Ludwig Van Beethoven

Violin Concertos

Wilhelm Furtwangler è stato uno degli ultimi direttori d’orchestra romantici. I suoi tempi in questi Concerti sono ben marcati e scorrevoli e il suono dell’orchestra è esuberante. Ha registrato il Concerto di Beethoven con Menuhin nel 1947 e di nuovo, nella stessa versione EMI nel 1954. Questa incisione poi rimasterizzata nel 1984 è straordinaria per la portata e l’ampiezza dei movimenti con un meraviglioso dialogo tra l’orchestra e il solista. La parte dell’orchestra è eccezionalmente dettagliata ed elaborata rispetto a quella del violino, In questa composizione sono presenti melodie incantevoli insieme a passaggi drammatici. Nel primo movimento le cinque battute d’attacco dei timpani vanno a pervadere l’intero movimento. Il secondo assume la forma di tema e variazioni con due intermezzi per violino fortemente commoventi e riflessivi. Il terzo è un rondò allegro. Risulta più vivace rispetto ai primi due movimenti, con notevole varietà di forme e una coda vivace. A differenza di quanto accade nel concerto di Beethoven, il solista è quasi sempre al centro dell’attenzione nella versione di Mendelssohn. Menuhin suona con lirismo e impeto; questa partitura contiene una serie di melodie magnifiche. La parte dell’orchestra è dettagliata ed elaborata, sebbene sia subordinata al solista. Wilhelm Furtwangler e i Berliner Philharmoniker accompagnano con grande maestria Yehudi Menuhin. I passaggi di transizione tra il primo e il secondo movimento e tra il secondo e il terzo, sono di grande importanza in questa composizione. Il primo movimento è un allegro molto appassionato, il secondo consiste in un lungo tema in forma sonata e il terzo in un allegro ma non molto. Questa fantastica esibizione fa emergere la profondità di questo Concerto. Doverosa la collocazione tra le grandi registrazioni del secolo.
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Concerto in re maggiore per violino e orchestra op. 61

Il Concerto in re maggiore opera 61 è la principale composizione per violino e orchestra del compositore, risalente alla fine del 1806 e quindi contemporanea della Quarta Sinfonia, dei tre Quartetti dell’opera 59, del Quarto Concerto per pianoforte. È estremamente probabile che il Concerto sia stato composto per esaudire la richiesta di un solista di prestigio, il violinista Franz Clement (ventiseienne all’epoca della composizione, nonché direttore al Theater an der Wien), che aveva fra l’altro diretto la prima esecuzione della Terza Sinfonia e la ripresa di Fidelio.
Secondo la testimonianza di Carl Czerny (Pianoforte-Schule op. 500), allievo ed amico del maestro, Beethoven avrebbe redatto la partitura in un lasso di tempo assai breve – come sembra confermare lo stato piuttosto disordinato ed incompleto dell’autografo – e la avrebbe terminata con appena due giorni di anticipo sulla prima esecuzione. Questa ebbe luogo a Vienna, al Theater an der Wien, il 23 dicembre 1806. Franz Clement riscosse un successo personale, al quale non fu certo estraneo un “numero” straordinario, consistente nell’esecuzione, fra i primi due tempi del Concerto, di una sua Sonata per violino, suonato su una sola corda e imbracciato, oltretutto, capovolto.
Tuttavia – nonostante la differente testimonianza di Carl Czerny – le recensioni dell’epoca si mostrarono severe verso la composizione. Scriveva la «Zeitung für Theater» dell’8 gennaio 1807: «È opinione unanime fra gli intenditori che [il Concerto] non manchi di bellezze, ma che nell’insieme appaia del tutto frammentario e che le infinite ripetizioni di passaggi banali possano facilmente ingenerare monotonia». Al di là del parere di un singolo critico la partitura incontrò nei decenni seguenti una scarsissima fortuna presso pubblico ed esecutori; i successivi tentativi di imporre la composizione nel repertorio (ad opera di Tomasini, a Berlino nel 1812; Baillot, a Parigi nel 1828, Vieuxtemps, a Vienna; Uhlrich, a Lipsia nel 1836) rimasero sostanzialmente senza effetto; fino a quando, nel 1844, il tredicenne Johann Joachim la eseguì per la prima volta a

Londra sotto la direzione di Mendelssohn, dando l’avvio ad una trionfale riscoperta.
La causa principale di questo misconoscimento deve essere individuata principalmente nell’essere il Concerto opera 61 una composizione poco alla moda. L’affermazione, presso il “nuovo” pubblico borghese, del gusto Biedermeier aveva favorito la diffusione di un tipo di concerto in cui il contenuto puramente musicale e il ruolo dell’orchestra erano ridotti al minimo e l’interesse era concentrato unicamente sull’esibizione delle doti di “bravura” del virtuoso. Lo stesso Beethoven, per favorire la incerta diffusione editoriale del Concerto, ne curò personalmente una versione pianistica, provvista di quattro eclatanti cadenze autentiche e improntata a uno stile brillante, virtuosistico e quasi chiassoso. La proposta di una “doppia versione” (violinistica e pianistica) della partitura era venuta nel 1807 dal compositore Muzio Clementi, che, nelle vesti di editore, aveva promosso la seconda edizione a stampa del Concerto, a Londra nel 1810 (ma non a caso anche la prima edizione, pubblicata a Vienna nell’agosto 1808 per i tipi del Bureau d’arts et d’industrie, aveva la stessa “doppia” destinazione).
Il Concerto opera 61, invece, è opera aliena per sua natura da eccentriche estroversioni. La scrittura solistica, innanzitutto, mostra un deciso orientamento verso un fraseggio levigato ed elegante che, pur richiedendo un alto cimento tecnico, poco concede al virtuosismo puro; tende insomma più a coinvolgere espressivamente l’ascoltatore che non a stupirlo. Anche il “problema” fondamentale posto dal genere del concerto, ossia il rapporto che intercorre fra il solista e la compagine orchestrale, viene risolto da Beethoven in modo piuttosto dissimile rispetto ai Concerti per pianoforte; non si tratta infatti di un rapporto conflittuale, che vede il solista porsi come netto antagonista verso l’orchestra. Il violino invece, pur mantenendo un forte profilo individuale, stabilisce con l’orchestra un’intima complicità, che deriva dalle pastose scelte timbriche dello strumentale, dall’assenza di marcate contrapposizioni dinamiche, dal rilievo concertante degli strumenti a fiato (avvertibile soprattutto quando gli archi siano, come all’epoca, in formazione ridotta).
L’organizzazione formale del Concerto segue le linee principali degli interessi dell’autore nei primi anni del secolo, dividendosi (come le Sonate opera 53 e 57, il Quarto e il Quinto Concerto per pianoforte) in due grandi blocchi, il primo stabilito da un movimento in forma sonata, il secondo da un breve movimento contemplativo che ha una funzione introduttiva rispetto al Finale (in genere un Rondò). Tuttavia il contenuto musicale della partitura si allontana da quei caratteri che hanno fatto versare fiumi di inchiostro sul Beethoven «eroico» e «titanico». Mancano all’opera 61 gli elementi essenziali di questa immagine: la pronunciata dialettica tematica e l’elaborazione degli sviluppi.

L’Allegro ma non troppo che apre il Concerto si basa infatti su due idee tematiche principali fra loro affini: la prima dal profilo discendente, la seconda ascendente, ma entrambe per gradi congiunti, con valori regolari, introdotte e supportate da un ritmo insistito di quattro “colpi” (il timpano solo per la prima idea, i violini soli per la seconda); ed entrambe presentate, nell’introduzione orchestrale, dal gruppo dei legni. Appunto nell’introduzione compaiono tutti o quasi gli elementi tematici che daranno vita al movimento; estremamente breve, rispetto alle vaste dimensioni di questo, è la sezione dello sviluppo, e l’intero tempo si basa sulla elegante ripetizione variata del materiale di base da parte del solista e dell’orchestra. La cadenza in genere eseguita, per tradizione, è di Fritz Kreisler (come anche quella del tempo conclusivo).

Yehudi Menuhin

Il secondo movimento consiste in un tema con variazioni, che non dà origine però a fantasiose trasformazioni espressive, e si svolge interamente in una ambientazione coerente; il movimento ha però una struttura eccentrica, ispirata al principio della “doppia variazione” proprio di certi Adagi di Haydn. Esposto dagli archi, il tema viene variato tre volte e con preziosi ornamenti dal solista, che presenta poi un secondo tema, anch’esso variato dopo una quarta variazione del primo tema. Dopo un’ultima apparizione di questo, energici accordi degli archi e una incisiva cadenza del violino conducono direttamente al Finale. Si tratta di un Rondò che costituisce la pagina più apertamente brillante della partitura; la struttura è quella consueta A-B-A-C-A-B’-A, che alterna un refrain ad episodi differenti. A moderare il carattere brillante del movimento c’è un elemento stilistico peculiare: quello “pastorale”, evidenziato dal tempo di 6/8, dalla particolare, amabile tornitura melodica del refrain, dall’ingresso dei corni sul secondo tema, dal rilievo dei legni. Ed anche la linea del solista, fra i trilli, le scale, gli arpeggi, le doppie corde che impegnano il virtuoso, non tradisce la sua vocazione verso una espressività lirica e sublimata, lontana tanto dal freddo ed elegante decorativismo del concerto rococò quanto dai facili effetti del gusto Biedermeier.

Mendelssohn Concerto in mi minore per violino e orchestra op. 64.

Il Concerto per violino e orchestra in mi minore op. 64 di Mendelsshon fu e rimane uno degli evergreen dei repertori internazionali e uno dei capisaldi della letteratura per lo strumento. Come la gran parte dei Concerti di epoca romantica, anche questo illustra a pieno titolo la collaborazione tra compositore e interprete, in questo caso il violinista Ferdinand David, primo violino dell’Orchestra del Gewandhaus. Nel luglio 1838 Mendelssohn scriveva all’amico: «Vorrei proprio scrivervi un Concerto per violino per il prossimo inverno, ne ho in testa uno in mi bemolle, il cui inizio non mi lascia un minuto di pace». Ma dovette passare un anno prima che il compositore facesse di nuovo allusione alla sua proposta, e solo come risposta ad un nuovo invito di David: «È molto gentile da parte vostra reclamare da me il Concerto», scrisse nell’agosto 1839, «e io ho il più vivo desiderio di scrivervene uno, ma il compito non è semplice. Voi lo vorreste brillante, e come credete che uno come me lo possa! Il primo assolo deve essere tutto nella tonalità di mi». Celiando, Mendelsshon alludeva forse al carattere più osservato che permeava il suo primo tentativo nel genere, il Concerto in re minore, scritto nel 1822 a soli tredici anni, in cui è manifesta l’impronta bachiana anche se già smaliziata la conoscenza dello strumento. L’opera tuttavia non fu completata che nel settembre 1844, durante un soggiorno di convalescenza a Soden, presso Francoforte sul Meno, e continuamente perfezionata prima di darla all’editore per la stampa nel dicembre. Conobbe la sua prima esecuzione, assente l’autore ammalato, il 13 marzo 1845 con David e sotto la direzione del danese Niels Cade. Il 3 ottobre 1847 Mendelsshon potè invece ascoltarlo nell’esecuzione del giovane Josef Joachim, appena un mese prima di morire.
Lavorando al Concerto Mendelssohn consultò regolarmente il violinista sia per questioni di struttura formale e di dettagli che sugli aspetti pratici della scrittura per solo. Di più, una buona parte della cadenza del primo movimento come noi la conosciamo, si crede sia stata scritta proprio da David. Il carattere esecutivo del pezzo, tuttavia, è legato all’equilibrio che deve instaurarsi tra virtuosismo e

rigore, in una asciuttezza che non ammette sbavature sentimentali pur nell’ampia retorica espressiva romantica.
Il primo tema del primo movimento Allegro molto appassionato, nonostante la melodia seducente, è di grande semplicità e di mezzi armonici relativamente contenuti. Nella nebbia degli archi gravi, scandita da due colpi del timpano esso si stacca con il caratteristico ritmo anapestico. L’orchestra (a due) è sempre ancella del solista e ne riprende il tema nell’esposizione presentando poi un tema derivato dal primo che il solista si affretta a riprendere variandolo. I fiati introducono il secondo tema in sol maggiore con andamento di semplice corale e il dialogo col solista nello sviluppo prosegue fino alla cadenza, articolatissima, che, con una certa novità formale, precede la ripresa. Il rientro dell’orchestra affiora dalle ultime battute in pianissimo del violino e l’effetto di sospensione è straordinario. La ripresa con il riascolto del tema di corale precede la coda brillante che si conclude con una nota tenuta del primo fagotto che permette di collegare questo movimento direttamente all’Andante.
Questo “sipario” che dal mi minore conduce al do maggiore rievoca paesaggi beethoveniani e costituisce il fondale ideale perché la melodia purissima in forma di Lied tripartito possa aprirsi. La grazia del tema è decisamente sentimentale e intimistica e offre all’esecutore la possibilità di sfoggiare arcate, legati e note tenute. I corni e l’orchestra introducono la sezione centrale che vira verso un tono più drammatico fino alla riesposizione del Lied che conclude in pianissimo il movimento.
L’Allegro molto vivace in mi maggiore è preceduto da una frase recitativa di poche battute con funzione di collegamento, in realtà più emotivo che strutturale, nella quale riappare in forma variata il tema dell’Allegro molto appassionato. In tal modo lo stacco Leggiero dell’arpeggio del violino offre un effetto plastico superiore, dando vita ad un movimento elegante in forma di Rondò-Sonata. Anche questo appare di semplicità melodica e armonica, anche se Mendelsshon “sporca” di cromalismi i movimenti del basso che appaiono fra il primo e il secondo tema, fra la ripresa e la coda e fra la coda e la cadenza conclusiva per creare interesse. Il dialogo con l’orchestra si fa più serrato, nello scambio reciproco dei temi, dando modo al solista di esporsi con gli effetti di pizzicato e di staccato all’ottava acuta. La cadenza finale annunciata dai trilli ascendenti del violino, punteggiati dai fiati, conclude con slancio e brillantezza il movimento, nella cifra tipica di Mendelssohn che non rinuncia alla costruzione “dotta” ma la dissimula in una superiore eleganza formale.

Beethoven “per clemenza, scrisse il suo Concerto per violino e orchestra dedicandolo al violinista Franz Clement, per lo meno se si vuole prestar fede a quanto è scritto sulla partitura autografa: “par Clemenza pour Clement” – ma tale dedica è piuttosto da leggersi come uno di quei giochi di parole che Beethoven amava fare con i musicisti che stimava.
Del resto Clement non godeva solamente della “clemenza” o dei “favori” di Beethoven: in una cronaca d’un giornale viennese del 1805 egli viene designato come il “beniamino del pubblico locale”. In questo stesso scritto viene fatta anche un’ampia descrizione del suo modo di suonare il violino: è lodata la sua “grazia indescrivibile, la sua gentilezza ed eleganza”; l’“estrema amabilità e delicatezza nonché la purezza” del suono deve aver esercitato un notevole fascino sui viennesi, “ed inoltre egli possiede una leggiadria tutta sua, che gli fa tenere in nessun conto anche le più incredibili difficoltà”.
Quando il 23 dicembre 1806 il giovane violinista ventiseienne eseguì per la prima volta il nuovo concerto di Beethoven probabilmente da una parte del pubblico il fatto non fu sentito come un avvenimento eccezionale; tuttavia Clement riuscì a sedurre l’uditorio con dei pezzi di bravura, gli stessi che più tardi userà anche Paganini per suscitare il “furore” del pubblico.
Il programma infatti annunciava che sarebbe stata eseguita “una sonata su una
sola corda e con il violino messo al contrario”.
Beethoven conosceva e stimava Clement sia come violinista che come direttore d’orchestra; agli inizi del 1806, in occasione della rappresentazione della seconda versione del Fidelio al Theater an der Wien, Beethoven venne di nuovo in stretto contatto con Clement, che era alla testa dell’orchestra di quel teatro.

Shlomo Mintz

La decisione di scrivere per lui un concerto per violino e orchestra fu presa verosimilmente assai in fretta: infatti non c’è pervenuto quasi nessuno schizzo o abbozzo del concerto e la partitura fu ultimata con tale ritardo che Clement si trovò a suonare il concerto senza aver prima fatto le prove con l’orchestra. Dopo la prima esecuzione del concerto Beethoven ha scritto altre due volte la parte solistica; a noi sono giunte tre versioni differenti, delle quali è stata stampata la terza. Queste versioni se da un lato rivelano i processi compositivi di Beethoven, dall’altro mostrano anche come il compositore fosse relativamente insicuro nella tecnica violinistica, nonostante egli suonasse lo strumento in modo dignitoso. Inoltre, sembra quasi che Beethoven si sia lasciato trasportare dal particolare modo di suonare il violino di Clement ad uno spiccato lirismo, che rimane così il tono di fondo del Concerto.
Ciò che è certo tuttavia che Beethoven deve aver avuto in mente Clement al momento di inserire certe difficoltà tecniche nella parte solistica; la tanto decantata abilità del violinista nell’ottenere una sonorità cantabile anche nel registro acuto, e in particolare sul mi cantino, ha lasciato delle tracce profonde nel Concerto beethoveniano. D’altro canto Beethoven ha preso a modello per le sue figurazioni melodiche dei concerti dei più famosi compositori della scuola violinistica francese, quali Viotti, Kreutzer e Rode.
Alcuni passaggi sono stati addirittura ripresi nota per nota da Beethoven. I succitati violinisti rappresentavano all’epoca la corrente più avanzata in fatto di tecnica violinistica; Beethoven apprezzava le loro composizioni e con Kreutzer aveva addirittura stretto un rapporto personale di amicizia. Il modo in cui Beethoven riesce a combinare elementi solistici della scuola francese con il carattere espressivo del pezzo, tagliato su misura come si è detto sulla personalità artistica di Clement, è da considerarsi come il segno tangibile di una notevole maestria compositiva.
Non sono note le circostanze e la data esatta di composizione delle due Romanze per violino. Verosimilmente quella in fa maggiore, che unicamente per via della sua tardiva pubblicazione porta un numero d’opera piuttosto elevato, è stata scritta intorno al 1798, mentre quella in sol maggiore probabilmente nel 1801/02.
Se, come sembra, esse sono state concepite come pezzi da concerto autonomi è molto probabile che siano state scritte apposta per qualche violinista famoso: purtroppo però non se ne sanno i nomi. Ad ogni modo si deve escludere categoricamente qualsiasi legame con il frammento di un Concerto per violino e orchestra in do maggiore composto da Beethoven in giovane età, all’incirca negli anni 1790/92. Registrazione eseguita nel 1988. Audio ottimo. Raccomandato.

Hans-Gunter Klein
(traduzione: Marco Marica)

Concerto in re maggiore per violino e orchestra, op. 61

Il Concerto in re op. 61 fu eseguito per la prima volta, poco tempo dopo che Beethoven ne aveva ultimato la composizione, il 23 dicembre 1806: solista era il celebre virtuoso Franz Clement, ammiratissimo da Beethoven, che gli aveva dedicato il Concerto con un curioso giuoco di parole («Concerto per Clemenza pour Clement»).

Giuseppe Sinopoli

Pare che il Clement, che pure era musicista di riconosciuta intelligenza, non si fosse scaldato troppo per il grande capolavoro che gli era stato affidato; tanto che non solo non vi si impegnò a fondo, ma – se dobbiamo credere a una notizia giunta fino a noi – lo trattò come una qualunque occasione per esibirsi, giungendo fino a interromperne l’esecuzione per suonare, fra il primo e il secondo tempo, un pezzo di bravura che non vi aveva nulla a che fare. Arbitri del genere erano all’epoca meno improbabili di quanto oggi non si sia portati a pensare, sicché questo episodio è da ritenere autentico; pare invece falso che Beethoven abbia consegnato a Clement una parte del Concerto all’ultimo momento, costringendolo a suonarla a prima vista. Sta di fatto che le accoglienze non furono molto cordiali, e il Concerto fu presto dimenticato; e inutilmente Beethoven ne realizzò l’anno seguente, dietro richiesta di Muzio Clementi, una trascrizione per pianoforte, pubblicandola nel 1808 contemporaneamente alla partitura originale per violino. A disseppellire il Concerto op. 61 sarebbe stato, tanto per cambiare, Felix Mendelssohn- Bartholdy, che lo diresse a Londra nel 1844; solista era il giovanissimo Joseph Joachim, che dieci anni dopo ne avrebbe dato un’altra memorabile interpretazione a Düsseldorf, insieme con un altro direttore d’eccezione, Robert Schumann. Dopodiché il Concerto di Beethoven prese stabile dimora fra i capolavori più celebri e amati dagli interpreti e dal pubblico.
La composizione del Concerto era caduta in un periodo di particolare fecondità creativa per Beethoven, quello compreso fra il 1804 e il 1808. Giunto nel pieno di una straordinaria maturità il sinfonismo beethoveniano – nel 1806 era nata, di getto, la Quarta, preceduta dalla stesura quasi completa dei primi due movimenti della Quinta -, condotta a esiti di estrema importanza la Sonata
(specialmente quella per pianoforte, con pagine come la Waldstein o l’Appassionata), anche un genere in qualche misura condizionato a passare per minore come il Concerto, dove le esigenze della costruzione dovevano venire a compromessi con l’impulso esibizionistico di uno strumento solista, aveva trovato nell’opera di Beethoven uno sviluppo glorioso, con due lavori coevi come il Quarto concerto per pianoforte e questo in re maggiore per violino. Con risultati certamente diversi: il pianoforte per Beethoven fu sempre un terreno particolarmente propizio all’innovazione, anche molto ardita, e gli consentì di spingersi più avanti che in quasi tutti gli altri campi da lui toccati, nel senso dell’elaborazione formale come in quello dell’intensità e della concentrazione espressiva; mentre il violino, considerando nel loro insieme tutte le pagine espressamente dedicate a esso, lo vide pendere sovente verso un lirismo più disteso, non privo di compiacimenti esornativi, caratterizzato da una naturale eleganza di modi.
Il che aveva comportato, per esempio, che i primi approcci di Beethoven alla composizione per violino e orchestra (non tenendo conto del frammento di un primo tempo di Concerto degli anni di Bonn), le due deboli Romanze del 1802, avessero pagato un salatissimo tributo a esigenze esteriori e consumistiche. Ragion per cui nel quadro della produzione concertistica beethoveniana il Concerto per violino resta contrassegnato da una piacevolezza e da una levigata espressività, di contro all’individualismo e alle ben maggiore problematicità dei maggiori fra i suoi fratelli pianistici, specialmente il coetaneo Quarto. Ma naturalmente questi caratteri si trovano a convivere con una massiccia presenza di istanze formali ed etiche, nel senso più beethoveniano: non per nulla la maniera del «periodo di mezzo» si era ormai precisata e irreversibilmente affermata nella pagine che precedono immediatamente il Concerto; e restando nel campo stesso del violino, pur relativamente defilato, come s’è detto, rispetto alle sconvolgenti avventure della forma e dell’espressione che Beethoven affrontava altrove, c’erano state opere come le Tre Sonate dell’op. 30, le prime grandi Sonate beethoveniane per violino e pianoforte, e la grandiosa Kreutzer, dove ogni ricordo di settecentesche piacevolezze era stato cancellato da robuste impennate di fantasia e da un’intima drammatizzazione del fatto compositivo.
Questo orientamento prevale soprattutto nel primo movimento del Concerto, aperto dal vigoroso sinfonismo dell’introduzione orchestrale, avviata dalla misteriosa e suggestiva pulsazione dei cinque colpi di timpano che torneranno a percorrere come una sorta di oscuro e imperioso segnale tutto lo svolgimento dell’Allegro. Il dipanarsi della parte del violino solista, intrisa di lirismo nella cantabilità trasparente del registro acuto, protesa in espansioni virtuosistiche di stampo classicheggiante, si fonde con stupenda naturalezza con il denso tessuto dell’orchestra, essa pure adagiata nelle volute di una generosa effusione

melodica ma sempre nutrita di straordinaria forza interna; anche se fra le due idee tematiche principali (la prima delle quali è non meno lirica e cantabile della seconda, cui, dice Carli Ballola, «il primo movimento deve il suo carattere inconfondibile di ambigua e voluttuosa tenerezza, non priva di bruschi trasalimenti») non si verifica quel contrasto radicale di intenzioni espressive che determina la ragione stessa della forma-sonata. In questo quadro v’è spazio a una cadenza ampia e di particolare tensione virtuosistica, come quelle che per questo Concerto (Beethoven non ne scrisse che per la versione pianistica) realizzarono i più celebri violinisti, da Joachim stesso a David e a Kreisler.
Molto intenso il movimento centrale, un Larghetto articolato in un dialogo fra lo strumento solista e l’orchestra, che si scambiano un motivo di dolcissima espressività, in un clima di poesia trasognata, affidato anche agli incanti di una timbrica rarefatta e sfumata. Un’altra cadenza del solista introduce al Finale, senza soluzione di continuità: un ritmo balzante, quasi di danza, annunciato dapprima quasi di soppiatto dal violino, poi ripreso con scatto travolgente da tutta l’orchestra. È fin troppo facile individuare in questo tempo – come tante altre volte in Beethoven – il punto debole del Concerto: certamente la sua caratteristica principale è quella di essere un brano brillante, di elegante e talvolta superficiale piacevolezza, sottolineata da uno schema compositivo un po’ semplicistico come quello del Rondò; ma la sagace scrittura della parte solistica, dialogante con un’orchestra leggera e vivace, talora pervasa di allusioni naturalistiche (si è a proposito rammentato lo Scherzo della Pastorale), determina l’intima continuità dei diversi episodi, legati l’uno all’altro da un’impulso ritmico che percorre inarrestabile tutta questa breve e ben proporzionata struttura, concludendo il Concerto in un’atmosfera di equilibrata e aerea politezza formale.