Ludwig Van Beethoven

Missa Solemnis

Otto Kemplerer è stato un direttore straordinario, che negli ultimi anni della sua lunga carriera, si è trovato a dirigere (e ad incidere, molto peraltro) con la Philarmonia di Londra, la mitica orchestra messa su da Walter Legge per conto della EMI, subito dopo la seconda guerra mondiale. Kemplerer ha lasciato letture magistrali su molti compositori dell’area germanica del periodo classico e romantico e oltre, da Mozart fino a Mahler, ma soprattutto sono rimaste (giustamente) famose le incisioni delle opere di Beethoven: le nove Sinfonie, i Concerti per piano con Baremboim, il Fidelio e questa splendida Missa Solemnis.
Quasi contemporanea all’incisione di Karajan, che pure disponeva di un cast vocale stellare e dei Berliner Philarmoniker, questa versione di Kemplerer gli è superiore per la potenza interpretativa e quasi visionaria, al pari dell’ultima scrittura di Beethoven, potente e visionaria. Certamente sono molto belle da ascoltare sia la prima interpretazione di Karajan (che ha inciso molte volte questo capolavoro, ma con risultati inferiori alla prima del 1962), che la versione di Bernstein con il Concertgebow, così come quella di Giulini con la Philarmonia, quella di Solti con i Berliner e quella di Harnoncourt con la COE, per quanto riguarda le interpretazioni tradizionali. Cosi come da ascoltare sono le interpretazioni di Gardiner e, ancor più forse, quella di Herreweghe, per le versioni “filologiche” su strumenti originali.
Ma questa incisione di Kemplerer, per me, rimane insuperata e batte tutte le altre per la straordinaria capacità di mantenere altissima la tensione emotiva, dalla prima all’ultima nota.
Peraltro la qualità tecnica di ripresa sonora, pur della fine degli anni ’50, è straordinaria, per la spazialità e per la dinamica, e non teme confronti neppure con registrazioni odierne!
Imperdibile. Registrazione eseguita nel 1966 e rimasterizzazione effettuata nel 2001.
Otto Klemperer

Nel corso dei decenni sono state realizzate decine di registrazioni della Missa Solemnis, ma questa emerge tra le altre, registrata dal vivo nel 1979, con Leonard Bernstein sul podio con un’eccellente quartetto di solisti vocali, il Hilversum Rundfunkchoir e la Concertgebouw Orchestra di Amsterdam, famosa in tutto il mondo. Bernstein ha saputo tirar fuori l’assoluta brillantezza e la portata di questo imponente capolavoro in un modo tale che i maestri di cappella tedeschi vecchia scuola hanno rare volte messo in atto. L’interpretazione del “Kyrie”, è entusiasmante, è il “Gloria” è una delle più violente, in particolare all’inizio. I tempi di Bernstein qui non sono, con sorpresa, più lenti di quanto non lo fossero nella registrazione del 1960 con la sua New York Philharmonic Orchestra. L’entusiasmo che Bernstein possiede per questo pezzo si percepisce in ogni nota, con la grande Concertgebouw Orchestra, il coro e i solisti che dedicano tutte le proprie energie. Chiunque desideri scoprire quanto meravigliosa sia la Missa Solemnis beethoveniana, necessita di questa registrazione. Un’interpretazione di proporzioni epiche garantite. Altamente raccomandato. Registrazione eseguita nel 1979.

Un “dramma musicale sacro”? – di Arnold Werner-Jensen
È strano come alcune opere musicali del passato sembrino avere una forza di attrazione quasi magica sugli ascoltatori dei nostri giorni, senza che si possano riconoscere in loro quelle componenti che portano in genere alla musica popolarità e facile comprensione e cioè: dimensioni ben delineate, sentimenti espressi in modo unitario e chiaro, una melodia “bella” ed orecchiabile ed un’armonia intelligibile, tanto per citare i criteri più ovvi.
Fra queste opere c’è la “Missa solemnis” in re maggiore, op. 123 di Beethoven; oppure, per rimanere in ambito sacro, la Messa in si minore BWV 232 di Johann Sebastian Bach e soprattutto, quale esempio estremo nel campo della musica strumentale, l'”Arte della Fuga “bachiana. Sembra quasi che esista nella musica una popolarità del difficile, del misterioso, dell’incompreso. Si ha l’impressione che qui l’atmosfera del luogo di esecuzione, della chiesa (dove, è noto che l'”Arte della Fuga” viene spesso eseguita) produca un’aura di misticismo, di religiosità, che si dimostra a sua volta una solida base per la ricezione di una opera d’arte particolarmente complessa, o almeno per la disponibilità alla ricezione.
Se si ammette questa possibilità, allora si accetta in linea di massima l’accostamento puramente emozionale all’opera d’arte, senza la “deviazione” attraverso l’intelletto. Oppure, detto altrimenti: se non si vuole discreditare il grande interesse del pubblico per la “Missa solemnis” di Beethoven o per l'”Arte della Fuga” come autoillusione dell’ascoltatore, allora si deve ritirare l’accusa prima formulata di “incomprensibilità” ed ammettere che nell’incontro con un’opera d’arte esiste una comprensione che va al di là di quella puramente intellettuale.
Anche la definizione “opera della tarda maturità” legata alla “Missa solemnis”, che promette quindi all’ascoltatore un’opera della saggezza e dell’autorità, può al massimo aumentare disponibilità iniziale, suscitando rispetto per l’autorità artistica. Ma per una comprensione profonda di un’opera tanto esigente e pluridimensionale, tutti i pregiudizi superficiali, più o meno mistici, devono limitarsi a preparare il terreno.
L’odierna concertistica prassi esecutiva di musica sacra può darci soltanto una vaga immagine della storia delle armonizzazioni dell’Ordinarium. Del repertorio vastissimo che risale fino al Medioevo, a noi rimangono accessibili e vive soltanto poche composizioni, ma in compenso spesso vette assolute. Nomi come Dufay, Josquin, Palestrina, Orlando di Lasso, Gabrieli, Monteverdi sono per la maggior parte degli ascoltatori filologicamente lontani e morti; soltanto la Messa in si minore di Bach si eleva gigantesca ed unica dal tempo del Barocco. E solamente con Haydn e Mozart la Messa sembra acquistare un volto comprensibile, definito, sì: relativamente sereno. Incontriamo qui composizioni che – insieme forse con alcune Messe di Franz Schubert – sostengono ed
integrano i tre pilastri del nostro repertorio sacro, Bach, Beethoven e Bruckner. Fra questi comunque si deve annoverare il frammento in do minore (K. 427) di Mozart.
Tra tutte le Messe di questa lunga, ma museale serie, la “Missa solemnis” di Beethoven è sotto molti punti di vista un apogeo insuperato. Il confronto con altre composizioni strutturalmente diverse, ma dello stesso genere, facilita accostamenti, relativizza difficoltà e spiega connessioni, e può contemporaneamente chiarire la posizione particolare di un’opera tarda, unica e sovradimensionate, che passa appunto per “difficile”.
Il vocabolo “difficile” nel caso della “Missa solemnis” è ambiguo: riguarda allo stesso modo ascoltatore ed interprete. Che i due generi di difficoltà – dell’interpretazione e dell’ascolto – siano direttamente interdipendenti, è in poche opere così evidente come in questa: numerose rappresentazioni di provincia, ambiziose, ma più o meno naufragate per le enormi esigenze tecniche, testimoniano ogni volta questa connessione. E avanti a tutto c’è il coro: come nella Messa bachiana ha qui vocalmente la parte del leone. Con la sua quasi costante presenza, che soltanto verso la fine diminuisce, forma una massiccia cornice attorno ai quattro solisti vocali. E dal suo costante impiego vocale-fisico risultano due punti per l’opere: il primo, un momento timbrico tale che soltanto organici numerosi possono essere in grado di fronteggiarne le esigenze e dare alla composizione così – con l’appoggio, per ragioni di equilibrio – una veste sonora voluminosa, intensa. La prassi esecutiva filologica del coro da camera, come viene tentata talvolta nella Messa in si minore è qui impensabile. Alle espansive dimensioni dell’opera corrisponde in Beethoven, come nella sua Nona Sinfonia, che è cronologicamente e stilisticamente vicina, una grande profusione di mezzi. È questa una delle tendenze storiche che vanno da qui a Gustav Mahler, con la punta estrema della sua Ottava Sinfonia. Secondo punto, dalla potente, quasi ininterrotta fascia vocale, soprattutto nelle due prime parti della Messa, risulta una uniformità caratteristica del suono che qualche volta sembra sfiorare i limiti della monotonia. Questa impressione viene rafforzata dall’insistenza con cui Beethoven in più parti (soprattutto nel “Gloria” e nel “Credo”) impiega registri estremi della voce umana – un effetto che trova eco nell’orecchio dell’ascoltatore e fa apparire la maggiore trasparenza nelle parti successive, soprattutto nel “Sanctus” e nell'”Agnus Dei”, come una manovra per accrescere la tensione ed attirare l’attenzione.
Difficoltà simili a quelle del coro devono risolverle i quattro solisti, ai quali si richiedono grandi capacità di resistenza e di declamazione in registri estremi (per esempio il soprano solista nel “Benedictus”!). La ben nota indifferenza beethoveniana verso limiti tecnici e fisici hanno sempre provocato due interpretazioni differenti: quella prosaico-semplificatrice che vede come manchevolezze compositive le ardue difficoltà di esecuzione, e ne cerca la
ragione nell’estraniazione del Beethoven maturo da ogni problema pratico, derivata a sua volta dalla sordità; e quella artistica, convinta che difficoltà estreme siano mezzi espressivi altrettanto legittimi come la semplicità. Che Beethoven non scendesse a compromessi in puncto arte è risaputo, e questo parla per la seconda interpretazione; e proprio qui lo sforzo “disumano” reso udibile, e presente anche in altri momenti delle sue opere (per esempio nel finale del “Fidelio” o talvolta anche nei movimenti finali di alcune Sinfonie), si può definire come importante e inconfondibile caratteristica della personalità artistica di Beethoven.
Leonard Bernstein

Il problema della personalità artistica riguarda anche il tentativo di un inquadramento stilistico di un’opera tarda ed essenziale. La produzione di Beethoven, ai confini fra il Classicismo viennese e il Romanticismo ha agitato molti animi alla ricerca di criteri per la netta delimitazione delle due epoche, sempre con l’intento di inquadrare l’opera beethoveniana in uno dei due ambiti. In genere ci si è limitati a discussioni accademiche su dettagli compositivo- tecnici, sempre all’insegna discutibile di una concezione dell’arte quasi tecnologica – come se il 19o secolo dovesse per forza aver portato un progresso
rispetto al 18o secolo soltanto perché viene dopo. Questo dimostra però che i cliché della suddivisione in epoche devono arrendersi davanti alle vette della storia dell’arte. Proprio con la “Missa solemnis” questo fenomeno dell’universalità si può dimostrare ottimamente. Un confronto diretto per esempio con le maggiori Messe di Bach e di Mozart fa notare comunanze e differenze e facilita all’improvviso anche l’inquadramento storico, senza però collocazioni forzate.
Colpisce ad esempio che in Bach (Messa in si minore), Mozart (K. 427) e nella “Missa solemnis” la polifonia (“comporre con più voci di eguale importanza”) è un principio compositivo essenziale. In Bach è un mezzo stilistico originario da lui portato alla perfezione alla fine di un’epoca e che appartiene alle caratteristiche di quest’epoca; non è quindi impiegato per raggiungere un determinato effetto, ma rappresenta la base compositiva.
Per Mozart la polifonia, in un’epoca piena di contrasti dell’omofonia (“comporre con una voce principale e un accompagnamento di sostegno, dipendente”) fu un’esperienza determinante, e con questo mezzo per lui nuovo gli ampliò il suo linguaggio musicale. La Messa in do minore è un documento di questa fase decisiva della sua vita, allo stesso tempo un documento delle lotte interiori che hanno accompagnato il lavoro; non per caso la Messa è rimasto frammento – tappa sulla strada verso la perfezione, nella nuova sintesi fra polifonia e omofonia, raggiunta nel finale della Sinfonia “Jupiter” (K. 551) di Mozart. Così si spiegano anche molti passaggi dall’apparenza storicizzante.
La “Missa solemnis” di Beethoven ha in comune con le ultime opere cronologicamente vicine (Nona Sinfonia, gli ultimi Quartetti per archi dall’op. 127, le ultime Sonate per pianoforte) un nuovo, individuale impiego della polifonia – “con alcune libertà”, come dice il compositore stesso in una delle monumentali fughe (Sonata “Hammerklavier” op. 106): nel senso di un nuovo, personale modo di impiegare un mezzo stilistico storico, di fonderlo cioè come un elemento organico in un nuovo linguaggio musicale. Sezioni polifoniche non sono più isolabili, i diversi piani sonori sono molto di più una base musicale adeguata e necessaria alle dimensioni della forma e dell’arco espressivo, che superano quelle di qualsiasi altra Messa precedente.
In questo senso la “Missa solemnis” è un’opera chiave all’inizio di un’epoca che con l’etichetta “romantica” viene caratterizzata in modo insufficiente e limitato e che arriva a Wagner e a Mahler – un’epoca che attraverso superlativi dell’espansivo e dell’intimo e attraverso sconvolgimenti in tutti i confini artistici arriva fino al nostro secolo. La comunanza più ovvia e più evidente delle tre composizioni prima citate è il testo latino, dietro le cui espressioni rituali irrigidite in formule si nascondono sensazioni e sentimenti elementari: paura, speranza, amore, timore, dedizione – sentimenti, quindi, che hanno dimostrato la loro forza ispirativa e la loro svariata sostanza musicale nella musica vocale
sacra e profana di tutte le epoche. Eppure proprio nell’interpretazione di questa base comune, quasi neutrale, si vede quanto siano distanti l’una dall’altra le tre opere.
In Bach e in Mozart la struttura, che è conseguente alla forma liturgica, porta ad un succedersi di numeri musicali con organico alternato (corale e solistico) e a movimenti dai chiari limiti, finiti in sé e musicalmente unitari. Da elementi individuali si costruisce un tutto, ma ogni elemento conserva sufficiente indipendenza da poter esistere anche separatamente: ogni episodio musicale delinea un contenuto o un sentimento (un sintomo esteriore: si potrebbe benissimo eseguire separatamente una aria o un coro).
In Beethoven le sezioni liturgiche si uniscono in blocchi monumentali – l’espressione “musicare per disteso”, per quanto di casa nell’ambito dell’opera teatrale del 19o secolo, si impone. Evidentemente diventa soprattutto osservando le dimensioni gigantesche del “Gloria” e del “Credo” dove, seguendo il decorso del testo, i punti culminanti esterni e interni vengono musicati quasi “drammaticamente”; in questo modo viene a crearsi una curva di tensione dinamica, con momenti di riposo e crescendi. La parola “drammatico” è traditrice e richiama il teatro; qui però non si tratta di una vicinanza profana allo “spettacolo”, e quindi all’effetto. Beethoven assoggetta piuttosto il testo della Messa ad una drammaturgia musicale, che sembra mostrare la via verso l’immaginario “dramma musicale sacro”. Le inconsuete didascalie all’inizio di alcune parti dimostrano le intenzioni artistiche che egli tenta con il suo radicalismo tipico di risolvere musicalmente: “Mit Andacht (“Con devozione – Kyrie e Sanctus), “Von Herzen – Moge es wieder – zu Herzen gehn” (“Dal cuore – possa di nuovo – giungere al cuore”, su tutta l’opera). Egli vuole far comprendere all’ascoltatore il messaggio del testo, che egli sente come suo, ad ogni costo, con ogni mezzo musicale a disposizione; egli vuole commuovere, colpire, scuotere l’ascoltatore. Così come qui vengono forzati i confini confessionali, anche i criteri musicali di questo genere vengono abbandonati, superati.
Soltanto in questo modo si può spiegare l’assolo di violino, che potrebbe erroneamente sembrare profano, che all’inizio del “Benedictus” sembra discendere descrittivamente dal cielo e poi accompagna il quartetto dei solisti: non come effetto di primo piano, ma come legittimo mezzo artistico, capace di sconvolgere l’ascoltatore; perché soltanto in questo stato di “sconvolgimento” può essere capita l’intenzione di Beethoven, può l’ascoltatore essere all’altezza dell’impeto della promessa che si cela dietro le ritualizzate parole latine. Soltanto così sono spiegabili quelle due vibranti irruzioni di elementi profano- caotici che disturbano brutalmente la preghiera di pace alla fine dell'”Agnus Dei”, con la musica scopertamente bellica delle trombe in fanfara e con reazioni di raccapriccio panico nelle voci soliste – una situazione esemplarmente teatrale,
ma lontana da un teatro naturalistico.
Leonard Bernstein

Fino a qui, fino all'”Agnus Dei”, già soltanto i limiti del testo superati e cancellati, l’aggancio di parti nella liturgia distinte, e la durata escludono l’utilizzazione di questa Messa per la celebrazione del culto. Ci si immagina facilmente come destinatari di Beethoven una ideale comunità ecumenica, al di là di ogni confessione e religione. E nell’ “Agnus Dei” il “mondo” viene incluso anche esteriormente; una postilla annuncia: “Bitte um innern und aubern Frieden” (“Preghiera per la pace esterna e quella interna” – “ Dona nobis pacem”). La fusione di “sacro” e “profano”, nella musica da tempo una realtà – non dalla “Missa solemnis” di Beethoven! – viene elevata qui dimostrativamente a programma e simbolizzata con timpani e trombe. Pace eterna e interna sono inseperabili, si condizionano a vicenda. In un’ardita interpretazione, riferita a tutta l’opera, si può anche dire: i destinatari del testo sacro sono “profani”, cioè persone umane; devono essere avvicinati con una lingua a loro comprensibile, anche quando il contenuto è “sacro”. Per questo
motivo ogni classificazione in “musica sacra” e “musica profana” è esteriore, quindi labile e superata. Ci può essere soltanto un criterio per la musica: quello della sincerità, della chiarezza.

(Traduzione: Mirella Noack-Rofena)

Anche questa mitica edizione della Missa Solemnis Beethoveniana diretta da un giovane Herbert von Karajan è da annoverare tra le migliori registrazioni del secolo scorso. Poche volte ho sentito emanare un senso di spiritualità così intenso. La musica sembra davvero provenire dal Paradiso! La soprano Gundula Janowiz, il contralto Christa Ludwig, il tenore Fritz Wunderlich e il basso Walter Berry formano un quartetto formidabile. (Averne oggi cantanti così. Quelli erano gli anni d’oro che purtroppo non ritorneranno più).Eccezionale la prestazione del violinista Michel Schwable nel “Benedictus”. come altamente drammatico è l’“Agnus Dei”, con le trombe annuncianti il “Giudizio universale”. Esaltanti i Wiener Singverein e i Berliner Philharmoniker diretti da un carismatico Karajan. Altamente consigliato. Registrazione eseguita nel 1966 e rimasterizzazione effettuata nel 1988.

Missa Solemnis

Suscitato dall’intento di celebrare l’intronizzazione dell’arciduca Rodolfo, fratello dell’imperatore, ed arcivescovo di Olmutz, il grande disegno della Missa solemnis si avvia a prendere forma verso la metà del 1818. Ma, come spesso avviene nel suo ultimo periodo, Beethoven fa male i suoi calcoli, e a cerimonia compiuta, nel marzo 1820, più di due anni e mezzo mancano ancora
al completamento della composizione, mentre, in un affollarsi di nuovi progetti creativi, un nutrito gruppo di altri lavori (la Nona Sinfonia, le ultime Sonate per pianoforte, le Variazioni Diabelli) ne ritarda la stesura.
Se dalla solennità dell’occasione religiosa e politica che ne è all’origine, la Missa trae il suo carattere di opera grandiosa e monumentale, in alcun modo essa si sottrae, tuttavia, al confronto con una personale e sofferta riflessione sul problema della fede. Ed è proprio l’ineludibile difficoltà nel colmare lo scarto fra i due livelli, lungo un arco strutturale dalla vastissima campitura, a collocarla nel novero dei capolavori bifronti, enigmatici e d’irrisolvibile problematicità, non certo la sua sostanziale estraneità alla misura ed alle convenzioni di un presunto stile liturgico.
Se mai, attraverso una lettura del testo che intende ostinatamente aderire ad ogni minima sfumatura di senso, la Missa riapre una frattura che giusto lo spirito della liturgia vuole fermamente ricomposta. Così, in essa, il sentimento dell’appartenenza a una Chiesa comune e del rifugio nel territorio collettivo del dogma, non basta a placare le personali ragioni del dubbio, l’ansia di una storia individuale che si interroga sulle proprie azioni e sui propri pensieri.
Da assegnare alle sezioni di più agevole interpretazione costruttiva, il Kyrie svolge la sua parabola in corrispondenza alla forma del Lied tripartito, adeguando con altrettanta naturalezza il proprio schema armonico – prevalente tonalità fondamentale nelle parti estreme, relativo minore nel “Christe” – sulle invocazioni di misericordia rivolte alle persone della Trinità. Al di là della maestosa risolutezza con cui fanno il loro ingresso coro e solisti, dopo la breve introduzione strumentale, il senso di solennità si fonde nel brano ad una raccolta e tranquilla dolcezza, resa più intensa dai fervidi accenti di speranza del “Christe”: pagina di fiduciosa attesa, che si dipana contrappuntisticamente sugli intrecci di una figura melismatica dal sapore bachiano, introdotta da corni e fagotti e poi lungamente mantenuta alle voci della supplica dell'”eleison”. Assai meno trasparente, come esito di una straordinaria frammentazione in episodi contrastanti, è l’organizzazione formale del Gloria, il luogo forse più sconcertante dell’intera Missa per l’imprevedibilità degli scarti drammatici, la sfrenata violenza fonica delle perorazioni o il loro improvviso spegnersi in inattesi pianissimi. Così l’irruente motivo iniziale sul “Gloria in excelsis Deo”, più volte ripreso nel corso della prima parte fino al “Domine Deus”, sospende il suo trascinante slancio ascensionale sulle repentine cadute dinamiche e le omofonie di “Et in terra pax” e “Adoramus Te”.
Già insidiata da una tale irrequietezza emotiva, l’integrazione sinfonica che pure questo tematismo di stampo sonatistico dovrebbe garantire, viene messa in crisi dallo squarcio polifonico del “Glorificamus Te” e subito dopo dal carattere più intimo che l’intervento dei solisti conferisce al “Gratias agimus”.
Anche qui, dunque, siamo di fronte a quell’ansia di libertà costruttiva, tipica del
tardo stile beethoveniano, che tende a disperdere le forme del sonatismo più rigoroso innestando al loro interno i principi antagonisti del contrappunto. Se ne ha conferma nella parte conclusiva, quando, dopo la poderosa fuga a quattro parti sulle parole “in gloria Dei Patris”, il tema di esordio porta all’incandescenza lo strepitoso Presto finale. Estranee, invece, all’impulso generatore di questa idea, sono le due parti centrali: le invocazioni di misericordia del “Qui tollis”, culminanti nell’urgenza opprimente del “Miserere”, e il “Quoniam”, arcaico e modaleggiante.
Herbert von Karajan

Questa complessiva problematicità strutturale riproduce, sul piano formale, la ricordata difficoltà nell’adeguare una gioiosa accettazione della fede, concepita al riparo della comunità religiosa, con le lacerazioni e le ansie soggettive.
Se nei momenti di più interiore preghiera, nel “Gratias agimus” e soprattutto nel “Qui tollis”, sono le voci soliste ad indicare la via al coro, nel finale ogni incertezza individuale sembra soffocarsi in un crescendo di grandiosità, niente affatto appagata dall’ineffabilità della liturgia e profanamente attratta da un’ebbrezza di suoni che diremmo del Beethoven pagano, non appartenesse al musicista della Nona Sinfonia, apostolo di una laica ed illuministica fratellanza universale.
Di non minore complessità, il Credo, espressione cardine dell’ortodossia e della certezza dottrinaria, vuole scolpito fin dall’inizio, nelle perentorie affermazioni tematiche del coro, un supremo imperativo della volontà.
Ma a differenza della prima parte del Gloria, qui la scomposizione in essenziali tasselli musicali recupera una sua unità nell’aderenza al nucleo centrale e narrativo del testo, toccandovi anche il vertice di una distillata, rarefatta spiritualità. Ad essa appartiene la trasfigurata melodia dell’ “Et incarnatus Est”, che trae dal modo lidio il senso di un’arcana lontananza, e lo sfondo strumentale offerto ai solisti dalle note ribattute dei legni e da un palpitante oscillare del flauto.
Il passaggio da queste auree celesti, ai pungenti sforzandi degli archi nel “Crucifixus”, è un affondare alle radici dell’umana sofferenza; il nucleo di dolore che si addensa in una figurazione ai violini e al fagotto sulla parola “passus”.
Dopo l’arcaico “Et resurrexit” a cappella, e la lunga esposizione degli articoli di fede, che riprende l’iniziale tema del Credo a partire da “in Spiritum Sanctum”, il brano si chiude con la mirabile fuga a due soggetti su “Et vitam venturi saeculi”, percorso di straordinaria levità nello splendore della ricchezza sonora e nella vastità e complessità degli sviluppi. Gli itinerari più ardui e speculativi della Missa sono lasciati alle spalle dalla stupefacente immagine di eternità e d’infinito su cui si spengono le ultime note del Credo, con un procedere per moto contrario e dunque verso opposte regioni dei bassi e dei legni lascia aperto al suo interno uno spazio immenso. Il quadro che ora si annuncia nel Sanctus, così lontano dalle consuete espressioni di giubilo e di solennità, si offre come parentesi di concentrazione, dimessa nella sobrietà del colore strumentale, privato di flauti, oboi e violini, o nella dinamica in prevalenza mantenuta sul piano, ma spesso percorsa dal brivido oscuro dell’armonia.
La predilezione accordata ai solisti, mostra una tale adesione all’idea che la santità sia frutto di una ricerca individuale, da escludere il coro anche nel tradizionale fugato del “Pleni sunt coeli et terra”, ove ancora una volta rifulge l’ammirazione handeliana del tardo Beethoven. L’intento meditativo si addensa, lungo un tracciato attiguo a quello degli Adagi degli ultimi Quartetti, nel Praeludium strumentale, per poi sciogliersi in pura luce a quella sorprendente apparizione del violino, sopra uno scintillare di flauti, che introduce il soave Benedictus.
Pagina di autentica grazia lirica, sollevata alle altezze di un cielo mistico dai lunghi respiri melodici dello strumento solista. Con il conclusivo Agnus Dei altre e profonde censure si aprono fra una riflessione di fede vissuta nel tormento della coscienza individuale e la sua trasposizione in una dimensione che ancora travalica i confini della liturgia e i luoghi stessi della Chiesa, per volere fermamente coinvolta l’umanità tutta. Un’ansia di liberazione universale nasce dalle desolate suppliche dell’Agnus, mantenuto interamente nel tono di si minore, e solcato da un itinerario che palesa nell’attrazione irresistibile delle voci verso il grave il senso di una colpa opprimente.
Di qui la stilizzazione ma pure l’inatteso realismo figurativo del “Dona nobis pacem”, rappresentazione di una “pace interiore ed esteriore” (come si legge in un taccuino di schizzi) che trasferisce nelle severe strutture della Messa ora un clima di serenità pastorale memore del finale inno di ringraziamento della Sesta Sinfonia, ora immagini e furori guerreschi, risonanti di squilli marziali e rullar di timpani, per placarsi soltanto nella ferma, quieta, intima certezza delle ultime omofonie corali.

Ernesto Napolitano

Mozart: Messa dell’Incoronazione

Nel gennaio del 1779, Mozart è appena rientrato dal viaggio a Parigi, che già il suo status di dipendente al servizio dell’arcivescovo gli impone di rivestire gli abiti angusti del musicista di chiesa e di corte. Tacitato per il momento l’acceso desiderio di scrivere per il teatro, e nell’attesa di mettere a frutto l’esperienza sinfonica maturata a Mannheim, così ardentemente rivissuta, di lì a pochi mesi, nell’intensa bellezza strumentale della Sinfonia concertante K. 364, pone mano ad un nutrito gruppo di lavori sacri, dove sia quel desiderio che quell’esperienza trovano modo di far sentire, anche in un ambito estraneo, la loro voce inconfondibile. Non mancano così, in particolare nelle due Messe in do maggiore K. 317 e K. 337 (con cui si chiude, in questo genere di composizioni, il catalogo salisburghese) né robustezza di composizione sinfonica, né spunti di vocalità in anticipo su futuri luoghi teatrali.
Completata il 23 marzo di quell’anno, la Messa dell’Incoronazione K. 317 deve il suo titolo un tantino altisonante all’annuale ricorrenza di un semplice episodio di devozione mariana: l’incoronazione nel 1744, e la solenne consacrazione sette anni dopo, per mano del Papa, di una miracolosa immagine della Vergine
conservata nel santuario di Maria Plain, poco distante da Salisburgo. L’occasione celebrativa, da cogliere già nella maestosa apertura corale del Kyrie, non distoglie tuttavia Mozart da quella settecentesca concisione cara alle abitudini del Colloredo. Tanto da indurci ad interpretare l’idea di festosa grandiosità che comunque trasmette, in contrasto con la sua stringatezza da Missa brevis e la particolare parsimonia nell’uso della polifonia, come una sorta di architettonico trompe-l’oeil. L’unitarietà delle sezioni, l’immediatezza delle idee tematiche, l’impiego discreto dello strumentale o il dispiegarsi di colori squillanti, infine i chiaroscuri dell’armonia, tutto contribuisce a un affascinante effetto d’illusione. Dopo la solennità del Kyrie, con al centro un episodio solistico, più mosso, che trascorre dal soprano al tenore in intrecci con l’oboe, il Gloria distende la sua nota di giubilo in una forma tripartita, sulla falsariga di un movimento sonatistico. Possiamo coglierne lo sviluppo nelle modulazioni al minore del “Qui tollis”, e la ripresa a partire dal “Quoniam”.
Herbert von Karajan

Una struttura strumentale è pure evidente nel Credo, costruito sul modello di un rondò. L’impianto vocale poggia sopra uno spedito disegno violinistico, culmina nel fugato del “descendit” e si arresta, volgendo a fa minore, sul declamato mottettistico dell’ “Et incarnatus est”.
Il momento più alto è nella misteriosa qualità espressiva del “Crucifixus”, sottolineata da un’eterea figurazione discendente dei violini con sordina. Mentre è il coro a scandire, nel ritmico incedere di un Andante maestoso, le parole del Sanctus, il Benedictus, fatte salve le due riprese dell’ “Osanna”, riunisce il quartetto dei solisti, in un clima più leggero impreziosito da tenere coloriture strumentali. Infine, per la preghiera conclusiva dell’Agnus Dei, l’ispirazione mozartiana si concede un tono del tutto eccentrico rispetto alle tipologie convenzionali di uno stile da chiesa: l’assolo del soprano, che dà voce alla sua soave malinconia sul pizzicato degli archi, conosce già quasi per intero la melodia di “Dove sono i bei momenti”, l’aria della Contessa nelle “Nozze di Figaro”. Dopo che nel “Dona nobis pacem” è stato ripreso, con un bel gesto di unità compositiva, il tema centrale del Kyrie, anche al conclusivo Allegro con spirito non è estraneo un vagheggiare di teatro, con il suo accento festoso da operistico “tutti in scena”.

Ernesto Napolitano

Missa solemnis in re maggiore per soli, coro misto ed orchestra, op. 123

Nessuna Messa ha questa dedica: “Dal cuore possa andare ai cuori”.
Nessuna sceglie per la voce di soprano, nel Kyrie, un’entrata talmente carica di interrogativi.
Nessuna avvia il Gloria con un’ansia così sfibrante.
Nessuna è altrettanto attraversata dalle indicazioni di sforzando, forte, fortissimo e, a contrasto, nel Benedictus, da un così lungo episodio Andante molto cantabile, affidato alla dolcezza contemplativa del violino solo.
Nessuna è figlia inconfondibile e insieme sorprendente del suo autore. Che Beethoven è mai questo?
Solemnis: così si definisce una Messa che, nella presenza di coro, orchestra e voci soliste, si distingua o per le dimensioni non ordinarie o per la particolarità dell’occasione per la quale viene concepita ed eseguita. La Missa solemnis che inaugura la nuova stagione di Santa Cecilia risponde a ambedue queste caratteristiche: la vastità della concezione e le circostanze, complesse, per cui viene concepita.

Ludwig van Beethoven

La composizione occupa Beethoven, in momenti diversi, tra 1819 e 1823; un lungo periodo durante il quale nascono altri capolavori, dalle Variazioni Diabelli, alla Nona Sinfonia, dall’avvio con l’opera 127 della serie degli ultimi Quartetti, alle ultime Sonate per pianoforte.
L’affaticata vicenda invita, anche, a ripercorrere il sempre inquieto rapporto del Titano con i mecenati, in particolare se verso di loro poteva esibire rapporti di vera conoscenza, perfino di amicizia.
Il Principe Rodolfo d’Asburgo (Firenze, 1788 – Baden, 1831), figlio di Leopoldo II, fratello dell’Imperatore Francesco I, buon musicista, allievo dall’età di quindici anni di Beethoven a Vienna, già munifico dedicatario di alcune opere, già cardinale, sarà consacrato arcivescovo di Olmùtz, una località della Moravia, dunque nei confini dell’Impero, il 20 marzo 1820. L’annuncio viene dato con grande anticipo e subito Beethoven si mette al lavoro per scrivere, appunto, la Missa solemnis destinata a quella celebrazione: «Se una mia Messa solenne sarà eseguita durante le cerimonie di consacrazione di Vostra Altezza Imperiale, quel giorno verrà annoverato tra i più gloriosi della
mia vita e Dio mi assisterà perché i miei poveri talenti possano contribuire alla gloria di quel giorno».
Ma non tutti i geni sanno anche promuoversi, e non tutti coloro che si promuovono bene sono geni. E c’è, come probabilmente nel caso in questione, chi di promuoversi non è proprio capace perché i tempi della promotion non coincidono con quelli della creazione. Fatto sta che l’arciduca diventa anche arcivescovo, ma la Messa di Beethoven non è ancora pronta. Lo sarà soltanto molto tempo dopo: la prima esecuzione avviene infatti alla Società Filarmonica di San Pietroburgo il 18 aprile 1824.
La dedica dice: Serenissimo ac eminentissimo Domino Rudolfo Joanni Caesareo Principi et Archiduchi Austriae. Passano poche settimane e tre sezioni della Messa vengono eseguite anche a Vienna, nel concerto del 7 maggio 1824 al Theater an der Wien.
La serata rimarrà storica soprattutto perché è in quella occasione che debutta la Nona Sinfonia. Tre sezioni – Kyrie, Credo, Agnus Dei – e annunciate come Inni: era stato questo il punto di mediazione tra le aspettative dell’autore e i limiti imposti dalla Chiesa cattolica di Vienna all’esecuzione di musica liturgica in luoghi teatrali.
Beethoven, vestito con un frac verde, è in sala; assiste al concerto dalla fossa dell’orchestra, non ode la musica, non sente gli applausi, si accorge del successo quando il pubblico inizia a sventolare dei fazzoletti bianchi. Sale in proscenio, si inchina commosso.
Dopo aver sperato di trovare un editore, chiesto e restituito anticipi, stretto e stracciato accordi, il compositore cerca ora di pubblicare la propria Messa grazie al ricavato di una sottoscrizione tra le principali case regnanti e istituzioni musicali d’Europa. Scrive, scrive, scrive a tutti (anche a Goethe e a Cherubini), ma alla fine di questa frenetica attività promozionale i sottoscrittori sono soltanto dieci: lo Zar, i re di Prussia, Francia, Danimarca, l’elettore di Sassonia, i granduchi di Darmstadt e di Toscana, i principi Galitzin e Radziwill, l’Associazione Cecilia di Francoforte. Troppo pochi. Finalmente, nel 1825, sarà l’editore Schott a stampare quella che l’autore considera “la mia opera più riuscita”.
Ma la Missa solemnis è davvero tale?
Fra i tanti possibili (la storia di un’opera d’arte è anche, e in gran parte, la storia della sua ricezione critica, del suo gradimento, o della sua sfortuna), proponiamo due giudizi che, nella loro distanza di riferimenti culturali e di punto di vista, condividono la radicalità e invitano con forza a un confronto.
Scrive Theodor Adorno: «La rinuncia coerente all’elaborazione tematica, elimina nettamente nella Missa ogni legame immediato con la rimanente produzione di Beethoven. La struttura interiore, la fibra di questa musica è radicalmente diversa da tutto ciò che s’intende per stile beethoveniano. È arcaicizzante, non ricavata formalmente dalla variazione e dallo svolgimento dei nuclei tematici, ma si compone di una somma di sezioni per lo più imitative, paragonabile alla tecnica dei Fiamminghi della metà del XV secolo».
«Per il cristiano, la cui legge suprema è l’obbedienza, la posizione di Beethoven appare ripugnante, poiché in lui la sottomissione è preceduta da una lotta con il dubbio, e la fede viene raggiunta attraverso un cimento faustiano», così Paul Henry Lang in The Creative World of Beethoven.
Ora invece, anche qui scegliendo alcuni tra i molti appunti autografi, ascoltiamo alcune riflessioni dell’autore contenute nei Quaderni di conversazione: «Per scrivere della vera musica religiosa bisogna esaminare tutti i corali ecclesiastici dei monaci, farne degli estratti, anche delle strofe, nelle traduzioni migliori, con la più esatta prosodia di tutti i salmi e gli inni cattolici».
«Noi diciamo che la comune musica sacra è degenerata in una musica quasi operistica».
Ancora, ma da una lettera all’arciduca Rodolfo del 1819: «Gli antichi ci servono moltissimo, perché hanno per lo più un autentico valore d’arte. Ma la libertà, il progresso nel mondo dell’arte, come in tutta la grande creazione, sono lo scopo, e sebbene noi moderni non siamo tanto avanti nella saldezza quanto i nostri antichi precursori, tuttavia la raffinatezza della nostra civiltà ha aggiunto qualche cosa».
Sono passati quindici anni dall’Oratorio Cristo sul Monte degli ulivi e dodici dalla Messa in do maggiore, due opere di cui l’autore stesso avvertiva i limiti.
Ora che si accinge ad affrontare la sua seconda Messa e il terzo e ultimo lavoro di carattere liturgico, Beethoven ribadisce dunque tre esigenze.

Arciduca Rodolfo

La prima è la necessità di conoscere la migliore tradizione dell’autentica “musica religiosa”. Ma se è autentica, la musica sacra non può “degenerare in
una musica quasi operistica”: deve distinguersi. Era già in¬ziata – e si sviluppava vivacissima sulle riviste musicali tedesche – la discussione riguardo alla differenza tra i generi “sacro” e “profano”: un problema fino ad allora non ingombrante (Vivaldi ne avrebbe sorriso, Händel cominciò a porselo con gli Oratori in lingua inglese, Bach non scrisse opere, però nelle sue cantate sacre troviamo numerosi episodi di teatralizzazione vocale), ma che il più consapevole sguardo verso il passato (e le periodizzazioni della storia iniziate con la cultura illuminista) pone in primo piano, avviando una riflessione che ancora appassiona, ancora irrisolta. E tuttavia, afferma Beethoven, la consapevolezza sia della “scienza musicale” del passato, sia del preciso contesto liturgico in cui la Messa doveva nascere, non potrà sacrificare “la libertà” e “il progresso nel mondo dell’arte”. L’opera non potrà che essere figlia della soggettività del suo genio creatore.
Dal conflitto e dalla sintesi fra queste diverse esigenze nasce la Missa solemnis, che appare divisa in due blocchi di pensiero musicale. Quando lo sguardo tende al Domine Deus, all’Omnipotens, al Rex coelestis, all’Altissimus, dunque in particolare nelle tre scansioni iniziali del Kyrie, del Gloria e della prima parte del Credo, Beethoven ci ricorda di essere l’autore dell’ Egmont, del Fidelio, lo studente di filosofia che legge Kant e condivide l’immensità dei suoi orizzonti: “Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”. Beethoven, che ritiene l’uomo degno di governare la propria esistenza nel nome di una libera dignità, quando contempla l’Assoluto ha il suo sguardo teso, non placato. Faustiano?
Ma quando il testo canonico della Messa si rivolge al Figlio, alla sua nascita, morte e resurrezione – a colui che Homo factus est, al Filius Patris, al Benedictus, all’lncarnatus, al Crucifixus, all’Agnus Dei, a colui che perdona – allora prevale la compassione beethoveniana, la sua partecipazione, da uomo a uomo, “da cuore a cuore”, a questo dramma e al mistero dell’orizzonte di salvezza che svela. Fermando il tempo, dilatando lo spazio dell’ascolto nella perorazione strumentale posta a conclusione del Benedictus, quando il violino solo conclude la propria meditativa ascensione sul sol sovracuto, mentre l’ultimo accordo orchestrale, dilatando un pizzicato, condivide quel desiderio di tendere verso l’altrove.
L’autore sta accanto al Figlio e da lì osserva il mondo del Padre: la voce sola del basso che ricorda i peccata e chiede miserere; la “Preghiera per la pace interiore ed esteriore”, indicata all’inizio dell’Allegretto vivace dell’Agnus Dei, mentre dapprima i soprani, poi i contralti, i tenori, i bassi del Coro a lungo accarezzano, la “a” di pacem. Le stesse parole vengono riprese in un recitativo inquieto, riesplodono in un brusco tono di fanfara, quasi una citazione dalla Missa in tempore belli di Haydn, con una tensione che rimanda al periodo in cui l’autore considerava il contrasto, l’opposizione fra due diversi princìpi, il nucleo generatore della sua creatività. La consolazione e il furore, la passione e la tensione verso la spiritualità: il fertile magma che sappiamo appartenergli.
Beethoven prescrive ängstlich (con timore) per il recitativo del contralto nell’Agnus Dei, a cui coro e solisti fanno ala accompagnando “colla voce”, senza pronunciare parole, il suo incedere nel dubbio, nell’attesa. E come è repentina la conclusione dell’opera: noi lo chiameremmo un “finale aperto”.
Manca l’elaborazione tematica, dice Adorno: come manca nella Marcia funebre della Terza Sinfonia, quando Beethoven individua alcune cellule tematiche, le ripete senza sviluppo, le gela nella loro evidenza. Berlioz chiamerà questa tecnica idèe fixe, in Wagner diventerà il Leitmotiv, sottoposto però a delle metamorfosi quando, nel proprio percorso, incontra altri motivi, altre situazioni. L’idea di una cellula da cui si genera, o che già comprende, un universo linguistico ed espressivo sarà determinante anche per la messa a punto del sistema di composizione dodecafonico e in particolare per la poetica di Anton Webern.
In questa Messa Beethoven non racconta, isola delle idee e le ripete, nell’orchestra e nelle voci, a volte con iterazione ossessiva, stordente, rabbiosa. Con una sapienza compositiva che crea un percorso attraverso le più caratterizzanti forme della musica sacra dei secoli precedenti: la polifonia, il ricorrente intervallo di terza discendente tipico delle Messe fiamminghe, la presenza di episodi a voce sola: «Lo stile a cappella deve essere preferibilmente definito come il vero unico stile da chiesa», scrive in una lettera del 1825 nella quale fa riferimento alla Missa solemnis, sostenendo che “quasi potrebbe essere eseguita solo a cappella”!
Queste istantanee dal passato si fondono con una potenza orchestrale e corale del tutto contemporanea, certamente sua, e diventano torsi marmorei, frammenti scolpiti e uniti per sovrapposizione, non per sviluppo. Quadri da una Messa.
Ha ragione Henry Lang, Beethoven aveva qualche problema ad ubbidire, se non a se stesso. E a placare i propri dubbi.
Sandro Cappelletto

Testo

KYRIE
Kyrie eleison Christe eleison. Kyrie eleison.

GLORIA
Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis. Laudamus te, benedicimus te, adoramus te, glorificamus te. Gratias agimus tibi propter magnam gloriam tuam, Domine Deus, Rex coelestis, Deus Pater omnipotens, Domine, Fili Unigenite, Jesu Christe, Domine Deus, Agnus Dei, Filius Patris. Qui tollis peccata mundi, miserere nobis, suscipe deprecationem nostram. Qui sedes ad dexteram Patris, miserere nobis. Quoniam Tu solus sanctus. Tu solus Dominus, Tu solus altissimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spirito, in gloria Dei Patris. Amen.

CREDO
Credo in unum Deum Patrem omnipotentem, factorem coeli et terrae, visibilium omnium et invisibilium: et in unum Dominum Jesum Christum, Fi-lium Dei Unigenitum, et ex Patre natum ante omnia saecula. Deum de Deo, lumen de lumine, Deum veruni de Deo vero, genitura, non factum, con-substantialem Patri, per quem omnia facta sunt; qui propter nos homines et propter nostram salutem descendit de coelis. Et incarnatus est de Spiritu Sancto, ex Maria Virgine, et homo factus est; crucifixus etiam prò nobis sub Pontio Filato passus et sepultus est; et resurrexit tertia die, secundum scripturas et ascendit in coelum, sedet ad dexteram Patris; et iterum venturus est cum gloria, judicare vivos et mortuos, cujus regni non erit finis. Credo in Spiritum Sactum Dominum et vivificantem, qui ex Patre filioque procedit, qui cum Patre et Filio simul adoratur et conglorificatur, qui locutus est per Prophetas. Et in urtarti sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam. Confiteor unum baptisma, in remissionem peccatorum. Et expecto re-surrectionem mortuorum, et vitam venturi saeculi. Amen.

SANCTUS
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus Deus Sabaoth. Pieni sunt coeli et terra gloria tua. Hosanna in excelsis.

BENEDICTUS
Benedictus Qui venit in nomine Domini. Hosanna in excelsis.

AGNUS DEI
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis. Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis. Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona nobis pacem.