Hector Berlioz

La Damnation de Faust

La prima volta che ho ascoltato questa composizione sono stato colpito dalla bellezza e drammaticità di questa partitura. Faust è ben interpretato da Nicolai Gedda, visto che sembra cantare senza compiere alcuno sforzo e con uno stile adorabile. Altrettanto dicasi di Janet Baker (Margherita) e di Gabriel Baquier in Mefistofele, un diavolo veramente maligno. Un plauso particolare all’Orchestra e il Coro dell’Opéra di Parigi. Aggiungono un tocco particolare che le orchestre al di fuori della Francia difficilmente riescono a raggiungere. Un giovane Georges Pretre dirige con abilità e grande maestria. Registrazione eseguita nel 1970 e rimasterizzazione effettuata nel 1996. Altamente consigliato.

La damnation de Faust, op. 24

Tra i musicisti più importanti che si sono occupati di Faust vi sono Louis Spohr (Faust), Richard Wagner (Sieben Compositionen zu Goethes «Faust», per soli, coro e orchestra e Eine Faust-Ouverture), Robert Schumann (Szenen aus Goethes Faust, per soli, coro e orchestra), Franz Liszt (Faust-Symphonie per tenore, coro maschile e orchestra, opere corali tra cui il «Coro di angeli», Lieder quali Es war ein König in Thule, i vari Mephisto-walzer, ecc.), Charles Gounod (Faust), Arrigo Boito (Meflstofele), Hervé (Le petit Faust, opéra bouffe), Ferruccio Busoni (Doktor Faust), Henri Pousseur (Votre Faust, per attori, cantanti, strumentisti e nastro magnetico), Alfred Snitke (Historia von D. Johann Fausten), nonché Gustav Mahler che, per la seconda parte della Sinfonia n. 8, ricorse all’ultima scena del secondo Faust [Faust salvato].
Se è quindi evidente che l’opera di Goethe (così come quelle di Nikolaus Lenau, Heinrich Heine, Thomas Mann) ha fornito lo spunto per composizioni di ogni genere (opere, balletti [si ricordi il celebre spettacolo di Maurice Béjart], operette, pezzi sinfonici, pièces teatrali, lavori sinfonico-corali, pianistici, ecc.), il caso di Hector Berlioz, tuttavia, si segnala per i suoi connotati abbastanza particolari. Nella prefazione della partitura (anche a seguito di critiche che gli erano state mosse in merito al tradimento del testo letterario di riferimento), Berlioz spiega come e perché si sia discostato dall’originale goethiano, facendo appello a compositori del passato (Gluck, Mozart, Rossini) i quali si comportarono allo stesso modo con testi classici: «La legende du Docteur Faust peut étre traitée de toutes manières: elle est du domaine public». A Berlioz – che non poteva non conoscere il testo del secondo Faust, che circolava in Francia sin dagli inizi degli anni Quaranta – è necessario manomettere il testo originale, affrontando il tema in modo affatto nuovo, lontanissimo dal classicismo olimpico dell’età di Weimar: «Basta il titolo di questo lavoro per indicare che esso non è basato sull’idea principale del Faust di Goethe, poiché nel grande poema Faust è salvato.» Per Berlioz, la possibilità di lavorare su capolavori della letteratura (Faust come Romeo e Giulietta, l’Eneide come Molto rumore per nulla), considerati quali oggetti a disposizione delle proprie capacità inventive, diventa un presupposto della creazione. Nel caso della Damnation de Faust, il compositore sembra impostare il proprio approccio estetico sulla violenza e sulla valenza del negativo, sembra volersi muovere sui binari di quella che Hegel definì la «furia del dileguare»; ma non si tratta di un’opera su Mefistofele (anche se la sua presenza permea l’intera partitura) e, men che meno, sulla riproposta della figura satanica, corredata dei suoi noti attributi e poteri malefici. Da un lato, la partitura non si chiude con lo sprofondare negli Inferi di Faust, bensì con la scena celestiale che vede Margherita salvata, con tanto di arpe e cori angelici; o dall’altro, anche la punizione del reprobo perde ogni valore edificante in quanto è il principio del male che guida «egli stesso la vendetta contro il delitto che fa commwttere» (Madame de Staël). Mefistofele, dunque, è il grande burattinaio il quale, dopo aver dato origine con le sue magie all’amore tra Faust e Margherita, aver imbrogliato Faust con una bugia degna più di un teppista che di un genio del male, addirittura si fa garante – da tipico uomo d’onore – della salvezza della giovane e della sua ascesa in cielo.

Peraltro, il suo ruolo di malandrino-burattinaio è la conseguenza di quello che Berlioz ha inteso conferire a Faust. Dal personaggio di Goethe, imperniato sullo Streben (aspirazione, pulsione insopprimibile, anelito), si passa a un uomo preda dell’ennui (afflizione profonda, ma anche noia). La tensione verso una meta superiore e irraggiungibile, a superare, ad andare oltre, l’esito delle proprie azioni, si tramuta in uno slancio immediato verso l’infinito. Viene meno quella radice che poneva non nel raggiungimento di una meta definitiva, ma nel cammino di ricerca, nell’eterno spingersi verso l’alto, il valore e la grandezza dell’animo umano.
Il primo incontro tra Mefistofele e Faust avviene in questo modo:
Mefistofele: Je suis l’esprit de vie, et c’est moi qui console. Je te dannerai tout, le bonheur, le plaisir, Tout ce que peut rèver le plus ardent désir.
Faust: Eh bien! Pauvre démon, fais-moi voir tes merveilles!Mefistofele: Certes! J’enchanterai tes yeux et tes oreilles…
Non si tratta precisamente di un patto con il demonio (questo avverrà più tardi, solo in nome di Margherita); piuttosto, sembra di assistere a un tentativo di un «povero diavolo» di smuovere una persona afflitta dal «mal du siede», indolente, passiva: quasi antesignano del protagonista di A rebours di Joris-Karl Huysmann.
La Damnation de Faust, di fatto, ha la struttura di una suite in quattro parti che corrispondono, grosso modo, alle differenti collocazioni ambientali: scene immaginarie o, secondo la definizione di Alfred de Musset: «théàtre dans un fauteuil».
In merito ai motivi che lo hanno spinto a situare la Prima Parte della Damnation in Ungheria, Berlioz è estremamente sincero: trovandosi a Vienna, in procinto di partire alla volta di Pesth, dove dirigerà un concerto di sue musiche, accoglie il consiglio di un amico, «un dilettante di Vienna», il quale gli dice: «Se volete piacere agli ungheresi, scrivete un brano su uno dei loro temi nazionali; ne saranno incantati e al vostro ritorno mi racconterete dei loro eylen (viva) e dei loro applausi». E dunque, nel corso di una notte, orchestra la «Marcia di Ràkóczy», allora popolarissima in terra ungherese. L’entusiasmo riscontrato presso il pubblico magiaro, lo spinge ad inserire definitivamente questa pagina quale scena conclusiva della Prima Parte della Damnation. Tuttavia, la sua frase: «Goethe stesso, nel suo Faust II, non ha forse portato il suo eroe a Sparta, nel palazzo di Menelao?» non regge. Sappiamo tutti che l’incontro di Faust e di Elena non ha alcunché della gratuità della Marcia Ungherese di Berlioz. Esso è addirittura il punto culminante della ricerca di Goethe, dedicatosi, attraverso il

suo personaggio, a realizzare la sognata unione della Germania gotica e della Grecia classica.
Nella Seconda Parte, ambientata in Germania, vi sono numerosi passaggi che meritano di essere segnalati. La «Canzone del Topo» intonata da Brander è scritta in re maggiore. Terminata la prima frase sulla dominante (la maggiore), vengono aboliti di colpo i due diesis della tonalità d’impianto; le cose sembrano tornare alla normalità ma poi fanno la loro entrata tre bemolli, accompagnati da uno scatafascio cromatico dei violini e dei flauti. Dopo di che, si torna al re maggiore iniziale. Passaggi come questo hanno fatto sì che alcuni commentatori (in primis, Debussy e Boulez) abbiano accusato Berlioz di «goffaggini armoniche»: ma, in realtà, si tratta di un’arte estremamente pungente della modulazione repentina, capace di disturbare non poco le comode abitudini dell’accademismo.
Dopo la performance di Brander, Berlioz si serve del testo letterario originale ma decontestualizzandolo. In Goethe, dopo che Mefistofele ha fatto scorrere per magia i vini più famosi nei bicchieri degli avvinazzati, questi esclamano: «Beviamo, beviamo, beviamo, come cinquecento porci». Al che, Faust dichiara: «Ho desiderio di andarmene». Mefistofele gli risponde: «Ancora un istante d’attenzione e vedrai la bestialità in tutto il suo candore». Berlioz usa questa frase, ma per porre in ridicolo la pratica di intonare Amen fugati negli oratori classici. Dopo che Brander ha terminato la storia del topo, finito arrostito nel forno, i bevitori assumono un tono austero e salmodiano: «Requiescat in pace. Amen». A questo punto, uno di loro suggerisce ai suoi compagni di improvvisare un Amen fugato sul tema della canzone di Brander. Ed è allora che Mefistofele annuncia a Faust: «Ascolta bene, dottore: stiamo per conoscere la bestialità in tutto il suo candore». Berlioz ebbe sì rapporti con il sacro, figurando come autore di Meditazioni religiose, Preghiere del mattino, Te Deum, Requiem, Inni per la consacrazione di tabernacoli, Tantum ergo, Serenate agresti alla Madonna e, soprattutto, della trilogia sacra L’Enfance du Christ. Ma il suo approccio fu sempre rigorosamente professionale, unicamente dettato dall’urgenza creativa e solo obbediente alle imprescindibili categorie dell’artista libero. In più occasioni trovò modo di esprimere la propria avversione per la musica sacra: come quando se la prese con gli Improperia di Palestrina o quando inserì una grottesca parodia del «Dies Irae» nel movimento finale della Sinfonia Fantastica.

Hector Berlioz

Nella «Canzone della pulce» eseguita da Mefistofele, vi sono errori di prosodia la cui volontarietà è evidenziata dalle sottolineature dinamiche apposte da Berlioz. Sembrerebbe che il compositore abbia voluto apporre alla pronuncia di Mefislofele un elemento estraneo, un segnale della sua estraneità alla lingua parlata dagli uomini: “Un puce gentille – Chez un prince vivait – Comme sa propre fille – Le brave homme l’aimait”. La Seconda Parte si conclude con un «Coro di soldati e canzone degli studenti». In questo caso, a farsi apprezzare è l’abilità contrappuntistica di Berlioz: dopo le rispettive entrate, soldati e studenti
si uniscono. I primi cantano nella tonalità di si bemolle maggiore, in tempo 6/8 e in lingua francese, mentre i secondi intonano in latino il proprio canto nella tonalità di re minore e in tempo 2/4.
Nella Terza Parte ci troviamo nella casa di Margherita. Viene suonata la ritirata; le porte della città sono chiuse. Faust benedice il crepuscolo e, nascosto nella stanza di Margherita, ne attende il ritorno contemplando quello che chiama il suo «chevet virginal» (“giaciglio virginale”), con l’evidente intenzione di farne un uso che non giustificherà ancora per molto quell’aggettivo.
Margherita, entrata nella propria camera senza avvedersi della presenza di Faust, intona la canzone Il Re di Thule la quale è sottotitolata, da Berlioz, «chanson gothique». Ma in che senso «gotica»? La musica, certamente, nulla ha a che fare con la Scuola di Notre-Dame né con Guillaume de Machaut, che peraltro Berlioz nemmeno conosceva. Anzi, quasi a voler prendere le distanze da quel mondo musicale, il brano esordisce con un intervallo di tritono, il celebre intervallo proibito nel Medio Evo, e chiamato diabolus in musica («Au- tre fois» = fa fa si). Non è né musica gotica, né rinascimentale, né barocca, né classica, né romantica. Ma è invece un mélange di cromatismo e diatonismo che si basa su grappoli di accordi ostinatamente mantenuti nel registro grave. L’impressione che se ne ricava è di totale turbamento: il colore è inquietante, l’atmosfera è angosciosa e la melodia dà al tempo stesso una sensazione di bellezza e di malessere. Anche in questo caso, l’armonizzazione relegata nel registro grave non può essere imputata a una goffaggine di Berlioz, ma a una sua precisa intenzione di sortire un effetto di minaccia.
Per il «Minuetto dei folletti» evocati da Mefistofele, indubbiamente uno dei Minuetti più originali mai scritti, Berlioz ricorre di nuovo alla tecnica dello spiazzamento. Il compositore adotta una forma di danza propria del XVIII secolo, e ormai del tutto obsoleta; inserendola in un contesto che con l’Ancien régìme ha decisamente poco a che fare, la trasforma in un elemento di sardonica parodia di enorme impatto drammaturgico.
La Quarta Parte si inaugura con la Romance di Margherita, a proposito della quale è forse interessante soffermarsi su come Berlioz tratti il testo tradotto da Nerval a fronte del Lied schubertiano, ovviamente steso su quello originale:

Meine Ruhe ist hin
D’amour l’ardente flamme
D’amor l’ardente fiamma
Mein Herz ist schwer
Consume mes beaux jours
Consuma i miei bei dì
Ich finde sie nimmer
Ah! La paix de mon àme
Ah! La pace del mio spirito
Und nimmermehr.
A donc fui pour toujours!
Per sempre ormai fuggì.

In Schubert c’è un’inquietudine indeterminata che pervade l’intero brano e che è straordinariamente mantenuta dall’immutabilità, meccanica e glaciale, di un tempo scandito dalla figura dell’accompagnamento pianistico. In Berlioz, l’inquietudine è resa evento concreto: abbiamo una messa in scena dell’attesa. Di nuovo, siamo in presenza di una divaricazione fondamentale tra una cultura e una lingua (condivise da Goethe e da Schubert) imperniate sullo Streben, l’anelito insopprimibile e invincibile (il cui anagramma, Sterben, significa “morire”) che trova la sua perfetta corrispondenza nell’implacabilità rotatoria dell’arcolaio, e quelle di due francesi (Nerval e Berlioz) incapaci, o nolenti, di accettare l’indistricabile rapporto tra Conoscenza (nel caso di Faust), o Amore (nel caso di Margherita), e Morte.
Nella strofa finale, la Margherita di Berlioz si accende, dinamicamente e melodicamente (con grandi salti ascendenti), sostenuta da tremoli degli archi caratterizzati da rapidi crescendo; poi, la donna si abbandona completamente. Dopo le sue ultime parole, si ha una chiusa strumentale, lunga più di un minuto, nella quale al tenero melodiare dell’oboe in primo piano corrisponde un tappeto sommesso degli archi: tutto concorre a creare un’atmosfera di estasi e pacificazione.
In Schubert, dopo gli ultimi due versi «An seinen Küssen Vergehen soliti» (“ai suoi baci dover svanire”), nell’ultima ripresa della strofa iniziale, l’arcolaio rallenta e si ferma: la sensazione che se ne trae è quella di un irredimibile silenzio di morte.
Ci si avvia verso il Finale. Mefistofele ricatta Faust e lo inganna bassamente. La madre di Margherita è morta, avvelenata dal narcotico che la figlia le ha propinato per assicurare tranquillità alle sue clandestine effusioni d’amore. Questa tragica svolta si trova anche in Goethe e conduce egualmente Margherita alla prigione e alla condanna a morte. L’invenzione propria di Berlioz è il ricatto di Mefistofele: libererà Margherita se Faust apporrà la sua firma sulla pergamena che in quel momento gli viene tesa. Ed ecco il raggiro finale: non verso Margherita Mefistofele trascina il suo compagno a galoppo di due fantastici cavalli, ma verso il soggiorno dei dannati dove l’attende il «Pandemonium» infernale.
La «Corsa all’abisso» è un esempio di magistrale e felicissima combinazione di contrappunto, drammaturgia e strumentazione. Consta di 128 misure, di cui 125 di ostinato ritmico; si ha una sola brevissima interruzione, a battuta 89, nella quale Faust risponde a Mefistofele che gli ha chiesto se intenda rinunciare: l’andamento rallenta sino a fermarsi, a significare l’arresto dei cavalli. Poi, alla risoluzione di Faust a proseguire («Non, je l’entends, courons!»), la cavalcata riprende più impetuosa di prima. In questa risoluzione, Faust si dimostra a questo punto cosciente che non si sta recando a salvare Margherita, ma non intende tornare indietro, dovunque la corsa lo porti. In questo senso, sembra far suoi i versi che chiudono Le Voyage di Baudelaire: «Plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu’importe?»
Un breve recitativo di non grande interesse collega il «Pandemonium» all’«Apoteosi di Margherita», in cui si dispiega tutto l’apparato di arpe, violini frementi, strumentini all’acuto e voci aeree, a cui si sono riferite generazioni di «In paradisum», ottimistiche conclusioni di molti Requiem, compreso quello di Fauré.

Georges Pretre

La conclusione dell’opera è la parte più debole: da un lato, il libretto è ben misera cosa; dall’altro, la musica tradisce un’estrema povertà di idee melodiche e una strumentazione che potrebbe definirsi affatto speciosa. L’armonia, poi, è di fatto basata su un immutabile re bemolle maggiore. Ciò che risulta evidente è l’indifferenza, già segnalata, verso il sacro da parte di un Berlioz, razionalista incallito: il quadro finale non può che definirsi di maniera. Il solo confronto con il precedente «Pandemonium» e le sue mirabilie sataniche basta a far calare un pietoso velo su queste ultime pagine. Va inoltre ricordato che Margherita viene accolta con le parole «Elle a beaucoup aimé, Seigneur», ma a tutti gli effetti il suo è un amore profano in piena regola che nulla ha a che vedere con un sentimento sacro. Tra l’altro, gli spiriti celesti si rivolgono a Margherita con
insistiti «Viens!»; non è escluso che Berlioz abbia voluto fare dell’ironia, ripetendo l’invito tal quale presente alla fine del duetto con Faust (ma con ben altro accompagnamento armonico). E va anche segnalato che in un primo momento l’autore aggiunse due versi, che poi espunse: «L’Eternel te pardonne, et sa vaste clémence Un jour sur Faust aussi peut-étre s’étendra». Rigurgito religioso? Da escludere. Abrogazione dovuta a una concatenazione armonica difettosa? Troppo malevolo e facilmente contestabile. Postilla aggiunta in extremis per sminuire o confondere la propria visione demoniaca, tutt’altro che fideistica, della faccenda? Forse. In ogni caso, per fortuna, queste parole furono espunte e buttate via con la loro musica.
Dall’ultima scena torniamo alla prima, contenuta nell’opera di Goethe, in cui Faust tenta di entrare in contatto con il mondo degli spiriti. Ma non possiede né la virtù né la tecnica che conducono alla conoscenza mistica: si lascerà attrarre da una mistica rovesciata, da una mistica dell’Inferno. Faust afferma: «Mi son dato alla magia […] per venire a conoscere il principio unificatore del mondo, per vedere tutte le forze attive e i semi, e per non trafficare più con vuote parole». «Per non trafficare più con vuote parole»: dove la parola diviene inutile, può forse la musica aprirsi un cammino verso regioni che le appartengono di diritto? Può, e in parte Berlioz è riuscito nel suo intento: forse non ha penetrato l’opera di Goethe, forse l’ha soltanto scalfita. Ma ha colto e trasposto musicalmente meglio di chiunque altro alcuni aspetti del dramma, componendo una partitura di una varietà e di una ricchezza incomparabili.

Cléopâtre, scena lirica per soprano e orchestra, H 36

A ventisei anni, nel 1829, Berlioz volle concorrere per la terza volta al Prix de Rome e per la terza volta fu scartato. Sembrava che quell’anno il premio fosse suo, i colleghi ne erano sicuri, perfino i professori commissari davano la cosa per fatta (racconta tutto Berlioz stesso nel XXV capitolo dei suoi ammirevoli Mémoirs). La commissione era fatta da musicisti famosi e temibili, Cherubini, Paër, Lesueur, Berton, Boïeldieu, Catel, i quali pur ben disposti bocciarono anche quella volta il promettente candidato giudicando la sua musica disordinata e astrusa. Così pensarono che non assegnare quell’anno nessun primo premio fosse meglio che incoraggiare un ingegno che manifestava tendenze del genere, come fu detto. E Berlioz stesso riconosce, con ironia, di essersi permesso invenzioni troppo nuove e libere per l’orecchio dei suoi giudici («…ritmo di sorprendente originalità, modulazioni enarmoniche…»). Qualche giorno dopo lo sconfitto incontrò l’elegante, e allora famoso, François-Adrien Boïeldieu (Berlioz riferisce tutto il lungo, meraviglioso dialogo parola per parola): «Ma mio caro ragazzo, che avete combinato? Voi avevate il premio in tasca e l’avete gettato via», «Vi assicuro, signore, che ho fatto del mio meglio», «Proprio questo. Non avreste dovuto fare del vostro meglio, il vostro meglio è

troppo buono. Come potevo approvare una musica del genere, se la musica che piace a me più di ogni altra è la musica piacevole», «Mi sembra piuttosto difficile scrivere musica piacevole per una regina egiziana che si è avvelenata e si spegne in una morte terribile, torturata dai rimorsi», «Oh! So che avete sempre mille scuse pronte, ma non fa differenza; è sempre possibile essere gradevole» (e la conversazione va avanti saporita).
Qualche ragione Boïeldieu, Cherubini, gli altri dotti, il famoso soprano Mme. Dabadie-Léroux (che molto aveva faticato a dare un senso a ciò che cantava) – qualche ragione, dunque, l’avevano, che né loro né altri avevano mai incontrato musica di tale originalità e arditezza, né il giovane Berlioz, non proprio alle prime armi, aveva ancora mai scritto una pagina così: essa è, all’improvviso, il Berlioz eccentrico, ambizioso, altero e triste, l’artista maturo, insomma.
Il poema su Cleopatra assegnato dalla Commissione del Conservatorio è letteratura mediocre, anche se echeggia modelli eccelsi (Plutarco, Shakespeare, e in un pensiero anche Orazio), ma Berlioz vi si è immedesimato con straordinaria eccitazione. Gli spiriti del furore e della malinconia, della sconfitta e dello sdegno, ben familiari al Berlioz anche giovane, corrono per tutta la Cantata e la infiammano. La forza delle immagini e delle emozioni è tale che Berlioz riesce a dare evidenza descrittiva e perfino teatrale non solo ad ognuna delle parti del poema ma anche a ogni pensiero di Cleopatra, ad ogni azione, gesto, parola: la visione delle Piramidi, per esempio, il ricordo delle onde del mare di Azio, gli squilli della battaglia, lo scatto dello sdegno («Et la fille des Ptolémées a subì l’affront des refus!»), il guizzo dell’aspide, l’affanno del soffocamento.
La Cantata è divisa in tre parti, propriamente tre Arie di Cleopatra («Ah! Qu’ils sont loin ces jours» ‘Lento cantabile’, «Grands Pharaons, nobles Lagides», Méditation, ‘Largo misterioso’, «Du destin qui m’accable» ‘Allegro assai agitato’), separate da pagine di recitativo e di declamato drammatico. La funebre Méditation è il momento centrale e più alto, ed è uno degli oscuri sortilegi sonori di cui Berlioz sapeva il segreto: la pagina parve all’autore stesso così rara e preziosa che, credendo egli inutilizzabile la Cléopatre dopo la bocciatura, due anni dopo riadoperò una parte della Méditation per un coro del Lélio (ma nel suo posto originale questa musica fa un’impressione molto maggiore). Il Finale, l’ultimo declamato della morente, tutto singulti e brividi che si estinguono nel silenzio, è l’impressionante trasposizione musicale dell’oscuramento di una scena e di un sipario che scende.