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Gioacchino Rossini

prefazione
opere


Il primo Ottocento italiano è dominato dal genio musicale di Gioacchino Rossini. La complessità della figura di Rossini è unica, sospesa com'era tra la storia e l'aneddotica: il musicista pesarese ne esce come proverbiale pigrone, dedito soprattutto al cibo, ma allo stesso tempo compositore dai ritmi frenetici, capace di sfornare un'opera in poche settimane.
Famose sono le sue battute tramandate da illustri testimoni, uno su tutti Henry Boyle, detto Stendhal: “La verità è sicuramente nel mezzo e, sebbene ridimensionata, non toglie nulla alla grandezza di Rossini”.

Appassionato studioso di Mozart e Haydn, nonché della tradizione operistica dei Cimarosa e dei Paisiello, Rossini muove i primi passi teatrali tra il 1808 e il 1809 con l'opera “Demetrio e Polibio”, che andò in scena solamente nel 1812.
L'opera pur frenata da un certo accademismo, mostra già un Rossini molto attento all'orchestra, nonché alla costruzione delle situazioni teatrali: duetti, terzetti e scene d'assieme molto ben calibrate.
Ma è nel genere dell'opera buffa che il giovane Gioacchino raccoglie i primi successi: a partire da “La cambiale di matrimonio” (1810), farsa in un'atto nella quale il musicista è già pienamente se stesso.
I successivi lavori da “L'inganno felice” a “La scala di seta” fino
all' “Occasione fa il ladro” e “Il signor Bruschino”, affinano sempre di più il suo personalissimo stile, fatto di un brillante canto fiorito, nonché di una vivacità teatrale e orchestrale già presente nelle sinfonie d'apertura, con i famosi crescendo, quel passaggio, cioè, dal piano al fortissimo che resterà la sua firma.
L'orchestra rossiniana è un'orchestra capace anche di sottolineare perfettamente ogni situazione scenica in totale sintonia con le voci. La grandezza dell'opera comica di Rossini, che conoscerà i suoi vertici nei titoli più acclamati: “L'Italiana in Algeri” (1813), “Il barbiere di Siviglia” (1816), “La Cenerentola” (1817), al di là dei pregi strettamente musicali, va vista anche nel modo in cui il compositore affronta il genere buffo.
Consapevole della grande tradizione dell'opera buffa napoletana, egli trasforma quelli che erano ormai dei personaggi stereotipati in caratteri umani. Nessuno dei personaggi comici di Rossini è una macchietta, poiché non esiste un'unica angolatura dalla quale osservarli; in essi agiscono sempre i sentimenti, cattivi o buoni che siano. Un po' come in Mozart, Rossini resta spesso a cavallo tra i generi. La satira è sicuramente una delle armi più affilate del pesarese, ma in molte delle sue opere comiche è evidente anche un aspetto malinconico, se non addirittura drammatico: è il caso de “La Cenerentola “ o ancora di più de “La gazza ladra” (1817), opera che sfiora la tragedia.
Non meno complesso è il rapporto di Rossini con l'opera seria. Anche qui il musicista sembra voler assumere una posizione ambigua. Nel 1813 con la prima rappresentazione del “Tancredi” al Teatro La Fenice di Venezia, Rossini coglieva il primo importante successo nel genere serio. E a tale proposito si smentisce subito anche la tradizionale visione del personaggio Rossini burlone per antonomasia. La sua stessa produzione lo conferma: ventidue opere serie contro quattordici opere buffe.

Questo equivoco è sicuramente legato al fatto che solo in anni recenti si è tornati a dare una giusta valutazione al Rossini serio. Il compositore sfuggí sempre alle regole del romanticismo: ne rifiutò il realismo espressivo, sebbene a volte ne accettò gli accenti di fremente lirismo, le immagini patetiche, le struggenti ombreggiature. Il musicista si sente come l'ultimo depositario della grande tradizione dell'opera seria metastasiana.
Ma Rossini non va giudicato come un musicista retrò, anzi, spesso precorre i tempi e per la sua modernità a volte non viene compreso: è il caso di quel capolavoro assoluto che è “Ermione” rappresentata senza successo a Napoli nel 1819. La struttura del numero chiuso è sostituita da grandi blocchi drammatico - musicali. Lo si capisce già dalla sinfonia, spezzata da un coro dietro le scene, che ritroveremo all'aprirsi del palcoscenico. L'opera prosegue in un continuo compenetrarsi dei numeri musicali che trova l'apice nel secondo atto, con la grande scena della protagonista, nella quale si inseriscono parti di recitativo ed un corteo nuziale.

Se il pubblico napoletano non comprese la grandezza di “Ermione”, il pubblico italiano in genere, non capì nemmeno il “Guglielmo Tell ” (1829), ultimo grande lavoro rossiniano. La monumentale partitura, con tutti quei cori, danze e grandi scene d'assieme, che testimoniava la volontà di Rossini di avvicinarsi alla nuova sensibilità romantica, non trovò il gradimento dei nostri teatri per tutto l'Ottocento.
La grandezza del nome di Rossini, accanto al quale si stavano per unire i nomi di Bellini, Donizetti e più tardi di Verdi, segna il nuovo grande momento del melodramma in Italia.

Maurizio Tagliabue