di scrittura orchestrale più che libere manifestazioni della creatività del musicista – creatività che aveva invece già trovato una personalissima definizione nell’ambito della produzione cameristica e liederistica.
Non a caso le Sinfonie giovanili non furono destinate dall’autore alla esecuzione pubblica, ma furono concepite come saggi scolastici, o come materiale per un’orchestra di dilettanti, in una dimensione di musica “domestica” che sembra incompatibile con una grande ambizione “sinfonica”. Lo stesso Schubert, in una lettera del 1823, mostrava di essere cosciente di non avere ancora raggiunto dei risultati pienamente originali in campo sinfonico, allorché scriveva: «Veramente non ho nulla per grande orchestra che potrei presentare al mondo con la coscienza tranquilla… Devo pregarti di perdonare la mia incapacità di soddisfare la tua richiesta, ma sarebbe dannoso per me presentarmi con qualcosa di mediocre».

Theater an der Wien

Mediocri certamente non sono le prime Sinfonie, anzi; nella loro ricerca di un linguaggio autonomo, di un personale approccio alla forma sinfonica, esse sono senz’altro gli unici lavori del loro tempo che possano essere considerati degni di un qualche rilievo se accostati con i capolavori beethoveniani. Nel cammino del compositore verso una propria consapevolezza stilistica, la Sesta Sinfonia in do maggiore – detta “piccola” per distinguerla dalla “grande” Sinfonia nella medesima tonalità; scritta fra l’ottobre 1817 e il febbraio 1818 ma eseguita solamente dieci anni più tardi, in un concerto commemorativo per la scomparsa dell’autore – costituisce un prezioso momento di crescita e di acquisizione di nuovi modelli stilistici, il primo dei quali dovrà essere riconosciuto nell’influenza di Rossini.
La musica del compositore italiano sarebbe divenuta veramente di moda a Vienna dopo il 1822, quando tutta la troupe del San Carlo di Napoli, guidata dall’impresario Barbaja e dallo stesso maestro, si trasferì nella capitale dell’impero per eseguire Zelmira. Ma già da diversi anni le opere di Rossini erario approdate a Vienna suscitando interesse e scalpore. Nel 1816 era stata la volta della farsa semiseria L’inganno felice, seguita l’anno seguente da Tancredi, L’Italiana in Algeri, Ciro in Babilonia, e poi in seguito da Otello, Elisabetta regina d’Inghilterra, Il barbiere di Siviglia, Il turco in Italia. Le reazioni dei compositori tedeschi di fronte a questa sorta di “invasione” furono
generalmente ostili; basterebbe pensare ai commenti sarcastici di Spohr e Weber, dettati peraltro più da nazionalistica avversione verso la musica italiana che da argomentazioni musicali e drammatiche. Ben diverso l’atteggiamento di Schubert, che il 19 maggio 1819 poteva scrivere a un amico: “Recentemente è stato eseguito qui a Vienna l’Otello di Rossini. A parte Radicchi era abbastanza ben dato. Quest’opera è di gran lunga migliore cioè più caratteristica del Tancredi. Non si può negare che lui abbia un genio straordinario. L’orchestrazione è a volte molto originale, così come lo è la scrittura vocale, a parte le solite galoppate italiane, e le molte reminiscenze del Tancredi”.
Grande considerazione dunque – rivolta principalmente a due opere drammatiche e non buffe – che non ha mancato di stupire studiosi anche insigni, pronti a ridimensionare l’influsso del maestro italiano su quello austriaco. Eppure il nucleo del problema risiede nel fatto che l’humus culturale in cui Schubert era cresciuto non era affatto antitetico a quello di Rossini. Se quest’ultimo veniva definito durante gli studi “Il tedeschino” per la sua imitazione dei modelli haydniani, Schubert aveva dal canto suo studiato con Salieri ed aveva profondamente assimilato la musica italiana. A vent’anni, in cerca di una propria autonoma strada rispetto ai prototipi del classicismo, di una emancipazione dagli schemi haydniani su cui ancora si erano edificati i primi lavori sinfonici, Schubert non poteva ignorare le novità che la musica di Rossini portava sulla scena europea. L’energia propulsiva dell’orchestra rossiniana, i suoi infallibili giochi di colori, il gusto del fraseggio e il senso della forma dovevano rivelarsi direttamente nelle due Ouvertures in stile italiano del 1817, e venire poi filtrati con maggiore discernimento nella Sesta Sinfonia.
La quale partitura si nutre di una personalissima commistione di ascendenze dissimili, e proprio da tale commistione trae la sua originalità e la sua inalterata efficacia. Haydn e Beethoven si incontrano con Rossini e con quella particolare sensibilità borghese e viennese che è un elemento peculiare della musica di Schubert. Il primo tempo si apre con un Adagio introduttivo da Sinfonia italiana, ma con una maggiore densità di scrittura; le vigorose strappate orchestrali dell’incipit si stemperano nel dolce movimento di terzine, con intrecci fra fiati e violini che si spengono nel nulla e cedono il passo al successivo Allegretto in forma sonata. Il primo tema, brillante e caratteristico, affidato al flauto, oboe e clarinetto, viene ripreso a piena orchestra; e sono sempre i legni a esporre il secondo tema, scattante e ritmato, sull’accompagnamento ribattuto degli archi. Se il materiale tematico è “italiano”, piuttosto complessa è l’elaborazione, che segue la strada haydniana di un continuo gioco di sorprese. Così lo sviluppo vede le peregrinazioni tonali di pochi spunti, prima del solido ritorno alla prima idea. Al termine del movimento c’è la nuova sorpresa di una stretta in “Più moto”, una coda dove si trovano festosi echi della Prima di Beethoven.

In seconda posizione troviamo un Andante in fa maggiore con un tema levigato degli archi, che scivola poi in una tonalità lontana (la bemolle) secondo una transizione rossiniana. La sezione centrale, nettamente contrastante, viene animata da un fitto ordito di terzine; ma la finezza del compositore fa sì che al riapparire della sezione iniziale la melodia levigata incorpori il ritmo di terzine della sezione secondaria, secondo una scrittura più densa che rende più fine e preziosa la ripresa. Segue un brillantissimo Scherzo dal ritmo giambico, con un Trio “Più lento” in cui si intrecciano fiati e archi; un movimento in cui è evidentissimo il riferimento a Beethoven. L’influenza italiana torna a farsi sentire in modo determinante nell’Allegro moderato conclusivo, un tempo in forma sonata ma dal carattere di Rondò, per la mancanza dì elaborazione tematica e l’alternarsi di situazioni contrastanti, quasi da pot-pourri; caratteristica costante del movimento è la sua propulsione ritmica, basata su insistiti ritmi puntati di accompagnamento, su cui si stagliano scorrevoli corse dei violini, staccati dei fiati, o anche la brillantissima scala puntata per terze, ascendente e discendente, dei flauti e poi dei clarinetti. È la sintesi folgorante di stilemi rossinisti e forma classica, conquista non dimenticata dall’autore lungo la strada di ricerca che porterà, una decina d’anni più tardi, alla “grande” Sinfonia in do maggiore.

Sinfonia n. 8 in si minore “Incompiuta” D. 759

Non ultimare la propria opera per cause diverse da quelle inevitabili e indilazionabili della morte (come è invece il caso dell’Arte della fuga di Bach, del Requiem d Mozart o della Nona Sinfonia di Bruckner), se da un lato alimenta la legittima curiosità dello studioso, dall’altro investe realtà misteriose e imperscrutabili, di fronte alle quali diventa difficile e sarebbe in ogni caso presuntuoso pretendere di dire una parola definitiva. Perchè Schubert lasciò incompiuta la Sinfonia in si minore? Perchè dopo i due primi movimenti, composti nell’ottobre 1822, dopo aver aggiunte due pagine orchestrate dello “Scherzo” e lasciato altro materiale allo stato di abbozzo, il compositore si fermò, accantonò il lavoro e non lo riprese più, fino alla sua morte? Sono, queste, domande alle quali sono state date cento diverse risposte; ma una sola di esse si avvicina, pur senza coglierla, alla verità: la Sinfonia in se stessa era finita dopo i due primi movimenti, rimanendo formalmente incompiuti ma compositivamente, sostanzialmente compiuta così.
Ottava fatica in campo sinfonico, anteriore soltanto a quell’immenso e conclusivo vertice rappresentato dalla Sinfonia in do maggiore detta “La Grande” (marzo 1828), la Sinfonia in si minore è un punto di arrivo dove il salto rispetto alla produzione sinfonica precedente di Schubert si fa notevole, quasi abissale: non tanto pe lo stile, sempre individualmente riconoscibile (quando Hanslick la ascoltò per la prima volta – molti anni dopo la morte dell’autore – non esitò a sentenziare: “Schubert! È proprio Schubert!”), quanto per la qualità della scrittura, assai ricca e variata, per la flessibilità ed omogeneità del trattamento tematico, per il modo nuovo di concepire la tonalità, non più mero valore funzionale bensì colore armonico inquietante e discontinuo nei suoi nessi associativi; e infine per l’ampliamento della tavolozza orchestrale che Schubert, memore delle conquiste fatte nella musica da camera, maneggia ora con maestria insuperabile, mettendola al servizio di una concezione formale senza confronti ardita.
Apparentemente differenziati nella fisionomia, l'”Allegro moderato” in si minore e il successivo “Andante con moto” in mi maggiore rivelano in profondità strette relazioni, sia sotto l’aspetto ritmico sia dal punto di vista dell’elaborazione tematica: quasi fossero due volti, opposti ma complementari, di un’identica realtà. La consapevolezza compositiva di Schubert ha raggiunto un tale controllo sulla materia che le metamorfosi (ritmiche, melodiche e armoniche) si nutrono alla fonte dell’unità originaria, nello stesso istante in cui questa unità, sfaccettandosi in infinite sfumature, sembra perdere i propri connotati e addentrarsi in territori illimitati, mai prima esplorati. In questo viaggio verso orizzonti sconosciuti, Schubert ha un solo compagno di strada: Beethoven. E come sottrarsi allora all’interrogativo, retorico certo, che già si era avanzato, solo pochi mesi prima, a proposito della Sonata in do minore op. 111 di Beethoven, anch’essa in due soli tempi: sarebbe stato veramente possibile, dopo aver toccato simili vertiginose altezze, un terzo movimento? Schubert, come Beethoven, si fermò là dove nessuno poteva arrivare, un lontano punto illuminato che noi riusciamo appena a intravvedere e che, con la nostra debole vista, continuamo a chiamare “incompiuto”.

Sinfonia n. 9 in do maggiore “La grande” D. 944

La Sinfonia in Do maggiore è l’ultimo lavoro portato a termine da Schubert nel genere sinfonico. L’appellativo di “Grande” le venne dato per distinguerla dall’altra Sinfonia in Do maggiore (detta appunto “La Piccola”) del 1817-18, che era anche l’ultima sua sinfonia intera e completa prima di questa. Ciò non significa che nel frattempo Schubert non si fosse occupato di sinfonie. A parte quella in Si minore dell’ottobre 1822, in due soli movimenti, a cui sarebbe toccata una grande fama postuma col titolo di Incompiuta (la sua riscoperta avvenne solo nel 1867), Schubert aveva iniziato altri lavori sinfonici rimasti tutti, per vari motivi, allo stadio più o meno frammentario. Di una Sinfonia in Re maggiore (maggio 1818) abbiamo gli schizzi di due movimenti; di una in Mi maggiore (agosto 1821) gli abbozzi in partitura che, rinvenuti nel 1934, furono ricostruiti e strumentati nelle parti mancanti da Felix Weingartner (cosicchè questa Sinfonia entrò nel catalogo schubertiano col numero di settima). Quanto a una testimoniata ma mai ritrovata Sinfonia detta di Gmunden-Gastein, perchè ivi composta nel giugno-settembre 1825, ci sono state tramandate solo la dedica e l’offerta alla Società degli Amici della Musica di Vienna: pare ormai certo che essa vada identificata con La Grande, di cui sarebbe per così dire una prima versione; e ciò spiegherebbe il fatto che non sia mai stata ritrovata.
Tutte queste circostanze hanno provocato una notevole confusione nella catalogazione dell’ultima produzione sinfonica di Schubert: a seconda che si contino o meno i frammenti e le opere incomplete, La Grande e la stessa Incompiuta assumono una numerazione diversa. Se si accetta come settima la Sinfonia in Mi maggiore, l’Incompiuta avrà il numero otto e La Grande il nove; altrimenti, a scalare, rispettivamente il sette e l’otto. Numeri a parte, la Sinfonia in Do maggiore, fosse o meno anticipata dalla perduta Sinfonia di “Gmunden- Gastein”, fu composta nella stesura definitiva nel marzo 1828, come si legge in testa al manoscritto completo della partitura. Sappiamo inoltre che in quell’epoca Schubert offrì il lavoro, forse già per la seconda volta, alla Società degli Amici della Musica di Vienna: la quale registrò il ricevimento della partitura ma poco dopo la respinse giudicandola “troppo lunga e difficile”, e rifiutando dunque l’esecuzione. A Schubert non rimase altro che riprendersi il manoscritto e riporlo in un cassetto in casa di suo fratello Ferdinand, dove allora alloggiava. Pochi mesi dopo, il 19 novembre 1828, Schubert moriva senza aver potuto udire una sola nota del suo ultimo capolavoro.
A riconoscerlo come tale fu per primo Robert Schumann, dieci anni dopo. Recatosi a Vienna nel gennaio 1839, fece visita a Ferdinand Schubert e fra i numerosi manoscritti del fratello da lui custoditi rinvenne una Sinfonia di cui nessuno aveva ancora sentito parlare. “Chissà per quanto tempo ancora” – commentò lo strabiliato compositore – “essa sarebbe rimasta in quell’angolo oscuro e polveroso, se io non avessi subito persuaso Ferdinand Schubert a spedirla alla direzione dei concerti del Gewandhaus di Lipsia, o anche allo stesso artista che vi presiedeva”. Schumann sapeva quel che faceva: quell’artista era infatti Felix Mendelssohn Bartoldhy, il quale ne rimase non meno scosso e decise subito di eseguirla. Cosa che avvenne il 21 marzo 1839, di fronte a un pubblico ammirato e perfino entusiasta. Non pertanto la strada al tardivo riconoscimento della Sinfonia fu spianata; né a molto valse la pubblicazione della partitura a Lipsia nel 1840 da parte di Breitkopf & Härtel, il più importante editore musicale del tempo.

Il Teatro Gewandhaus di Lipsia

Dopo le esecuzioni lipsiensi, infatti, Mendelssohn la portò nel ’42 a Londra; ma qui l’orchestra della Società Filarmonica si rifiutò di eseguire il Finale, che ai primi violini parve noioso (forse un eufemismo per nascondere obiettive difficoltà tecniche ed esecutive). Di peggio avvenne nel ’44 a Parigi, dove l’orchestra della Società dei Concerti diretta da Habeneck si fermò sconcertata già dopo il primo tempo. Vienna aveva conosciuto sul finire del 1839 i primi due movimenti, eseguiti dai Filarmonici con l’inserzione in mezzo, secondo una prassi che a noi sembra barbara ma che era invece del tutto abituale nella moda del tempo, di un’aria d’opera, per l’esattezza della Lucia di Lammermoor. Sull’autorevole “Allgemeiner Musikalischer Anzeiger” si lesse fra l’altro: “Dopo i due movimenti di questa Sinfonia nessuno può mettere in dubbio il fatto che Schubert avesse una profonda conoscenza dell’arte della composizione; ci sembra però che egli non sapesse padroneggiare con altrettanta sicurezza le masse tonali. Così questa Sinfonia è una specie di schermaglia di strumenti, da cui non riesce a emergere un disegno efficace. A dire il vero c’è un filo rosso che si snoda attraverso l’intero lavoro, ma è troppo stinto perchè si possa individuarlo sempre con precisione. A mio parere quest’opera sarebbe stato meglio lasciarla dov’era”. Questo parere è assai istruttivo sull’affidabilità dei critici di professione.
Che però anche Schubert fosse consapevole della novità e dell’arditezza nella concezione formale e tonale della sua grande Sinfonia, lo lascia intuire una lettera scritta il 31 marzo 1824 – dunque ancor prima di iniziarne la composizione – all’amico pittore Leopold Kupelwieser: “In fatto di Lieder non ho scritto granchè di nuovo; in compenso mi sono esercitato con numerosi lavori strumentali: ho composto due Quartetti e un Ottetto, e ho in mente di scrivere un altro Quartetto [alludeva ai tre ultimi Quartetti per archi in La minore, Re minore e Sol maggiore, quest’ultimo poi composto nel 1826, e al prodigioso Ottetto in Fa maggiore per archi e fiati, quasi un cartone di sinfonia]. Soprattutto voglio in questo modo prepararmi la strada verso la grande Sinfonia”. Se si tien conto che la Nona Sinfonia di Beethoven, la “grande” sinfonia per antonomasia, era nata giusto fra il 1823 e il 1824, queste parole assumono un significato quasi profetico: non soltanto Schubert vedeva i lavori strumentali appena composti o progettati come una sorta di trampolino di lancio verso il cimento massimo della creazione di una sinfonia, ma intendeva questa meta, e la strada che vi conduceva, come un’ascesa verso le vette più alte dell’arte, nel rinnovato contatto con la forma più elevata, complessa e impegnativa che un musicista cresciuto nella venerazione per i classici potesse immaginare. La Sinfonia in Do maggiore è il risultato di questa aspirazione, la conseguenza di uno sblocco anche psicologico nei confronti della tradizione; raggiunto non sulla falsariga dell’imitazione di Beethoven ma con la lenta, caparbia riflessione sulle possibilità di una realizzazione linguistica e formale più ampia e articolata nei domini della musica strumentale pura.
La mediazione di Schumann è a questo punto decisiva. Egli colse per primo quel misto di fedeltà alla tradizione – i valori dello stile sinfonico classico – e di tensione romantica verso l’ampliamento e la trasformazione dei mezzi espressivi – la nuova distribuzione degli elementi melodici, ritmici e tonali nell’impianto formale – che contraddistingue questa Sinfonia come un unicum nella storia della sinfonia ottocentesca. E anche questa unicità non sfuggì all’occhio acuto di Schumann, fin dalla recensione apparsa sulla sua rivista, “Zeitschrift für Musik”, per “l’apertura dell’anno 1840”: “Chi non conosce la Sinfonia in Do maggiore conosce ben poco di Schubert; e questa lode può sembrare appena credibile se si pensa a tutto quello che Schubert ha già donato all’arte. Oltre a una magistrale tecnica della composizione musicale, qui c’è la vita in tutte le sue fibre, il colorito fino alla sfumatura più fine, v’è significato dappertutto, v’è la più acuta espressione del particolare e soprattutto infine v’è diffuso il romanticismo che già conosciamo in altre opere di Franz Schubert. E questa divina lunghezza della Sinfonia, questo sentimento di ricchezza profuso dovunque ricrea l’animo. […] Questa Sinfonia ha dunque agito su di noi come nessuna ancora, dopo quella di Beethoven”.

Divina lunghezza. Se Schumann avesse potuto sapere a quali fraintendimenti avrebbe portato quest’espressione peraltro felicissima, probabilmente l’avrebbe ritirata. Le estensioni per l’epoca amplissime e la stessa dimensione dell’organico, arricchito da ben tre tromboni, denotano già esteriormente la Sinfonia in Do maggiore come un’opera di proporzioni grandiose. Ma quel che più conta è che il grandioso e la lunghezza non nascano soltanto da una fecondità straordinaria di ispirazioni melodiche e da una vastità di intenzioni armoniche certo notevolissime, ma soprattutto racchiudano un’idea e una disciplina formale unitariamente e organicamente compiute da cima – la vasta e solenne Introduzione da cui germina la proposta tematica fondamentale – a fondo – la colossale costruzione in forma di sonata del Finale. Quest’idea s’apre la strada verso una concezione della forma tanto profondamente nuova quanto densamente significativa per i compositori successivi, e perfino nei versanti opposti di Brahms da un lato, di Bruckner dall’altro: al criterio beethoveniano di contrasto e sviluppo drammatico subentra qui il principio dello svolgimento ciclico basato sulle metamorfosi di un motivo elementare, che appare all’inizio intonato da due corni. E’ questo motivo, una vera “idea originaria” lungamente inseguita da Schubert, a conferire unità a tutti i movimenti, trasformandosi e trasfigurandosi, nel tempo e nello spazio, attraverso apparizioni palesi o latenti: lo sentiamo risuonare, nel primo movimento “Allegro ma non troppo”, dapprima nel possente richiamo di tromboni, poi nella Coda in forma di corale, e invece alleggerito nel secondo tema in Mi minore. Nell’ “Andante con moto” si rispecchia nel basso, affidato a violoncelli e contrabbassi; ed è qui che il motivo dei corni intraprende nuove avventure: al lirismo di episodi teneramente imploranti si alternano, quasi come in un’antifona, le imperiose affermazioni dei fiati, lasciando però nuovamente spazio, nella parte centrale, alle effusioni gentili del dialogo fra oboe e violoncello, e a un passaggio in cui, come scrisse Schumann, “da remote distanze ci giunge il richiamo del corno, e tutto tace come se frammezzo all’orchestra si muovesse leggero un visitatore celeste”.
Lo Scherzo (“Allegro vivace”) è caratterizzato da una marcata energia ritmica, con la quale Schubert abbandona ormai del tutto le cadenze di danza e le movenze popolaresche che spesso, anche nelle grandi forme strumentali, avevano trovato in questi luoghi appartati espressioni relativamente serene e contemplative. Lo Scherzo è a suo modo un robusto ponte verso lo slancio fremente, spesso interrotto da brividi, del Finale: dove il tema iniziale è ripreso e dilatato fino all’ebbrezza dionisiaca, e il ritmo assume a tratti il furore di una danza macabra. La forma di sonata è forzata a limiti estremi, prima nella moltiplicazione degli episodi tematici, tra indugi, attese e nuovi, sempre più incisivi ritorni, poi, dopo un tentativo di coesione nella Ripresa, attraverso incandescenti accensioni, a cui si contrappongono gli ultimi ripensamenti della Coda, sublimi e nostalgici insieme. Il tripudio di suoni con cui la Sinfonia si conclude riattestandosi sull’iniziale Do maggiore non è più un gesto convenzionale, ma la consapevolezza della conquista e del coronamento di una meta, destinata a rimanere isolata.

Claudio Abbado

Se l’integrale schubertiana di Abbado, concepita in parallelo con l’edizione critica delle sinfonie, è tutta pervasa dall’entusiasmo della ricerca e della freschezza della scoperta, quella di Muti con i Wiener, all’incirca coeva (è stata realizzata tra il 1987 e il 1993), è invece un’integrale di certezze consolidate, saldamente radicata nel testo acquisito e nella tradizione interpretativa e attenta soprattutto alla pienezza e trasparenza del suono e all’eleganza del fraseggio: ma ciò non significa che essa abbia qualcosa da invidiare a quella del “rivale”, anzi è proprio una delle poche che reggano il confronto sotto ogni punto di vista.
Per darci un’idea del tipo di interpretazione con cui abbiamo a che fare, sono più che sufficienti le battute iniziali dell’ouverture di Rosamunda, che apre la rassegna in compagnia di tre ballabili dalle musiche di scena. Fra le innumerevoli esecuzioni di questo capolavoro pseudo-rossiniano, è difficile trovarne qualcuna che sia altrettanto intrisa di lirismo, di calore, di fluidità, sia nell’andante che nell’allegro vivace: insomma, altrettanto programmaticamente ricondotta alle sue radici italiane.
Delle sinfonie, quella che a prima vista potrebbe suscitare qualche perplessità è l’Incompiuta. Si sa che una delle principali insidie di questa pagina è l’uniformità fra i due movimenti: e si direbbe che Muti, di proposito, non faccia nulla per evitarla. L’allegro moderato è estremamente moderato, l’andante con
moto decisamente mosso; e per di più entrambi condividono un viraggio espressivo di accentuato pessimismo, che ha una sorta di divisa nell’andamento singolare delle figurazioni di accompagnamento. All’uniformità dinamica fa riscontro in compenso uno spettro sonoro più che mai teso verso gli estremi: se il pianissimo delle battute iniziali è ancor più impercettibile del solito, in certi punti dello sviluppo si sale a una massa di suono davvero apocalittica. Ed è proprio allo sviluppo del primo tempo che bisogna guardare se si vuole comprendere il valore di quest’interpretazione: lì, senza bisogno di stringere il tempo o di ricorrere ad altri artifici agogici, la musica si trasforma in un autentico gorgo ove si scarica tutta le tensione fatalistica accumulatasi nell’apparente inerzia dell’esposizione. E che dire poi della coda? Pare incredibile che si possa esprimere tanta angoscia senza via di scampo attraverso sonorità così apollineamente luminose.
Tanto la lettura dell’Incompiuta è uniforme e pessimistica, tanto quella della Grande è solare e piena di dinamismo. Dopo un andante introduttivo moderato ma scorrevole, il primo tempo è affrontato con un’andatura rapida che si mantiene costante anche per il secondo tema (salvo il rallentando nella frase conclusiva) senza che ne vada compromessa la cantabilità. Il momento più centrato è però probabilmente l’ultima parte dell’esposizione, col terzo tema dei tromboni contornato dai pizzicati dei violini: forse soltanto a Giulini riesce di realizzarlo con altrettanta verve e altrettanta trasparenza. E un sapore giuliniano ha anche, nell’andante con moto, l’abilità nell’allargare il tempo per evidenziare gli spunti lirici (secondo tema e materiale che ne deriva). Rapidissimi, scintillanti e ricchissimi di sfumature timbriche e ritmiche i due tempi conclusivi: insomma, veramente una delle più belle Grandi in circolazione. Delle altre sinfonie, la Quinta suona un po’ più corposa del consueto, specie nei due ultimi tempi e nella veemente coda del primo; la Quarta, all’opposto, pur senza nulla perdere in vis drammatica, si presenta particolarmente agile e come alleggerita nel fraseggio e nelle sonorità. Ma la più lieta sorpresa sono forse le meno note, le prime due (dove Muti riesce per certi versi ad essere perfino più scrupoloso di Abbado, prendendo in considerazione, nei primi tempi, due ritornelli tagliati dal collega): forse non ne esistono interpretazioni altrettanto elettrizzanti e altrettanto capaci di mettere in luce dettagli inaspettati. Si faccia caso, per esempio, alle acciaccature che occhieggiano da ogni parte nel minuetto e nel finale della Prima: verrebbe da dire che ci voleva proprio un’orchestra viennese diretta da un maestro napoletano per rendere con tanta malizia quest’abbellimento, che è un po’ l’anello di congiunzione fra le civiltà di queste due capitali della musica.
Unico vero neo della raccolta, sia nell’edizione originale della EMI che nella licenza Brilliant: le sinfonie sono presentate alla rinfusa, tra l’altro spezzando la Grande in due tronconi. Registrazione effettuata nel 1993 e rimasterizzazione eseguita nel 2001. Audio eccellente. Altamente raccomandato. Concludendo abbiamo quattro cofanetti straordinari. A voi la scelta. Buon ascolto a tutte/tutti voi!

Schubert: le sinfonie integrali

La produzione sinfonica di Schubert è suddivisa in due periodi, almeno per quanto riguarda le opere complete. Le prime sei sinfonie furono composte tra i diciassette e i ventuno anni, le ultime due all’età di venticinque anni e alcuni anni dopo rispettivamente.

Franz Schubert

Le prime sinfonie non presentano quella padronanza totale che egli andava già dimostrando in altri generi musicali (mentre lavorava alla Quarta sinfonia il suo amico Spaun inviò a Goethe un volume di accompagnamenti musicali di Schubert di versi del poeta, fra cui capolavori quali “Gretchen am Spinnrade”, “Heidenroslein” ed “Erlkonig”). Ma anche i lavori orchestrali di apprendistato più anteriori rivelano una ferma padronanza del linguaggio sinfonico di Mozart, Haydn e del primo Beethoven, e presentano tutti la voce autentica del giovane Schubert.

Sinfonia n. 1 in re maggior D. 82

Schubert completò la sinfonia il 28 ottobre 1813. Ma essa fu pubblicata solo nel 1884, tre anni dopo che August Manns l’ebbe diretta in pubblico per la prima volta al Crystal Palace di Londra il 5 febbraio 1881. Era stata sicuramente eseguita dall’orchestra del seminario di Schubert nell’autunno del 1813, e un amico del compositore la trascrisse per pianoforte a quattro mani nel 1819. Era stata composta durante un periodo altamente produttivo di musica strumentale e vocale, poco prima che Schubert si dedicasse all’opera Des Teufels Lustschloss. È un primo tentativo di grande sicurezza in questa forma. Dopo una straordinaria introduzione lenta, l’Allegro vivace scorre via impetuosamente. Tra i tanti tocchi fantasiosi che uno può scegliere, vi sono il ponte per fiati che precede il secondo tema e riappare più estesamente nello sviluppo e il ritorno dell’introduzione lenta prima della ripresa. L’Andante, con ottoni e timpani in pausa, è un movimento elegante e melodico con una graziosa interazione tra i fiati e gli archi, e presenta già più di un indizio del lirismo tipicamente schubertiano. Schubert sembra aver deciso durante la composizione di rallentare il ritmo del Minuetto da allegro vivace ad allegretto. Il trio, che mette in evidenza un flauto, un oboe e un fagotto, è in gradevole contrasto con il vigoroso minuetto. Il Finale è un entusiasmante allegro vivace, il cui secondo e più delicato tema è derivato da quello del primo movimento. Chiunque, nell’ascoltare questa musica altamente raffinata proveniente dalla sala della scuola nel 1813, avrebbe potuto avvertire che vi era un nuovo grande compositore sinfonico all’opera.

Sinfonia n. 2 in si bemolle maggiore D. 125

Questa Sinfonia fu completata diciassette mesi dopo la Prima, il 24 marzo 1815. Stando alle date della partitura originale, egli cominciò a comporla il 10 dicembre 1814, completò il primo movimento il giorno di Santo Stefano, e iniziò il Finale il 25 febbraio. La sinfonia è composta per l’orchestra tipica del tempo, che comprendeva trombe e timpani, e i movimenti esterni sono di dimensioni notevoli. Una serie di parti sopravvissute e dedicate al dottor Innocenz Lang, direttore della vecchia scuola di Schubert, la Stadtkonvikt, induce a credere che la sinfonia fu probabilmente eseguita dall’orchestra della scuola, ma venne eseguita in pubblico solo il 20 ottobre 1877, quando Manns la diresse in occasione di un concerto al Crystal Palace, e dovette aspettare fino al 1884 per essere pubblicata nella vecchia Edizione completa.
Il primo movimento vede Schubert sperimentare vigorosamente con la forma classica. Dopo una potente ma sinuosa introduzione in forma di largo, egli passa, attraverso un vivace primo tema, al secondo, marcato come dolce, che è nella sottodominante invece che nell’attesa dominante – per la quale dobbiamo attendere una variante del materiale d’apertura di questo Allegro vivace. La ripresa è anch’essa insolita e protratta, e passa dalla sottodominante alla tonica solo quando ritorna il tema secondario; che qui è una movimentata coda. L’Andante, in mi bemolle, è formato da una serie di cinque variazioni su un motivo bello e lineare, seguito da una coda tranquilla e delicatamente orchestrata. E il Minuetto si presenta non come una danza tradizionale bensì come un impetuoso Allegro vivace in do minore con forti accenti sincopati, stupendamente messo in risalto da un trio delicatamente orchestrato in mi bemolle, con legni e corni in evidenza. Il Finale, come il primo movimento, si misura con i principi della forma sinfonica tradizionale. Veemente presto in 2/4 per un totale di 727 battute, anch’esso ha un secondo tema contrassegnato come dolce che fa la sua comparsa nella sottodominante, con il tema secondario che questa volta riappare nella relativa tonalità minore nella ripresa, a impartire un gradito tocco drammatico.
L’unità di questo movimento su vasta scala deriva dalla modellazione ritmica più che dalla regolarità tonale. La sinfonia nel suo complesso segna un baldanzoso passo avanti per il giovane compositore.

Sinfonia n. 3 in re maggiore D. 200

Il 24 maggio 1815, Schubert, esattamente due mesi dopo aver completato la Seconda sinfonia, cominciò a lavorare alla Sinfonia n. 3. L’autografo è liberamente cosparso di date le quali indicano che il grosso del lavoro fu buttato giù in pochi giorni nella seconda e terza settimana di luglio. Anche per i livelli soliti di Schubert questo fu un periodo di attività frenetica – tra l’inizio e il completamento della partitura avvenuto il 19 luglio, egli compose anche 36 canzoni e duetti, un quartetto vocale, un “Salve regina” e il Singspiel in un atto Fernando. Che non si riposò dopo aver portato a termine la sinfonia è indicato dal computo di altre 5 canzoni, un trio vocale e l’inizio del lavoro per il Singspiel successivo, Claudine von Villa Bella, realizzato entro la fine del mese. Non dovremmo cercare molta profondità nella Terza sinfonia, ma non vi è niente di casuale riguardo ad essa. Schubert cominciò persino a scrivere un movimento lento in tempo di adagio molto, anche se poi l’abbandonò a favore del celebre e grazioso Allegretto. La composizione, scritta per un’orchestra consistente comprendente coppie di flauti, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe e timpani, è strutturata in base a linee classiche consolidate.
L’Allegro con brio è preceduto da un prodigioso Adagio maestoso che ha un rapporto d’integrazione tematica con il movimento principale. Vi sono contrasti acuti anche – per esempio Schubert riprende il suo secondo tema in sol maggiore, dopo averlo introdotto nell’atteso la maggiore. Il turbolento Minuetto è deliziosamente incerto nel carattere – scherzo moderno o vero minuetto? Ma non c’è dubbio sul fascino rustico del trio, con la sua progressione dolce di

oboi e fagotti, accompagnati pacatamente dagli archi. L’irruente Presto vivace inizia delicatamente ma ben presto fa trasalire i suoi ascoltatori con repentini cambi di tonalità e sincopi. O meglio avrebbe fatto sussultare i suoi ascoltatori se non avesse dovuto attendere fino al 19 febbraio 1881 per la sua prima esecuzione pubblica, avvenuta al Crystal Palace di Londra, sotto la direzione orchestrale di August Manns; mentre la sua pubblicazione seguì nel 1884, nella vecchia Edizione completa.

Sinfonia n. 4 in do minore D. 417 “Tragica”

Questa sinfonia fu completata il 27 aprile 1816, e fu Schubert stesso ad aggiungere più tardi il titolo di “Tragica” al suo manoscritto. Essa è composta per l’orchestra media contemporanea: coppie di flauti, oboi, clarinetti, fagotti e trombe, benché con quattro corni invece dei normali due corni, timpani e archi. Non ci sono tracce di esecuzioni precedenti al novembre del 1849, quando fu ascoltata a Lipsia anche se essa fu probabilmente eseguita da un’orchestra di dilettanti viennese poco tempo dopo essere stata completata. La partitura fu pubblicata solo nel 1884. Dopo una cupa introduzione in tempo di Adagio molto, l’Allegro principale fa irruzione, confermando un umore che potremmo definire più facilmente “severo”, “inquieto”, più che “tragico”; mentre il secondo tema, con gli archi in testa, porta un po’ di distensione, e la modulazione verso la maggiore per le battute finali, un motivo che Schubert ripropone estesamente nel finale, fa dubitare ancora di più del titolo. Il melodico Andante in la bemolle maggiore, accennato dagli archi con il sostegno delicato dei legni, è introdotto due volte da risposte più tempestose nella minore. Il Minuetto: allegro vivace (in mi bemolle) è contrassegnato da audaci cromatismi e distorsioni ritmiche; mentre il delicato Trio costituisce un piacevole contrasto. L’Allegro di chiusura è vivace, inquieto, e intento a provare gesti più che a esprimere affermazioni profonde.

Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore D. 485

Questa partitura appartiene a un periodo d’intensa attività, sebbene prima dell’autunno del 1816 Schubert, allora diciannovenne, avesse smesso di datare i suoi manoscritti con precisione, e quindi possiamo essere meno sicuri rispetto alla cronologia delle opere contemporanee. Fra le quali vi sono 19 canzoni (non tutte completate), una Ouverture e un incompleto Trio per archi, la cantata Spendou e un Magnificat. La sinfonia è datata “settembre -3 ottobre”. È orchestrata con semplicità, con gli archi sostenuti da un flauto e da coppie di oboi, fagotti e corni. Anche se dovette aspettare a sua volta fino all’uscita della vecchia Edizione completa per la sua pubblicazione (1885), essa fu presto eseguita dall’orchestra amatoriale di Otto Hatwig nel suo appartamento nello Schottenhof, e fu ascoltata pubblicamente al Theater in der Josefstadt il 17 ottobre 1841. Delle sinfonie di Schubert, questa è la più solare e rilassata. Come “l’Incompiuta”, è priva di introduzione lenta; e agli accordi dei fiati rispondono acrobatici contrappunti fioriti di violino. L’atmosfera gioviale viene mantenuta quasi attraverso l’intero pezzo. L’Andante con moto è un movimento spiritoso e commovente e dall’ingannevole semplicità. Un Minuetto pastorale sorprende per la sua scelta della relativa minore – alla quale il trio in sol maggiore offre un intenso contrasto. Il Finale è un gioioso allegro vivace con reminiscenze di Haydn, anche se l’amalgama di arguzia, desiderio e buonumore non potevano che essere opera di Schubert.

Sinfonia n. 6 in do maggiore D. 589

La sinfonia fu composta tra l’ottobre del 1817 e il febbraio del 1818. È scritta per un’orchestra di dimensioni uguali a quella della n. 4, ma questa volta con una sola coppia di corni. Sebbene nota a noi come la “Piccola” sinfonia in do maggiore, per evitare confusione con la “Grande”, fu Schubert stesso ad imprimere senza esitazione il titolo “Grande sinfonia” all’inizio del primo movimento.

Riccardo Muti

Essa fu pubblicata solo nel 1885, ma venne eseguita nella Redoutensaal di Vienna il 14 dicembre 1828, a meno di un mese dalla sopraggiunta morte del compositore, quando la “Grande” in do maggiore fu respinta perché troppo difficile. Dopo i forti contrasti dell’introduzione in Adagio, l’Allegro è introdotto dalla sezione dei legni – che fanno la parte del leone in questa composizione. Vi sono poi raffinati tocchi polifonici e ritmi briosi, e il “più moto” di chiusura è la prima vera e propria coda sinfonica di Schubert. L’Andante (in fa maggiore) bilancia perfettamente la tranquillità e la riflessione con la turbolenza. Nello Scherzo: presto, il primo tentativo di Schubert nella variante beethoveniana del minuetto sinfonico, viene abilmente dato vita a uno slancio brillante e il Trio: più lento, in mi maggiore, costituisce un grazioso intermezzo. Il finale, Allegro moderato, è un movimento incantevole. Dopo un chiaro tributo alla figura dominante dell’epoca: Rossini, a tracce di Haydn, e soprattutto di Beethoven, Schubert potrebbe essere accusato di eclettismo. Eppure, man mano che il movimento si sviluppa, noi ascoltiamo contrappunti ritmici e anche motivi armonici che fanno intravedere i movimenti corrispondenti dell’ultima sinfonia da lui completata. Gli anni di apprendistato sono terminati.

Sinfonia n. 8 in si minore D. 759

La data della prima pagina della partitura autografa risale al 30 ottobre 1822.
L’appellativo “Incompiuta” trasmette l’essenza superficiale, eppure l’esistenza di un abbozzato Scherzo, e le ipotesi sul primo intermezzo musicale della Rosamunde come progetto finale, indicano che Schubert non sempre volle lasciare il torso della statua, per così dire, nel suo stato d’imperfezione. Essa fu eseguita per la prima volta in occasione di un concerto della Società degli amici della musica a Vienna il 17 dicembre 1865 e venne pubblicata due anni più tardi. Dalla figura tranquilla e sinuosamente ondeggiante enunciata dagli archi inferiori, l’Allegro moderato avanza con un’inesorabilità sinfonica che poco deve all’esempio di Beethoven. Essa combina e contrasta l’introspezione tenera e il duro dramma con sorprendenti stonature armoniche e i tocchi più delicati di orchestrazione. L’Andante con moto, come il primo movimento, è in tempo ternario. Di nuovo avvertiamo il senso di una melodia che si sviluppa senza fine, e anche qui vi è tensione drammatica. I due movimenti possono essere stranamente simili in termini formali, ma per quanto concerne l’umore, il colorito e la qualità estetica, essi si complementano tanto magistralmente che noi possiamo capire perché Schubert non completò mai l’opera – una delle sinfonie più note e amate. “…… Ho composto 2 Quartetti per violino, viola e violoncello e un Ottetto, e voglio scrivere un altro Quartetto; ma soprattutto voglio in questo modo aprirmi la strada verso la grande sinfonia”. Così si esprimeva Schubert in una lettera al suo amico Leopold Kupelwieser l’ultimo giorno di marzo del 1824. Gli elementi sinfonici nei due Quartetti per archi in tonalità minore D. 804 e 810 sono chiari, come lo è il fatto che l’accenno di Schubert alla “Grande Sinfonia” sia generico più che specifico. Nondimeno l’appellativo “Grande” è stato associato da tempo fermamente all’unica sinfonia che Schubert doveva ancora completare – e nessuno metterà in discussione la sua applicabilità; seppure a un livello superficiale esso serve semplicemente a distinguerla dalla “Piccola” sinfonia in do maggiore, D. 589.
Se gli appellativi usati per le sinfonie di Schubert sono appropriate, la numerazione (qualcosa di cui egli non si occupò) è confusa. Alla fine dell’Ottocento i curatori della vecchia Edizione completa delle opere di Schubert crearono il problema numerando in maniera fuorviante la “Grande” come n. 7 – e includendo la sinfonia “Incompiuta” del 1822 in un’appendice come n. 8, convinti che un’opera incompleta non meritasse un posto nella disposizione cronologica. Un vantaggio involontario della numerazione comune della “Grande” come n. 9 è che la sinfonia in mi maggiore del 1821, D. 729, pienamente abbozzata ma solo parzialmente orchestrata, che ora sta diventando nota attraverso l’ultima di una serie di orchestrazioni: quella di Brian Newbould, può essere numerata comodamente come n. 7. Ma i curatori della Nuova edizione completa e della versione riveduta del Catalogo tematico di Deutsch hanno deciso di omettere la sinfonia in mi maggiore insieme alle altre sinfonie abbozzate e frammentarie dalla numerazione consecutiva, facendo diventare perciò “l’Incompiuta” la n. 7 e la “Grande” in do maggiore la n. 8. Noi, però, preferiamo attenerci alla vecchia è nota numerazione.

Sinfonia n. 9 in do maggiore D. 944

Anche se la partitura autografa di questa sinfonia è datata misteriosamente “marzo 1828” per mano dell’autore, la “Grande” in do maggiore fu composta tra l’estate del 1825 e l’autunno del 1826, e il manoscritto fu consegnato alla Gesellschaft der Musikfreunde nella seconda settimana dell’ottobre 1826. Alcune parti furono copiate per la Società qualche mese più tardi, sebbene il pezzo fosse ritenuto difficile è troppo lungo per essere eseguito; e fu solo nel 1850 che Vienna poté ascoltarlo in versione integrale. Nel terzo decennio dell’Ottocento la sua esecuzione fu annunciata più volte, e parzialmente (i primi due movimenti) effettuata nell’ambito di un concerto della Società nel 1839 – l’anno della famosa prima esecuzione completa sotto la direzione di Mendelssohn a Lipsia. La sinfonia è costruita sulla scala più vasta. Anche senza ripetizioni, i movimenti risultano alquanto lunghi, composti come sono rispettivamente da 685, 380, 258+ 166, e 1154 battute (mentre, per fare un raffronto, la Nona di Beethoven, dalla struttura assai diversa, conta 547, 559, 157 e 940 battute). L’orchestra di Schubert è di dimensioni notevolmente più modeste rispetto a quella di Beethoven: con doppi fiati, corni, trombe, tre tromboni, timpani e archi. Chiunque legga le recensioni ottocentesche della sinfonia non potrà fare a meno di essere colpito dal grado di perplessità e antagonismo che essa generalmente suscitava.

Wiener Philharmoniker

Anche i critici bendisposti erano chiaramente disorientati dalle caratteristiche formali oltre che dalla lunghezza e dalle difficoltà tecniche del pezzo, denunciando attraverso i loro commenti inopportuni le proprie inadeguatezze. Oggigiorno, viziati da frequenti esecuzioni del massimo livello musicale e dalla garantita qualità tecnica, non possiamo evitare di apparire compiaciuti se affermiamo che la “Grande” in do maggiore pone pochi problemi all’ascoltatore. Lo splendore e la varietà melodica, la vitalità e la compostezza ritmica, i contrasti fra lirismo e dramma, la partitura idiosincratica eppure infallibilmente appropriata, soprattutto l’equilibrio fra il dettaglio e il grande progetto – queste sono alcune delle caratteristiche che ora possono sembrare scontate ma che aiutano a spiegare la lenta avanzata della composizione dal limbo dell’incomprensione al livello di capolavoro straordinario.
La sinfonia comincia con una ampia introduzione in tempo di Andante – prima prova dell’architettura imponente dell’intera composizione, che è mostrata non solo nella lunghezza ma nell’uso di molti tipi di motivi unificanti, più manifestamente la riesposizione della chiamata del corno alla fine del primo movimento. La transizione dall’Andante ha una splendida accumulazione di tensione, e il primo tema dell’Allegro ma non troppo con i suoi ritmi briosi è messo in risalto deliziosamente dal più malinconico secondo tema. L’integrazione di questi elementi apparentemente disparati dimostra la padronanza di Schubert di un nuovo genere di forma sinfonica che guarda in avanti tanto chiaramente a Bruckner quanto obliquamente a Beethoven o indietro ad Haydn e Mozart. L’Andante con moto (in la minore) presenta una fusione unica di lirismo e dramma intenso, con il suo delicato ma brillante solo di oboe e le esplosioni energiche del tutti. E lo Scherzo (Allegro vivo), l’apoteosi di quelli dell’Incompiuta sinfonia in mi maggiore, D. 729, e dell’Ottetto, non è una breve danza ma un movimento nella stessa scala imponente degli altri tre, con un trio disteso e raggiante. Il finale (Allegro vivace) crea e sostiene un impeto irresistibile; vi sono pagine più delicate, ma questo audace e incisivo movimento costituisce una conclusione straordinaria e assolutamente soddisfacente per una sinfonia che è assai avanzata per il suo tempo.

Rosamunde, Principessa di Cipro D. 797

Questa composizione, fu uno dei tanti e frustranti lavori commissionatogli per il teatro che Schubert ricevette quand’era ancora ventenne. Questa volta gli fu chiesto di scrivere la musica di accompagnamento per un dramma di Helmine von Chézy: una scrittrice assolutamente incompetente che aveva da poco fornito a Weber il libretto per Euryanthe. Il motivo principale che lo spinse ad accettare la commissione fu indubbiamente il desiderio di conquistare il riconoscimento del pubblico e della critica; e il compenso, che doveva fargli anche comodo. La rappresentazione fu sospesa solo dopo due serate (il 20 e il 21 dicembre 1823) al Theater an der Wien; il testo andò ben presto smarrito, e Schubert altro non poté fare che tentare di salvare il salvabile dal naufragio. I quattro numeri vocali furono pubblicati; la musica venne accolta con favore; ed egli utilizzò al meglio la sezione in tonalità maggiore del terzo intermezzo nel movimento lento del Quartetto per archi in la minore, D. 804, e nel terzo movimento dell’Impromptus, D. 935. Per contro è stata avanzata in maniera plausibile l’ipotesi che il prolungato primo intermezzo sia stato ricavato dallo stesso Schubert dal programmato finale della sinfonia in si minore, detta “l’Incompiuta”, con la quale ha in comune tonalità, strumentazione e levatura. Avendo poco tempo per portare a termine la commissione per Rosamunde, egli usò l’ouverture che aveva scritto l’anno precedente per l’opera romantica Alfonso und Estrella. Però quella che tutti conoscono come l’ouverture di Rosamunde fu scritta infatti per il melodramma Die Zauberharfe (L’arpa magica) del 1820 (che con otto rappresentazioni fu di gran lunga l’orchestrazione teatrale più eseguita di Schubert durante la sua vita); ma non sappiamo se fu Schubert ad avere l’idea di riutilizzare il pezzo anteriore in questo modo.
L’ouverture comincia foscamente, minacciosamente, in do minore, con una sequenza di accordi che ha una funzione drammatica e di motivo conduttore nel Die Zauberharfe, prima di passare attraverso altra musica lirica, sempre nel tempo Andante dell’apertura, a un brioso e attraente Allegro vivace in do maggiore, che dà luogo a un “climax” vigoroso e magistrale. Tranne per la romanza per soprano, “Der Volimond Strahlt”, e per tre cori, la musica di fondo comprende tre intermezzi, le Melodie dei pastori, e due balletti, che sono incisi qui. Il primo pezzo di musica per balletto è un movimento cupo in si minore e si maggiore, ideato per accompagnare il vano corteggiamento di Rosamunde da parte del diabolico governatore. A fronteggiare i tutti completi vi sono delle risposte più pacate dei fiati, poi un passaggio lirico prolungato e calmo conduce allo struggente Andante un poco assai in sol maggiore, con parti straordinarie per i legni a coppie. L’altro balletto, tratto dal quarto e ultimo atto del dramma, è un numero festivo di celebrazione. Un raggiante Andantino in sol maggiore, con passaggi per legni posti accanto ad altri per archi, ricco di fascino melodico e varietà ritmica, e dove un efficace ripetizione dell’apertura del movimento completa destramente il contributo memorabile di Schubert a un dramma peraltro assolutamente dimenticabile.

Peter Branscombe
(Traduzione: Giovanni Maragno)