Schumann Robert

Sinfonie integrali

Realizzata da Karajan nel gennaio-febbraio del 1971, l’integrale delle sinfonie di Schumann rappresenta sicuramente uno dei vertici assoluti sia nella discografia di queste mirabili quanto problematiche pagine, sia nel lascito complessivo del direttore salisburghese.
Se Bernstein, l’altro principale interprete di riferimento di queste musiche, tende spesso a leggerle alla luce del futuro, facendone trasparire le premonizioni brahmsiane e mahleriane, Karajan ci presenta invece uno Schumann “juxta propria principia”, tutto calato nelle fervide e luminose atmosfere del primo Romanticismo, riuscendo come forse nessun altro a conciliare la fluidità del discorso, la coesione strutturale e la regolarità dei tempi (vera e propria quadratura del cerchio in un contesto dove quasi tutti gli interpreti ricorrono diffusamente al rubato). Fra le riuscite più esemplari si segnalano il primo movimento della Primavera (si faccia caso all’inedita morbidezza raggiunta nel problematico passaggio ai sec. 40-45 dell’introduzione, o alla ripresa del tema introduttivo dopo lo sviluppo, grandiosamente sottolineato dal triangolo, da 7′ a 7’30”) e la straordinaria sintesi di solennità e scorrevolezza nel complicato “Feierlich” della Renana (quarto tempo).
Quelli appena evidenziati, beninteso, sono casi di risoluzione particolarmente brillante di episodi fra i più difficoltosi, non certo di momenti interpretativi che si impongano sul resto: perché è davvero impossibile, in queste letture, trovare qualcosa che non sia perfettamente riuscito. Si pensi all’inconsueta solidità architettonica che acquistano, senza nulla perdere della loro vibratile suggestione, il grande poema romantico della Quarta (al cui equilibrio giova il tempo leggermente più moderato del solito adottato nel finale) e l’ambizioso edificio della Seconda, il cui terzo tempo è in pratica l’unico autentico esemplare di adagio a melodia infinita nel secolo o poco meno che separa la Nona di Beethoven dalle sinfonie di Mahler, mentre nel finale viene portato in trionfo quel tema dell’ultimo Lied di An die ferne Geliebte che ha “perseguitato” la fantasia di Schumann per quasi tutta la vita (Fantasia op. 17, prima Novelletta, terzo tempo della Renana etc.).
Merito non indifferente di Karajan – condiviso con Solti, Sawallisch e pochi altri – è anche l’aver incluso nell’integrale l’Ouverture, scherzo e finale op. 52, che non sarà una sinfonia nel senso letterale del termine ma è pur sempre perfettamente omogenea con il loro mondo, e rappresenta anzi uno dei momenti più avanzati dell’esplorazione schumanniana sulle forme sinfoniche cicliche (e nell’evocazione di più o meno criptiche reminiscenze beethoveniane: si pensi alla frase iniziale dell’andante introduttivo, dichiarata reminiscenza degli ultimi quartetti, mente la formula puntata che domina in vario modo tutti e tre i movimenti è imparentata col primo temo della Settima, e il trio dello scherzo col corrispondente episodio della Nona, senza contare le affinità tra la testa del tema e il motivo della Gioia). Anche qui si segnala un vertice interpretativo nel grandioso episodio a mo’ di corale che segna il culmine dell’ultimo movimento (da 4’20”).

La chiarezza del virtuosismo

Karajan e Schumann: il capitolo più incandescente del sinfonismo romantico nella mediazione del direttore che forse con maggiore forza rispetto ad ogni altro nel nostro tempo ha imposto l’interpretazione come totale appropriazione stilistica della pagina da parte dell’esecutore. Sono incisioni dei primi anni Settanta: l’epoca in cui Karajan, consolidando un primato indiscutibile almeno sul piano della rappresentatività storica, percorreva sistematicamente il repertorio consegnandolo al disco – in alcuni casi si trattava di recidive, e non sarebbero state nemmeno le ultime – in interpretazioni paradigmatiche, addensate in numerose esecuzioni integrali. L’artista maturo, espertissimo, celebratissimo, con a propria disposizione un’orchestra allora in ogni senso sua e le risorse di una tecnologia ormai prodigiosa (quel periodo fu anche, come ognuno sa, una fase d’oro nella storia della musica registrata, ormai in possesso di metodiche di ripresa e di riproduzione del suono così sofisticate da potersi porre come parte integrante dello stesso atto interpretativo: e anche in ciò Karajan ci appare emblematico del tempo in cui si è trovato a operare, nel molto bene e in quel che ci si può vedere di male), alle prese con i testi chiave della cultura musicale moderna. Un corpus di incisioni pressoché sterminato, all’interno del quale questa integrale delle Sinfonie di Schumann si segnala certamente come una delle voci più interessanti.
In primo luogo per il rilievo straordinario che sembra assumervi la tecnica direttoriale. C’è da pensare che nell’approccio di Karajan a pagine certo tutt’altro che semplici questa dimensione possa aver contato ancor più che non altrove (nello stesso Beethoven, per esempio; o in Mozart).
Ed è un fatto che pochi monumenti in tutta la storia della composizione sinfonica pongono al direttore d’orchestra problemi di gestione tecnica così concreti, a volte addirittura spinosi, come quelli disseminati lungo le partiture di Schumann. E sotto più di un profilo, fra l’altro. C’è il noto e fin troppo spesso citato problema della scrittura orchestrale di Schumann: giudicata da più d’uno a torto o a ragione utopistica, quando non impropria addirittura, per un segno scritto che a volte sembra dichiarare un’intenzione più che promettere un risultato. Può trattarsi di un “tutti” orchestrale che riempie di segni la pagina senza tradursi spontaneamente in una sonorità densa e piena quale il concetto tradizionale del suono sinfonico sembra postulare; può trattarsi di un impasto di colori che rischia di nascondere, o non rendere abbastanza chiaro, il percorso compositivo; può, più semplicemente, trattarsi di una strumentazione che denuncia qua e là quasi un senso di fatica, quasi il disagio di un’intuizione creativa ambiziosa e ardita di fronte all’inerzia del materiale. Ma c’è anche tutta una serie di fatti più intimamente coinvolti con lo stesso pensiero creativo: l’inquietudine ritmica e dinamica, la polifonia convulsa che a volte impone quasi con violenza la sovrapposizione di più idee diverse, tutte prementi come con impazienza, e con lo stesso grado di importanza; e in genere tutti i caratteri stilistici ed espressivi che sono comuni all’impegnativo confronto di Schumann con la grande forma applicata all’orchestra e ai favolosi e visionari soliloqui pianistici della giovinezza: il lascito di uno stato di permanente inquietudine, formale ed espressiva, nel tessuto del sinfonismo di ascendenza classica, storicamente e tecnicamente condizionato a una certa prudenza di esposizione. Le date stesse sottolineano una certa continuità fra le due esperienze: la Prima Sinfonia risalendo al 1841; e allo stesso anno dovendosi ricondurre la composizione di quella che nel 1853, revisionata nella strumentazione, divenne l’attuale Quarta; mentre solo la Sinfonia in do maggiore oggi catalogata come Seconda, del 1845-46, e la “Renana”, della fine del 1850, ci portano ben dentro gli anni della faticosa e contraddittoria maturità di Schumann. Della quale, anzi, forse solo la Terza (in realtà ultima) sembra costituire un emblema attendibile, nella riuscita grandiosità del suo impianto.

Herbert von Karajan

Quattro capolavori difficili, senza quella garanzia del buonsenso e della prudenza del buon artigiano che opera così utilmente, per esempio, nelle Sinfonie più o meno contemporanee di Mendelssohn, gemello diverso.
Karajan vi interviene anzitutto cercando – e facendo – chiarezza. È un approccio nel quale intenzioni e mezzi sembrano più che mai coincidere; e nel quale si rivela più significativo che non altrove, forse addirittura determinante, il fatto tecnico. Di fronte a partiture così poco maneggevoli Karajan sembra intervenire appunto risolvendo anzitutto i problemi più concreti, grazie ad una tecnica direttoriale in questi anni probabilmente allo zenit. Fraseggio e ritmo, timbro ed equilibri dinamici, tutto risponde evidentissimamente al controllo ferreo di una direzione che sembra davvero potersi permettere qualsiasi scelta, anche la più arrischiata. Ecco allora scorrere con una limpidezza forse non uguagliata in tutta la storia del disco partiture di solito ingorgate o addirittura incespicanti, e adesso liberate da ogni impaccio dall’azione di uno straordinario virtuosismo ritmico, che impone agilità e leggerezza anche agli aggregati sonori più densi, anche al fraseggio più tortuoso.
Risultato e strumento al tempo stesso, c’è il tipico suono dei Berliner con Karajan: lucente, teso, più volentieri tagliente che non corposo, più facilmente
chiaro che non morbido; con i violini (capitanati da Michel Schwalbé, solista eccezionale nella Romanze della Quarta) portati sempre in primo piano in una ricerca strenua di luce; gli strumentini penetranti e incisivi; gli ottoni sfolgoranti, quasi inseguendo una sonorità esplosiva eppure in fondo smaterializzata.

Karajan e i Berliner Philharmoniker

Tutto ciò è messo in opera con il gusto dell’eccesso tipico già di questo Karajan alle soglie della vecchiaia: contrasti dinamici sovente estremizzati; oscillazioni agogiche pure notevoli (e sono forse gli unici momenti in cui l’interprete si permette soluzioni non esplicitamente indicate nel testo: altrove si può magari spingere un “forte” o un “crescendo” al di là del limite previsto dall’autore, ma sempre partendo da un sostanziale rispetto del segno scritto); distribuzione deliberatamente spettacolare del suono nello spazio, con sfruttamento consapevole e totale delle potenzialità del mezzo discografico. Un dato importante, quest’ultimo: altra cifra caratteristica del Karajan dai Sessanta in là è la rinuncia a qualsiasi pretesa di simulare in disco le condizioni dell’ascolto in sala; con un progressivo allontanarsi dell’esecutore, ben cosciente di vivere in pieno villaggio tecnologico (e quanto si è interessato a queste cose Herbert von Karajan, fino all’ultimo), da quell’umanesimo ottocentesco donde è nata la figura stessa dell’interprete demiurgo; fino anzi a trasformare profondamente la stessa esecuzione dal vivo, che imiterà sempre di più (complice il virtuosismo di cui sopra) le condizioni della produzione registrata.
Non stupisce allora trovare lungo le tesissime e frementi partiture sinfoniche di Schumann l’esaltazione di sonorità aeree e danzanti, o addirittura il fugace aprirsi di qualche scorcio più idillico. Resta però, pur nella ritrovata leggibilità di partiture inquiete, nella recuperata logica di una composizione febbrile, nella rivendicata cittadinanza di Schumann anche nel capitolo più aurorale e ottimista del romanticismo, il riconoscimento di un già avviato processo di disgregazione stilistica.
Si è perlomeno tentati di interpretare in questo senso certi particolari di queste esecuzioni di Karajan: la debordante ed estenuata effusione melodica di alcune grandi frasi cantabili (qui davvero agisce quel suo “decadentismo” di cui tanto si è parlato), la sfrenata corsa verso l’abisso in cui sembrano talora risolversi nella lettura di Karajan le galoppate impetuose e la scatenata frenesia ritmica che così spesso irrompono nel tessuto delle Sinfonie di Schumann. Uno Schumann cui l’interprete si rivolge a volte quasi con tono celebrativo: come a voler rendere ancora più ampia l’ombra gettata su tutta la musica dell’Ottocento dal gran cireneo della Passione romantica.
(Daniele Spini)

Le incisioni schumanniane di Bernstein – datate, al solito, New York anni sessanta e Vienna anni ottanta – presentano una caratteristica di fondo che le apparenta alle altrettante integrali di Kubelik, e che si propone in forma più accentuata nella tarda versione viennese: vale a dire la tendenza a far coesistere la più scrupolosa attenzione a tutti i dettagli della partitura con un’altrettanto accentuata libertà nei tempi e nel fraseggio.
Ne fanno fede soprattutto gli scherzi, caratterizzati, oltre che da una contrapposizione dinamica particolarmente marcata fra scherzo e trii, anche da sensibili oscillazioni agogiche all’interno delle singole sezioni. Ma anche, e forse ancor più, certe code: come quella del finale della Seconda, con un prolungato effetto di ritardando e diminuendo che imprime un carattere di estenuazione quasi decadente a una conclusione che altri intendono come trionfale; o, all’opposto, le strette quasi vorticose che concludono i primi tempi, e soprattutto i finali, delle altre sinfonie. E che dire del finale della Prima, dove alla stretta segue un drastico rallentando nelle battute conclusive? Simili procedimenti ricordano da vicino il Furtwängler degli anni eroici (es. Quinta di Beethoven del 30 giugno 1943 con i Berliner).
Sarebbe fuori luogo cercare qui lo splendore fonico, la coesione d’insieme e soprattutto la fluidità delle letture di Karajan, che da questo punto di vista è probabilmente insuperabile. Anzi, come spesso avviene nel Bernstein degli
ultimi anni, si percepisce a tratti qualche lieve “rigidità di articolazioni” (si veda l’introduzione della Prima). L’autentico titolo di fascino di queste esecuzioni sta in compenso nello spirito di ricerca, nella vena rabdomantica che le percorre: insomma, nella spiccata tendenza a far leggere tra le righe, senza bisogno di alterare la lettera nè lo spirito delle partiture (anzi, semmai, mettendone in evidenza certi dettagli che altri lasciano in ombra), tutte le premonizioni di autori a venire che vi sono disseminate. Così, ad esempio, il primo tempo della Seconda appare concepito in una luce brahmsiana, mentre l’adagio, l’unico grande adagio a melodia infinita che sia stato composto nel mezzo secolo dopo la Nona di Beethoven, ha già qualche sfumatura mahleriana. E più pre- mahleriani che mai si rivelano senza equivoci certi particolari dell’orchestrazione: ad esempio, nella Prima, il prolungato squillo dal triangolo che sottolinea, accrescendone la grandiosità, la ripresa in fortissimo del tema dell’introduzione alla fine dello sviluppo (in Mahler, lo stesso effetto si troverà nelle battute conclusive del finale della Prima); o, nell’ultimo movimento, l’attimo di estasi naturalistica quasi fuori del tempo, quando, prima della riesposizione, al segnale lontano e quasi languido dei corni si sovrappone il trillo del flauto. Intuizioni timbriche che, si badi, risalgono proprio a Schumann e non ai noti “ritocchi” mahleriani, perché Bernstein è fra i direttori che seguono più scrupolosamente la partitura originale.

Sinfonia n. 1 in si bemolle maggiore op. 38 “La Primavera”

L’esordio di Schumann sulla scena sinfonica avvenne poco dopo il suo matrimonio con Clara Wieck, quando egli aveva ormai già ultimato gran parte della propria produzione pianistica. Proprio la percezione che il pianoforte stesse diventando uno strumento espressivo troppo angusto per dare forma alla sua vena creativa, unita all’ammirazione di opere come la «Grande» Sinfonia in do maggiore di Schubert, spinsero Schumann a intraprendere la strada della composizione per orchestra, nonostante egli stesso confessasse la propria inesperienza in questo tipo di scrittura.
La Prima Sinfonia nasce in un periodo di particolare fertilità compositiva, tanto che venne abbozzata in pochi giorni e completata in meno di un mese, tra il gennaio e il febbraio del 1841. La freschezza creativa, la spensierata leggerezza dei suggelli tematici di quest’opera sono in parte spiegate dai sottotitoli assegnati, e successivamente rimossi, dei vari movimenti: Risveglio della primavera – Sera – Compagni di lieti giochi – Piena primavera, brevi accenni programmatici che, lungi da alcun tipo di descrittivismo bucolico, suggeriscono il sentimento unitario con cui è stata pensata l’intera composizione.
Con la sola eccezione della «Renana», le sinfonie di Schumann si aprono sempre con una introduzione lenta; ecco quindi una fanfara degli ottoni, che

contiene già il germe tematico dei primi due movimenti, a cui seguono fremiti orchestrali carichi di tensione, che gradualmente si stemperano in un’atmosfera più pacata. Si giunge così all’Allegro con un tema brillante e risoluto, la cui corsa si arresta momentaneamente solo davanti al secondo gruppo tematico che, dopo un inizio sommesso dei legni, recupera gradualmente il serrato dinamismo dello spunto iniziale. La sezione centrale di Sviluppo è interamente sottesa dal ritmo del primo tema; su di esso però Schumann inserisce un nuovo elemento tematico, compensando così la mancanza nell’Esposizione di un vero e proprio motivo cantabile. L’inattesa citazione di un frammento dell’introduzione segna l’arrivo della Ripresa; in essa viene inizialmente escluso il primo tema, già ampiamente ascoltato nello Sviluppo, che tuttavia non manca di essere riproposto nella fase finale con lunghe reiterazioni, seguite da un tranquillo ordito armonico degli archi e da una brillante fanfara conclusiva.
Tratto dal motivo con cui gli ottoni aprono la sinfonia, il tema principale del secondo movimento (Larghetto) è una serena melodia che si snoda lentamente sulle note dei violini. Dopo un primo episodio interlocutorio, il tema passa alla calda voce del violoncello in una diversa tonalità (dominante), per poi, dopo un secondo episodio intermedio, tornare alla tonalità iniziale, con oboe e trombone basso; segue infine una coda conclusiva.
Il tema dello Scherzo (Molto vivace) gioca sull’antinomia tra un motivo brusco e sferzante in minore e un intreccio melodico dei legni dolce e aggraziato. A esso Schumann alterna non uno, ma due distinti episodi, con una scelta insolita che rende questo movimento simile a un rondò. Abbiamo dunque il Trio I, caratterizzato da un delicato «botta e risposta» accordale tra archi e fiati, e il Trio II, costituito da frammenti di scale a note staccate che si inseguono. Nell’ultimo ritornello dello Scherzo il secondo motivo del tema si ripresenta con un incedere più statico, mentre echi del Trio I e una morbida discesa sincopata degli archi concludono il movimento.
Nel tempo finale (Allegro animato e grazioso) un perentorio stacco introduttivo, prefigurazione del disegno ritmico del secondo tema, dà il via al serrato flusso del primo tema. Ben più caratterizzato è però il già citato secondo tema che, anche nell’episodio di transizione, cerca di emergere anticipatamente con vigorosi slanci all’unisono degli archi, per poi liberarsi finalmente in un’esuberante declamazione di tutta l’orchestra. Nello Sviluppo alcune frammentarie citazioni del secondo tema vengono interrotte da uno stacco dei tromboni, da cui parte una sommessa ma incalzante linea di basso sostenuta dai tremoli degli archi, che ricalca il ritmo sincopato dello stesso secondo tema.

Clara Wieck

Due brevi spunti solistici dei corni e del flauto sono il segnale che delimita il sopraggiungere della Ripresa in forma tradizionale, che viene a sua volta completata da una pirotecnica stretta conclusiva.

Sinfonia n. 2 in do maggiore op. 61

Robert Schumann non aveva fatto, come Adrian Leverkühn, il patto col diavolo, ma, certo, si era legato con qualcosa di altrettanto insidioso per la sua anima: la letteratura e la filosofia (gli studi giuridici, si sa, non portano mai alla follia). La sua malattia, a differenza di quella del musicista manniano, si chiamava Jean Paul Richter, Hoffmann, Kant, Fichte, Schelling, Hegel. I sintomi, in fondo, gli stessi di Leverkühn: un processo di ambivalenza, difficile da districare e che conduce il soggetto alla disintegrazione e alla pazzia (certo a Johann Strauss, che il patto lo strinse col signor Biedermeier, non successe nulla del genere).
Schumann adolescente fu incerto, come Wagner, tra musica e letteratura: «Che cosa proprio sono — annota — non so io stesso ancora chiaramente». Quando a vent’anni si decise per la musica il suo dualismo era già costruito, e nella forma che il Romanticismo più «high-brow» prevedeva; in quella, cioè, di un profondo contrasto interiore, di un inguaribile dissidio, di un’ansia di fermare
l’attimo, di chiudere l’infinito nel finito. E proprio lo Hoffmann sosteneva che la musica era la più romantica delle arti, in quanto esprimeva l’infinito.
Ora, se Schumann fosse stato più fortunato (cioè meno intelligente, meno coerente e più superficiale), una volta scelta la musica, poteva sperare di liberarsi di un così incomodo «alter ego», ma, non essendo Mendelssohn, quel dualismo gli si trasferì naturalmente nel mondo dei suoni. Di questo dualismo egli ebbe tanta coscienza da simboleggiarlo — scrivendo i suoi saggi — nelle due figure di Eusebio e Florestano: ossia l’aspetto sognante-contemplativo e quello fervido-appassionato della sua anima. E anche questo era un procedimento del prediletto Jean Paul, che aveva avuto l’idea, appunto, di sdoppiare un personaggio nelle due figure dei fratelli Walt e Wult.
E nella musica di Schumann, infatti, il dissidio è presente nell’opposizione di melodie e ritmi, disegnati con estrema concretezza, con un vigore che è il segno di una forza consapevole, libera, ma non sfrenata. Il tarlo di questo «Warum?» (Perché?) è già presente nel diario di adolescente: «lo non posso mai proseguire logicamente il filo, che ho forse ben annodato», scrive Schumann, e, infatti, molto spesso le singole pagine della sua musica sono tra loro indipendenti, allineate soltanto secondo un’elementare dialettica di contrasti espressivi, una tensione all’unità, dell’universo magari, del non-io comunque.
Nell’educazione artistica di Schumann tengono lo stesso posto poeti e musicisti. Nella sua musica la letteratura ha grande spazio: nei «Lieder» (la sfera di Eusebio) ci sono Goethe, Heine, Rückert, Platen, Möricke, Eichendorff, Chamisso, Shakespeare, Byron, Burns, Shelley (andrebbero studiate meglio le «liaisons dangereuses» di Schumann con la lirica tombale inglese) e nel «Manfred» o nelle «Scene dal Faust» (la sfera di Florestano) ancora Byron e Goethe.
Eppure questo rapporto ‘frana’, talvolta, anche in ‘matrimonio morganatico’ e in ‘flirt inconsulto’. «Da Jean Paul — dichiara Schumann — ho imparato più contrappunto che dal mio insegnante di musica» (aveva ragione quel Mestro Raro, che era Friedrich Wieck, a non volergli dare la propria figlia in moglie!). Arriva, addirittura, a proporre ai musicisti di foggiare il linguaggio mediante lo studio di Shakespeare e Jean Paul. Ora, per dare un’idea, codesto Jean Paul nel «Flegeljahre» scrive: «La musa porta lievemente sull’eterno specchio — delle acque infuocate dal Vesuvio — la disperazione del mondo: e gli infelici vi guardano dentro e sono anch’essi rallegrati dal dolore». Si è mai visto banalizzare più ‘allegramente’ il concetto romantico di liberazione dell’artista dall’enormità del dolore, dal «Weltschmerz»? Ma, per Schumann, Jean Paul era adolescenza, fantasia, sogni. E, una volta non realizzato, quel mondo avrebbe finito per dilacerare il musicista.

Nel periodo in cui egli avverte i primi sintomi della malattia, che doveva, appunto, dilacerarlo, e cioè dalla fine del 1845 all’inizio del 1846, scrive la «Sinfonia n. 2 in do maggiore op. 61», che, cronologicamente, è però la terza. «L’ho scritta — sono parole dell’autore — quando ero ancora molto sofferente, e mi sembra che lo si debba avvertire all’ascolto; riflette la resistenza dello spirito contro le mie condizioni fisiche. Il primo movimento è pieno di questa lotta e del suo carattere capriccioso e ostinato». Per questa tensione compositiva l’opera è stata avvicinata al clima beethoveniano, anche se è ugualmente innegabile, che, nell’elaborazione, risente dell’eleganza e dell’abilità contrappuntistica di Bach.
La Sinfonia si articola in quattro movimenti. Il brano introduttivo è quasi una presentazione del carattere di tutta l’opera ed è, forse, la parte più interessante del primo tempo, che, fra l’altro, ricorda l’inizio dell’«Eroica». Il secondo movimento, «Allegro vivace», in cinque parti, contiene tre «pièces de caractère». Lo «Scherzo», per esempio, appartiene, con il movimento oscillante in semicrome di violini, al tipo «perpetuum mobile», ed è intervallato da due episodi in Trio, il primo dei quali si presenta leggero e amabile; mentre il secondo sorprende per la sua tecnica ‘polifonica’ — è, infatti, una melodia ‘corale’ — e per la sua trasparenza, che fa pensare alla musica da camera. Il terzo tempo, «Adagio espressivo», in do minore, solcato di presagi (e dagli accenti quasi mahleriani) è, senza dubbio, uno più bei movimenti lenti di Schumann.
L’inizio del tema, di ampio respiro, sembra derivato dal «Largo» del Trio dell’«Offerta Musicale» bachiana. Il tema più espressivo dell’«Adagio» appare anche in qualche momento della prima parte del tempo finale, creando, quindi, un contrasto con il tema principale ‘ditirambico’ di questo movimento; ma una nuova idea tematica domina la seconda parte, e, fondendosi con i motivi dell’Introduzione della Sinfonia, si eleva quasi a inno, concludendo l’opera con un ricordo del Lied «All’amata lontana» di Beethoven, in un clima di gioiosa esaltazione.

Robert Schumann

Anche su questa Sinfonia si sono addensati, fin dal suo apparire — fu eseguita, per la prima volta, da Mendelssohn il 5 novembre 1846 — i fulmini dei censori: Schumann non sapeva scrivere per l’orchestra, faceva (forse) fare all’oboe, ciò che di solito fa il violino; sbagliava, magari, nella scrittura degli strumenti traspositori; non dava equilibrio tra le varie famiglie di strumenti, ecc. E va bene. Nella Maestà di Duccio non c’è prospettiva; abbonda invece, e perfetta, nei quadri di Pietro Aldi o di Antonio Ciseri. E l’epistolario più sconvolgente della nostra letteratura è quello di Caterina da Siena, che era analfabeta.

Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore op. 97 “Renana”

Arcanamente sospeso in dimensioni di spazio e di tempo musicali ancora sconosciuti. Schumann è il primo compositore dell’Ottocento dopo Beethoven a perseguire. con la piena coscienza di compiere soprattutto un atto della volontà. l’ideale della ricomposizione in unità della grande forma musicale. La sua logica formale si rivela sotto un duplice aspetto: da una parte disorganica e decisa a riempire di contenuti nuovi gli schemi di una tradizione a cui pure è strettamente legata. Dall’altra apertamente sperimentale, percorsa da aneliti e slanci romantici che scuotono a ogni passo le fondamenta. Certe ricorrenze. come ad esempio il monotematismo o la tecnica della ripetizione variata, sono strumenti di strutturazione formale che tentano di risolvere il problema di una superiore unitarietà garantendosi, nel tema, un saldo punto di appoggio.
D’altra parte è proprio nel tema, il principio unificatore della musica classico- romantica, che si fa evidente la divergenza da Beethoven cui Schumann approda nelle sue Sinfonie: esso non è più, come in Beethoven. sviluppo di un’idea che si realizza soggettivamente nel processo formale considerato come un tutto, ma, invece, illuminazione sempre diversa di una medesima idea principale, che si ripete ossessivamente pur senza rimanere mai uguale a se stessa. In questa divergenza sta il senso di tutto un cammino storico: l’esperienza di Schurmamn, in sé così irripetibile, è a questo proposito decisiva e apre la strada verso la musica della seconda metà dell’Ottocento, sia come atteggiamento spirituale che come concreto punto di riferimento musicale.
Solo in questa visione più ampia e proiettata verso il futuro si può dunque arrivare a capire la portata delle ‘imperfezioni’ di Schumann e ad assaporarne il gusto tutto particolare: con un’apertura verso due direzioni principali: da un lato Mahler, che si ricollegherà alla dissoluzione della forma sinfonica classica favorita da Schumann con la tendenza all’ampliamento progressivo del tema nei suoi ritorni ciclici: dall’altro Brahms, che, perfezionando la poetica schumanniana della variazione, ne trarrà grande partito proprio nella strumentazione, nel ‘suono’ cioè di un’orchestra che ne è la diretta erede.
Nel settembre del 1850 Schumann si trasferì con la famiglia a Düsseldorf, dove era staso chiamato a ricoprire l’ambita carica di direttore dei concerti: si aprí cosí un breve periodo di serenità e perfino di insolito entusiasmo, a contatto di un ambiente accogliente, soprattutto nella semplice schiettezza della gente, qual era quello della cittadina renana. Di questo clima interiore placato porta un riflesso la Terza Sinfonia. composta appunto sullo scorcio di quell’anno e idealmente dedicata, tanto da essere nota come la Renana alla lieta spensieratezza della vita sulle sponde del fiume cantato da Heine.
Le interpretazioni più o meno impressionistiche e descrittive, che si sprecano a proposito della Renana fino a farne una «Sinfonia della natura» sull’esempio della Pastorale, pretendono di giustificarsi sulla base di una indicazione dello

stesso Schumann, che ebbe a definirla «un quadro di vita sul Reno». Ancora piú programmatico suonava il titolo originario apposto da Schumann all’inizio del quarto tempo, e in seguito deliberatamente soppresso: «Come accompagnando una solenne cerimonia» (per l’esattezza si trattava della cerimonia di inveslitura a cardinale dell’arcivescovo di Colonia, a cui Schumann assistette nel duomo, il 12 novembre 1850). Pur prescindendo da questi sempre reistrittivi riferimenti extramusicali su cui Schumann stesso ebbe a dire parole non certo tenere, è indubbio che la Terza Sinfonia ha un carattere apertamente festoso e solenne, quasi di giubilo, in uno spirito di «inno alla gioia» che la pervade da cima a fondo. Certo, qui la gioia non e più quella titanicamente metafisica di Beethoven: pure, in questa estroversione che si dispiega quasi come un canto popolare, ma che conosce anche i tratti più severi dell’ufficialità è da riconoscere una inclinazione tipica dell’anima romantica, non più schillerianamente universale ma in tutto e per tutto nazionale, tedesca, o, meglio, renana: renana nel senso che acquista, come simbolo squisitamente nordico, nella poesia di Heine, il poeta nativo di Düsseldorf e morto nello stesso anno di Schumann.
Di questo carattere fortemente plastico e dinamico è un adeguato esempio il prorompente tema che apre, «forte» e nello splendore della piena orchestra, il primo tempo, Vivace, nella tonalità dell’Eroica, mi bemolle maggiore. Questo tema, ripetuto con mutate destinazioni timbriche e in differenti piani sonori, domina incontrastato l’intero movimento; esso procede da se stesso, del tutto libero da un periodare rigidamente simmetrico, via via scomposto nei suoi elementi ritmici e intervalli colorati armonicamente, in una struttura così robusta e compatta da richiamare alla memoria la grande polifonia barocca: esempio tipico del concetto di monotematismo in Schumann.
Sul piano formale generale, la Sinfonia si articola in una costruzione archittettonica in cui i due movimenti estremi, che si corrispondono sia per spirito (Vivace in entrambi i casi) sia per somiglianze tematiche e armoniche, racchiudono i tre movimenti centrali. Dunque, anche esternamente, Schumann si distacca qui con chiarezza dal modello della forma classica, sostituendovi una organizzazione formale in cinque movimenti autosufficienti, seppure coerentemente collegati fra loro. Questo carattere, che si riflette anche nella mancanza di un vero e proprio tempo lento centrale, si avvicina sensibilmente a quello che piú tardi sarà adottato da Mahler, soprattutto nell’uso di un criterio compositivo ciclico, che al senso dello sviluppo sostituisca la continua ripetizione e il ritorno circolare.

Leonard Bernstein

Lo Scherzo (Molto moderato). in do maggiore, è nel suo ritmo di Ländler, un delicato omaggio a Schubert: il tema, esposto da fagotti, viole e violoncelli, è ripetutamente variato e arricchito soprattutto dal punto di vista timbrico; tanto che perfino il Trio, dai confini non nettamente delimitati, si impronta, anziché contrastare, allo spirito di una variazione dell’idea principale.
Il terzo movimento, Moderato, in la bemolle maggiore, è, secondo la stessa indicazione originaria di Schumann, un Intermezzo in cui predominano le tinte un po’ ombrose dei legni, in particolare dei clarinetti. Una zona di raccolta intimità che contrasta con la solennità del successivo Maestoso, in mi bemolle maggiore, in cui ancora una volta un unico tema domina da capo a fine, questa volta variato soprattutto ritmicamente. L’uso che Schumann fa qui della sezione degli ottoni, con l’aggiunta di tre tromboni a cui è affidato il tema in una sorta di inno polifonico, anticipa una caratteristica che sarà peculiare dell’orchestra di Bruckner. Il Finale (Vivace) ritorna allo slancio del primo tempo, riprendendone alcuni spunti tematici. Si tratta di una vorticosa danza che, per quanto improntata allo schema sonatistico, pure ha qualcosa del carattere del rondò, sul tipo di quello schubertiano: nello spirito di una apoteosi, ha un marcato senso di chiusa. In un tono grandioso e affermativo che riesce a giustificare anche qualche passaggio enfatico.

Sinfonia n. 4 in re minore op. 120

Sebbene sia stata scritta nello Stesso anno della Prima, la Quarta Sinfonia ebbe, rispetto a quella, una genesi più lunga e tormentala, tanto che, dopo il suo completamento tra il maggio e il settembre 1841 e una prima esecuzione il 6 dicembre dello stesso anno, salutata da scarso successo, Schumann decise di chiuderla momentaneamente in un cassetto. Solo dieci anni più lardi, nel 1851, egli vorrà ritoccarne la struttura e soprattutto l’orchestrazione, dando a essa la sua veste definitiva; cosicché, questa, che cronologicamente è la seconda sinfonia di Schumann, è stata catalogata come Quarta Sinfonia. Opera impostata sull’uso trasversale del materiale tematico che ritorna ciclicamente nei diversi movimenti, la Quarta vede tra i suoi rifacimenti postumi del 1851 il tentativo dell’autore di collegare con continuità i quattro tempi in un unico flusso continuo. Lo stesso titolo di «fantasia sinfonica», pensato inizialmente da Schumann, sembra suggerirci il tentativo di sperimentare una nuova costruzione formale, tentativo che tuttavia non porta a un superamento della struttura sinfonica tradizionale a cui, nonostante diverse anomalie, l’opera resta ancora sostanzialmente legata.
Nell’introduzione del primo movimento un lento profilo melodico si snoda sopra un cupo pedale staccato dall’orchestra, evocando un senso di guardinga attesa; il tempo quindi si stringe e in poche battute si giunge al serrato profilo iniziale dell’Allegro, una sorta di leitmotiv, di motore ritmico dell’intero primo movimento (lo ritroveremo anche nel quarto) che, seppure con alcune differenze, partecipa anche alla formazione del secondo tema. Anche nello Sviluppo il primo tema continua a essere il filo conduttore, anche se qui, luttavia, Schumann arricchisce l’iniziale povertà di materiale tematico aggiungendo due nuovi elementi: il primo di tipo ritmico-accordale, il secondo di carattere più melodico. Buona parie dello Sviluppo fin qui ascoltato viene quindi ripetuto con uno spostamento di tonalità. Questa ricapitolazione del materiale tematico viene ritenuta sufficiente da Schumann, che rinuncia a una Ripresa tradizionale, puntando direttamente al finale con ulteriori citazioni del materiale dell’Esposizione, con la rielaborazione del tema melodico nato nello Sviluppo e la stretta conclusiva.
La Romanza si apre con un accordo iniziale dei fiati che introduce il mesto incedere di oboe e violoncelli, sopra uno scarno accompagnamento orchestrale; a sorpresa torna quindi il tema introduttivo del primo movimento, riproposto integralmente in una diversa tonalità. Successivamente, la cupa aura iniziale si dissolve in un ampio e disteso episodio in modo maggiore, nel quale il violino solista traccia un lungo profilo terzinato che ricorda sonorità proprie del concerto. Come un triste memento torna quindi il tema iniziale per la coda conclusiva.

Wiener Philharmoniker

Vigoroso e passionale è invece il tema dello Scherzo, che evolve stemperando gradualmente il proprio impeto, per poi tornare al piglio iniziale grazie ai ritornelli. Nettamente contrastante è invece l’episodio centrale (Trio): un elegiaco tessuto armonico dell’orchestra di sapore quasi impressionistico (ante litteram), attraversato da una linea continua dei violini che riprende il profilo terzinato ascoltato nella Romanza. Le due sezioni, Scherzo e Trio, vengono quindi riproposte senza ritornello, mentre uno statico episodio di collegamento porta al quarto movimento.
L’introduzione del finale inizia con un vibrante tappeto armonico da cui emergono lontani ricordi del primo movimento, per poi giungere a un accordo sospensivo di dominante. Ecco dunque il primo tema, formato da ritmati stacchi accordali dell’orchestra, al quale si contrappone l’aggraziata e accattivante melodia del secondo tema. Dopo una breve successione di accordi tesi e vibranti, lo Sviluppo si dispiega nella sommessa reiterazione di un frammento ritmico del primo tema, che culmina in uno stentoreo intervento dei corni. Il motivo della transizione, interrotto a singhiozzo da stacchi accordali, preannuncia quindi l’arrivo della Ripresa, che propone il solo secondo tema
trasportato nella tonalità principale, mentre gli stacchi accordali di inizio Sviluppo preparano l’ascoltatore all’episodio conclusivo, completato dalla rapidissima stretta finale.