Verdi Giuseppe

Requiem

Amo questa composizione tanto distante dalle partiture operistiche ma contenente assolutamente tutto quello che ha reso Verdi uno dei compositori più prolifici e grandi al mondo. Il Requiem è così magnificamente scritto in ogni sua nota che il suo significato e la sua potenza fanno commuovere tutti. La registrazione è analogica ma l’audio e la qualità sono molto nitide. Le vere star qui sono il Coro Wiener Staatsoper e l’Orchestra dei Wiener Philharmoniker dirette da un carismatico Sir Georg Solti. Per quanto riguarda i quattro solisti, è difficile passarli in rassegna uno ad uno. Tutti e quattro sono eccellenti e giovani. La Sutherland mostra tutta la sua bravura e canta con calore meraviglioso, anche se la dizione al tempo della registrazione risulta leggermente “impastata”, come del resto in molte altre sue registrazioni operistiche. Un trentenne Luciano Pavarotti si distingue e fa presagire la sua scintillante carriera a venire.. L’“ingemisco” viene eseguito con delicatezza e profondità. Squisita anche l’interpretazione del basso Martti Tavela , ma secondo il mio modesto parere, in questa splendida incisione, la star più grande tra questi quattro solisti è la mezzosoprano Marilyn Horne. Concludendo Sir Georg Solti, il coro, l’orchestra, e i quattro solisti costituiscono una performance irraggiungibile. Registrazione eseguita nel 1967 e rimasterizzazione effettuata nel 1984. Prezioso cofanetto da inserire nella vostra collezione. Imperdibile!

Verdi: Messa da Requiem

Sulla scia della Missa solemnis di Beethoven e della Grande Messe des morts di Berlioz, il 19o secolo non ha visto un’orchestrazione di un testo liturgico più vivida o più avvincente del Requiem di Verdi del 1874. Egli era allora un maturo compositore di sessant’anni, con ormai alle spalle tutte le opere ad eccezione di due; l’Aida era quella composta e rappresentanza più di recente. Ai sentimenti religiosi di glorificazione e di preghiera che formano un testo da requiem Verdi si avvicinò con la medesima disposizione musicale che lo aveva visto alle prese con i libretti d’opera, e così facendo creò quello che lo scomparso Martin Cooper ha opportunamente definito come il banco di prova di ogni generazione per quanto riguarda la maniera di intendere l’arte del canto. Ed è anche qualcosa di più, naturalmente, visto che è stato occasionato, nonostante la sua visione dichiaratamente agnostica, dal rispetto e dall’ammirazione per lo scrittore Alessandro Manzoni (1785-1873), riverito come eroe nazionale della letteratura. Il romanzo I promessi sposi di Manzoni era già da tempo diventato un classico tra gli strati più disparati dei lettori. Si trattava di un dramma romantico, ma permeato da un sentimento religioso profondo e al tempo stesso liberale che aveva esercitato una forte attrazione sulla generazione di Verdi: “non è solo un libro”, scrisse, “ma una consolazione per l’umanità”. Per Verdi, la morte dello scrittore rappresentò un colpo personale. “Io me gli sarei posto in ginocchio dinanzi, se si potessero adorare gli uomini”, dichiarò, e scrisse all’editore Ricordi: “non avrei cuore d’assistere a’ suoi funerali. Verrò fra breve per visitarne la tomba, solo e senza essere visto, e forse… per proporre cosa ad onorarne la memoria”.
L’omaggio alla tomba venne debitamente reso, e sappiamo che proprio allora Verdi decise di comporre una Messa da Requiem in tempo per il primo anniversario della morte di Manzoni. Così descrisse il suo progetto al sindaco di Milano: “È un impulso, o dirò meglio, un bisogno del cuore che mi spinge a onorare, per quanto posso questo Grande, che ho tanto stimato come Scrittore, e venerato come Uomo”. Verdi si offerse di far stampare a proprie spese la partitura con tutte le parti se la città avesse finanziato l’esecuzione, e ne diresse puntualmente la prima nella Chiesa di San Marco a Milano il 22 maggio 1874. Vi era un coro di 140 voci, un’orchestra di 100 componenti, e i solisti includevano la sua prima Aida, Amneris e Ramfis – Teresa Stolz, Maria

Waldmann e Armando Maini, con il tenore Giuseppe Capponi.
Sir. Georg Solti

Nella composizione Verdi si servì di elementi tratti da una precedente
orchestrazione del Responsorio finale, Libera me, che aveva scritto quale parte di un tributo di collaborazione in memoria di un altro grande artista da lui ammirato: Rossini, che morì nel 1868. “La reputazione di Rossini era gloria italiana”, dichiarò allora (e si chiedeva già: “Quando l’altra che vive ancora, Manzoni, non sarà più, cosa ci resterà?”).
Nell’intenzione di Verdi il miglior tributo commemorativo sarebbe stato un Requiem scritto da più compositori, il quale venne effettivamente composto, senonché, essendo insorti dei problemi, non venne mai eseguito e il contributo verdiano rimase a languire con quelli degli altri. Gli fu rammentato qualche tempo dopo, allorché un membro del comitato commemorativo, il compositore Alberto Mazzucato (che di lì a poco sarebbe diventato Direttore del Conservatorio di Milano) gli scrisse elogiando il suo contributo. Verdi rispose che la sua approvazione lo tentava quasi a comporre un Requiem per intero, ma siccome c’erano già fin troppi Requiem in giro, trovava “inutile” aggiungerne un altro. La morte di Manzoni venne a fornire appunto tale scopo, per cui la profondità della reazione emotiva di Verdi poté così superare gli scrupoli riguardanti sia la natura del lavoro che il suo contenuto religioso.
Fu interamente composto quale concerto, senza prevederne alcun uso liturgico, sia che fosse eseguito in una chiesa o no. Verdi semplicemente ignorò il linguaggio musicale predominante nell’uso cattolico, con quella mescolanza di pietà sentimentale, di sobrietà accademica e di occasionale brillantezza d’effetto, e ricorse invece al suo ben sperimentato metodo di composizione vocale onde dare espressione alle immagini e alle convenzioni religiose contenute nel testo. Ad esse conferì un carattere arditamente teatrale laddove se ne sentì incline, ma si lasciò sempre guidare dall’intento emotivo interiore. La sequenza più drammatica è il lungo Dies irae con le sue visioni grafiche del Giudizio Universale secondo il testo attribuito a Tommaso da Celano, confratello di San Francesco d’Assisi. Verdi lo abbellì con dei dettagli quali ad esempio le fanfare, simili a quelle dell’Aida e formate da gruppi di quattro trombe disposti a varie distanze, la scrittura operistica per le voci soliste o in duetto, e una fonte complementare operistica per il lamento e preghiera Lacrimosa, che lo studioso di Verdi Julian Budden ha rinvenuto nel duetto tenore-basso escluso dalla prima redazione del Don Carlos del 1867.
Non meno teatrale della scrittura per ottoni è l’uso verdiano dei tamburi: dal battito leggero ai colpi minacciosi della grancassa che infondono nel Dies irae qualcosa di veramente fisico. Nei brani più distesi la bellezza strumentale arricchisce quella delle voci, come nel caso dei tre flauti che si odono far da contrappunto ai cantanti verso la fine dell’Agnus Dei, e di quel tono tremulo degli archi che sembra evocare la “luce eterna” inizialmente invocata dal mezzosoprano prima che a lei si aggiungano i due solisti maschili nel Lux aeterna. Pure al mezzosoprano è assegnato il Liber scriptus per il suo primo assolo importante, un esempio di ripensamento da parte di Verdi. Lo scrisse per sostituire in questo brano l’originaria fuga corale, mutandolo in tempo per farlo ascoltare alla prima esecuzione londinese del 1875.
Forse si rese conto che la sua abilità nella fuga era già sufficientemente evidente anche altrove nel lavoro: brevemente nel coro senza accompagnamento del movimento d’apertura, più ampiamente nell’appassionato doppio coro del Sanctus, infine nel Libera me (uno degli elementi derivati dall’orchestrazione “Rossini”) in cui il vigoroso tema viene ripreso dal soprano nel bel mezzo ma, con effetto straordinario, a mezza velocità. Il soprano raggiunge il do alto sopra il coro e l’orchestra nel punto culminante a tutta forza, prima che la musica si distenda nuovamente terminando con una supplica, sommessa e terribile, per l’estrema salvazione.

È bello risentire le esecuzioni di Giulini che – anche a seguito degli anniversari, cento anni dalla nascita, dieci anni dalla scomparsa – le case discografiche alle quali il Maestro era legato, prima la EMI poi la Deutsche Grammophon, stanno reimmettendo sul mercato, opportunamente rimasterizzate e a prezzi convenienti.
Così si riascoltano – o si scoprono se si è più giovani – esecuzioni decisamente eccezionali, che in effetti erano già state molto apprezzate al momento della loro comparsa, ma che poi sono state progressivamente dimenticate, prevalendo edizioni di direttori più esuberanti e alla moda, che hanno fatto sistematicamente uso della comunicazione e del marketing per affermarsi, certo più di quanto sapeva (e voleva) apparire il riservato Maestro Giulini. Ovviamente non tutta la produzione di Giulini è di livello assoluto, talora la lentezza e la solennità eccessive diventavano esasperanti, ma in un certo repertorio caratterizzato prevalentemente da momenti di sacralità e di coralità il Maestro, che fra l’altro era profondamente religioso, otteneva risultati eccelsi, pervenendo ad interpretazioni affatto originali, senza attenersi a cliché tradizionali ed aprioristici.
Ciò vale in particolare – per quanto mi ricordi e senza voler essere esaustivo – per il Requiem di Mozart, per lo Stabat Mater di Rossini, per molta produzione corale di Brahms, per la nona sinfonia e il “Canto della Terra” di Mahler, per le ultime tre sinfonie di Bruckner, infine per il Don Carlo di Verdi e, sempre di Verdi, per la Messa da Requiem contenuta in questo doppio CD della Warner Classics (già EMI).
Si tratta di una registrazione effettuata nel corso di alcune sessioni di studio nel 1963 e nel’64, con la presenza dell’Orchestra e del Coro della prestigiosa Philarmonia e dei più affermati cantanti del tempo, su cui mi soffermerò più avanti.
L’interpretazione che Giulini dà del Requiem verdiano è squisitamente religiosa – una Messa da eseguire in chiesa – eliminando quel sapore teatrale, che da Toscanini in poi era venuto affermandosi (e che purtroppo fu riportato in auge dopo la parentesi giuliniana).
Ciò non significa che i brani più infuocati, primo fra tutto il “Dies irae”, siano sbiaditi, anzi proprio in questo (e nelle due successive ripetizioni) Giulini è più violento che mai, dando un senso tremendo al momento del giudizio divino, ma proprio perché emotivamente vissuto in senso propriamente religioso (ed ortodosso); lo stesso accade nel “Tuba mirum”, nell’agghiacciante “Mors stupebit”, nel “Liber scriptus”, nel “Confutatis maledictis” ai quali però si contrappongono – sempre per rispondere ad un preciso discorso religioso – la dolcezza del “Lacrimosa”, l’atteggiamento di sommessa preghiera dell”Offertorio”, l’esaltazione del “Sanctus”, infine la supplica finale del “Libera me Domine”.
I cantanti, come sopra detto, erano allora tra i migliori e – anche grazie ai sapienti accompagnamenti di Giulini – la resa vocale ed interpretativa lo conferma: la Schwarzkopf e la Ludwig, che fra l’altro venivano dal mondo liederistico, sono perfettamente in regola con la visione del Maestro e assecondano appieno il senso religioso che pervade l’intero Requiem (si senta, quale esempio sublime, il “Libera me Domine” della Schwarzkopf, prima invocato in modo deciso, poi quasi sussurrato con un filo di voce dopo la ripresa del “Dies Irae”, infine così dolente e supplichevole nelle tre invocazioni della coda finale); il timbro profondo di Ghiaurov, allora all’apice della forma, infonde al contempo solennità e terrore; infine Gedda, che forse tra i quattro era il meno dotato vocalmente, ci fa ascoltare un “Ingemisco” finalmente meditato e sofferto e non solo gridato a squarciagola come se fosse “La pira” del Trovatore.
Il secondo CD si completa con i Quattro Pezzi Sacri, sempre di Verdi, che Giulini registrò in studio nel 1962 e che poi diresse l’anno successivo a Parma in occasione del centocinquantesimo anniversario della nascita di Verdi: anche qui il Maestro partecipa totalmente al clima religioso dei brani eseguiti, eccellendo in particolare nella commozione dello “Stabat Mater” e nel solenne inno di gloria reso a Dio nel “Te Deum”. Registrazioni eseguite dal 1962 al 1964 e rimasterizzazione effettuata nel 1986. Audio ottimo. Altamente raccomandato.

Giuseppe Verdi
Messa da Requiem

Nel novembre 1868 la morte di Rossini a Parigi gettò nel lutto l’Italia musicale. Grandiose commemorazioni vennero prospettate a Pesaro, sua città natale, per l’anniversario dell’evento. Per Bologna, dove Rossini era cresciuto, uno schema più inusuale fu proposto dal principale compositore italiano, Giuseppe Verdi: una messa da Requiem composita, alla quale ciascuno dei più illustri compositori italiani del tempo avrebbe contribuito un movimento. Le autorità reagirono alacremente e fu costituito un comitato per scegliere i collaboratori ed assegnare i pezzi. Inevitabilmente venne favorita la vecchia generazione: da ciò l’omissione di Boito, Faccio e Ponchielli e l’inclusione di nomi come Coccio e Mabellini che allora godevano di fama considerevole. Lo stesso Verdi espresse una preferenza per il Libera me, il cui testo ricordava di avere ammirato nei giorni in cui usava suonare l’organo in chiesa. Il comitato dapprima assentì, poi cambiò idea e gli assegnò il Dies irae, ed infine ritornò alla decisione originale. Anche se fu necessario modificare il piano originale (Mercadante era troppo vecchio e infermo per poter accettare l’invito, mentre Petrella lo declinò) la Messa venne debitamente completata, ma l’esecuzione non ebbe mai luogo. L’impresario a Bologna si rifiutò di mettere a disposizione la sua orchestra per il tempo richiesto per le prove, con la scusa che ciò avrebbe ridotto la stagione lirica i cui proventi gli permettevano di mantenere la moglie e numerosa prole. Fu quindi proposto di eseguire il pezzo a Milano, ma Verdi, inflessibile come sempre, non ne volle sapere, dicendo che ciò avrebbe distrutto il punto essenziale del piano. La Messa doveva essere eseguita solamente a Bologna. Di conseguenza gli autografi vennero in gran parte restituiti agli autori e le belle copie depositate negli archivi di Ricordi dove tuttora si trovano.

Alessandro Manzoni

Due anni dopo Mazzuccato, che aveva fatto parte del comitato, scrisse a Verdi facendo i più alti elogi del Libera me. Verdi rispose che un tale apprezzamento da parte di un collega tanto stimato quasi l’avrebbe tentato a completare il Requiem da solo “specialmente perché con un po’ più di lavoro troverei di aver già fatto il Requiem e il Dies irae di cui c’è una breve ripresa nel Libera me che ho composto”. Quest’ultimo fatto è sorprendente ma vero. La stesura originale in effetti contiene una reminiscenza piuttosto cospicua del Dies irae, che a suo tempo non era affatto una reminiscenza perché il pezzo era stato scritto da Bazzini in maniera del tutto diversa. La parte in questione era più breve che nel Requiem che noi ora conosciamo, e contiene un’idea leggermente differente per le parole iniziali, “Dies irae, Dies illa”. Inoltre la parte del soprano è scritta un po’ più bassa nella prima versione in quanto era intesa per il soprano Antonia Fricci, i cui mezzi erano più limitati di quelli di Teresa Stolz per la quale fu composta la versione definitiva.
La verità è che Verdi non faceva grande assegnamento sul complessivo valore musicale del Requiem per Rossini. Avrebbe dovuto essere un gesto, un monumento storico: una volta eseguita, la musica avrebbe potuto essere messa sottochiave per altri cento anni. Frattanto Verdi protestava a Mazzuccato che esistevano già Requiem in abbondanza, che uno in più non avrebbe avuto alcun senso e “io detesto le cose senza senso”. Ciononostante il seme era stato gettato e la morte di Manzoni nel 1873 produsse il fiore. Il famoso romanzo di Manzoni, I promessi sposi, era già diventato un classico nella gioventù di Manzoni. È stato descritto come un Walter Scott in italiano: ma c’è un importante differenza. Il libro di Manzoni è permeato di religiosità, di un cattolicismo liberale profondamente sentito che faceva molta presa sulla generazione di Verdi.
Per lo stesso Verdi il romanzo era una delle più grandi opere dello spirito umano, ed il suo autore una sorta di santo in vestiti moderni. (Egli stesso aveva un tempo persino considerato la possibilità di mettere in musica come scena drammatica La notte dell’Innominato – la notte della conversione di un signorotto scellerato). C’è qui naturalmente un paradosso, giacché Verdi non era solamente di vedute anticlericali, ma fermamente negava di avere qualsiasi sentimento religioso, spesso con grande rammarico delle persone a lui più care e più vicine. Ma tale paradosso si estende anche alla musica che ascende alle più alte vette spirituali pur evitando qualsiasi traccia di pietismo convenzionale. La prima esecuzione nella chiesa di S. Marco a Milano il 22 maggio 1874 fu un evento di importanza nazionale. (È vero che il direttore tedesco Hans von Bulow la diresse, ma finì per rimangiarsi le parole e per chiedere umilmente scusa al compositore). La versione però non fu proprio definitiva, giacché poche settimane dopo Verdi decise di sostituire l’originale fugato del Liber
scriptus con un a solo per il suo mezzosoprano, Maria Waldmann, che venne cantato per la prima volta a Londra nell’esecuzione data il 12 maggio 1875 nell’appena costruita Royal Albert Hall.

Carlo Maria Giulini

Non si trattò di un omaggio incondizionato alla nostra nazione: Verdi avrebbe potuto benissimo collaudarlo poco prima nell’esecuzione parigina ma – come scrisse alla cantante – avrebbe potuto non funzionare e i francesi lo avrebbero criticato. I non musicali inglesi presumibilmente non l’avrebbero fatto. Insieme alla Missa solemnis di Beethoven il Requiem di Verdi si colloca come una delle due massime vette della musica sacra dell’ottocento. Non che ci sia
tanta concorrenza. La Messa rappresenta un atto di devozione collettiva. L’era romantica fu un’epoca di sentimenti privati in questioni spirituali: la pubblica emozione era diretta piuttosto verso la nazione, che naturalmente è una proiezione dell’individuo. In tutta l’Europa il linguaggio tradizionale della musica religiosa stava perdendo la sua vitalità: in Italia si divideva tra fusto accademismo nei tempi corali e un misto di sentimentalismo e virtuosismo nei pezzi solistici.
Verdi, per il quale tutta la grande espressione musicale era una e sola, evita il dilemma interamente. Il suo contrappunto è vivo e fresco e non ha nulla di scolastico (Sanctus, Libera me, ecc.); gli slittamenti armonici nel Domine Jesu (Rigoletto), le fanfare in differenti prospettive del Tuba mirum (Aida) le armonie cariche d’emozione nel Requiem aeternam (Macbeth, seconda versione). La Lacrymosa ha una diretta origine operistica in un duetto per tenore e basso con coro, composto da Verdi nel 1866/67 per la prima versione del Don Carlos e poi scartato.
Aspetti come questi, insieme alla teatralità senza ambagi di sezioni come il Dies irae, gli alienarono molti secondo i quali un Requiem doveva essere una faccenda di sobria tristezza e austerità. La vasta maggioranza degli ascoltatori, comunque, è sempre stata avvinta dalla grandiosità, drammaticità ed evidente sincerità della grande creazione verdiana, giacché una musica di tale terrificante potenza non avrebbe potuto essere prodotta se il compositore non fosse stato genuinamente influenzato dai testi sui quali lavorava – testi che trattano, alla fin fine, di situazioni drammatiche non meno reali per tutti gli esseri viventi di quelle che si trovano nei libretti dell’Aida o del Don Carlos, le opere alle quali Verdi stava lavorando allo stesso momento della sua carriera.

Questa incisione de Requiem verdiano eseguita da un giovane Claudio Abbado è violenta, corrusca, al limite persino un po’ plateale, ma con un senso del ritmo ferratissimo, una teatralità persino sfacciata e la piena comprensione del messaggio verdiano, profondamente laico ma con una nota di autentico terrore e di timor panico di fronte ad una realtà aprioristicamente rifiutata ma terribilmente temuta almeno a livello subliminale.
Questa composizione verdiana, com’è noto elaborata in occasione della morte di Alessandro Manzoni – scrittore profondamente ancorato all’etica cristiana e conseguentemente lontano dalle posizioni del musicista di Busseto – ha sempre goduto di splendide esegesi, stimolando evidentemente quanto di meglio c’è nella passione di interpreti che hanno vissuto come una sfida il confronto con le terrificanti campate sonore e i piani prospettici ideati dall’Autore. Ma Abbado riesce a coniugare come pochi altri il senso di impotenza di Verdi di fronte ai grandi misteri della creazione, della morte e della vita “oltre”, affrontati dalla prospettiva di chi non è disposto a piegarsi ad un atto di fede ma solleva orgoglioso la testa a contemplare l’infinito, per poi nuovamente chinarsi, non in segno di sottomissione bensì di terrore, quasi di orrore di fronte ad un mistero che non comprende.
In questo dualismo non risolto fra l’orgoglio dell’uomo e la potenza non riconosciuta ma intuita di un Ente soprannaturale sta l’arco pulsante di questa
composizione straordinariamente viva, che ci parla di morte più che di resurrezione; e chi meglio dell’Abbado di quei formidabili anni scaligeri ce ne può raccontare la potenza, senza una minima cessione a quei valori di pietas che invece metteranno in campo altri interpreti, Giulini in testa?
A cominciare dal pedale tenebroso del “Requiem” dell’Introitus, che si libera solo transitoriamente nell’apparentemente consolatorio “Kyrie”, sino alla terribile pulsione del “Libera me” – affidato alla voce percussiva, attonita e commovente di una Katia Ricciarelli ai suoi massimi storici – questa lettura di Abbado non concede all’ascoltatore un solo attimo di tregua. Il celeberrimo “Dies irae” tralascia i turgori post-romantici di orchestrazioni ipertrofiche, puntando al ritmo di secche, violente frustate che colpiscono l’immaginazione dell’ascoltatore molto più che non i volumi frastornanti di altri interpreti, in ciò recuperando lo spirito antico dei primordi dell’ispirazione verdiana, quella che si affidava alle terribili correnti ascensionali più che alle turgidità delle espansioni. Basta sentire il tono attonito, quasi sussurrato con cui lo splendido Ghiaurov accenna il suo “Mors stupebit”, che risponde al ritmo angosciato e felpato di un’orchestra talmente virtuosistica da non far mai rimpiangere le grandi compagini di area mitteleuropea (e da generare non poche perplessità nell’ascoltatore che abbia abboccato all’idea che i complessi scaligeri abbiano imparato a “suonare” solo con Muti).
Ma la drammaticità teatrale tipicamente verdiana irrompe a pieno canale con il grande assolo di Shirley Verrett, in splendida comunione d’intenti con il Direttore: il “Liber scriptus” fa risentire i tormenti de “La luce langue” di una Lady Macbeth completamente svuotata di ogni energia vitale e sostenuta solo dalla propria disperazione.
Più ordinario l’ “Ingemisco” affidato ad un Placido Domingo che – benché anch’egli rodato da una lunga frequentazione con il Maestro milanese – non era sicuramente al top delle proprie possibilità ed è messo abbastanza alla frusta da una scrittura per lui poco agevole, anche se resa con il solito ottimo senso della teatralità.
Altro momento straordinario è il “Sanctus”, in cui il coro di Romano Gandolfi si copre di gloria in un’orgia contrappuntistica che fa palpitare il momento di entusiasmo collettivo.
E si arriva quindi al già citato “Libera me” in cui si alza la trenodia dello splendido canto di Katia Ricciarelli – che raramente abbiamo ascoltato così ispirata – che conclude la scabra riflessione verdiana sulla morte con una nota di speranza, apparentemente lontana dalla poetica dell’Autore, ma che sembra guardare ad un mondo nuovo, ricostruito da quella Fede da cui Verdi si teneva lontano ma che finisce per trasparire guidata dalla calda e insopprimibile umanità dell’Autore.

Saverio Mercadante

Una lettura – questa di Abbado (e di Gandolfi, obbligatoriamente da citare come co-interprete essenziale, dato il ruolo ricoperto dal coro) – assolutamente fondamentale per la piena comprensione del capolavoro verdiano. Registrazione eseguita nel 1980. Audio molto buono. Altamente raccomandato.

Una visione antidogmatica della morte e del Giudizio Universale

L’interpretazione musicale di Verdi sul testo del Requiem
Fin dalla prima esecuzione della Messa da Requiem, avvenuta il 22 maggio

1874 a San Marco a Milano, la questione della sua collocazione nell’ambito di uno specifico genere musicale rimane sempre contestata. La tesi secondo la quale non si tratta affatto di una composizione sacra in senso stretto, e ancora meno di un brano liturgico – Alfred Schnerlich la definì nel 1909 un “mostro liturgico” – , ma dell’unione ibrida di testo liturgico e toni operistici, è difficilmente dimostrabile ma non può neanche essere facilmente respinta. E non si può nemmeno affermare che Carl Dahlhaus si avvicini alla verità quando colloca la verdiana Messa da Requiem in “quel gruppo di composizioni sacre al di fuori della musica liturgica, un gruppo estremamente caratteristico che comprende sia gli Oratori di Mendelssohn e il Requiem tedesco di Brahms, che l’Ottava sinfonia di Mahler, e forse addirittura il “Parsifal” di Wagner”. Verdi infatti non si interessava di certo per l'”arte-religione” espressa nelle opere citate, per il tentativo cioè di trasfigurare esigenze religiose e intendimenti artistici in una sintesi sublime e universalmente valida. Una cosa è sicura: quando compose (in due riprese) il suo Requiem, Verdi non pensava ad una sua funzione religiosa.
In ambedue i casi furono due circostanze concrete che lo indussero a creare una sorta di “omaggio funebre” in musica. Quando Gioacchino Rossini morì, nel 1868, Verdi si rivolse al suo editore Ricordi con la proposta di mettere in musica, insieme con altri dodici eminenti compositori italiani – tra cui Saverio Mercadante – il testo del Requiem, e poi di far eseguire questo singolare lavoro collettivo a Bologna il 13 novembre 1869, per il primo anniversario della morte del grande compositore. Verdi si era assunto il compito di mettere in musica il finale, il Responsorio “Libera me”. L’esecuzione non ebbe luogo a causa del disinteresse del direttore d’orchestra, e la strana opera si rivelò più un atto di devozione che una composizione unitaria. La sezione scritta da Verdi finì in un cassetto, ma era un frammento destinato ad essere completato. “Di Messe funebri ce ne sono tante” È inutile aggiungerne un’altra”, era di solito dire Verdi. Soltanto la morte di Alessandro Manzoni, avvenuta il 22 maggio 1873, gli suggerì nuovamente l’idea di utilizzare il testo del Requiem per commemorare l’illustre scomparso.
Alessandro Manzoni, l’autore del famosissimo romanzo “I promessi sposi”, era stato uno dei più illustri rappresentanti del Romanticismo italiano e uno dei sostenitori del moto risorgimentale lombardo. Verdi sentiva un’affinità con lo spirito liberale e patriottico del Manzoni, e ammirava il carattere popolare della sua arte, che sapeva conservare inalterati massima dignità artistica, sincerità, chiarezza ed energico tratto nella caratterizzazione dei personaggi – tutte qualità che erano in egual misura caratteristiche di Verdi. Al culmine della sua fama nel 1867, Verdi scrisse dei “Promessi sposi”: “Avevo sedici anni, quando lo lessi per la prima volta… ma per quel libro il mio entusiasmo dura ancora eguale; anzi, conoscendo meglio gli uomini, si è fatto maggiore. Egli è che

quello è un libro “vero”: vero quanto la “verità””. E seguono poi le celebri parole dalle quali risulta evidente il fondamento dell’estetica verdiana: “Oh, se gli artisti potessero capire una volta questo “vero” non vi sarebbero più musicisti dell'”avvenire” e del passato; né pittori veristi, realisti, idealisti; né poeti classici e romantici; ma poeti veri, pittori veri, musicisti veri”.

Per dare egli stesso espressione musicale a tutto ciò e per commemorare il grande poeta, interruppe la sua volontaria pausa pluriennale nella produzione operistica – “Aida” fu composta nel 1871 e “Otello” soltanto nel 1887 – e scrisse nel pieno della sua energia creativa e in breve tempo, accanto al Quartetto per
archi, anch’esso del 1873, la sua visione musicale della morte e delle cose ultime. La prima esecuzione del Requiem, composto “in onore della nostra patria e di un uomo di cui tutti piangiamo la perdita” (Verdi) ebbe quel successo entusiastico che perdura ancora oggi.
Ciò che trova espressione musicale e artistica nel Requiem verdiano è in primo luogo “il dolore per la caducità di tutte le cose umane (Fritz Stein), la visione umana della morte dunque, e non la terrificante immagine dogmatica dell’apocalisse, come il testo della “utopia cattolica della vendetta” (Ernest Bloch) annuncia minaccioso. Verdi, infatti, non si limita a “mettere in musica” il testo (liturgico), questa “vendetta nel giorno del giudizio supremo” (Ernest Bloch), ma assume nei suoi confronti un atteggiamento tale, che in lui morte e apocalisse appaiono come consolazione e speranza, senza l’eternità della pena infernale. Alfred Einstein ha fatto notare come Verdi fosse qui vicino a Mozart e a Schubert. Einstein scrisse a proposito del Requiem di Mozart: “L’intenzione di Mozart è chiara. La morte non è un’immagine terrificante, ma un’amica. È la stessa immagine della morte che ha dipinto anche Schubert. Soltanto un musicista dopo di lui si è potuto elevare all’altezza di questa concezione: Giuseppe Verdi nel Requiem per Alessandro Manzoni”.
È un puro caso, o non è forse invece una “necessità inevitabile” il fatto che il Requiem verdiano presenti al suo inizio lo stesso motivo e la stessa tonalità del celebre Quartetto per archi in la minore op 29 (D 804) di Schubert? (Questo Quartetto è strettamente legato, come ha scoperto Harry Goldschmidt, al Lied schubertiano su testo di Schiller “Die gotter Griechenlands”, e in particolare al verso “Schone Welt, wo bist du”). Anche in Verdi è un motivo strumentale quello su cui il coro declama sottovoce il testo dell’Introito. Soltanto quando questo motivo viene riproposto nel “Libera me”, e cioè nella cellula germinale dell’intera opera, passa alla voce umana (soprano solista). Anche il passaggio schubertiano dal dolore alla consolazione, e cioè la trasformazione sonora, il rischiararsi da modo minore a maggiore, appare in ambedue le composizioni: il Kyrie è, come già la parte dell’Introito “et lux perpetua luceat eis”, in la maggiore; nel primo e nel terzo movimento del Quartetto di Schubert il contrasto tra la minore e la maggiore è strutturalmente di importanza fondamentale. Per conferire al Kyrie un accento musicale ispirato a fiduciosa certezza e di novità inattesa al tempo stesso – anche se in Kyrie è il realtà una supplica! – , Verdi pone il versetto del Salmo dell’Introito (“Te decet hymnus”) in fa maggiore e in stile mottettistico, senza accompagnamento, sì da farlo sembrare un episodio isolato e di carattere temporaneo, che prepara il terreno al grande Kyrie.
Se già l’accento tutto personale, schubertiano all’inizio dell’Introito va per certi aspetti contro le regole della liturgia religiosa – lo stesso si ha nelle incredibili battute iniziali del Requiem mozartiano, anch’esse espressione di sentimenti

umani – la musica verdiana del Kyrie si distacca completamente dai tradizionali moduli liturgici, senza per questo cadere in un superficiale tono operistico. Non soltanto il rischiararsi in la maggiore, ma anche il cambiamento di direzione del motivo – che è ora ascendente, mentre all’inizio si ripiegava malinconicamente su se stesso – preannunciano fiduciosa speranza e impegno attivo, interrotti soltanto una volta, alla parola “eleison” (battute 119-121), da un ansioso punto interrogativo tradotto in termini musicali.
In questo primo movimento, dove Verdi congiunge in un tutt’uno Introito e Kyrie, il compositore rivela l’orientamento stilistico, programmatico per così dire, che rimane valido per tutta l’opera, nonostante il gran numero di caratteri musicali antitetici, come nel “Dies irae”, il nucleo centrale del testo del Requiem.
Nel suo “Das Prinzip Hoffnung” (Il principio speranza), in uno dei più acuti passi del capitolo dedicato alla musica, Ernest Bloch parla del rapporto fra il testo del Requiem e la musica: “La morte ha sviluppato essa stessa delle immagini chiaroscurali, che pongono alla musica molti interrogativi da sciogliere. Non sono immagini racchiude in sé e terrene come la morte di un eroe e la marcia funebre, o anche la nenia che l’accompagna. La Chiesa ha dato invece compiute immagini della morte, e con esse, divenute apocalittiche, enigmatiche, si misura il Requiem (…) Da cento anni, anzi quasi da duecento, il testo liturgico di morte e dannazione non viene più creduto dalla maggioranza degli uomini, ciò nonostante esso vive ancora nella musica.
Ciò nonostante, Mozart, Cherubini, Berlioz, Verdi scrissero le loro Messe funebri in grande stile – e acutamente autentiche. Di parvenze decorative non v’è traccia in questi grandi capolavori, neanche in Verdi, dove più che negli altri il senso del teatro sarebbe accettabile (…) La musica del grande Requiem non dà un godimento artistico, ma provoca turbamento e commozione; e il testo liturgico, nato da paure e struggimenti millenari di epoche arcaiche, presta alla musica i suoi grandi archetipi (…) La musica stessa rievoca dunque i simboli dell’attesa che sono vivi nel Requiem (…); essa si intende escatologicamente”. Si potrebbe perciò dire che la musica è in grado di mantenere in vita il testo liturgico in tempi secolarizzati, “difendendolo contro se stesso”, traendo da esso ciò che era finora rimasto nascosto, o ciò che in quel punto, forse, non era inteso in tal modo, e senza esprimere se stessa con accenti liturgici, ma, come in Verdi e in Mozart, cercando di cogliere il testo attraverso una varietà di procedimenti stilistici e musicali.
Già nel primo movimento si è vista la grande cautela con cui opera Verdi. Nel centrale “Dies irae”, Verdi crea invece, stimolato dal testo multiforme, un poderoso complesso musicale basato sulle immagini, sia di terrore che di speranza, del Giudizio Universale.

Gioacchino Rossini

Ed è sintomatico che proprio questa parte, liturgicamente piuttosto periferica, occupi nei grandi Requiem della storia della musica la posizione centrale, e che qui la musica di Verdi riesca ad esprimere pienamente sia timore e paura che
consolazione e speranza. Questa parte del Requiem annulla più di tutte ogni legame liturgico. Ciò è evidente anche per il modo in cui la musica di Verdi è disposta quasi architettonicamente in una struttura formale indipendente, non prevista dal testo: Verdi ripropone il coro “Dies irae” due volte, come un ritornello, per evitare la frattura dell’intero secondo movimento in singoli quadri, che non avrebbero avuto altrimenti una disposizione musicale unitaria. Alle esplosioni drammatiche e terrificanti dei cori del “Dies irae”, al “Tuba mirum”, che rammenta Berlioz con le sue lontane fanfare e con l’impeto controllato della sua qualità espressiva, e al “Rex tremendae majestatis”, intonato nell’angoscia e nel tremore, sono opposte le arie e gli ensembles dei solisti, i cui accenti operistici penetrano nella sfera dell’esperienza personale. Nemico di ogni posa e fraseologia musicale, nelle sezioni solistiche Verdi assume il suo inconfondibile “tono”, definito da un atteggiamento musicale creato “ad arte” e al tempo stesso immediatamente evidente e comprensibile.
Al posto di speculazioni metafisiche o addirittura teologiche, Verdi offre una visione delle naturali sensazioni umane nella contemplazione escatologica. E in questo egli non evita le sensuali melodie tipiche della sua produzione operistica, ma le fa fiorire qui in modo particolarmente incalzante, fervido e quindi ancor più sconvolgente. Egli conferisce così al severo testo un imprevisto calore umano (si ascolti soltanto il Terzetto “Quid sum miser”), davanti al quale la questione della funzione o della legittimazione liturgica svanisce completamente. Un realismo tangibile sia nelle immagini di terrore che in quelle di speranza; ma mai una dubbia “enigmaticità” o un “indice musicale minacciosamente puntato”. Questo induce gli avversari della schiettezza verdiana a rivolgergli l’accusa di abusare del testo liturgico per soddisfare le sue fantasie teatrali. Ma cosa c’è poi da dire contro “effetto” e “brio”, se essi vengono impiegati con quella vera efficacia melodrammatica (e non teatrale) che Verdi indubbiamente possedeva? È la stessa volontà di offrire un’interpretazione umana, terrena, di temi religiosi che fu operante per esempio nella rappresentazione michelangiolesca del “Giudizio universale” nella Cappella Sistina. E non possono esserci dubbi sul fatto che il “Dies irae” verdiano sa commuovere profondamente anche quell’ascoltatore che non crede al terrificante giudizio supremo.
È proprio là dove l’uomo, anche nel testo, è solo con se stesso, là Verdi se creare la musica più consolante (“Quid sum miser”, “Salva me”, “Recordare”, “Ingemisco”), che replica ai “colpi esplosivi, alle grida che precipitano in un baratro senza fine” (Bloch) dei cori del “Dies irae”.
Quanto la musica in generale, ed anche quella di Verdi, sappia cogliere situazioni limite dell’esistenza umana, è dimostrato da un particolare punto nell’aria del mezzosoprano “Liber scriptus proferetur” (alle battute 214-218): le parole “judex ergo cum sedebit, quidquid latet apparebit” vengono declamate

nel ritmo ferale e nella tonalità ferale di re minore del “Don Giovanni” di Mozart, sostenute armonicamente dall’orchestra (e in un passo cromaticamente discendente simile a quello mozartiano) – con un effetto particolarmente sconvolgente! Il “lacrymosa” fa parte, con la sua mescolanza di lamento e di marcia funebre, delle scene del “Dies irae” che si avvicinano alla dimensione operistica, senza però pervenire ad effetti teatrali. Il verso finale “Dona eis requiem”, composto a modo di coda, ritorna infine al ritmo ferale puntato già ricordato (battute 693-695), portandosi di nuovo, come nel primo movimento in segno di rasserenamento, nel modo maggiore. E poi un momento incredibile: con un inaspettato e improvviso trapasso tonale senza alcuna modulazione, la parola finale “Amen” risuona nell’ambito lontano, quasi extraterritoriale, di sol maggiore, come una sorta di “perturbazione” di si bemolle maggiore, tonalità cui il movimento ritorna per poi concludersi. Forse che questo movimento inatteso, questa formula conclusiva di preghiera era intesa da Verdi come un punto interrogativo?. Con il terzo movimento (Offertorio) entriamo in ambiti espressivi del tutto diversi.
Il coro e con esso le visioni di paura e di terrore tacciono. Il quartetto dei solisti e un’orchestrazione chiara, trasparente si muovono interamente in una sfera espressiva di intima soggettività. Il tono diviene intimistico, confidenziale, caloroso, leggero. Pur attenendosi Verdi nella struttura globale del movimento alla suddivisione del testo liturgico in Responsorio (bipartito: “Domine Jesu Christe” e “Quam olim Abrahae”) e versetto del Salmo (“Hostias”), seguito dalla ripetizione della seconda parte del Responsorio, la musica che accompagna le parole ha una configurazione autonoma. Dalla prima parte del Responsorio egli rileva le parole e il relativo motivo musicale “Libera animas” e ne fa l’idea principale della sezione. Questo motivo musicale domina non soltanto l’intera prima parte del Responsorio, ma ritorna anche in altri passi del testo e costituisce lo straordinario finale del movimento: dopo il ritorno (previsto dal testo) della seconda parte del Responsorio, il movimento sarebbe terminato; ma Verdi non desidera lasciare inalterato il tono un po’ impersonale che ha il fugato “Quam olim abrahae” (al posto della fuga altrimenti consueta in questo punto), e riprende il motivo principale della prima parte del Responsorio, con le parole per lui significative “Libera animas” – un procedimento che ha una giustificazione puramente musicale e che conferisce maggiore pienezza e interiorità alla musica. È significativo che egli scelga proprio queste parole per la fine: esse costituiscono la manifestazione più personale che si può rilevare in ambedue le parti del testo.
Dal testo del Responsorio egli sceglie le parole “Libera animas omnium fidelium defunctorum de poenis inferni” e dal versetto del Salmo “fac eas de morte transire ad vitam” (la parola “Domine” viene omessa!).

Alessandro Manzoni

Queste ultime parole vengono pronunciate dai solisti in stile recitativo, e ad esse risponde l’orchestra con il motivo del “Libera animas”. Il movimento trascende, senza però trascendenza, un po’ come il finale di “Aida”. La maniera specifica del trascendere senza trascendenza diviene per così dire tangibile nella prima sezione del Responsorio. La caduta nell’oscurità (“ne cadant in obscurum”) e l’ascesa verso la luce entrano in attrito immediato attraverso il contrastante “sed”; “il sed prima di “Signifer sanctus Michael”, tenuto per sette battute, e in più la melodia che lo accompagna (si tratta di nuovo del motivo del “Libera” N. d. A.) senza toni trionfalistici, con crescente speranza” (Ernest Bloch), è uno dei pochi punti in cui il carattere utopistico della musica si fa sentire direttamente, ben al di là dello spunto offerto dal testo. Nel “Sanctus”, una fuga doppia, il compositore sembra attenersi allo stile sacro – dopo Bach, la fuga era considerata la quintessenza del genere rigorosamente liturgico. Ma Verdi evita espressamente di presentare la fuga quale forma compositiva fastosa e sublime, nella quale la grandezza del fenomeno musicale gareggi con la grandezza del testo, e le dà invece un carattere non strettamente sacro, basato com’è su una tonalità chiara (fa maggiore), con contrappunti degli archi che contrastano con il loro accento più sereno.
Arte contrappuntistica e immediatezza sensuale, terrena, formano una ferma unità. Invece l'”Agnus Dei” riprende volutamente un tono liturgico, ma non come copia stilistica (quale potrebbe essere offerta dal canto gregoriano), ma piuttosto come un “arcaismo” realizzato in uno stile personale.
La melodia, ripetuta per sei volte come una litania, viene presentata dal soprano e dal mezzosoprano insieme, a distanza d’una ottava, mentre nel corso del movimento il discorso musicale assume tratti sempre più personali, con offuscamenti in tonalità minore ed elaborazioni armoniche allorché vi si aggiunge il coro. Il tono chiesastico viene “umanizzato”, perde gradualmente la sua distanza arcaizzante. Come l'”Agnus Dei”, anche “Lux aeterna” è affidato alle voci solistiche (senza il soprano, che però è l’unica voce solista del movimento finale). La sonorità orchestrale ha uno strano effetto irreale. La sezione centrale (“Requiem aeternam”) è una cupa, larvata marcia funebre, che alle parole “et lux perpetua” assume a poco a poco, accompagnata dalla rinnovata proposizione degli effetti irreali dell’inizio, un tono di certezza. Con una gestualità per così dire trascendentale, i flauti riprendono nelle ultime battute l’arpeggiata triade ascendente del finale dell'”Agnus Dei”.
Il “Libera me”, il movimento composto per primo, è al tempo stesso reminiscenza e riepilogo dell’intera composizione (e non cambia nulla il fatto che sia stato composto prima del resto, poiché esso è ora in un determinato contesto). Il Responsorio “Libera me” non ha un’importanza fondamentale nelle realizzazioni musicali del Requiem.
Per questo è ancora più significativo il fatto che Verdi non volle rinunciarvi, e che nel primo progetto di un Requiem aveva scelto proprio questa sezione da mettere in musica. Per le analogie e le concordanze testuali con l’inizio del

Requiem, si rendono qui possibili collegamenti musicali che integrano e quindi concludono l’opera. Sono solo pensieri e sensazioni personali che trovano espressione nel “Libera me”. Già l’inizio rivela che Verdi ha rinunciato ad ogni legame liturgico. Il soprano solista, interrotto da richiami spezzati e realistici del coro, dà agli accenti salmodianti e quindi di tipo recitativo una dimensione angosciosa che sfiora l’ambito operistico.
Alla reminiscenza del coro del “Dies irae” segue il già ricordato motivo dell’Introito, intonato dalla voce solista. Segue una fuga intonata dal coro sul “Libera me”, che ricorda dapprima la tradizione della musica sacra; ma già nel corso della sua elaborazione Verdi trasforma in modo insolito il tema della fuga in una cantilena, dalla quale si leva piena di speranza la voce solista (battute 404-408), per di più rischiarata dal trapasso al modo maggiore. Un estremo atteggiamento di ripiegamento caratterizza le battute finali, che riprendono gli accenti salmodianti dell’inizio, senza fratture ansimanti, ma anche senza certezze. L’ultima domanda rimane sospesa.

Dietmar Holland
Traduzione dal tedesco

Dopo una prima registrazione del Requiem verdiano effettuata nel 1980 con i complessi scaligeri Claudio Abbado tornò una seconda volta in sala di registrazione nel 1991, al termine del suo periodo di permanenza a Vienna, alla guida dei Wiener Philarmoniker e con il Coro della Staatsoper, diretto da Norbert Balatsch.
E questa volta siamo di fronte, per quanto mi riguarda, a una delle migliori versioni in assoluto del capolavoro verdiano.
Dal punto di vista interpretativo, il grande Maestro milanese abbandona quel distacco troppo razionalistico che aveva caratterizzato la precedente versione, calandosi viceversa nel giusto milieu religioso che contraddistingue pur sempre la Messa verdiana; alla forza e all’impeto del Dies Irae, che esprimono appieno la potenza e la giustizia divine, subentrano il tono afflitto e doloroso del Lacrymosa e l’anelito di speranza del Libera me finale.
Sotto il profilo squisitamente musicale, i Wiener Philharmoniker si trovano in uno stato di grazia, sia per quanto riguarda gli accompagnamenti degli archi (come da tradizione) che conferiscono al Requiem un’estasi mistica difficilmente ripetibile soprattutto nei piani e nei pianissimi, ma anche soprattutto relativamente ai legni e agli ottoni, che tirano delle vere e proprie “staffilate”, sia per compattezza che per rapidità, agli accordi iniziali del Dies Irae.
Sotto il profilo vocale, emergono in primo luogo le parti femminili, sia il soprano Cheryl Studer, che in particolare il mezzosoprano Marjana Lipovsek, dotata di ampia estensione e di grande forza caratteriale ed emotiva; buona anche la prova di Ruggero Raimondi, soprattutto nel tremendo Confutatis maledictis; ce la mette tutta Jose’ Carreras, entusiasta come sempre ma tecnicamente non perfetto, uscendo comunque vincente dal confronto con l’inespressivo Domingo della precedente edizione scaligera, seppur inferiore a Luciano Pavarotti (di cui ricordo le registrazioni dal vivo del Requiem sia con lo stesso Abbado che con Herbert von Karajan).
Se fossi stato il Maestro, dopo un’edizione di riferimento come quella qui recensita, mi sarei fermato, dormendo sugli allori; ma, come ben si sa, Claudio Abbado faceva della continua ricerca una sua costante e così tornò per la terza volta, una decina d’anni dopo, a registrare il Requiem verdiano, con la sua nuova orchestra, quella dei Berliner: altra grande interpretazione, forse ancora più sofferta, ma – a mio parere – meno riuscita di quella viennese che resta ancora un riferimento assoluto.
Il cofanetto di due CD contiene anche gli interessanti “Quattro pezzi sacri” di Verdi, eseguiti molto raramente, nei quali nuovamente emergono la grande forza interpretativa di Abbado e la musicalità pastosa dei complessi viennesi e in particolare del Coro della Staatsoper, che affronta con grande intimismo lo Stabat Mater; infine una menzione particolare alla Studer cui sono affidate le ultime parole di speranza del Te Deum, “In te, Domine, speravi: non confundar in aeternum” con cui si conclude, forse in modo inaspettato da un punto di vista religioso, il cammino terreno di Giuseppe Verdi.
Registrazione in DDD eseguita nel 1993. Audio spettacolare. Altamente raccomandato.

Verdi: Messa da Requiem di Marcello Conati

È stato osservato che Verdi ebbe (evento raro nella storia dell’arte) due “vite artistiche”, culminate la prima nell’Aida (1871), la seconda nel falstaff (1893). Significativo è che entrambe si concludano con musica religiosa, rispettivamente la Messa da Requiem (1874) e con i Pezzi sacri (1898): due “meditazioni” musicali che stanno al compendio di un’ininterrotta ricognizione sulla natura dell’uomo perseguita sin dai tempi dell’Oberto, e altresì al vertice di uno sviluppo artistico e spirituale di due epoche diverse. L’espressione religiosa delle due composizioni (perentoria, sanguigna, nel Requiem, sfumata, interrogativa, nei Pezzi sacri) e il loro tono (più epico nell’una composizione, più lirico nell’altra) riflette due fasi distinte nella vita spirituale dell’artista e del suo atteggiamento di fronte a quell’idea della morte e del mondo trascendente che aveva incessantemente accompagnato la sua opera sin dagli esordi.

Ceryl Studer

La genesi della Messa risale a quella “Messa da morto” che alla scomparsa di Rossini nel novembre 1868 Verdi aveva proposto di far comporre dai “più
distinti maestri italiani” per onorarne la memoria e per la quale l’apposita commissione gli aveva destinato il numero finale, “Libera me, Domine”. Rimasto inattuato il progetto per ragioni non dipendenti dalla sua volontà (e solo in anni recenti realizzato dall’Istituto di Studi Verdiani e dalla Bach- Akademie di Stoccarda), è altamente probabile che Verdi meditasse di comporre una Messa per i defunti completa utilizzando il brano già composto in memoria di Rossini, il cui testo contiene la ripresa di due momenti importanti dell’ufficio funebre: il “Requiem” e il “Dies irae”. La morte nel 1873 di Manzoni, cui la Messa venne dedicata, fu l’occasione per porre in atto un proposito che avrebbe dovuto coincidere con il definitivo congedo dall’arte. Dopo l’Aida il Maestro riteneva ormai definitivamente conclusa la propria carriera: la Messa doveva costituire l’estremo suggello della sua attività di musicista. Ben più che a un omaggio al grande romanziere essa rispondeva di fatto a un’imperiosa esigenza interiore, artistica e spirituale a un tempo.
Dopo una vita dedicata a scrutare il cuore dell’uomo attraverso i conflitti della scena, l’azione essenziale di espiazione per i defunti racchiusa nel testo liturgico della Messa funebre offriva a Verdi l’occasione drammatica più pura, totalmente liberata dagli elementi fittizi della scena, insomma il libretto ideale. Nell’accento tragico di tante pagine della sua Messa riecheggia la visione tragica dei destini umani espressa attraverso le vicende di Foscari, Luisa, Violetta, Azucena, Leonora, Amelia, Filippo… Tuttavia quel sapore “terrestre” che permea l’intonazione del testo liturgico non deriva tanto da questo o quel particolare melodrammatico quanto piuttosto dalla materialità stessa dell’esistenza umana espressa dalla voce, sulla quale sostanzialmente s’incardina, attraverso l’unione della parola al canto, l’intera struttura compositiva con un’ancor più acuita intensità dei conflitti quali sono suggeriti e provocati dal testo liturgico. Tutta la Messa è percorsa da un tema eminente dell’arte verdiana: l’infrazione alla auctoritas dell’inesorabile padre-padrone e la conseguente espiazione. Il tema – esplorato in tante opere e di volta in volta configuratosi nelle immagini del potere sacrale quali Leone, Moser, Monterone, il Marchese di Calatrava, il Grande inquisitore, Ramfis, si ripresenta nella Messa allo stato assoluto, trovando nel testo liturgico un’occasione drammatica ben più intensa e immensamente più terrificante. Poiché si tratta di un’infrazione contro il Padre Assoluto, dell’opposizione alle sue leggi ineluttabili.
L’armamento sonoro, il gesto drammatico, la tinta espressiva potranno talvolta apparire non dissimili da quelli già avvertiti sulla scena teatrale: il canto dei frati della Forza del destino, il fugato dei preti egizi, i melismi delle sacerdotesse del tempio (Aida), l’accento del Grande inquisitore (Don Carlos)… Negli ampi disegni melodici a carattere melismatico (“Hostias”, “Requiem aeternam”) pare a volte affiorare una certa salmodia chiesastica di sapore

rusticale, eco lontana delle funzioni religiose del villaggio nativo cui da fanciullo il futuro compositore assisteva in veste di chierichetto, più incantato dai concenti dell’organo che attento ai propri compiti… E significativo appare l’innesto in una delle pagine più toccanti della Messa, il “Lacrymosa”, del tema dell’epicedio di Filippo davanti al cadavere di Posa nel Don Carlos, situazione sacrale amputata alla vigilia della prima rappresentazione onde contenere la durata di quell’opera in termini accettabili.
Il concetto del sacro in Verdi è infatti totalmente radicato in una visione affatto laica della società. Tutto il suo teatro, popolato di infelici, di perseguitati, di “diversi”, di vittime sacrificali, sembra rianimarsi attraverso le inquiete pagine della Messa in una dimensione ora compiutamente religiosa. Il gesto teatrale viene interamente assorbito dalla rappresentazione musicale del terrore dell’uomo serrato in un inesorabile confronto con la propria natura, della sua ribellione di fronte alla morte, del suo sgomento alla soglia dell’eterno ignoto… Beh più che una meditazione, come a volte è stata definita, la Messa si configura come un appello al Padre Assoluto, in cui l’accento epico si alterna a quello elegiaco, il terrore allo sconforto, la preghiera allo scatto iracondo, il grido della disperazione a quell’anelito alla vita che è il “Libera me, Domine”, il pessimismo cosmico di Verdi – “cifra determinante del suo pensiero” ha osservato Mila – trova nel testo liturgico l’occasione per liberare tutte le proprie energie con una intensità che si traduce ipso facto in un’affermazione di vitalità indomita e inesauribile, quasi a contrastare e a negare il dissolversi dell’esistenza umana.
Musica dunque religiosa? O profana? Stile sacro? O piuttosto melodrammatico? Espressione liturgica? O carattere teatrale? Ancora ricorrono talvolta, intorno alla Messa verdiana, questi futili interrogativi, dei quali peraltro la critica più avveduta ha fatto da tempo giustizia, almeno sin da quando Hanslick, seppure in termini riduttivi, ne scrisse: “L’importante è che il compositore rimanga fedele a se stesso pur nel rispetto del compito assunto. Questa prova di onestà non si può negare a Verdi: non una parte del suo Requiem che suoni leggera, falsa o frivola (…) Ciò che in esso può sembrare troppo appassionato, troppo sensuale, sorge dal modo di sentire del suo popolo, e gli italiani dopo tutto hanno ben diritto di parlare italiano col buon Dio”.
Oggi, peraltro, il significato di quella cattedrale in musica che è la Messa di Verdi ci si rivela ben più denso e più ricco di quanto lasci intendere la precedente citazione. Sapienza armonica e genialità melodica, espressione artistica e contenuto religioso si elevano al di sopra di ogni stretta considerazione di carattere stilistico o etnico o addirittura idiomatico.
In quanto vivida rappresentazione del dramma spirituale dell’uomo al cospetto dell’Onnipotente, proteso nell’angosciosa ricerca di una risposta all’onnipresente interrogativo che incombe sulla propria esistenza, la Messa verdiana assume un significato universale.

Marjana Lipsovske

Dopo la Messa Verdi vivrà ancora a lungo, tanto da rigenerarsi per una seconda vita artistica, al compiersi della quale il terrore della morte eterna sembra sciogliersi in un segno di speranza; la postilla alla disperante perentorietà della Messa verrà infatti dal Te Deum, da quella solitaria invocazione finale – estremo accento del vecchio maestro – che la musica sembra sospendere nel tempo infinito: “In te Domine speravi”…

Ave Maria . Tre pezzi sacri di Pierluigi Petrobelli

L’ultima fatica compositiva di Verdi viene di solito contrassegnata dall’etichetta Quattro Pezzi sacri. In realtà, l’Ave Maria su scala enigmatica, che viene al primo posto nell’esecuzione, era stata inizialmente concepita nel 1889 come una divertente scommessa del compositore con se stesso. Servendosi di una scala “alterata” nelle sue componenti melodiche (una scala “sgangherata”, dice Verdi in una sua lettera a Boito), presentata fra i rebus della Gazzetta Musicale di Ricordi, di cui si serve come un cantus firmus, cioè come struttura portante, Verdi costruisce un pezzo di musica nel più puro stile contrappuntistico. Un semplice esercizio dell’intelligenza insomma, un “gioco molto serio”, per dirla con Goethe. L’esercizio aveva uno scopo dichiarato; si trattava di arrivare a “piegare la nota al volere” del musicista, come Verdi aveva spiegato a Florimo nel 1871, illustrando i criteri secondo i quali, a suo modo di vedere, si doveva sviluppare la didattica della composizione nei conservatori dell’Italia appena formata. È significativo tuttavia che, per la prima esecuzione pubblica degli altri tre pezzi (Parigi, 1898), il Maestro volle esplicitamente che il brano costruito su “quella tal scala” fosse omesso. Per una vera precisa ragione. Per comprenderla bisogna risalire al momento in cui, rompendo il lungo, impressionante silenzio che aveva seguito la creazione del Requiem (1874), Verdi, tra il 1879 e il 1880 riprese a comporre. Furono due brani a tutt’oggi quasi sconosciuti: un Padre nostro per coro a cappella a cinque voci ed un’Ave Maria (quante “Ave Marie ricorrono nella musica di Verdi?) per voce femminile e gruppo d’archi.
Ciò che accomuna le due composizioni è la scelta del testo poetico; che non è quello delle due preghiere della liturgia cattolica, bensì una loro libera parafrasi in italiano e terzine d’endecasillabi, che gli studi più recenti hanno dimostrato risalire alla fine del 14o secolo. Ma Verdi era convinto che fossero di Dante, dato che aveva trovato queste traduzioni nelle Opere minori del poeta fiorentino; e volle che in entrambe le pubblicazioni il nome del poeta figurasse nel titolo: Padre nostro / volgarizzato da Dante / Ave Maria / volgarizzata da Dante.
La scelta del testo poetico ha la stessa funzione di quella dello stile musicale; hanno entrambe cioè un preciso significato politico. Nel momento in cui Verdi rientra nell’agone, si rivolge simbolicamente agli italiani perché, nelle massime
figure della loro storia culturale – Dante per la poesia, Palestrina per la musica – ritrovino un’identità che a stento avvertiamo sul piano della quotidianità politica.

José Carreras

Vi è in Verdi una precisa volontà di accomunare le due composizioni, per farne avvertire la complementarietà; ad un punto tale per cui richiede espressamente che si eseguano uno dopo l’altra “… Vorrei che il Pater ed Ave fossero cantati di seguito come se fossero un solo pezzo” (a Giulio Ricordi, 30/1/1880). L’esigenza di far pervenire il messaggio politico-culturale supera disinvoltamente persino l’evidente, quasi stridente contrasto tra i due organici e di due stili. Infatti, per il Padre nostro è previsto un coro di più di duecento esecutori: “40 Soprani, 40 Soprani secondi, 40 Contralti, 40 Tenori, 50 Bassi – dico 50”; mentre per l’Ave Maria la partitura autografa richiede, oltre la voce solista, “6 Violini primi, 6 Violini secondi, 4 Viole, 4 Violoncelli, 2 Violoncelli, abbassando di mezzo tono la quarta corda”.
È lo stesso principio del contrasto stilistico e di organico che si trova nei Tre Pezzi sacri; Verdi li descrive così in una lettera a Boito del gennaio 1898: “Uno Stabat mater per Coro a 4 voci e grande orchestra Soprani Contralti Tenori Bassi. Una preghiera in italiano sulle prime strofe dell’ultimo canto del Paradiso di Dante a quattro voci bianche Un Soprano Un Soprano Secondo Un Contralto un altro Contralto. Un Te Deum a due Cori e grande orchestra”. L’ordine della successione dei pezzi è determinato quindi dalla necessità dei contrasti: linguistico anzitutto (notare come Verdi, nella lettera a Boito, sottolinei la parola “in Italiano”), di spessore sonoro – enormi masse corali ed orchestrali incastonano il pezzo “a quattro voci bianche”; e stilistico-musicale – il brano su testo dantesco vuole evidentemente risalire alla tradizione della polifonia cinquecentesca, e soprattutto allo stile del mottetto e del madrigale, ancora una volta così come Verdi lo conosceva e lo concepiva. Queste composizioni sono estreme riflessioni dell’uomo che, con tanta spietata lucidità, aveva indagato sui conflitti tra le passioni degli uomini.
I due testi della liturgia cattolica, la meditazione di Jacopone da Todi sulla Madre che mira il figlio divino trafitto in croce, e la preghiera di lode alla Divinità che si conclude con una supplica alla Sua misericordia, vengono accuratamente “letti”, sviscerati cioè nella loro funzionalità espressiva, prescindendo totalmente da possibili analogie con una loro funzionalità al rito – e non tragga in inganno, a questo proposito, l’inizio del Te Deum, con la citazione del canto piano che lo apre. Esse sono preghiere rigorosamente private, dialogo o supplica senza intermediari, costruite su pre-testi dei quali vale soltanto la possibilità di fornire immagini verbali da trasfigurare in immagini musicali: la terribilità e l’infinita maestà divina all’inizio del Te Deum, la dolente “Pietà” con cui si apre lo Stabat Mater. L’attenzione al testo è tale per cui raramente, in tutti e tre i brani, ritroviamo iterazioni di frasi o di parole; al contrario, la scansione, l’articolazione del discorso musicale è fortemente influenzata, direi quasi determinata dalla struttura metrica del testo poetico –
questo vale soprattutto per la Preghiera centrale sulla poesia dantesca, dove la fine di ogni verso corrisponde ad una evidente cesura in tutte e quattro le voci.

Ruggero Raimondi

Privo di una dimensione drammatica di ampio respiro, Verdi sembra quasi aggrapparsi alla parola che gli consente di attivare l’immagine, ed il ritorno a stilemi del linguaggio di un passato anche non troppo recente è insieme significativo ed illuminante. Valga per tutti come esempio la strofa conclusiva
dello Stabat Mater, dove l’immagine sfolgorante della gloria senza fine cui l’umanità in questa preghiera aspira (“Paradisi gloria”) riecheggia direttamente il commosso inno di lode alla suprema magnanimità di Riccardo nelle ultime battute de Un ballo in maschera (“Cor sì grande e generoso”). Proprio perché legato a questa prepotenza dell’immagine, il discorso musicale che ne risulta è volutamente frammentario, ricco di pause, di silenzi, e di estremi contrasti dinamici che li precedono e che li seguono. Le ripetizioni e le analogie tra le differenti sezioni sono facilmente sommerse in questo strano fluire del discorso sonoro; la sensazione complessiva è quella di un disperato e disperante tentativo di comunicazione con una trascendenza alla quale profondamente si aspira, ma della quale non è possibile alcuna certezza.

Il Requiem di Verdi è una delle più maestose opere corali mai scritte. Verdi scrisse la musica in onore del suo amico e connazionale, lo scrittore Alessandro Manzoni. Mentre segue l’ordine di una messa cattolica, difficilmente si può immaginare il suo uso in una liturgia ecclesiale. La prima registrazione del lavoro su LP che ho ascoltato era condotta da Tulio Serafin con Maria Caniglia, Beniamino Gigli, Ezio Pinza e Ebe Stignani come solisti. All’epoca ero giovane e dopo le numerose interpretazione pubblicate durante gi anni, ho acquistato anche questa registrazione perché un gruppo di artisti così eccellenti e una direzione orchestrale così carismatica difficilmente poteva essere mediocre. Secondo il mio modesto parere, questa incisione è estremamente accattivante per due semplici motivi: in primo luogo, Herbert Von Karajan alla guida dei Berliner Philharmoniker è un direttore in grado di far emergere la potenza di un’orchestra e di rivelarne la bellezza, La seconda ragione è il cast dei solisti. Mirella Freni, Christa Ludwig, Nicolai Ghiaurov e Carlo Cossutta, sono solisti tra i preferiti di Von Karajan. Ognuno si esibisce splendidamente donando un lustro particolare a questo Requiem. Ciliegina su una bellissima torta: una bella e dinamica esecuzione del Te Deum di Anton Bruckner.
Registrazioni eseguite dal 1972 al 1976. Buon ascolto a tutte e tutti voi. Audio ottimo. Altamente raccomandato, per non dire imperdibile.

Verdi: Messa da Requiem – Bruckner: Te Deum

Le vicende esterne che condussero Verdi alla composizione della Messa da Requiem sono note: esse sono legate all’intenzione di rendere omaggio alla memoria di un grande italiano e concretamente sollecitate dalla scomparsa di Gioacchino Rossini nel 1868 e di Alessandro Manzoni nel 1873.

Giuseppe Verdi

Alla morte di Rossini Verdi propose l’idea di un Requiem cui collaborassero, componendone una sezione ciascuna, tutti i compositori italiani in quel momento più in vista: il progetto non andò in porto, ma fu all’origine del primo nucleo della Messa, il “Libera me Domine”, che doveva poi costituire, con pochi ritocchi (l’unico mutamento sostanziale riguarda il ritorno delle prime parole del “Dies irae”) la sezione conclusiva del lavoro. Il “Libera me” fu composto nell’estate del 1869: solo nel 1873, sotto la vivissima impressione della morte di Manzoni, Verdi decise di completare la Messa.
La prima esecuzione ebbe luogo a Milano nella chiesa di San Marco, in
occasione dell’anniversario della morte di Manzoni, il 22 maggio 1874, sotto la direzione dell’autore. Non vi sono dubbi sulla incondizionata ammirazione, sulla venerazione che Verdi provava per Manzoni e sulla intensità con cui fu colpito dalla sua scomparsa: eppure non si dovrà sopravvalutare l’importanza che ebbero per il musicista le circostanze esterne che fornirono l’occasione alla Messa. Occorre piuttosto sottolineare che il tema di una messa funebre, sentita come occasione per meditare sulla morte e sul destino dell’uomo, si radicava profondamente nella personalità verdiana, investendone le più intime ragioni morali. L’uomo che poteva scrivere, parlando del Trovatore: “Dicono che quest’opera sia troppo triste e che vi siano troppi morti; ma infine nella vita non è tutto morte? Cosa esiste?”, l’uomo che aveva più volte indagato nelle sue creazioni drammatiche il problema del dolore e della morte, doveva un giorno affrontare quel problema senza la meditazione di una vicenda, di un libretto, toccando in forma diretta una tematica che può esser definita religiosa se con tale parola ci si vuol riferire in senso lato agli interrogativi sul destino dell’uomo e sul significato dell’esistenza, ma che non può essere ricondotta ad alcuna affermazione confessionale.
Da questa Verdi fu sempre dichiaratamente alieno, e la scelta stessa del testo della Messa da requiem, privo di rigidità liturgica, oltre al modo con cui viene affrontato, è indicativa in proposito. Manca nell’Ufficio funebre il “Credo”, e il compositore può eludere così il momento della impossibile professione di fede, mentre trova nel testo una ricchezza di spunti e di immagini del tutto congeniali al suo mondo fantastico. Il Requiem si configura quindi come laica meditazione sulla morte, nata da una esigenza interiore profondamente sentita, e non necessariamente legata ad una destinazione liturgica. Si rivelano quindi completamente prive di senso le polemiche sollevate da questa musica, accusata di teatralità e di eterodossia. Polemiche dettate da una accademica e precostituita concezione, secondo la quale la musica sacra si identificherebbe con lo stile “osservato” e con la polifonia rinascimentale, e dovrebbe possedere una compostezza arcaizzante; ma determinate forse anche dal carattere decisamente anticonfessionale della Messa da Requiem e dall’impossibilità di inquadrarla entro schemi univoci e convenzionali.
Per intendere il linguaggio della Messa occorre tenere presente la sua collocazione nell’ambito della tarda maturità verdiana. Dopo Don Carlos (1867) e Aida (1871), e prima dei rifacimenti del Simon Boccanegra e del Don Carlos, seguiti da Otello e Falstaff, il Requiem giunge in un momento culminante dell’evoluzione stilistica del suo autore e riassume in sé caratteri del linguaggio di quegli anni, sottoponendoli però ad una sorta di trasfigurazione che non nasce da accademici pregiudizi, ma da una precisa consapevolezza che Verdi ha, nell’affrontare il testo, di certe esigenze ad esso legate. Anche dove il compositore si propone il ritorno a moduli obbligati della musica sacra, come il

ricorso al contrappunto e a forme fugate, raramente l’invenzione si lascia tarpare le ali dal convenzionalismo.
I recuperi di stile convivono con la sensibilità del Verdi operista e con le nuove soluzioni suggeritegli dai problemi creati dall’assenza di un libretto e dalla necessità di trattare estesamente un coro a quattro voci, e vengono a formare con esse un complesso affresco. Nella sua varietà di accenti, tale affresco rivela la natura drammatica dell’atteggiamento del compositore, capace di assecondare le svolte del testo secondo una sensibilità vivamente chiaroscurata, quasi conferendo loro un taglio scenico con aderenza di volta in volta precisa e insieme rispondente ad una potente visione unitaria.
In questo senso la Messa è se si vuole “teatrale”, purché si tolga al termine ogni connotazione negativa, e in tale ambito si inquadrano le affinità con precedenti opere, in particolare con la vicina Aida. Ci sembra significativo ricordare che la melodia del “Lacrymosa” è tratta da un abbozzo di scena del Don Carlos. Le maggiori novità, sul piano linguistico, sono nella preponderante parte corale, come era da attendersi data la natura del testo, e dato che i solisti si configurano come voci fornite di maggior rilievo in un contesto più ampio di cui sono solo le interpreti più evidenziate. La sensibilità per il colore orchestrale, capace di cupa desolazione come di finissime trasparenze, va ricondotta alla sempre maggiore cura dedicata da Verdi allo strumentale nella sua ultima fase creativa. La posizione di Verdi di fronte alla morte è, come già si è accennato, aliena da ogni prospettiva di fideistica certezza, e di cui deriva la natura drammatica, tutta umana e terrena, appunto “teatrale” del Requiem: una natura che fu colta già al tempo della prima esecuzione dal Filippi. Basterebbe ricordare la sospesa ed incerta invocazione con cui il Requiem si conclude in uno stupefatto raccoglimento (le parole “Libera me” sono pronunciate con la nuda semplicità della nota ribattuta in un sommesso pianissimo) per rendersi conto della prospettiva in cui Verdi si colloca, e delle ragioni che lo spingono a non chiudere sull’affermativa parola “Amen”. E si comprende senza difficoltà perché proprio il “Sanctus” cioè l’unico momento affermativo del testo della messa funebre, sia anche il meno riuscito e disegnato in modo piuttosto sbrigativo.

Anton Bruckner

È stata più volte sottolineata, nel Requiem verdiano, la dimensione di terribilità “michelangiolesca”, l’acuta e tragica percezione del senso di terrore che incute la morte e che si manifesta in momenti di sconvolgente violenza fonica, come nel celebre inizio del “Dies irae”, e di nuda, desolata stupefazione (si pensi
sempre nel “Dies irae”, alla intonazione dei monosillabi “Mors” e “Nill”). Effettivamente la celebre sequenza di Tommaso da Celano costituisce il momento centrale del vasto affresco del Requiem eppure non si può dire che la meditazione sulla morte ispiri a Verdi solo i corruschi bagliori di una tragicità sentita con intensità quasi fisica e fissata in tratti di epica ed inequivocabile efficacia: essa si apre ad accenti di arcana dolcezza, ad implorazione sommesse e ad improvvise illuminazioni. Non a caso il Requiem è legato proprio al periodo in cui il musicista approfondisce, anche nella produzione teatrale, la sua tematica, accogliendo anche inedite sottigliezze psicologiche e tratti quasi di estenuazione, sfumati in un clima di ripiegamento interiore che è stato addirittura definito “decadente”.
Un mutamento di gusto che va ricondotto alla estrema sensibilità dell’artista al momento storico e alla percezione (chiara, anche se non formulata a parole) della involuzione degli ideali risorgimentali, della nuova dimensione che imponeva la fine di ogni slancio popolare e rivoluzionario. Anche nella Messa da Requiem si insinuano accenti di singolare sottigliezza e penetrazione: la contemplazione della morte suggerisce momenti di estatica e quasi ambigua tenerezza, resa tanto più enigmatica dalla mirabile semplicità del linguaggio. Anche nel quadro tragicamente sconvolto e desolato della Messa non è assente l’anelito al dolce assopimento della morte in cui tutto misteriosamente si acquieta.

Paolo Petazzi

Nelle tre grandi messe Bruckner scoperse il suo linguaggio musicale peculiare. Il tardo, grandioso Te Deum è divenuto il più noto dei suoi lavori sacri. Furono questa volta le sinfonie della maturità a portare frutti per un’opera sacra di vasto respiro, la cui prima versione fu composta nel 1881 (ancora senza la fuga conclusiva), e la seconda negli anni 1883/84. Sembra che l’impulso alla composizione sia stato dato dal violinista e direttore d’orchestra Joseph Hellmesberger, per il cui quartetto Bruckner aveva già scritto il Quintetto per archi (1879). La prima esecuzione ebbe luogo in forma inadeguata, cioè con l’accompagnamento di due pianoforti, all’Akademischer Wagner-Verein sotto la direzione dello stesso Bruckner (1885).
Soltanto un anno dopo si ebbe l’esecuzione con orchestra a Vienna, grazie al celebre direttore Hans Richter, amico di Wagner (10. 1. 1886).
L’opera è formata da diverse parti, collegate da una figura, tipica per Bruckner, con gli intervalli di quarta e quinta, e culmina in una doppia fuga, grandiosa e mistica in ugual misura.
Vi sono rapporti con la Settima e la Nona Sinfonia: nell'”Adagio” dell’una ad esempio appare il motivo del “Non confundar”; nell’abbozzo del “Finale” della Nona Bruckner scrisse le parole “Te Deum”. Nella sua copia al posto del sottotitolo “per coro, solisti…” Mahler pose le parole “per voci angeliche, cercatori di Dio, cuori tormentati e anime purificate nel fuoco”. Toccò così il nucleo più intimo di questa musica.

Stefan Kunze
(Traduzione: Paolo Petazzi)

Nonostante a detta di molti queste registrazioni, fatte negli ultimi anni di vita di Karajan, non siano il massimo artisticamente parlando io le adoro perché ritengo che oltre a far traspirare la sua forza d’animo dal punto di vista delle sonorità riprodotte siano perfetti. Ecco un difetto può essere che siano talmente perfette da sembrare finte e montate in maniera artificiale. Invece non dimentichiamoci che sono stati tra i primi cd ad essere registrati in DDD, cioè ogni singola fase dalla registrazione alla masterizzazione sono fatti digitalmente. Registrazione in DDD eseguita nel 1985. Audio eccezionale. Altamente raccomandato.

Verdi . Requiem nella tradizione e oltre

La morte di Rossini, avvenuta a Passy nel novembre 1868, superò ben presto la dimensione dell’evento di cronaca e venne ad assumere un carattere emblematico per la musica italiana – e per il paese intero, che proprio in quel momento storico andava faticosamente costruendo una sua identità fisica e spirituale. La nascita del nuovo Stato coincideva con un profondo mutamento nel ruolo e nell’importanza del melodramma italiano nel complesso della vita musicale europea. Era stato Rossini, erano stati i suoi trionfi a dare al genere una supremazia incontrastata nei teatri dell’Europa intera. Tutto era avvenuto in poco più di un decennio, e nel momento in cui il compositore di Pesaro concludeva la sua intensissima, seppur breve carriera operistica con il guillaume Tell (1829, il grand-opéra – per il melodramma – l’unico terribile concorrente, e nella sola Parigi. Le opere di Bellini, di Donizetti e del giovane Verdi non avevano fatto che rafforzare questo predominio, e sia pure operando in diverse direzioni stilistiche; il predominio era rimasto inalterato anche con la scomparsa in età relativamente giovane di due dei protagonisti, e col rapido decrescere del ritmo produttivo di Verdi dopo i primi anni ’50. La fortuna dell’opera italiana si era manifestata anche attraverso il graduale affermarsi di un altro fenomeno: accanto alle “opere nuove”, di vita effimera, venivano con sempre maggior frequenza eseguite – tra il 1830 e il 1860 – opere già da tempo affermate, per lo più create proprio da quei quattro compositori; il successo era determinato soprattutto da valori intrinseci alle partiture, più che dipendere dal virtuosismo vocale degli interpreti che le avevano eseguite la prima volta, e portate in giro; si era insomma venuto formando un “repertorio”, fenomeno fino ad allora praticamente sconosciuto nella storia del teatro in musica italiano. L’apprezzamento di valori più specificamente musicali e drammatici veniva a coincidere con un crescendo di interesse da parte del pubblico italiano verso la musica strumentale, anche e soprattutto quella dei romantici tedeschi. A ciò si aggiunse l’inclusione nel “repertorio” non solo dei grandi opéras di Meyerbeer – che dopo tutto era stato educato nella tradizione italiana – ma anche di opere di compositori a questa completamente estranei, come Gounod con il suo Faust; e di Wagner si parlava già da molto tempo. Insomma, con la morte di Rossini un capitolo della musica europea si chiudeva definitivamente, e la musica italiana veniva a perdere un preciso punto di riferimento, la figura nella quale identificare in modo indiscusso i valori più genuini dello stile nazionale. Si avvertiva sempre più che quella supremazia incontrastata aveva ormai subito un’incrinatura, e per di più all’interno della tradizione che essa esprimeva.

Verdi, che di questo stato di cose era lucidamente cosciente (e l’attività parigina degli anni ’60 non aveva fatto che acuire questa presa di coscienza), volle promuovere, alla morte di Rossini e servendosi di Ricordi come portavoce, una solenne celebrazione del maestro scomparso; doveva essere in sostanza un tributo dell’Italia musicale intera al rappresentante più illustre della tradizione nazionale, un estremo saluto dei viventi all’artista che con tanta coerenza e tanta autorità l’aveva imposta nel mondo intero.

Anna Tomowa-Sintow

Il significato autentico di questo tributo, e il modo in cui si sarebbe dovuto attuare è detto con estrema chiarezza nella lettera con la quale Verdi comunica il progetto al suo editore; e val la pena di riportarla per intero:

Sant’Agata 17 novembre 1868

Carissimo Ricordi, ad onorare la memoria di Rossini vorrei che i più distinti maestri italiani (Mercadante a capo, e forse anche per poche battute) componessero una Messa da Requiem da eseguirsi all’avversario della sua morte. Vorrei che non solo i compositori, ma tutti gli artisti esecutori, oltre al prestare l’opera loro, offrissero altresì l’obolo per pagare le spese occorrenti. Vorrei che nissuna mano straniera, né estranea all’arte, e fosse pur potente quanto si voglia, ci porgesse aiuto. In questo caso io mi ritirerei subito dall’associazione. La Messa dovrebbe essere eseguita nel San Petronio della
città di Bologna che fu la vera patria musicale di Rossini. Questa Messa non dovrebbe essere né di curiosità, né di speculazione; ma appena eseguita dovrebbe essere suggellata, e posta negli archivi del Liceo Musicale di quella città, da cui non dovrebbe essere levata giammai. Forse potrebbe essere fatta eccezione per gli anniversari di Lui, quando i posteri credessero di celebrarli. Se io fossi nelle buone grazie del Santo Padre, lo pregherei di voler permettere, almeno per questa volta, che le donne prendessero parte all’esecuzione di questa musica ma non essendolo, converrà trovare persona di me più idonea ad ottenere l’intento. Sarà bene istituire una Commissione di uomini intelligenti onde regolare l’andamento di quest’esecuzione, e soprattutto per scegliere i compositori, fare la distribuzione dei pezzi, e vegliare sulla forma generale del lavoro. Questa composizione (per quanto possano essere buoni i singoli pezzi) mancherà necessariamente d’unità musicale; ma se difetterà da questo lato, varrà nonostante a dimostrare come in noi tutti sia grande la venerazione per quell’uomo, di cui tutto il mondo piange la perdita.
Addio e credimi. Affettuosamente Giuseppe Verdi.
L’apposita commissione venne costituita, si decise la distribuzione dei pezzi, si scelsero i compositori, e i pezzi vennero scritti; ma ben presto sorsero risentimenti, rivalità, meschinerie di impresari e di esecutori; e l’iniziativa divenne irrealizzabile. Una volta venuta meno la possibilità di realizzare il progetto alla scadenza stabilita, e cioè l’anniversario della morte di Rossini, Verdi stesso insistette perché non se ne facesse nulla; così, dopo tanto progettare, parlare, scrivere e litigare, la musica della Messa a Rossini (come Verdi la chiamò nella sua corrispondenza) rimase – ed è ancora – sepolta negli archivi di Casa Ricordi.
Nel piano originale di distribuzione dei movimenti che avrebbero dovuto formare la Messa, a Verdi era toccato l’ultimo, il Libera me, un brano il cui testo contiene frasi ed espressioni già incluse in sezioni precedenti: nell’Introito, “Requiem aeternam dona eis, Domine”; nella Sequenza, “Dies irae, dies illa”; e, all’interno del Responsorio stesso, il versetto iniziale, “Libera me, Domine, de morte aeterna, in die illa tremenda” dev’essere ripetuto alla fine; nello stesso testo liturgico, insomma, si trova latente la possibilità di uno sviluppo ciclico del materiale musicale lungo l’arco della Messa intera, uno sviluppo che sarebbe stato impossibile nel progetto originario, come del resto lo stesso Verdi era perfettamente cosciente nel momento in cui formulava la sua proposta. Una volta fallito il progetto originario, cioè l’esecuzione in San Petronio nell’anniversario della morte, l’idea non venne subito abbandonata; e fu durante questa fase intermedia – prima della rinuncia definitiva – che Alberto Mazzucato, direttore del Conservatorio di Milano e membro della commissione per la Messa, scrisse a Verdi, il 2 febbraio 1871, una lettera entusiastica, esaltando la bellezza e la forza del suo Libera me (“Voi, mio caro Maestro, avete scritto la pagina più bella, più grande e più colossalmente poetica che immaginar si possa”); a cui due giorni dopo Verdi rispose:

Agnes Baltsa

Se alla mia età si potesse ancora decentemente arrossire, arrossirei per gli elogi che mi fate di quel mio pezzo; elogi che, non lo nascondo, venuti da un Maestro e da un critico del valor vostro, hanno un’importanza grandissima ed accarezzano non poco il mio amor proprio. E, vedi ambizione di compositore! – Quelle vostre parole avrebbero quasi fatto nascere in me il desiderio di scrivere, più tardi, la Messa per intiero; tanto più che con qualche maggiore sviluppo mi troverei di aver già fatti il Requiem, ed il Dies irae, di cui è il riepilogo nel Libera già composto. Pensate dunque, e abbiatene rimorso, quali depolorabili conseguenze potrebbero avere queste vostre lodi! – Ma state tranquillo: è una tentazione che passerà come tante altre. Io non amo le cose inutili. – Messe da morto ve ne sono tante, tante e tante!!! È inutile aggiungerne una di più.
Non ci si deve lasciar ingannare dalle frasi conclusive; sono tipiche dell’epistolario verdiano, e servono soltanto a buttar acqua sul fuoco delle aspettative del mondo musicale e del pubblico in genere. Questa lettera testimonia invece con quale chiarezza Verdi ormai vedeva la possibilità di uno sviluppo organico e coerente del materiale che aveva composto; e prova che – se la stesura della partitura del Requiem avvenne entro un tempo relativamente breve, e che comunque non ebbe inizio prima della tarda primavera 1873 – la gestazione, l’elaborazione concettuale dell’opera, soprattutto la sua concezione ciclica risalgono ad un tempo certamente precedente. Del resto, concepire organicamente e organizzare coerentemente in termini drammatici un’intera partitura è caratteristica distintiva dell’operista Verdi sin dall’epoca del Macbeth e della Luisa Miller. Dalla fine degli anni ’40 in poi preoccupazione costante del compositore è quella di creare uno spettacolo drammaticamente unitario attraverso l’impiego e l’articolazione – lungo l’intero suo corso – di alcuni elementi estremamente semplici del linguaggio musicale (singole altezze di suoni, ritmi, timbri isolati di strumenti) che individuano non solo i poli della vicenda drammatica ma servono pure a definirne le tensioni che portano al dénouement finale.
Le preoccupazioni per il destino della musica italiana, soprattutto della tradizione nazionale, non si esaurivano certo con il progetto della Messa a Rossini; è dell’inizio del 1871 la celebre lettera a Florimo nella quale, rifiutando il posto di Direttore del Conservatorio di Napoli, Verdi tracciava una sua idea di curriculum studiorum, nel quale quelli che considerava i “classici” della musica italiana avrebbero dovuto servir di modello costante; lo studio doveva comunque concentrarsi nella pratica contrappuntistica: “Esercitatevi nella Fuga costantemente, tenacemente, fino alla sazietà, e fino a che la mano sia divenuta franca e forte a piegar la nota al voler vostro”; “Le licenze e gli errori di contrappunto si possono ammettere e son belli talvolta in Teatro; in conservatorio, no. Torniamo all’antico: sarà un progresso” (frase questa che,
avulsa dal suo preciso contesto, divenne subito il vessillo del provincialismo conservatore, travisando completamente in questo modo gli intendimenti di chi l’aveva espressa).

José Carreras

Ė con una fuga a quattro voci, nella quale vari artifici contrappuntistici vengono impiegati (doppio canone, inversione del tema, ecc.), si conclude il Quartetto in mi minore per archi, composto a Napoli nel marzo 1873; un pezzo scritto sì “proprio nei momenti d’ozio”, per tener desta l’intelligenza, ma indubbiamente anche un polemico gesto diretto alla “turba dei Maestri che sanno di musica soltanto quella che studiano sulla falsariga di Mendelssohn, Schumann, Wagner ecc.”: (La frase è in una lettera a Clarina Maffei del 9 aprile 1873, alcuni giorni dopo la prima esecuzione, in forma privata, del Quartetto), per dimostrare (anche a se stesso) di poter competere con il “nemico” della tradizione italiana sul suo stesso terreno, e con le sue stesse armi. Di ritorno a Sant’Agata, Verdi si fa restituire da Ricordi, il 21 aprile, l’autografo del libera me, e comincia a comporre il Requiem. Un mese dopo, il 22 maggio, muore a Milano Alessandro

Manzoni: si presenta così l’occasione ideale per celebrare, e questa volta in completa autonomia, una figura centrale della cultura italiana: “Ora tutto è finito! E con Lui finisce la più pura, la più santa, la più alta delle glorie nostre” scrisse a Clarina Maffei il giorno del funerale dello scrittore tanto venerato; non vi prese parte, ai funerali, e fece come aveva annunciato a Giulio Ricordi: “Verrò fra breve per visitarne la tomba, solo e senza essere visto, e forse (dopo ulteriori riflessioni, e dopo aver pesate le mie forze) per proporre cosa da onorarne la memoria”.
Se si considera che questa frase venne scritta il giorno seguente quello della morte dello scrittore, non v’è dubbio che Verdi pensava alla partitura del Requiem, alla quale stava lavorando.
Doveva comunque essere ancora agli inizi dell’impresa se, il 9 giugno, rispondendo al Sindaco di Milano che aveva accettata la proposta di una solenne celebrazione del primo anniversario della morte di Manzoni con l’esecuzione appunto del Requiem, dichiarava: “Quando il lavoro musicale sarà ben inoltrato, non mancherò di significarLe quali elementi saranno necessari onde l’esecuzione sia degna e del paese e dell’Uomo…”; e, ancora, a meno di due mesi di distanza dall’evento celebrativo, l’orchestrazione non era stata terminata, se a Tito Ricordi scriveva da Genova il 25 marzo 1874: “Prima della fine del mese manderò Requiem e Dies irae. Il resto entro il 10 d’aprile”. Fu dunque un’elaborazione lunga, meditata, complessa; ogni minimo particolare venne calibrato e deciso con la massima cura ed attenzione, ogni sillaba del terribile testo liturgico soppesata e valutata: esiste a Sant’Agata una traduzione italiana del Dies irae di pugno di Verdi, che pur conosceva perfettamente il latino ecclesiastico. L’equilibrio complessivo della partitura è tanto più singolare in quanto le rispondenze, i parallelismi suggeriti dal testo liturgico a volte sono rispettati, a volte invece del tutto trascurati.
Così sono puntualmente sviluppate le corrispondenze elencate nella lettera a Mazzuccato di tre anni prima; e invece l’organizzazione ovviamente tripartita di sezioni come il Kyrie eleison e, in un certo senso, anche il Sanctus, viene completamente sommersa nel flusso del discorso musicale; o, per dir meglio, assimilata in principi costruttivi di altra origine. In tre momenti della partitura Verdi offre il suo tributo alla tradizione nazionale “classica”, impiegando uno stile ispirato alla polifonia vocale cinquecentesca, così come veniva intesa nell’Italia dell’800: nel “Te decet hymnus” (il versetto dell’Introito), nel Sanctus e alla conclusione del Libera me. Lo stile di Palestrina si trova quindi all’inizio, al centro ed alla fine della partitura del Requiem; con la differenza che, mentre il “Te decet hymnus” è solo un breve episodio a cappella, incastonato fra le due esposizione del “Requiem aeternam”, tanto il Sanctus che il “Libera me” finale sono due ampie fughe in piena regola, il cui materiale tematico è volutamente apparentato, nel senso che la testa del tema della seconda è l’esatta inversione di quello della prima.
Anche il Requiem, quindi, come già il Quartetto, e come sarà del falstaff, si conclude con una fuga.

José van Dam

Eppure queste fughe della Messa sono volutamente eterodosse, nel senso che la loro conclusione prosegue, senza soluzione di continuità, in episodi liberi: con materiale del tutto indipendente (come nell'”Hosanna in excelsis”) oppure con lo stesso materiale tematico della fuga, trattato però con altro stile che non quello imitativo (alla fine del “Libera me” il tema della fuga viene disteso sul ritmo del “Requiem aeternam” dell’Introito, per stabilire un equilibrio strutturale con l’inizio della composizione).
A ben guardare, Verdi si serve di questo stile “classico” negli episodi in cui

vuol creare delle zone testualmente neutre, nelle quali cioè la parola singola non può né deve essere esaltata; se così fosse, l’attenzione ad essa rivolta contraddirebbe la precisa funzione di quegli episodi nell’economia della partitura. Per capir questo basta osservare la declamazione del testo del “Libera me “all’inizio e alla conclusione dell’episodio, e confrontarlo con il suo impiego nella fuga centrale.
Il fatto è che anche nel Requiem Verdi non può, né vuole rinnegare le innumerevoli esperienze di stile che sono divenute parte integrante della sua voce più autentica – siano o non siano esse della tradizione italiana. L’omaggio a Manzoni doveva attuarsi nella più completa e assoluta libertà di espressione, per essere veramente tale: “È un impulso, o dirò meglio, un bisogno del cuore che mi spinge ad onorare, per quanto posso, questo Grande che ho tanto stimato come scrittore e venerato come uomo, modello di virtù e di patriottismo” (ancora dalla lettera al Sindaco di Milano).
E quindi il maestro della parola scenica, “che scolpisce e rende netta ed evidente la situazione”, costituisce intere sezioni, brevi o lunghe, attorno a una parola-chiave, che egli trasfigura in declamazione, e quindi in musica (“Nulla di più facile, di quelle quattro note del basso “Mors stupebit”, eppure quanto difficili a dirsi bene!”); dall’immagine verbale nasce l’immagine musicale, e l’immagine musicale diventa preghiera. Altre volte un intero episodio è formato dalla semplice iterazione della frase melodica iniziale, intensificata soltanto attraverso l’elaborazione delle parti d’accompagnamento – l’Agnus Dei è un esempio stupendo di questo modo di procedere. È, anche questa, un’esperienza operistica, che tuttavia nel Requiem si integra perfettamente nello stile dell’opera grazie al rigore assoluto, all’essenzialità dei mezzi con cui viene realizzata; basta una semplice alterazione cromatica, un passaggio dal minore al maggiore per stabilire la variante.
Né Verdi pensa di rifiutare nemmeno le sue esperienze d’oltralpe per onorare Manzoni. L’ascolto (e lo studio?) della Grande Messe des Morts di Berlioz deve avere esercitato su di lui la più profonda delle impressioni, a un punto tale per cui la fanfara delle trombe dell’Ultimo Giudizio nel “Tuba mirum”, che si chiamano e si rispondono da lontano, e le loro interazioni alle frasi del coro sono quasi una citazione letterale del passo omologo nella partitura del compositore francese, con il dialogo delle quattro orchestre di ottoni disposte ai quattro punti cardinali. A Verdi non occorre un tale spiegamento di forze per ottenere effetti di altrettanta potenza; ma la vera differenza consiste nella totale diversità di concezione che sta all’origine delle due opere.
In Berlioz l’affresco descrittivo, la potenza delle immagini suscitate dal testo liturgico annulla ogni possibile riflessione sul significato della morte, e tutto si risolve in uno splendido dispiegarsi del linguaggio musicale, nel supremo gioco dell’intelligenza e della fantasia; la Grande Messe des Morts è un omaggio di terribile forza vitale a tutti coloro che pur sono stati uomini; a essi si rivolge, e non alla morte, tantomeno a ciò che sta dopo e al di sopra di essa.
L’omaggio dell’agnostico Verdi al cattolicismo Manzoni si risolve invece in una profonda interiorizzazione delle immagini sonore, in una pessimistica meditazione sul fine ultimo della vita, in un continuo alternarsi di slanci verso una trascendenza avvertita sempre più come improbabile, e un desolato ripiegamento sull'”annientante nulla del pensiero” cui questi slanci conducono.

Herbert von Karajan

Si pensi soltanto alla carica di significati che la parola “nil” assume col procedere del canto nel “Liber scriptus”; e, in maniera ancor più pregnante, all’unisono dei violini che congiunge la conclusione dell’ultima ripresa del “Dies irae” al “Lacrymosa”, una breve ascesa che straziantemente viene piegata verso il registro grave, e che si spegne tra pause sempre più lunghe.
È la medesima Weltanschauung che sta dietro tutto il teatro verdiano; né altrimenti avrebbe potuto essere; e anche qui – come nelle partiture per la scena
– l’assoluta padronanza dei termini del discorso, il supremo equilibrio formale delle singole parti, e fra le parti e il tutto, il completo dominio della forma attraverso il pensiero sono l’unico possibile conforto che l’uomo Verdi può offrire all’uomo, l’unica per lui vera preghiera.

Pierluigi Petrobelli