Strauss Richard

Vier letze Lieder e altre composizioni

Karajan ha registrato Tod und Verklaurung tre volte; nel 1960 con la Vienna Philharmonic, nel 1971 e ancora nel 1982 con la Berlin Philharmonic. Questa è la registrazione nel 1971. Il direttore estrae ogni dettaglio da questo splendido spartito con un’intensità brillante. Dal pianissimo dell’apertura al climax vicino alla fine, l’orchestra è coinvolta al 100% ed esprime con vividezza la trasfigurazione.
Ci sono anche 3 diverse incisioni della Metamorphosen eseguite da Karajan; nel 1947 con la Vienna Philharmonic, nel 1969 e nel 1980 con la Berlin Philharmonic e di nuovo questa è la seconda registrazione del 1969. Questa partitura è stata scritta solo per archi. Karajan e la sezione legni dei Berliner Philarmarmoniker esprimono armonia, passione e bellezza.

Ciliegina su una bellissima torta: l’incisione dei Vier letze Leider (Ultimi quattro Lieder) con la partecipazione della famosissima soprano Gundula Janowitz. Registrazioni eseguite dal 1971 al 1974 e rimasterizzazione effettuata nel 1994. Audio eccezionale. CD da non perdere!

 

Un Trittico di Commiato

 

Il debutto salisburghese di Karajan nel 1929 portò al suo primo incarico ufficiale alla testa della piccola compagnia operistica, quella di Ulma, ove, con risorse assai limitate a disposizione, riuscì a rappresentare la Salomè di Strauss, e ancor più sorprendentemente, i Meistersinger di Wagner. Il suo passaggio ad Aquisgrana nel 1934 funse da trampolino di lancio verso l’Opera di Stato di Vienna, ove debuttò con il Tristan und Isolde di Wagner, richiedendo (ed ottenendo) di avere a propria disposizione un numero adeguato di prove. Fu proprio una successiva rappresentazione del Tristan all’Opera di Stato di Vienna nell’ottobre del 1938 a guadagnarsi il famigerato epiteto di Das Wunder Karajan (il miracolo Karajan). La critica non gli fu sempre favorevole, in Germania in particolare, ma alla fine il rispetto per quest’artista, concesso in principio a denti stretti, divenne universale. Durante quei formativi anni Trenta Karajan fu oggetto della gelosia di Furtwangler, che era particolarmente infastidito dal modo in cui il giovane musicista andava a caccia di pubblicità – il fatto che fosse descritto quale Das Wunder Karajan doveva certo bruciare al più anziano direttore. Nulla, però poté arrestare l’ascesa della nuova stella nel firmamento musicale.
L’ammirazione di von Karajan per il suo illustre predecessore, invece, era di cuore e senza riserve: egli considerava Furtwangler “uno dei pochi uomini che si siano avvicinati alla direzione in modo nuovo”.
Nel periodo bellico Karajan soffrì inevitabilmente l’isolamento, mentre in America splendeva la fama di Toscanini: ma nel decennio immediatamente successivo alla guerra il suo lavoro a Vienna e a Londra con la Philharmonia Orchestra consacrò finalmente la sua fama internazionale, e alla fine degli anni Cinquanta fu nominato direttore artistico dell’Opera di Vienna e del Festival di Salisburgo. Nel 1955 successe a Furtwangler quale direttore musicale dei Berliner Philharmoniker, con una nomina a vita, come egli aveva fortemente voluto e richiesto. La stretta collaborazione fra questa compagine e Karajan produsse nei tre decenni successivi un lascito costituito da registrazioni senza precedenti nella nostra epoca quanto ad acume interpretativo, caratterizzate da un suono orchestrale di impareggiabile perfezione e sicurezza.
Michel Schwalbé, primo violino dei Berliner Philharmoniker negli anni delle migliori registrazioni effettuate da Karajan, ha raccontato come il maestro sapesse arrivare rapidamente al risultato che desiderava, cosicché durante il

concerto “poteva lasciar l’orchestra suonare da sola, guidandola appena, dirigendola poi però in maniera più incisiva nei passaggi più importanti, ove il suo impulso diveniva per contrasto così tanto più grande e significativo”.
James Galway, che fu per un certo periodo primo flauto dei Berliner Philharmoniker, disse che “nessuno gli ribatteva, punto e basta!” Di fatto Karajan non si rivolse mai a nessun membro dell’orchestra per nome: non riusciva a sentirsi a proprio agio con il prossimo. Karajan stesso lo ammise con una certa pena: “credo che non si possa andar contro il modo in cui si è”. Questa sua difficoltà nei rapporti rappresentava un problema più a Berlino e a Londra, ove gli orchestrali sono più informali sul lavoro. Hugh Bean, figura di spicco della Philharmonia, ha detto che “alcuni musicisti avvertivano una certa mancanza di sincerità da parte di Karajan a causa della prodigiosa bravura ed intelligenza di cui dava prova durante le sedute di registrazione (nel padroneggiare ed aver presente ogni aspetto e problema dell’esecuzione nella sua globalità), e della quasi oltraggiosa facilità cui gli riusciva tutto.
Ma di fatto Karajan si preparava in maniera così superlativa, da non lasciar trasparire quasi niente dell’enorme lavoro svolto in privato nel corso delle sedute”.
Il trittico di commiato che viene qui presentato ci sembra un tributo particolarmente adatto a questo grande musicista. Karajan nobilita il tema della trasfigurazione alla fine di Tod und Verklarung con un’estasi sonora unica nella sua sobrietà; la sua autorità di direttore viene eguagliata nelle Metamorphosen dalla sontuosa raffinatezza tonale degli archi dei Berliner; e i versi finali di “Im Abendrot”, il quarto ed ultimo dei Vier letzte Lieder, a loro volta canto del cigno di Richard Strauss, sono assai pertinenti a questa occasione. Librandosi aerei nella ricca tessitura di Gundula Janowitz sopra uno splendente, translucido, baluginante drappo orchestrale, recitano nella traduzione di Gabriele Cervone: “O pace immensa, silenziosa, / così profonda nella luce purpurea del crepuscolo! / Come siamo stanchi di peregrinare – /sarà forse la morte?” Ma lasciamo l’ultima parola a Jessye Norman: “Karajan ha sempre srotolato un tappeto magico apposta per i cantanti”.

Ivan March
(Traduzione: Massimo Acanfora Torrefranca)

Vier letze Lieder (Quattro ultimi canti) per soprano e orchestra

Se con Till Eulenspiegel Strauss aveva suggerito che vivere è un piacere, con i Quattro ultimi Lieder ci mostra quanto è dolce perfino il morire, quando tutto sia stato detto. Ed effettivamente, nei 53 anni che separano il giovanile poema sinfonico dal capolavoro estremo, Strauss poteva pensare di aver detto tutto

quanto aveva da dire. Aveva egli stesso attraversato la gioia e il dolore mano nella mano con la sua musica, nella storia e nel mito; ora non restava che riposare nella pace profonda del tramonto.

Chista Ludwig

Sarebbe tuttavia sbagliato vedere nei Quattro ultimi Lieder una rinuncia alla vita: essi sono piuttosto un sereno congedo dal mondo ogni passione spenta, la trasfigurazione di un distacco irreparabile che pone in dubbio la realtà stessa dell’evento. La composizione dei Quattro ultimi Lieder ebbe inizio subito dopo la fine della guerra, dopo l’abbandono di Garmisch e l’esilio coatto in Svizzera. Che Strauss non pensasse da principio di farne un ciclo, né tantomeno che l’ordine di successione dovesse essere quello che conosciamo dall’edizione uscita postuma nel 1950, è provato dal fatto che la stesura di Im Abendrot,

abbozzato già tra la fine del 1946 e l’inizio del 1947 e terminato in partitura il 6 maggio 1948 a Montreux, precedette le altre, e che dunque un poeta tanto caro a Strauss quanto lontano dall’attualità come Joseph von Eichendorff (1788-1857) attirò la sua attenzione prima che la conoscenza delle liriche di Hermann Hesse (1877-1962) lo spingesse a completare il lavoro. Il secondo Lied in ordine di composizione fu Frühling (18 luglio 1948, a Pontresina): seguirono, rispettivamente il 4 agosto e il 20 settembre dello stesso anno, sempre a Pontresina, Beim Schlafengehen e September. Strauss morì prima di poter ascoltare la sua opera, che venne eseguita per la prima volta all’Albert Hall di Londra il 22 maggio 1950 da Kirsten Flagstadt e Wilhelm Furtwängler.
Sappiamo in realtà poco della genesi dei Quattro ultimi Lieder, come se Strauss, dopo averli battezzati “die letzten”, “gli ultimi”, stentasse a parlarne, e non per motivi scaramantici. Aveva dichiarato di considerare l’opera Capriccio come il suo testamento, e che un testamento non si poteva scrivere due volte. “Esiste qualcosa di più perfetto di quest’opera?”, aveva anche aggiunto; dal suo punto di vista, probabilmente no: eppure aveva continuato a comporre. L’inafferrabilità dell’uomo, che era stata una costante della sua vita, sembra acuirsi negli ultimi anni per lasciar spazio solo ai ricordi e alla parvenza della musica.
Ritornando dopo trent’anni di teatro al Lied con orchestra, il vecchio Strauss affina all’inverosimile la capacità di interpretare con il canto le suggestioni di testi pregni di profondi significati emotivi, che la musica però alleggerisce e sospende in una dimensione di sogno, sprofondandoli mollemente in un tessuto orchestrale tanto sontuoso quanto evaporato: solo raramente, nonostante il dispiegamento massiccio dell’organico, usato in modo corposo. La dimensione cameristica è la vera dimensione di quest’opera: ottenuta via via togliendo e trasformando una pienezza originaria in struggenti frammenti di un addio. Sotto questo profilo non sono tanto i testi in sé a offrire l’impressione di un malinconico epitaffio, quanto lo svanire della musica sul soffio delle parole e delle immagini.
Il tono crepuscolare si manifesta come clima dominante dell’opera fin dall’inizio, nella visione di una primavera che filtra da volte senza luce, attirando teneramente a sé con la sua presenza miracolosa. L’iridescenza dell’orchestra, che rende l’immagine di una perenne instabilità, sembra provenire da un altro mondo: ma la voce riafferma, con la sua linea melodica luminosa e salda, la bellezza di una sensazione vissuta. Questo clima si rispecchia anche nel Lied seguente, dove l’immagine dell’estate morente si colora di un’estenuata stanchezza, che a poco a poco diviene quasi simbolo di attesa della morte, dolcissimamente evocata dal corno.

Il terzo Lied, Beim Schlafengehen, sviluppa questi motivi ma introduce anche una nota di consolazione, che dopo l’esitante inizio della melodia sulle oscure sonorità di violoncelli e contrabbassi si trasferisce dalla voce al canto del primo violino solo contrappuntato dai corni.
“Molto tranquillo”, scrive Strauss: quasi a voler così rassicurare e placare un’inquietudine fattasi ormai troppo opprimente. Sarà poi la voce a dirci il destino più profondo dell’anima, volteggiando coi suoi aerei arabeschi nei cieli dell’assoluto. Così, l’accordo a piena orchestra che apre con un improvviso sussulto l’ultimo Lied del ciclo segna, nel passaggio da Hesse a Eichendorff, un mutamento di prospettiva, un’ascesa verso l’ignoto riconosciuto e desiderato: nessuna paura del nulla nel tramonto, nessuna nostalgia o tristezza, ma solo una fede serenamente consapevole dell’immortalità dello spirito nella conciliante simbiosi con i suoni della natura. E quando alla fine il poeta chiede ansiosamente se sia forse questa la morte, il corno risponde citando il motivo della trasfigurazione che sessant’anni prima, nel poema sinfonico Tod und Verkldrung, il giovane musicista aveva opposto all’idea della morte. Ed è davvero la fine che si compie nel cerchio magico della notte.