Alexander Skrjabin

Il Poema dell’estasi

È un disco favoloso in tutti i sensi! Musica meravigliosa, grande conduzione e grande registrazione. L’audio è veramente realistico e spettacolare. Mi sono piaciute molto le selezioni di Debussy e Ravel. Skrjabin mi ha lasciato indifferente. Non mi è mai interessata più di tanto questa composizione. Acquistate questo CD prima che qualcuno decida di toglierlo dal catalogo. Registrazioni eseguite dal 1970 al 1971 e rimasterizzazione effettuata nel 1986. Altamente raccomandato.

Debussy . Ravel . Skrjabin

Alexander Skrjabin, nato un decennio dopo Debussy, è una delle figure artistiche più singolari del suo tempo. Associando influenze delle idee wagneriane (l’idea dell’opera d’arte totale, in cui sono inclusi anche effetti di luce e profumi), della teosofia e del misticismo orientale, Skrjabin si costruì una religione personale.
Nel corso degli anni essa caratterizzò in modo sempre più rilevante il suo

pensiero e la sua attività compositiva fino a culminare nel disegno di un gigantesco “Mistero” che, unendo la religione e le arti tutte, doveva essere celebrato un giorno in India sotto la guida del “profeta”, Skrjabin stesso. (Tuttavia questo progetto non è andato oltre la stesura di singole parti del testo e di schizzi musicali per un “atto preparatorio”).
Se tutto non è un inganno, la monomania dell’idea di Skrjabin trova il suo pendant anche nella musica: nelle ripetizioni ostinate di timbri e figurazioni uguali o simili, che sembrano ruotare tutti attorno allo stesso centro.
Il Poema dell’estasi fu chiaramente parte di questo ambito di idee. Negli anni dal 1904 al 1906 Skrjabin scrisse un poema con questo titolo, lungo parecchie centinaia di versi, che descrive degli eventi ideali: la perpetua lotta di forze oscure contro lo spirito, che però alla fine in un’estasi straordinaria riesce ad imporsi vittorioso sul mondo intero.
Contemporaneamente nacque la composizione Il poema dell’estasi (1905 – 08). Il poema non rappresenta un programma esplicito per la musica, pur tuttavia per ampie sezioni dell’opera si possono instaurare delle correlazioni plausibili.
Dafni e Cloe di Maurice Ravel è uno dei capolavori dell’Impressionismo francese. È la musica per un Balletto che Serge Diaghilev, impresario dei “Ballets Russes”, aveva commissionato a Ravel nel 1909 – La prima esecuzione si ebbe a Parigi nel 1912. Il libretto di Michail Fokine, allora coreografo di Diaghilev, si basa sul famoso romanzo pastorale della tarda classicità. Dafni e Cloe di Longo è ambientato in una Grecia bucolica: la vita idilliaca è spezzata dall’incursione dei pirati che rapiscono le fanciulle dal santuario del dio Pan, tra le quali è Cloe, l’amata di Dafni.
I rapitori festeggiano la vittoria, ma a questo punto Pan li scaccia con l’aiuto di un incantesimo e di esseri favolosi; Cloe è salvata e ritorna da Dafni. La cosiddetta Seconda Suite, qui registrata, costituisce il terzo e ultimo quadro del Balletto: dopo la notte tumultuosa in cui Pan ha messo in fuga i rapitori spunta un meraviglioso mattino, si sente il canto degli uccelli, arrivano i pastori, Dafni e Cloe si ritrovano e tutto finisce in un estatico baccanale di gioia.
La Pavana per una infanta morta di Ravel – la versione per pianoforte del 1899 fu orchestrata nel 1910 – mostra un altro aspetto dell’Impressionismo. Manifestamente sotto l’influsso della musica di Erik Satie, il pezzo gioca con una melanconica arcaicità (così come il titolo originale, per diretta ammissione di Ravel, presenta un gioco di parole e di suoni vocalici “infante – défunte”), ma anche con la tradizione musicale: il ritmo della “pavana”, una danza di andamento lento, era diventato nell’Ottocento un tratto caratteristico delle marce funebri.

La Pavana per una infanta morta di Ravel – la versione per pianoforte del 1899 fu orchestrata nel 1910 – mostra un altro aspetto dell’Impressionismo. Manifestamente sotto l’influsso della musica di Erik Satie, il pezzo gioca con una melanconica arcaicità (così come il titolo originale, per diretta ammissione di Ravel, presenta un gioco di parole e di suoni vocalici “infante – défunte”), ma anche con la tradizione musicale: il ritmo della “pavana”, una danza di andamento lento, era diventato nell’Ottocento un tratto caratteristico delle marce funebri.

Claudio Abbado

L’etichetta di “Impressionismo”, che si connette immancabilmente soprattutto con la musica di Debussy, fa facilmente dimenticare – essendo oggi associata con un raffinato senso di benessere – che agli inizi del Novecento questo compositore ha impresso alla storia della musica una svolta decisiva e rivoluzionaria; l’Impressionismo è una tappa importante nella costituzione di un linguaggio musicale moderno. I Nocturnes, un Trittico sinfonico in tre movimenti, che non si rifà però a forme tradizionali, sono una delle prime opere per orchestra di Debussy (1897 – 99).
L’idea di Nuages gli era venuta, come lo stesso compositore riferì ad un amico, a Parigi, in un giorno di bufera, un ponte sulla Senna; le nuvole spazzavano il cielo, una chiatta passando faceva sentire la sua sirena. Tuttavia ogni reminiscenza diretta di avvenimenti esterni, ogni intenzione programmatica è cancellata nella composizione.
Per la prima esecuzione (Nuages, Fetes, 1900) Debussy scrisse il seguente commento: “Il titolo Nocturnes va inteso qui in un senso generale e decorativo. Non si tratta pertanto della consueta forma del notturno, bensì di tutto ciò che questo concetto è in grado di destare quanto a impressioni e giochi di luce. Nuages è lo spettacolo del cielo immoto in cui passano lente e malinconiche le nuvole, per svanire poi in un grigio in cui si mescolano delicate tonalità di bianco. Fetes è il ritmo danzante dell’atmosfera, rischiarato per alcuni istanti da vividi fasci luminosi. Un corteo di figure fantastiche si avvicina alla festa e in essa si perde. Lo sfondo resta sempre lo stesso: la festa con il suo scompiglio di musica e luci che danzano in un ritmo cosmico. Sirènes è il mare e il suo movimento inesauribile; sulle onde, su cui scintilla la luce della luna, il misterioso canto delle sirene risuona come un riso e si perde nell’infinità”.

Wolfgang Domling
(Traduzione: Adriano Cremonese)