Wagner Richard

Tristano e Isotta

Vent’anni dopo lo spettacolo di Bayreuth che segnò – nello stesso tempo – l’inizio della Neue Bayreuth, l’inizio del percorso creativo del Karajan che conosciamo, e la fine della collaborazione del Maestro con il tempio della musica wagneriana, ecco l’edizione probabilmente definitiva dell’opera più mesmerizzante fra tutte.
Karajan ci arriva, dicevamo, nel bel mezzo di un percorso che avrebbe avuto il suo culmine con l’incisione del “Parsifal” (DGG, 1980), ma che aveva (e avrebbe anche in seguito) portato già frutti importanti, molti dei quali proprio con la Emi: citando così alla rinfusa e dimenticando qualcuno, “Ariadne auf Naxos” (Emi, 1954), “Rosenkavalier” (Emi, 1956), “Trovatore” (Emi, 1956), “Meistersinger”, “Pagliacci e Cavalleria Rusticana” (DGG 1965), (Emi, 1970), Ring (DGG, 1966-70), “Otello” (Emi, 1973), “Salome” (Emi, 1977), “Pelleas et Melisande” (Emi, 1978). Tutto ciò che sarebbe venuto dopo, sarebbe stato inferiore (secondo “Rosenkavalier”, DGG, 1982) o, quanto meno, interlocutorio (seconda “Carmen, DGG, 1982) o incompiuto (“Ballo in maschera”, DGG, 1989), con la sola eccezione di “Turandot” (DGG, ancora 1982, anno

incredibile per il Maestro quanto a numero di registrazioni d’opera!), in cui i colori klimtiani dispiegati dall’orchestra avrebbero detto qualcosa di veramente nuovo in quest’opera, nonostante le debolezze vocali del cast. E tralascio volutamente i grandi titoli pucciniani pubblicati con Decca e RCA (e DGG: la seconda “Tosca”) che appartengono ancora a un altro mondo. E, a questo elenco, devo aggiungere obbligatoriamente almeno un live, e cioè la fondamentale, meravigliosa Elektra del 1964 (Salisburgo, con Varnay e Mödl). Significativo notare che questa stagione creativa di Karajan si sia svolta proprio soprattutto all’insegna della Emi di Legge, che lo aveva sostenuto sin dai tempi di Bayreuth (“Meistersinger” con Edelmann e la Schwarzkopf; e, soprattutto, il Terzo Atto di una “Walküre” che è già in nuce quella del grande ciclo a cavallo della fine degli Anni Sessanta): è come se il glorioso marchio di Kensington si fosse fatto carico di fissare la memoria del periodo esistenzialista del grande direttore austriaco.
E di questo periodo esistenzialista, il “Tristan” è probabilmente il culmine. Lo è non tanto per i colori orchestrali, che sono invece iridescenti, cangianti, mobilissimi.
Lo è per quello che si ascolta fra i protagonisti, in particolare per bocca di Vickers che, di questa incisione è, con Karajan, il simbolo assoluto e indiscusso.
Dicevamo dell’esistenzialismo.
Questo continuo porsi domande sulla propria posizione nel mondo, con una fusione simbiotica con il divenire musicale orchestrale, è non solo molto wagneriano (specificamente “tristaniano”), ma proprio “vickersiano”: tipico cioè di un cantante che, avvezzo al repertorio liederistico, ha fatto dello scavo della parola il proprio tratto più caratteristico.
Nel contesto di quegli anni – l’inizio degli Anni Settanta – il canto di Vickers inquadrava perfettamente i grandi quesiti di un amore non completamente compreso soprattutto dal protagonista maschile, devastante, destinato a una non-risoluzione. Vickers si poneva in modo meraviglioso al di fuori del proprio complesso personaggio, quasi contemplandolo dal di fuori, e trovando un accento adeguato a ogni esigenza.
Da questo punto di vista, favoloso il modo in cui risolve la parola “Isolde” in ogni momento dell’opera: dal tono morbido e trasognato di quando risponde a Kurwenal che lo avvisa dell’arrivo di Brangäne, al sospiro smarrito e quasi terrorizzato della grande agnizione alla fine del primo atto, al tono imperioso e carico di desiderio sessuale del secondo atto, sino alla rabbia impotente espressa in “noch dir, Isolden, scheint!” nel grande terzo atto, vero cuore pulsante di questa incisione.
Ma – a parte un secondo atto non completamente risolto, in parte perché

l’esplicitazione di sentimenti amorosi non si addice alla poetica di Vickers, in parte per colpa di una partner non completamente all’altezza – tutta la sua performance è bruciante, ispiratissima.
Il terzo atto, dicevamo, in particolare è meraviglioso; me lo sono riascoltato in questi giorni decine di volte, meravigliato di come Vickers riesca a creare un climax di straordinaria ed estenuata violenza espressiva, in cui ogni singola parola riesce a fondersi con l’orchestra di Karajan che, “scontrandosi” con il suono del canto di Vickers, si scompone in mille colori come per l’effetto di un prisma. C’è veramente da meravigliarsi che ci sia spazio anche per un Liebestod dopo un monologo di questo genere, che sembra proprio discendere da Camus, Sarte e Prévert.
In quegli Anni Settanta appena iniziati, quindi, con tutte le inquietudini dell’epoca, questa visione aveva un suo senso ben preciso
Risentito oggi, dopo moltissima acqua passata sotto ai ponti, l’eloquio di Vickers è – se possibile – ancora più straordinario. Nessuno di coloro che sono venuti dopo di lui è riuscito a ricreare qualcosa di anche solo lontanamente paragonabile, con la sola parziale e inaspettata eccezione di René Kollo (Kleiber, DGG 1982: ancora il 1982!), ma il cui contributo deve essere ben ponderato alla luce di quanto messo in campo dal direttore.
L’emozione della nostra gioventù di ascoltatori riemerge quindi prepotente anche in anni di indifferenza cosmica come i nostri: Vickers parla ancora un linguaggio potente, di un’attualità straordinaria, grazie anche all’uso sapiente di un declamato virtualmente perfetto che è l’epitome massima del più autentico linguaggio wagneriano, quello che avevamo già intravisto in Vinay (Karajan, Bayreuth 1952) ma che, con lui, si arricchisce di colori iridescenti.
Al suo fianco un’Isolde purtroppo solo ordinaria: Helga Dernesch, che era stata la Brunnhilde non straordinaria di “Siegfried” e “Götterdämmerung” del Ring di Karajan. La sua organizzazione vocale è fondamentalmente quella di un mezzosoprano, e tale sarà nel prosieguo della sua carriera. È la stessa organizzazione di Martha Mödl, l’Isolde di Karajan del 1952, col che si capisce che tale tipologia vocale doveva andare abbastanza a genio al Maestro in questo ruolo (aggiungiamoci ovviamente che non era mai andata in porto la collaborazione con la Nilsson). Ma la Mödl del 1952 bruciava letteralmente di furore, mentre la Dernesch fa un buon compito che non lascia un ricordo imperituro. Anche lei fa uno scavo notevole sulla parola, ma non è all’altezza di Vickers e, per di più, gli acuti sono faticosissimi.
Il resto del cast è grandioso.
Walter Berry, con il suo fraseggio impetuoso e profondamente umano, è un Kurwenal ideale.

Jon Vickers

Christa Ludwig è sempre stata nel novero delle mie cantanti del cuore, e il suo assolo incastonato durante il duetto del secondo atto – grazie anche al ruffianissimo accompagnamento di Karajan – è uno dei momenti magici del teatro d’opera in disco di tutti i tempi.
Karl Ridderbusch è morbido e dolente nel rendere i tormenti di Marke e la sua umanità ferita.
Splendido il pastore di Schreier.
Resta da concludere il discorso su Karajan, qui veramente ai suoi massimi storici.
Se vogliamo, oggi per lui il tempo è passato più che per qualunque altro elemento del cast. Oggi, di questo Wagner così coloristico, crepuscolare, intimo abbiamo sentito tutto (si considerino Barenboim e Pappano); e forse desidereremmo qualcosa di diverso che compare all’orizzonte nel segno di direttori completamente diversi per formazione e impostazione (penso a Salonen e Jurowski; ma vorrei sentire in questo titolo Currentzis e Petrenko). Oggi probabilmente Karajan, sempre attento alle evoluzioni del gusto, parlerebbe un linguaggio completamente diverso, molto più figlio di un’epoca che non sussurra ma parla attraverso sms e altre forme di comunicazione.
Ma se si vuole un Tristan ancorato a un’espressione riservata, complicata, “maudite”, questo è ancora il massimo riferimento possibile, oltre che lo specchio fedele di un’epoca – gli Anni Settanta – assolutamente irripetibile. Con lui, il suono meraviglioso dei Berliner, anch’essi al loro massimo; ed è un peccato che non sia stata ancora fatta una rimasterizzazione adeguata che ne esalti il preziosissimo sound.

Dopo la celebrazione del Mito da parte di Fürtwangler, e la spogliazione dello stesso di ogni retorica ad opera di Karajan, ecco quella che potremmo definire la “terza via”: quella dell’abbandono all’emozione pura e semplice. Questa strada viene scelta da Carlos Kleiber che, in modo al limite anche un filino ruffiano, evita programmaticamente ogni intellettualismo di riporto e lascia che la musica canti nel modo più ovvio possibile.
Sin dal celeberrimo preludio ci accorgiamo che è successo qualcosa di nuovo nella storia esecutiva di questo capolavoro; l’agogica è spedita, ma soprattutto c’è un’urgenza espressiva che toglie alla vicenda tutto ciò che può lontanamente ricordare il Mito.
Quelli che hanno la mia età ricorderanno il fascino che sprigionava la copertina di questi CD: non più la solita fotografia dei protagonisti abbracciati, bensì l’immagine di un mare blu appena increspato di lievi onde. Questa era la chiave di lettura di un’edizione che fu mitica sin dal suo primo apparire: la forza primordiale di una pulsione inarrestabile, eterna, quasi un moto perpetuo che tutto crea e tutto distrugge. Da questo punto di vista, Carlos Kleiber accoglieva e rielaborava due fondamentali visioni: quella di suo padre, ancora non completamente sganciato dall’etica del Mito, ma tutto sommato già molto vicino a tale obbiettivo; e quella di Karajan, che passando attraverso la polverizzazione del Mito nello spettacolo del 1952, sarebbe poi arrivato alla
miniaturizzazione dell’incisione in studio, quella che poi avrebbe portato i più ad applicare lo stesso concetto anche al Ring, ma sbagliando, come abbiamo visto nella recensione al ciclo.
Qui il grande direttore si trova a proprio agio nell’esasperare le tensioni e le pulsioni e portando l’emotività allo spasimo, in un disegno direttoriale che non è affatto agevole per i cantanti, contrariamente a quanto si crede.
Non ci credete?
Non vi volete rassegnare al fatto che il tanto bistrattato Kollo non è affatto quella chiavica che la critica nostrana ci ha sempre voluto far credere, ma che sia invece un fior di cantante?
Andate subito ad ascoltare il già di per se stesso massacrante terzo atto, e vi renderete conto di come il direttore cerchi sadicamente di prevaricare la periclitante voce del tenore, e di come il povero René rialzi orgogliosamente la testa tirando fuori non solo l’orgoglio, ma anche quanto resta di un’organizzazione vocale che forse non sarà mai stato un modello di ortodossia, ma che gli permette di venir fuori proprio nell’opera più difficile e con il direttore più sadico che si possa immaginare (altro che Toscanini! Ricordo bene la ripresa del 1986 di Otello alla Scala: Kleiber non voleva Bruson e faceva apposta a seppellirlo sotto sciabolate sonore. Andò a finire che Bruson se ne andò a Vienna a rilevare Cappuccilli che si rese disponibile per Milano…).
Non solo: i tempi sono particolarmente veloci, e questo in un’opera del genere garantisce il vantaggio non indifferente di snellire l’azione, ma presenta la contropartita di mettere vieppiù alla frusta i cantanti.
Con i risultati che possiamo immaginare: se detti cantanti sono ricettivi, il risultato potrà essere esplosivo; altrimenti ci sarà il naufragio. Qui bisogna dire che è molto utile il fatto di essere in sala d’incisione, assolutamente indispensabile per una visione tanto corrusca che, probabilmente, in sala di teatro richiederebbe polmoni d’acciaio col risultato di perdere un bel po’ di finezze. La controprova ce l’abbiamo per esempio nella registrazione del Tristan scaligero del 1978, con una Ligendza straordinaria per espressività ma tesa allo spasimo, e il povero Wenkoff che non ha nemmeno la varietà d’espressioni della collega ed è costretto ad urlare per farsi sentire.
Dobbiamo di conseguenza ridimensionare l’immagine altamente poetica che ci siamo costruiti di questo grandissimo direttore, perché le testimonianze che abbiamo ci dipingono invece un autentico tiranno che non esitava a camminare sui cantanti dei propri cast nell’affermazione del proprio progetto. Onore quindi al merito di detti cantanti se non solo “sopravvivono” a cotanto dittatore, ma soprattutto se riescono anche ad affermare la propria personalità.
Di Kollo abbiamo già parzialmente detto. Se c’è una cosa che va affermata a suo proposito, per amore della verità storica che ci sta tanto a cuore, è che non lo ricorderemo come una personalità prevaricante; anzi, per certi versi è la

dimostrazione più chiara di come la deriva della Neue Bayreuth si sia tradotta, soprattutto nei sempre più deprecabili anni a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta del secolo scorso, nella produzione di cantanti spesso anonimi, dotati di poca voce e di ancora più scarsa personalità.

René Kollo

Di essi, Kollo è stato un esponente fra i migliori, e comunque nettamente superiore e di intere spanne a un Reiner Goldberg o a un Peter Hofmann; purtuttavia si tratta di un cantante che difficilmente ricorderemo per l’impatto che ha avuto nella Storia dell’interpretazione.
Nonostante tutto, sarebbe ingeneroso dire che si limiti a sopravvivere al furore
dionisiaco di Kleiber: dopo un inizio dolcemente svagato, Kollo riesce a trovare degli accenti di poesia che illuminano la sua prestazione nella progressione del secondo atto (l’ “Oh sink hernieder” è un momento palpitante e ricco di poesia intimamente sofferta, grazie anche alla magnifica intesa con la Price) e, soprattutto, nel magnifico terzo atto, fra i più belli mai incisi.
Certo, la voce è bruttarella, secca, legnosa; ma gli acuti ci sono ancora e la violenza espressiva è quella di un’anima lacerata. Una grande prova, complessivamente, che è ben sopravvissuta alla prova del tempo: ci sembra giusto sottolinearlo.
Al suo fianco ci sta un’altra grandissima Artista, proprio di quelle con la “A” maiuscola: Dame Margaret Price, che non affrontò mai questo personaggio a Teatro, ma che pure lo viviseziona come era successo solo a Martha Modl e, a mia memoria, a nessun’altra sino ai tempi recenti (sino cioè a Nina Stemme). La preparazione era stata meticolosa, e i risultati sono straordinari. La voce è una folgore in tutto il primo atto, ed esprime l’autorità di Isolde come era successo solo a poche altre; a partire dal secondo atto l’emissione si arricchisce di note di straniante dolcezza che culminano, prevedibilmente, in uno dei più magmatici e magnetici Liebestod documentati dal disco.
Ciò che lascia stupefatto non solo chi si accostava all’epoca a questi dischi, ma anche l’ascoltatore più smaliziato dei nostri tempi è il dominio diabolico del canto espressionista in una vocalista di estrazione classica. Certo, questa è la ragione che le ha impedito di affrontare il ruolo in Teatro (tanto più con una direzione di questo tipo, aggiungiamo noi; ed è proprio per ragioni di questo genere che c’è da essere grati a chi ha inventato il disco); ma c’è da sottolineare come l’estrazione vocalistica classica porti interessanti arricchimenti nelle espressioni di Isolde. Certo, le ragioni rimangono pur sempre quelle classiche espressioniste, le uniche storicamente adatte a questo repertorio così particolare; ma non si può negare che in certi momenti come il “Liebestod” un po’ di sano legato di vecchia scuola faccia piacere. Riconosciamo quindi una grande duttilità a questa intelligente e sensibile cantante; e non è neanche a dire come funzioni a meraviglia l’intesa con Kollo, con cui compone un secondo atto memorabile.
Brangäne è Brigitte Fassbaender, una scelta logica a quell’epoca. La voce intrinsecamente chiara e aperta la pone abbastanza spesso sullo stesso piano sonoro di Isolde. L’artista non si discute; la cantante, invece, è spesso affaticata. Tuttavia il suo intervento nel grande duetto del secondo atto è un momento magico, grazie anche all’atmosfera di sospensione creata da Kleiber. Fischer-Dieskau è piuttosto agé per un ruolo di questo genere, anche se canta come al solito molto bene.
Eccellente il canto di Moll, anche se va discretamente nel naso; comunque il suo Marke è una lagna pazzesca al pari del Gurnemanz che aveva inciso due anni prima con Karajan (mentre il suo Ochs brilla di arguzia: a dimostrazione che forse era più portato per le parti da canaglia che non quelle da pontificatore?…).
Bene tutti gli altri, con una menzione particolare per il Pastore che ci fa sentire il glorioso Anton Dermota alla sua (credo) ultima fatica discografica di rilievo. Un’edizione che fece molto parlare di sé al punto di indicarla sin dal suo apparire come l’incisione ideale di quest’opera. Sono passati molti anni ma questa affermazione ha ancora un suo senso.

Carlos Kleiber

Recite giustamente mitiche queste di Bayreuth, immortalate dal disco ma non purtroppo dal video, come sarebbe stato giusto considerata la statura ormai leggendaria dello spettacolo di Wieland.
Recite consacrate – sul fronte musicale – dalla sinergia pressoché perfetta fra uno dei più grandi direttori della Storia (perché tale sarebbe ora di considerare Böhm) e due interpreti la cui intesa, cementata nel corso degli anni, era umana non meno che artistica.
Birgit aveva debuttato il ruolo a Bayreuth nel 1957 (in assoluto, a San Francisco un anno prima), sotto Sawallisch e sempre – oh sorpresa! – con Windgassen, titolare inamovibile del ruolo sino al 1974 quando, con Carlos Kleiber, sarebbe arrivato Brilioth. Del ruolo di Isotta anche Birgit sarà titolare sino al 1974, quando le succederà la Ligendza; non così fissa e inamovibile come Windgassen, però, perché nel 1963 ci sarebbe stato il ritorno estemporaneo della Varnay e nel 1968 la comparsata di Gladys Kuchta. Ma, nonostante queste eccezioni, Madame Nilsson è stata colei che ha impersonato Isolde per il maggior numero di volte sul Colle.
Una ragione, oggettivamente, c’è.
Anche a voler seguire il ragionamento storico molto amato su questo sito, e cioè l’idea di Cosima che – in astratto – Isolde non dovesse essere affidata alla stessa interprete di Brunnhilde, è innegabile che già a partire dagli Anni Venti del
secolo scorso le cose fossero cambiate e che questo assioma non apparisse più così categorico né imperativo; e lo abbiamo già approfondito in altri articoli. Dopo Cosima a Bayreuth, e nel resto del mondo Cosima vivente, nessuno avrebbe avuto nulla da ridire nell’affidare Isolde a una Brunnhilde. Basta ascoltare, a titolo d’esempio, Nanny Larsen-Todsen, grandissima Brunnhilde e Isolde insieme; oppure la Ligendza che, a Bayreuth, avrebbe debuttato prima Brunnhilde e poi, tre anni dopo, Isolde.
Ma, superato il blocco di Cosima, c’è da chiedersi se effettivamente le interpreti fossero adeguate alla bisogna: non è che gli acuti sfolgoranti di una dea risolvano il personaggio nella sua integrità.
Qui abbiamo una Nilsson quarantottenne e, dal punto di vista vocale, pressoché onnipotente. Nella stessa estate, sempre con Böhm, Wieland e Windgassen gestiva anche il Ring, alternandosi (parzialmente) con la Varnay e la Dvořáková (quest’ultima peraltro venuta a mancare proprio nel 2015). Si può discutere all’infinito se la voce sia quella più adatta a esprimere turbamenti e inquietudini della ribelle principessa irlandese; ma non sul fatto che sia totalmente padrona della vocalità e che – come dice Elvio Giudici, a proposito di altro personaggio da lei interpretato – abbia le teoriche potenzialità per ricominciare da capo l’opera appena finita. Dal punto di vista tecnico, non c’è passaggio che la metta in difficoltà: il terribile primo atto, per esempio, è affrontato in modo “Elektriko”, come cioè se stesse scagliando le invettive della terribile principessa di Micene, con dominio completo del declamato e con un registro acuto d’acciaio; e arriva alle ampie campate del Liebestod con la voce perfettamente integra che fluttua e volteggia meravigliosamente avvolta alle spirali dell’orchestra.
Ciò che manca, invece, come dicevamo prima, è tutto il resto che siamo soliti catalogare alla generica voce “interpretazione”, il cavallo di battaglia di tutte le altre che non hanno, o non hanno avuto, la voce di Isotta (Mödl, per esempio); o che pur avendola avuta (Ligendza) hanno puntato anche in altre direzioni. Si sente che è un personaggio affrontato con notevole consapevolezza, ma le inquietudini, il trascolorare della fine del primo atto, l’angoscia dell’inizio del secondo, la commozione dell’Ich bins, Ich bins nel finale III stanno da altre parti. Ascolti questa colonna meravigliosa di suoni perfetti (e siamo dal vivo!) e ti viene da pensare alla famosa battuta della simpatica Birgit – era famosa per il suo sense of humour – secondo cui, tutto sommato, per fare Isolde basta un paio di ciabatte comode…
Detto questo, non si è Isolde più di chiunque altra nel teatro wagneriano per nulla. Non ci sono solo gli acuti: la voce è “a posto”, corre alla perfezione, è intonatissima, precisa, si può prendere il lusso di alcune messe di voce meravigliose.

Manca il personaggio: oggettivamente non si può aver tutto.

Birgit Nilsson

Il personaggio invece esiste con Windgassen; ma lui, provato da anni di repertorio oneroso da heldentenor wagneriano quale oggettivamente non
sarebbe stato per rango, gioca al risparmio. Porta a casa la serata con estrema professionalità e con una certa quota di suoni sforzati, ma lo fa e, alla fine, i conti tornano per strade diverse rispetto alla sua collega.
La quale collega, in un’intervista, aveva indicato proprio in lui il suo Tristan ideale; anche la Mödl aveva definito Windgassen il proprio partner ideale a prescindere dai ruoli, aggiungendo di esserne anche un po’ innamorata, il che sconcerta un filo, perché se è difficile vedere nel timido Wolfgang gli stami dell’eroe, addirittura impossibile è immaginarlo come icona sentimentale. E comunque, all’epoca, questo signore cinquantaduenne di aspetto impiegatizio è l’incarnazione perfetta, anzi, forse l’unica alternativa possibile all’analoco punto di vista di Vickers: un uomo difficile, complessato, sgomento di fronte a una prova più grande di lui, che giunge discretamente affaticato alla terribile prova del terzo atto ma senza lasciarsene travolgere, costruendo il ruolo nota dopo nota, pazientemente, e facendo solo modico uso di sbracature e suoni belluini. Il suo Tristan, dolcemente alienato, è la rivincita del complessato di fronte a un mondo che non lo capisce.
Non Isolde, che anzi lo vampirizza (non solo vocalmente) anche in un duetto che nel secondo atto non è affatto paritetico.
Non lo zio, che è giovane e aggressivo.
Persino Kurwenal è – anche vocalmente – molto più violento.
È il tipo di personaggio da cui discenderanno quelli tratteggiati da Kollo (con Kleiber) e Hofmann (con Bernstein); per cui la sua importanza storica è innegabile.
Le note sono giocate al risparmio, ma ci sono tutte e senza sbavature.
In definitiva, una prestazione di notevole solidità: come dice l’amico Maugham, nessuno sente un “Siegfried” o un “Tristan” per lui, ma la sua presenza è sempre garanzia di solidità: è raro che sbagli. Non succede nemmeno qui.
Eccellenti tutti gli altri, senza eccezioni.
Interessante Wächter, totalmente all’altezza di una parte molto, ma molto più ispida di quello che si potrebbe pensare, e vocalmente molto più aggressivo dell’amico Tristan. Canta davvero molto bene.
Di Brangäne, Christa Ludwig ha fatto una personalissima icona. La sua voce calda, fonda, intensa accompagna il Notturno con un’intensità meravigliosa. Martti Talvela, dalla voce scura e allo stesso tempo svettante, è uno dei pochissimi Marke da ricordare.
Favoloso anche il pastore del povero Erwin Wohlfahrt, destinato a prematura scomparsa di lì a poco.
Dirige il tutto meravigliosamente il grandissimo Karl Böhm, la cui scansione bruciante e teatralissima sarà superata solo da Carlos Kleiber nel 1974 sullo stesso palcoscenico, e poi in disco.
Basterebbe solo questa registrazione a consacrare la bravura suprema di un direttore che forse non era portato per qualunque tipo di repertorio (il suo Mozart, convenzionalissimo, è spesso noioso nei titoli coturnati e non solo), ma che in Wagner e Strauss trovava veramente il meglio della propria ispirazione. Non solo non annoia mai, ma sa narrare perfettamente un’opera in cui non succede nulla, accompagnando alla perfezione il canto e trovando accenti di una violenza che nessuno – a regola – assocerebbe a questo signore tanto serio e compassato.
Grandissimo Direttore: ripeto, sarebbe ora di rivalutarlo, quanto meno in questo repertorio.

Karl Bohm

A mio avviso Wilhelm Furtwängler (1886-1954) è stato il più grande interprete wagneriano di sempre.
Del mio primo approccio, anni fa, a ‘Tristan und Isolde’ tramite l’ascolto dell’incisione Uhl – Nilsson – Solti (Decca, 1961), ricordo solamente quattro ore di noia mortale; ma comunque questa non è l’opera adatta per i neofiti di Wagner: meglio procedere, nell’ordine, con ‘L’olandese volante’, ‘Tannhäuser’ e ‘Lohengrin’. Poi, personalmente, la prima opera di Wagner che conobbi, grazie a un ascolto radiofonico, e che riuscii ad apprezzare nonostante la lunghezza, fu ‘Parsifal’, che a mio avviso nella storia della musica rappresenta un unicum assolutamente irripetibile.
Ritornando però all’opera in oggetto, questa incisione di Furtwängler è, e rimarrà, l’interpretazione per eccellenza di ‘Tristano e Isotta’.
All’epoca delle registrazioni (giugno 1952), la Flagstad (1895-1962), era a un passo dal compimento dei 57 anni e dal ritiro dalla carriera; Suthaus (1906- 1971), quarantacinquenne, nonostante avesse undici anni in meno della collega, avrebbe ancora inciso, e sempre sotto Furtwängler, solamente Siegfried nel ‘Ring’ del 1953 alla RAI, e Siegmund ne ‘La valchiria’ del 1954 (l’ultima registrazione del direttore, che, morendo, fece naufragare il progetto della EMI di effettuare con lui la prima incisione in studio dell’intera ‘Tetralogia’ wagneriana).

Kirsten Flagstad

Nonostante si narri che, durante le registrazioni, alle spalle della Flagstad vi fosse la Schwarzkopf pronta a ‘‘prestare’’ i suoi DO alla collega, il grande
soprano norvegese qui era ancora in forma vocale più che buona (ovviamente non quanto nelle sue leggendarie interpretazioni degli anni ’30, però decisamente migliore rispetto alle ultime registrazioni effettuate dalla Decca grazie alle capacità persuasive dei produttori che riuscirono a riportarla in sala d’incisione. Non me ne vogliano i fan più accaniti, ma le sue ultime interpretazioni Decca francamente non mi hanno mai convinto, e mi sono sempre un po’ sembrate una ‘‘operazione nostalgia’’).
Suthaus, uno degli ultimi veri ‘Heldentenor’ wagneriani, non avrà i fiati leggendari di Melchior o la notorietà di Windgassen (rispetto al quale si potrebbe discutere molto a lungo sul fatto se gli fosse inferiore), ma comunque si dimostra un Tristan eccellente.
Da segnalare anche un giovane ma già bravissimo Fischer-Dieskau (1925-2012) nel ruolo di Kurwenal.
Contrariamente a Solti, grandissimo concertatore ma quasi sempre più attento allo splendore orchestrale e ai dettagli sonori che non alla profondità interpretativa (e che per questo preferisco in Strauss piuttosto che in Wagner), mi pare che invece Furtwängler si dimostri più attento alla visione drammaturgica e musicale complessiva dell’opera, ai rapporti di causa-effetto e agli inevitabili sviluppi degli eventi, curando la struttura musicale più come un unicum che non come un insieme di dettagli sonori dei singoli strumenti.
In più, in Wagner Furtwängler è l’unico che riesce a trasmettermi anche la sensazione del mito, dell’arcaico, e di un qualcosa di primigenio insito nelle sue musiche, caratteristica che probabilmente dipende anche dalle scelte delle fonti letterarie adottate da Wagner.