Schubert Franz

Sonate per pianoforte

Maurizio Pollini è in splendida forma durante tutte le magistrali esibizioni delle sonate per piano di Franz Schubert: DO Minore (D 958), LA Maggiore (D 959), SI bemolle Maggiore (D 960). Le virtù specifiche di Pollini: lettura dei vari spartiti con suprema tecnica, scrupolosa attenzione alla forma (forma e coerenza delle composizioni viste nel suo insieme), attento studio delle varie edizioni dei pezzi, anni di esibizioni da concerto preparatorie alla registrazione e musica estremamente complessa. Che dire di più: due preziosi Cd da annoverare nella vostra collezione. Registrazioni eseguite dal 1983 al1985. Audio in DDD splendido. Impedibile!

Sonata per pianoforte in do minore D. 958

La Sonata per pianoforte in do minore D. 958 fu composta da Schubert nel settembre 1828 – due mesi prima della morte – insieme alle due sorelle in la maggiore D. 959 e in si bemolle maggiore D. 960; queste tre sonate costituiscono dunque un gruppo omogeneo che dimostra la convinta decisione

del maestro di affrontare nuovamente e con precise intenzioni questo genere compositivo (e certo gli abbozzi che ci sono pervenuti testimoniano una particolare cura nella stesura di queste opere).
Può darsi, come sostengono alcuni (Einstein e Paumgartner fra gli altri) che l’intenzione di Schubert, nello scrivere le tre composizioni pianistiche, fosse quella di raccogliere l’eredità di Beethoven (scomparso l’anno precedente). In senso più lato, con le ultime tre Sonate Schubert riaffermò certamente il proprio attaccamento alle radici culturali del classicismo viennese, avvertendo contemporaneamente l’inattualità di una simile posizione in un mondo nel quale la società borghese privilegiava le esibizioni dei grandi virtuosi e le composizioni brevi e disimpegnate rispetto alle grandi forme, oltretutto di tendenza intimistica.
Infatti le Sonate D. 958/60 non presentano sconvolgenti novità formali, né sperimentalismi linguistici, anzi esse si allontanano da certe novità delle sonate composte in precedenza dall’autore dopo il 1825, come già aveva acutamente intuito Schumann nella sua recensione del 1838, recensione peraltro curiosamente circospetta: «(…) queste sonate mi sembrano spiccatamente differenti dalle altre sue, specialmente per una molto più grande semplicità d’invenzione, per una volontaria rinuncia a brillanti novità in cui egli altra volta si compiaceva, per lo sviluppo di certe generali idee musicali, mentre altra volta sovrapponeva periodo su periodo. Come se ciò non potesse aver mai fine, non fosse mai in imbarazzo per proseguire, corre avanti di pagina in pagina sempre musicale e ricco di canto, interrotto qua e là da singoli sentimenti violenti, ma che presto si calmano nuovamente».
Schubert dunque sembra tornare a quella disposizione intimistica che era propria delle sue opere pianistiche precedenti al 1825; egli, tuttavia, compie questo “ritorno” con una esperienza tecnica compositiva decisamente superiore. Giustamente Schumann pone l’accento sulla capacità acquisita da Schubert di sviluppare le idee, e questo anche se gli sviluppi delle tre Sonate, così spesso criticati, non mirano certo a contrapporre dialetticamente le due idee melodiche basilari della forma-sonata, ma a creare degli episodi diversivi e insieme di collegamento fra esposizione e riesposizione del materiale tematico.
Del generoso melodismo, della ricchezza armonica e dell’invenzione ritmica di questo estremo pianismo schubertiano, la Sonata in do minore è un compendio mirabile. Strutturata, come le sorelle, in quattro movimenti, essa si differenzia da quelle per la presenza del Minuetto invece dello Scherzo, per la tonalità minore e per la drammaticità della sua impostazione, emergente già dall’incisiva idea iniziale del primo movimento; peraltro l’abbondanza melodica di questo tempo attenua il contrasto fra tale drammaticità e la pura cantabilità del secondo tema, come anche stempera la componente dialettica dello sviluppo. Segue un

Adagio, in la bemolle, la cui concentrazione intimistica viene alternata con un episodio più marcato. Dopo il Minuetto, che, con il suo carattere inquieto, ha una funzione interlocutoria, la tensione esplode nel Finale; questo, che verrebbe fatto di definire una “Tarantella viennese”, è una pagina nella quale la scrittura virtuosistica, applicata ad un ritmo incalzante e ad un tema ricorrente dal respiro affannoso, viene impiegata a fini drammatici, ricollegando con coerenza l’ultimo tempo all’impostazione del movimento iniziale.

Sonata per pianoforte in la maggiore D. 959

Dodicesimo dei quattordici figli di un maestro di scuola elementare emigrato dalla Moravia a Vienna, Franz Schubert era predestinato ad una vita modesta. Fu quasi completamente ignorato al di fuori d’una ristretta cerchia di ammiratori, composta per la maggior parte dai suoi stessi amici, e soltanto nell’ultimo anno di vita ebbe qualche segno d’interesse da parte degli editori, ricevette alcune commissioni e riuscì ad organizzare un concerto pubblico con proprie musiche, ottenendo finalmente qualche soddisfazione in termini sia di pubblico che di denaro. Questa tardiva ammirazione si rivolse soprattutto ai Lieder per voce e pianoforte e procurò a Schubert una reputazione di miniaturista che andò a scapito dei lavori di maggiori proporzioni. Così, quando il 2 ottobre 1828 scrisse al rappresentante dell’editore Artaria, offrendogli alcune nuove composizioni, soltanto i Lieder su testo di Heine incontrarono un certo interesse, mentre capolavori come le tre ultime Sonate per pianoforte e il Quintetto per archi furono rifiutati senza appello. Soltanto undici anni dopo la sua morte, nel 1839, le ultime Sonate furono pubblicate da Diabelli, convinto dalla strenua opera di apostolato di Ferdinand Schubert, fratello del compositore. Comunque tutte le Sonate incontrarono scarsissimo interesse, cosicché per oltre un secolo gli unici lavori pianistici di Schubert che ebbero ampia diffusione furono gli Improvvisi e i Momenti musicali, mentre le oltre venti Sonate cominciarono ad attirare l’attenzione degli interpreti e del pubblico soltanto dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Pur con queste ombre, i successi del 1828 – ultimo anno della sua breve vita – furono per Schubert un primo passo verso il giusto riconoscimento della sua arte e quindi avrebbe potuto essere un periodo di serenità e di ottimismo, invece il giovanissimo musicista scivolò nella più nera disperazione, di cui ci da un’immagine la totale desolazione che avvolge la Winterreise, il ciclo liederistico composto alla fine del 1827. Ormai la malattia – un’infezione venerea allora incurabile – non gli dava più scampo. Emicranie, vertigini, nausee diventavano sempre più frequenti. Cercò di reagire intensificando i rapporti sociali con la sua piccola cerchia di amici e ammiratori e componendo sempre più freneticamente, come se temesse di non riuscire a dire tutto quel che voleva prima che giungesse la fine. Sempre più debole, a settembre si trasferì a casa del fratello Ferdinand, dove compose le tre Sonate D. 958, 959 e 960 e il Lied con clarinetto obbligato “Der Hirt auf dem Felsen”. Completamente esausto, alla fine di ottobre fu costretto a mettersi a letto e il 19 novembre 1828 morì. Dopo una modestissima cerimonia funebre nella chiesa di Santa Margherita la salma fu tumulata, secondo il desiderio del defunto, nel cimitero suburbano di Währing, dov’era sepolto anche Beethoven.

Franz Schubert

Le tre Sonate ultimate da Schubert nel settembre 1828 sono tra le massime opere di tutta la letteratura pianistica e non è esagerato dire che sono gli ultimi grandi capolavori nel genere della Sonata per pianoforte, se si considera che quelle di Schumann, Chopin e Liszt difficilmente possono essere considerate Sonate nel senso classico del termine e che quelle di Brahms sono opere giovanili. In queste Sonate schubertiane si è soliti vedere l’influsso di Beethoven ed effettivamente le grandi dimensioni e l’energico e ritmato tema iniziale della Sonata in la maggiore D. 959 possono far pensare all’autore dell'”Appassionata”, ai cui funerali Schubert aveva partecipato appena alcuni mesi prima, sorreggendo uno dei ceri del corteo funebre. Ma sono somiglianze superficiali, perché in Schubert la tensione drammatica senza respiro di Beethoven si scioglie in diffuso lirismo e il suo serrato percorso formale si allenta e lascia spazio ad impreviste divagazioni, come nella sezione di sviluppo di questa Sonata, che si basa interamente su temi nuovi, non presenti nell’esposizione, e assume un andamento libero e un carattere quasi di Ballata.
Più “difficile” della contigua Sonata in si bemolle maggiore D. 960, la Sonata in la maggiore è un’opera di altezza sublime, che raggiunge le più elevate vette dell’espressione. Questo tono alto s’impone già col possente e grandioso primo tema, che afferma con energia la tonalità di la maggiore; ma subito questo vigore lascia il posto a scorrevoli passaggi in terzine, che compariranno e scompariranno durante tutto il movimento. Una transizione dalle soluzioni armoniche audaci e sorprendenti, impregnate di forti dissonanze, conduce al secondo tema, una melodia lirica dal carattere nobile e sereno, che, dopo nuovi momenti di forte tensione armonica, conclude l’esposizione in modo tranquillo e contemplativo. La sezione successiva si distacca nettamente dalla tradizione, perché, invece di sviluppare i temi precedentemente enunciati, si basa su un nuovo, splendido tema lirico, trattato con semplicità e limpidezza di scrittura che ne esaltano la libertà improvvisativa. Quando questo tema si dissolve all’acuto, un movimentato crescendo prepara la regolare ripresa dell’esposizione, in cui però sono innumerevoli gli ingegnosi cambiamenti introdotti da Schubert, fino a una coda in cui il motivo in terzine torna un’ultima volta a concludere in un’atmosfera trasfigurata e sognante questo movimento iniziato così vigorosamente.
Questo amplissimo primo tempo è seguito dal conciso Andantino in 3/8, nella tonalità di fa diesis minore. Sull’ondeggiante accompagnamento della mano sinistra la destra canta una delle ultime meravigliose e purissime melodie create da Schubert, desolata ma dolce, infinitamente malinconica ma immersa in una luce di serenità ultraterrena. Il suo tono assorto, quasi ipnotico, è interrotto da un episodio centrale drammatico, dai cui accidentati scontri armonici nasce un’inquietante e allucinata agitazione senza vie d’uscita, come il volo di un uccello impazzito che sbatte contro le pareti d’una stanza.
L’Allegro vivace rimanda a Beethoven nel trattamento della forma dello Scherzo ma nella sostanza è un’affascinante pagina assolutamente schubertiana, pervasa dallo spirito delle danze popolari austriache e caratterizzata da vivaci staccato. Dopo la brillantezza della prima parte, quella centrale – un Trio in

tempo Un poco più lento – è più tranquilla ed è giocata sui continui incroci delle mani.
Il finale è un Allegretto in forma di Rondò, il cui brioso refrain è un ultimo sprazzo della felice giovinezza ormai perduta. Nel suo tema iniziale Alfred Einstein ha sentito una “felicità perfetta” e ha riconosciuto una forte affinità con la melodia di Im Frühling (In primavera), un Lied del 1826: “In silenzio sto sul declivio del colle, il cielo è così luminoso”. Ma, se l’atmosfera iniziale è quella di un Lied, il tema viene poi elaborato in forme più complesse, discostandosi dalla semplice melodia vocale e ripresentandosi ogni volta con un carattere diverso: nel suo primo ritorno raggiunge momenti di tesa drammaticità e infine, verso la conclusione, è frammentato da modulazioni improvvise e interrotto da pause sospese, prima che un’accelerazione porti ad una vorticosa coda, che suggella il movimento con una citazione delle energiche battute iniziali della Sonata.

Sonata per pianoforte in si bemolle maggio D. 960

Nato e cresciuto a Vienna – la città di Haydn, Mozart e Beethoven – Franz Schubert sente ancor più forte, rispetto a Chopin, Schumann, Mendelssohn e Liszt che stanno per esplodere sulla scena musicale europea, il peso schiacciante di quella tradizione musicale. Pur essendo di quasi trent’anni più giovane rispetto a Beethoven gli sopravvive di appena un anno e mezzo, morendo nel 1828 a soli trentun anni. Eppure, nonostante questa vicinanza geografica e cronologica (o forse proprio anche grazie ad essa), fin da giovanissimo Schubert dimostra una totale autonomia stilistica rispetto al modello beethoveniano. Oltretutto Schubert, a differenza di Beethoven, ma anche dei quattro grandi romantici e perfino di Mozart, non è un pianista concertista, non usa il pianoforte e le sue proprie composizioni pianistiche per affermarsi nei salotti e nelle sale da concerto, come dimostra anche il fatto che egli non compone alcun Concerto per pianoforte e orchestra, genere che dall’epoca di Mozart a quella del giovane Chopin è stato il genere per antonomasia del pianista-compositore. Schubert invece si esibisce al pianoforte prevalentemente per accompagnare le sue centinaia di Lieder e anche se abbiamo diverse testimonianze della grande espressività del suo tocco, la sua tecnica non è paragonabile a quella della generazione di virtuosi che si va affermando in Europa intorno alla metà degli anni Venti.

Maurizio Pollini

Comunque non si deve pensare che questo Schubert non-pianista abbia avuto con la Sonata per pianoforte un rapporto sporadico: sono almeno una ventina le Sonate cui lavora nei quattordici anni compresi tra il 1815 e il 1828, anche se alcune, proprio come avviene anche nelle sue Sinfonie e nei suoi Quartetti per archi, restano solo allo stadio di frammento. Ma nella Vienna di Beethoven, Schubert fatica ad affermarsi, se non parzialmente come autore di Lieder, e le sue Sonate per pianoforte vanno incontro a un clamoroso insuccesso editoriale: durante la sua breve vita riesce a pubblicarne solamente tre, mentre Beethoven ne scrive trentadue e le pubblica tutte. Quando nella primavera del 1825 propone la Sonata in la minore D. 845 all’editore Hüther, questi gli offre di pubblicarla al «prezzo più basso possibile» perché opera di un «principiante»; in realtà quel «principiante» ha scritto già circa ottocento composizioni pubblicandone una quarantina, ma in effetti non lo conosce quasi nessuno.
Nel settembre del 1828, due mesi prima della morte, in un unico slancio creativo paragonabile a quello con cui Mozart nell’estate del 1788 ha dato vita alle sue ultime tre Sinfonie, Schubert porta a termine tre grandi Sonate per pianoforte: la Sonata in do minore D. 958, la Sonata in la maggiore D. 959 e la Sonata in si bemolle maggiore D. 960, accomunate dalle ampie dimensioni, dalla struttura in quattro movimenti, dalla totale rinuncia a ogni tratto esteriore e magniloquente in favore di un frequente ricorso a toni liederistici, dall’intenso sfruttamento del registro medio-grave della tastiera, dalla completa emancipazione dal modello beethoveniano.
La Sonata in si bemolle maggiore D. 960, ultima della triade e dell’intera produzione schubertiana, viene terminata il 26 settembre del 1828 ed eseguita in pubblico per la prima volta già il giorno dopo, nel corso di una straordinaria serata musicale in casa del dottor Ignaz Menz in cui Schubert probabilmente esegue per gli amici anche le altre due Sonate gemelle e accompagna il barone von Schönstein in alcuni Lieder tratti dalla Winterreise. Cinque giorni dopo, scrive all’editore Probst per offrirgli le sue opere più recenti: «Ho composto, tra l’altro, tre Sonate per pianoforte solo, che mi piacerebbe dedicare a Hummel. Ho pure composto alcune canzoni su testi di Heine di Amburgo, che qui sono piaciute in modo straordinario, ed infine un Quintetto per due violini, una viola e due violoncelli. Ho già eseguito le Sonate in alcuni posti, ricevendo molti applausi, ma il Quintetto sarà provato solo prossimamente. Se qualcuna di queste composizioni Le conviene me lo faccia sapere». Evidentemente nessuno di quei lavori conviene a Probst, così come in quello stesso periodo all’editore Schott di Magonza non convengono né il Quintetto in do maggiore, né i 4 Impromptus D. 935, giudicati «troppo difficili per essere delle bagatelle». Le parole con cui si conclude la lettera di Schott dimostrano che l’esperto editore riconosce il talento di Schubert, ma individua perfettamente i motivi che in quel momento non rendono vendibile la sua musica: «Se le capita di comporre qualcosa di meno difficile e nello stesso tempo brillante, possibilmente in una tonalità più facile, la prego vivamente di volermela inviare senz’altro».
Poco più di un mese dopo aver scritto a Probst, il 19 novembre del 1828, Schubert muore, appena trentunenne; qualche giorno dopo suo fratello Ferdinand offre le tre Sonate per pianoforte a Tobias Haslinger per settanta fiorini l’una, una somma molto bassa per lavori di quel genere, ma senza successo. Bisogna attendere il 1838 perché vengano infine pubblicate dall’editore Diabelli che decide di dedicarle, essendo Hummel nel frattempo morto da un anno, a Robert Schumann, da sempre entusiasta assertore della genialità di Schubert sulle pagine della sua rivista. Poco tempo dopo, sulla «Neue Zeitschrift für Musik», appare la recensione di Schumann, come sempre acutissima, che definisce le tre ultime Sonate di Schubert «notevoli, ma in un senso diverso dalle altre». Particolarmente illuminanti le parole scritte proprio a proposito della Sonata in si bemolle maggiore: «mentre in genere egli chiede tanto allo strumento, qui rinuncia volontariamente ad ogni novità brillante ed arriva ad una semplicità di invenzione ben più grande: altrove egli intreccia nuovi legami di episodio in episodio, qui invece distende e dipana alcune idee musicali generali. Così la composizione scorre mormorando di pagina in pagina, sempre lirica, senza mai pensiero per ciò che verrà, come se non dovesse mai arrivare alla fine, interrotta soltanto qua e là da fremiti più violenti che tuttavia si spengono rapidamente».
Il primo tempo della Sonata in si bemolle maggiore (Molto moderato) è per l’appunto una di quelle straordinarie pagine schubertiane in cui si perde completamente la nozione dello scorrere del tempo per entrare in una dimensione al di là e al di sopra del concreto e del tangibile. La stringente logica beethoveniana, la necessità quasi ineluttabile di ogni gesto musicale del maestro di Bonn vengono ancora una volta totalmente negate da Schubert in favore di un procedere fantastico e libero che asseconda i moti dell’animo, generando sorprese continue a livello tematico, armonico, timbrico. Il movimento si apre sommessamente in un’ineffabile atmosfera di sogno con un dolcissimo tema dal tono parlante interrotto per un attimo da un cupo trillo di sol bemolle nel registro grave, che tornerà a farsi sentire minacciosamente nel corso del movimento. Sul piano tonale il primo movimento rispetta apparentemente il tradizionale rapporto tonica-dominante (si bemolle-fa maggiore) che Schubert però, come è sua abitudine, arricchisce enormemente dando vita a una serie ininterrotta di peregrinazioni armoniche che conferiscono al brano un fascino emozionante: il cantabilissimo secondo tema viene esposto a sorpresa in fa diesis minore (che richiama enarmonicamente il sol bemolle del cupo trillo di poco prima) la prima volta, e in si minore nella ripresa; lo sviluppo si apre nella tonalità assai lontana di do diesis minore che sarà poi la tonalità d’impianto del secondo movimento.
L’Andante sostenuto è attraversato dalla stessa fantastica atmosfera di sogno in cui si è aperto il primo movimento e come quello è una pagina «di sconvolgente bellezza che sfida ogni descrizione», secondo le parole di Harry Halbreich. Gli ingredienti, ancora una volta, sono apparentemente semplicissimi: una melodia triste e meditativa affidata alla mano destra si leva lentamente sull’ostinato scampanio della sinistra su tre ottave, dando vita a una desolata pagina dall’effetto quasi ipnotico e dagli avveniristici colori; segue una parte centrale in la maggiore dal tono più sereno e ottimistico che porta alla ripresa della prima parte, resa ancora più cupa da nuovi borbottii alla mano sinistra: anche qui Schubert aggiunge fascino e mistero a una pagina già straordinaria, facendo cambiare i colori delle armonie in modo imprevedibile: sol diesis minore, do maggiore, do diesis maggiore…
Dopo circa mezz’ora di vertigine ad altezze siderali, segue un breve e leggero Scherzo (Allegro vivace con delicatezza) in si bemolìe maggiore, la cui spensieratezza non viene intaccata dai toni più pensosi del Trio in si bemolle minore, caratterizzato dalle frasi irregolari di dieci battute e dagli accenti spostati. La stessa spensieratezza a tratti disarmante anima anche l’Allegro ma non troppo conclusivo, un sereno rondò in cui uno degli episodi intermedi cita quasi letteralmente il motivo di tarantella dell’ultimo tempo della Sonata in do minore D. 958. La maggior leggerezza degli ultimi due movimenti rende finalmente più respirabile l’atmosfera, a lungo così irrealmente rarefatta da far rischiare spesso l’anossia, di questa straordinaria Sonata alla quale si attaglia perfettamente la definizione data qualche anno prima da Ferdinand Hiller del modo di suonare di Schubert: «era come se la musica non avesse bisogno di suoni materiali, come se le melodie, simili a visioni, si rivelassero a orecchie spiritualizzate».

Drei Klavierstucke D. 946

«La poesia romantica è ancora in fieri; anzi, è la sua vera essenza che può sempre solo divenire, mai essere compiuta». «Frammenti […] sarebbero la vera forma della filosofia universale. La forma non conta». Così scrisse sul secondo numero della rivista «Athenäum» nel 1798 il critico Friedrich Schlegel. «Liriche – semplicemente armoniose e piene di belle parole – ma anche senza senso o nesso – solo alcune strofe intelligibili – devono essere solamente frammenti delle più svariate entità». Adottando anch’egli la “forma” del frammento, Novalis, collaboratore della rivista e coetaneo di Schlegel, lasciò queste considerazioni, risalenti agli anni che hanno visto sorgere la scuola romantica tedesca.
Benché siano state composte musiche decisamente romantiche già sul finire del secolo XVIII – in pieno Classicismo, quindi – il termine Romanticismo è legato ai nomi di Schumann, Chopin e Liszt, compositori cioè che operarono sostanzialmente a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento. Quanto a Mendelssohn, non a caso un libro fondamentale sulla sua figura si intitola Das Problem Mendelssohn (a cura di Carl Dahlhaus, Ratisbona, 1974), a riprova del fatto che è difficilmente collocabile nei troppo angusti schemi di Classicismo e Romanticismo.

Maurizio Pollini

Caso a parte costituisce Schubert, contemporaneo di Beethoven, per il quale nutrì una profonda ammirazione pur seguendo vie proprie: se le Sonate furono il fulcro della produzione pianistica beethoveniana, in Schubert una notevole importanza (anche numerica!) la assumono i piccoli pezzi che, seppure non proprio frammenti, sono brani in cui il peso della tradizione classica era meno avvertibile se non assente. Le Sonate schubertiane rimaste frammentarie sono ben otto, contro le sedici portate a termine, cui vanno ad aggiungersi, in campo sinfonico, oltre alla celeberrima “Incompiuta”, schizzi e frammenti di cinque Sinfonie contro le sette complete. Non va data troppa importanza al mero numero delle opere incompiute del compositore viennese, ma le tendenze sono indicative: le forme piccole sono tra le preferite di Schubert.
Gli Impromptus (Improvvisi) godono di notevole popolarità; lo stesso titolo, non originale ma del primo editore, accenna al carattere estemporaneo dei brani, sottolineandone la forma libera anche se non rapsodica. Oltre agli Impromptus op. 90 e op. 142, vi è un altro gruppo, costituito dai 3 Klavierstucke D. 946. Pubblicati solo nel 1868, risalgono al maggio del 1828, ultimo anno di vita dell’autore, e risentono del clima espressivo delle ultime opere.
Il primo inizia con un Allegro assai in mi bemolle minore dal tema fortemente ritmico, caratterizzato da un accompagnamento ansioso di terzine; ai due ritorni dell’Allegro si alternano due sezioni contrastanti per l’andamento ma egualmente tese sotto il profilo espressivo.
Il secondo Klavierstuck presenta strutture quasi da manuale, un tema (Allegretto, in mi bemolle maggiore) di un candore tipicamente schubertiano, mentre la seconda parte con alcune appoggiature anticipa Brahms; le sezioni B e C del brano (dalla forma ABACA) sono nella relativa minore e in la bemolle minore.
La densa scrittura accordale e alcune violenze ritmiche del terzo brano (Allegro, in do maggiore) hanno fatto sì che certa critica vi abbia voluto vedere qualche parallelo con musiche ceche, anivando persino a citare il nome di Bedrich Smetana.