Brahms Johannes

Le Sinfonie e i Concerti

Le sinfonie di Brahms dirette da Leonard Bernstein pubblicate tempo fa su DVD dalla DGG sono effettivamente stupende. Nella mia precedente recensione ho notato che Bernstein ha usato tempi estremamente ampi, trattando gli spartiti di Brahms come se fosse Mahler. Ci si abitua a quei movimenti lenti degli Adagio perché Bernstein li fa suonare talmente bene da esaltarne l’espressività. Ora la DGG ci offre l’anti Bernstein nella splendida serie di sinfonie di Brahms registrate nel 1973. Karajan li dirige con gli occhi chiusi, sorridendo di tanto in tanto. Dirige Brahms con tempi più stretti e dinamici rispetto a Bernstein: la prima sinfonia è eseguita in un tempo inferiore di 11 minuti! Niente è affrettato, ma c’è quello che può essere descritto solo come compressione emotiva, un’intensità di espressione che suona più velocemente che in Bernstein.

Herbert von Karajan

Paragonando queste diverse visioni delle grandi sinfonie di Brahms si palesano differenze piuttosto evidenti tra questi due grandi direttori. Bernstein si addentra in queste sinfonie come catturato, rendendole proprie, immergendovisi. Karajan dal canto suo dirige con distacco emotivo. Brahms è un compositore profondamente classico, prossimo a Mozart, con cui condivide un’ambiguità profonda e una propensione disincantata in cui confluisce un’impetuosa emotività. Nel corso dell’esecuzione, si innalza la grande bellezza dalla Filarmonica di Berlino. Nella Prima Sinfonia i tempi stretti, dinamici ed estremamente emotivi sono il capolavoro di Karajan. La Seconda Sinfonia è profonda e tragica, la Terza è più effimera mentre la quarta si avvolge nella solennità di Bach, le cui variazioni costruiscono il movimento finale. I due DVD hanno una durata di 161 minuti. L’immagine viene rimasterizzata in digitale, il suono in PCM stereo e DTS 5.1 è nitido. Le Sinfonie di Brahms dirette da Karajan sono quindi esemplari. Fortemente consigliate.

Johannes Brahms (1833-1897) è stato un compositore enigmatico, sia nella persona che nella musica. Considerato già il punto terminale della grande tradizione musicale germanica alla fine del XIX secolo, è stato l’erede di una linea ideale che inizia con Bach, attraverso il classicismo di Haydn e Mozart, per arrivare a Beethoven e all’epoca romantica di Schubert, Mendelssohn e Schumann. Brahms, sorta di compositore postmoderno consapevole della sua posizione, ha costantemente fatto riferimento a stili di musica più antichi. Il suo rapporto con gli Schumann e la sua lunga affezione per Clara ha ulteriormente influito sulla sua produzione artistica.
Leonard Bernstein ha scelto di registrare questa collezione che contiene la maggior parte della musica orchestrale di Brahms con la Filarmonica di Vienna soprattutto per la grande professionalità dei vari strumentisti. Tutti gli archi hanno una lucentezza setosa: suoni del corno sono caldi, i fiati hanno un tono brunito. Siamo senza dubbio al cospetto di un’orchestra tipicamente Brahmsiana. Bernstein dirige in modo espressivo, con tempi estremamente ampi (la prima sinfonia dura 56 minuti, 12 minuti più a lungo della registrazione DGG di von Karajan). A volte, Bernstein esegue Brahms con eguale impeto e sentimento come se fosse Mahler. La bellezza dell’esecuzione risulta talmente evidente che l’ascoltatore non potrà non esserne conquistato.

Leonard Bernstein

Tutti gli artisti sono splendidi: Krystian Zimerman, nei concerti per pianoforte, ha un tocco piuttosto particolare, capace di esplosioni potenti e stupefacenti nella loro gamma emotiva; Gidon Kremer nel Concerto per violino e Mischa Maisky nel Concerto per violoncello producono una performance
splendidamente espressiva, con lunghe linee di legato che enfatizzano la musicalità dei temi di Brahms. Queste registrazioni eseguite nei primi anni ’80 sono state pubblicate originariamente due decenni fa su CD dalla DGG. Il video è ora disponibile in digitale, esente da manufatti, ben filmato da Humphrey Burton. Il suono sia in stereo PCM che in DTS 5.1 è esemplare. La durata totale dei 5 DVD è di 529 minuti.
Si tratta di prestazioni superbe, emozionanti e commoventi dirette da un grande Bernstein. Se Johannes Brahms fosse ancora vivo ne sarebbe entusiasta. Altamente consigliato.

Sinfonia n. 1 in do minore per orchestra, op. 68

Abbozzata già intorno al 1855, la composizione della monumentale Prima sinfonia procedette tra infinite esitazioni: solo nel 1862 venne scritto il primo tempo (ma senza introduzione), mentre l’attuale fisionomia del lavoro risale agli anni Settanta, in particolare alle estati dal 74 al ’76 che Brahms trascorse nell’isolamento del Mar Baltico, a Sassnitz, sull’isola di Rügen, in un contesto naturale del tutto congeniale. I dubbi sopravvissero anche alla prima esecuzione del 4 novembre 1876 a Karlsruhe, e la partitura venne ancora emendata prima della pubblicazione. Capolavoro ostico, difficile, non del tutto amabile per ammissione dell’autore, la Sinfonia si riallaccia direttamente a Beethoven, come notarono senza esitazioni il critico Eduard Hanslick (già nel 1876) e il celebre direttore Hans von Bülow, salutandola come la «Decima», ideale continuazione del catalogo beethoveniano. Al Beethoven eroico del primo decennio del secolo rimandano con piena coscienza storica la densità contrappuntistica, il pathos ad alto volo, la serietà etica alla base dell’opera, evidenti innanzitutto nei movimenti estremi straordinariamente dilatati, che concedono solo una manciata di minuti all’idillio del terzo tempo. Il problema sinfonico viene affrontato con circospezione, preparando sistematicamente i futuri sviluppi di un discorso rigorosamente consequenziale.
La fondamentale introduzione (Un poco sostenuto), solenne, severo prologo al tempo di sonata è anche presentazione del materiale tematico che attende l’ascoltatore e insieme esibizione di tecnica raffinata. Il motto implacabile che genererà il primo tema, imponente e compatto ma al tempo stesso innervato da una fitta trama polifonica, è dato dall’intrecciarsi di due linee melodiche che disegnano una settima in direzioni opposte, scivolando attraverso intervalli cromatici. Il carattere fatale è avvalorato dalla pesante scansione ritmica assicurata dai timpani: l’anno dopo Cajkovskij avrebbe costruito la Quarta sinfonia ricorrendo a un motto altrettanto inesorabile (ammettendo il riferimento alla Quinta beethoveniana, aperta dal destino che «bussa alla porta»). Il discorso procede fra salti sinistri, sospirosi intervalli e armonie cromatiche sino alla ripresa dell’attacco alla dominante. Allora l’oboe presenta

un disegno melodico oscillante. La pseudo-imitazione della sua parte a opera del violoncello sarà il segnale d’avvio per l’Esposizione (Allegro). L’attacco serrato non ci sorprende: l’introduzione ha determinato sia il profilo del primo tema che la qualità del clima espressivo, dominato da un’angoscia contenuta e pervaso dalla «furchtbaren Energie» («terribile energia») percepita da Spitta nel 1892. Si succedono effetti contrastanti (staccato, legato, pizzicato) finché un ponte modulante non introduce il secondo tema in mi bemolle maggiore. L’oboe, sostenuto dai fiati e dalle dolci terzine degli archi superiori, offre, pur nel cromatismo della sua melodia, un momento di gradita quiete, che parrebbe espressione di quel sentimento della natura, poesia tipicamente viennese, di viennesi d’adozione, comune a Beethoven e Mahler. Anche il successivo gioco di salti discendenti dell’oboe (ancora parte del secondo gruppo tematico) sembra il querulo lamento di un Naturlaut, mahleriana voce di natura. Un’ulteriore idea tematica agli archi dissipa con il suo minaccioso attivismo la calma faticosamente raggiunta.
L’apporto massiccio degli ottoni (fortissimo marcato) chiude l’Esposizione. L’attacco risoluto dello Sviluppo cede ben presto il passo alle dinamiche contenutissime di una pagina interlocutoria, sconvolta dall’irrompere della terza idea tematica. Molto accade nella fucina brahmsiana: un tema corale, nelle sonorità festive degli ottoni, assume un incedere marziale, legni e archi si scambiano violente sferzate, il movimento sembra ripiegarsi su se stesso con una sorta di canto funebre affidato all’accompagnamento dei timpani, ma poco a poco si risolleva, riproponendo cellule del primo tema ad anticipare la Ripresa. Il primo tema trionfa allora ridistribuito tra archi e legni, il secondo ricompare in do minore, e così anche la terza idea tematica, preceduta, come già nell’Esposizione, dagli a solo di clarinetto e corno. La Ripresa si conclude col fortissimo dell’intera compagine orchestrale. Un ultimo momento interlocutorio, scosso da pause drammatiche e animato dal pizzicato degli archi sotto le fasce cromatiche dei legni conduce alla coda (Meno allegro): riguadagnata la solennità dell’introduzione, il movimento si spegne enigmaticamente su sonorità immobili in do maggiore (pacificato o rassegnato?).
«Dopo l’ira immensa», la materializzazione della Grazia: l’Andante sostenuto in forma ternaria (liedform: ABA’), sostenuto che Brahms rivide ancora a prima esecuzione avvenuta. In mi maggiore i violini presentano un primo tema di equilibrio e simmetria classici nel disporsi ordinato e pacato delle sue frasi. Parrebbe di vedere trascorrere l’ombra del tardo Mozart del Flauto magico, la serena ieraticità di Sarastro coniugata con lo slancio lirico del romantico Mendelssohn. L’entrata dei legni acuti prelude al secondo tema: una melodia ingenua all’oboe sul caldo impasto sonoro dei corni. L’a solo oboistico ricorda l’attacco di un Adagio brahmsiano di due anni più tardi, quello del Concerto per

violino op. 77, in cui spetta sempre all’oboe la melodia (il tema è diverso, ma la suggestione resta valida). La parte centrale del movimento è aperta dallo spensierato, ancora una volta mozartiano ascendere dei violini primi, che si prodigano in ghirlande di semicrome, appena turbati dall’accompagnamento ritmato di fagotti e corni. Nel variare scaltro delle dinamiche si insinuano dapprima l’oboe, con un gioco intervallare che ricorda il primo tempo, e quindi il clarinetto. Quando il discorso raggiunge il suo apice di animazione e intensità, lo scivolare verso il grave degli archi porta quasi a un arresto. Sul rullo dei timpani ritorna allora la sezione principale (A1) in un’atmosfera luminosa, come trasfigurata: il tema è affidato ai fiati, mentre gli archi superiori disegnano ampie volute melodiche, impreziosite dal suggestivo pizzicato dei violoncelli. Un susseguirsi di slanci ed esitazioni conduce alla ripresa del secondo tema, ora fatto proprio dall’espressivo violino solista all’ottava acuta. Viene così anticipato il procedimento di imitazione oboe/violino dell’Adagio del Concerto per violino citato. La coda è imperniata su una splendida pagina per violino solo, ombreggiata dal controcanto sublime del corno, proveniente da distanze remote, sul discreto pulsare dei timpani. L’Andante si conclude su un nastro sonoro cangiante che assorbe il protagonismo sentimentale del violino nell’atmosfera dolce ed estatica di un Mozart passato attraverso le fiabesche lande mendelssohniane (non sfugga il pizzicato che attraversa l’intera sezione degli archi nelle ultime misure).
Col tempo eloquentemente segnato Un poco allegretto grazioso, sostituto del tradizionale Scherzo, Brahms tocca la corda dell’idillio, regalandoci un gioiello di serenità pastorale affidato prevalentemente alle sonorità dei fiati. Anch’esso in liedform (ABA’), si sviluppa dalla trama delicatissima di un caldo impasto timbrico: la melodia, dolce, al clarinetto (protagonista dell’intero movimento) coadiuvato da fagotti, corni e violoncelli in pizzicato (effetto prediletto nel corso di questa sinfonia), mentre i violini manifestano la loro approvazione con un sospiro. Il timbro dei legni brahmsiani è ben lontano da quello algido, marziale e meccanico spesso proprio di Cajkovskij (nell’Andante lugubre del Finale della Prima sinfonia o nella Marcia slava). Le incursioni spensierate dei saltellanti ritmi puntati, i gorgheggi arabescati del primo clarinetto e il passaggio del tema ai violini congiurano a dipingere il quadro di un’età dell’innocenza, di un candore forse ancora attingibile. Il secondo tema al clarinetto porta però con sé una folata d’inquietudine, grazie all’effetto combinato del profilo melodico, delle pause e della tonalità minore. La fugace riapparizione del primo tema conduce alla sezione B con una melodia per terze innestata su un rustico, danzante 6/8 che riporta alla memoria l’Allegretto della Sinfonia «Pastorale» beethoveniana e il Mendelssohn dell’«Italiana». Questa pagina di gioia serena si chiude con la nota tenuta dei fiati sul pizzicato degli archi, preludio alla ripresa di A, già da subito immersa in una trama orchestrale più ricca che non all’inizio del movimento. La coda si fonda su elementi ritmici tratti dalla sezione B.

Johannes Brahms

Un monumentale tempo di sonata con introduzione conclude la Sinfonia simmetricamente all’esordio: finale beethoveniano nello spirito, nella concezione ideale ben più che non nell’affinità del primo tema con quello dell’Inno alla gioia. Ricchezza melodica e compattezza architettonica vi si fronteggiano ad armi pari. L’Adagio introduttivo palesa dall’attacco il controllo compositivo più ferreo in una pagina densa di eventi, di gestì icastici e calibratissimi: sul sostegno elementare di un tetracordo discendente degli archi gravi i violini innestano un motto, caratterizzato da fitti segni dinamici (crescendo, diminuendo, forte-piano), che dissimula il profilo del primo tema, occultato da tonalità minore e ritmo lento. A queste sei misure ne seguono altre sei consacrate ai soli archi in pizzicato, i cui stringendo e crescendo prolungano l’attesa. La tempesta va addensandosi sempre più minacciosa con nuovi stringendo (molto) e crescendo, mentre risuonano romantiche le veloci scale degli archi e la voce del corno solista. Improvvisamente l’uragano si acquieta con la discesa cromatica di controfagotto e archi gravi, coadiuvati dal rullo dei timpani, per lasciar spazio al Più andante: su un accompagnamento dal timbro ricercato (violini con sordina, timpani e tromboni in pianissimo: questi ultimi tenuti in serbo sinora per questo Finale, come aveva fatto Beethoven nella Quinta) si libra il canto caldo e passionato del corno, semplice richiamo da corno alpino ,che Brahms dichiarò a Clara Schumann di aver ascoltato in Svizzera. Nell’animazione progressiva compare inatteso, sordo, un corale ai tromboni; il ritorno del canto del corno nel crescendo generale conduce all’Esposizione (Allegro non troppo, ma con brio).
Smessa la sordina, i violini intonano una melodia calda, dall’andamento calmo e pacato, quasi da corale (le affinità estetiche sembrano portare oltre Beethoven, alla terza grande «B»: Bach!). Segue un episodio di Sviluppo già all’interno dell’Esposizione (come accade spesso in Cajkovskij). Portata al massimo la tensione dinamica, la riapparizione inopinata della testa del tema del corno conduce al secondo tema, contorto, cromatico, costruito su appoggiature, pur nella dolcezza di un tono espressivo diametralmente opposto al primo tema, sia nella prima che nella seconda parte affidata all’oboe. Una terza idea tematica enfatica porta alla coda dell’Esposizione, che la voce flebile delle viole lega allo Sviluppo, aperto a sorpresa con la riproposta, di grande impatto emotivo, del primo tema, largamente, alla tonica; ritorna la sezione ascoltata già nell’Esposizione, s’insinua un breve motto di quattro note ai fiati, finché l’orchestra, ormai al parossismo fonico, non raggiunge una pausa generale, dalla quale sboccia il tema del corno, con uno straordinario effetto rasserenante, tanto più che viene intonato in do maggiore, preparando il terreno per la Ripresa. In modo irrituale questa inizia solo con il secondo tema, forse perché il primo era già risuonato nello Sviluppo oppure perché il tema del corno ne funge da surrogato. La coda della Ripresa è seguita dalla coda generale (Più allegro), ditirambica, liberatoria, trionfante conclusione – nel solare do maggiore che rovescia il do minore del primo tempo e dell’introduzione al finale – della prima lotta del compositore nell’agone della Sinfonia: sezione eterogenea rispetto alle precedenti (lo notava già Clara), eppure del tutto appropriata al progetto ideale dell’intero lavoro e del suo finale, itinerario per aspera ad astra che richiama il Beethoven della Quinta sinfonia e dell’Ouverture Egmont, abilmente giocato tra scoperti contrasti e relazioni interne, come la ricomparsa del corale dell’introduzione a turbare la festa della coda ricorda sino alle ultime battute.

Sinfonia n. 2 in re maggiore per orchestra, op. 73

Per comporre la seconda delle sue Sinfonìe Brahms impiegò un tempo relativamente – e per lui insolitamente – breve: iniziata durante l’estate del 1877 a Portschach, sulle sponde del Worthersee (uno di quei paradisi lacustri che Brahms amò sempre eleggere a scena dei suoi operosi soggiorni estivi), l’opera fu terminata in ottobre a Lichtental, presso Baden-Baden, altro favorito luogo di vacanze del musicista. Qui, davanti a un ristretto gruppo di amici fidati, Brahms ne esegui insieme con Ignaz Brüll una riduzione per pianoforte a quattro mani; il 30 dicembre di quello stesso anno la Sinfonia veniva presentata al pubblico dei Filarmonici di Vienna sotto la direzione del grande Hans Richter, grande successo, tanto che Richter venne costretto a concedere il bis del terzo movimento. Lieto fine di un’avventura creativa lietamente vissuta: le lettere scritte da Brahms durante la seconda vacanza dì Portschach spirano tutte serenità, tranquilla allegria; per il luogo dove si stava «deliziosamente», per la «cordialità» della gente, anche per l’avvenenza della «bella locandiera» che lo aiutava a fare i pacchi dei manoscritti da spedire all’editore.
Segno evidente di come Brahms fosse assai compiaciuto anche del modo in cui procedeva il suo lavoro. Difficilmente ritroveremmo in un Brahms così placidamente soddisfatto di sé e degli altri il compositore patologicamente insicuro, autocritico fino alla morbosità, ipocondriaco e diffidente di tutto e di tutti che emerge da tanti altri luoghi della sua biografia, prima e dopo di questo momento. Soprattutto non riusciamo a riconoscervi l’aspirante sinfonista lacerato fra l’impossibilità etica di sottrarsi al cimento con la forma più elevata e complessa fra quelle in corso nella prassi musicale del tempo, la Sinfonia appunto, e le mille remore e i mille dubbi imposti da una vigorosa consapevolezza storica e incombenti sul suo cammino come ostacoli difficilmente sormontabili: l’aspirante sinfonista, insomma, cui era stato necessario quasi un quarto di secolo di tentativi falliti, deviazioni e fatiche per poter dare al mondo, a quarant’anni sonati, una Sinfonia.
La Sinfonia in do minore op. 68, prima delle quattro che Brahms avrebbe composto, era costata infatti due anni di lavoro intenso e sofferto, fra il ’74 e il ’76. In realtà i primi abbozzi ne erano stati stesi addirittura nel 1862; presto Brahms si era reso conto che ancora una volta, dopo la falsa partenza degli anni Cinquanta (il progetto di una Sonata per due pianoforti trasformato in quello di

una Sinfonia), per lui si rendeva necessario rinviare la prova. Il perché di tanta esitazione non stava ovviamente in una – del resto improbabile – mancanza di preparazione o di forze da parte di Brahms; né era soltanto riconducibile all’accesso di scrupolo e all’ossessione autocritica che fin dagli esordi avevano accompagnato il suo operare artistico. Il problema era, come si è già detto, di natura essenzialmente storica ed etica, e si legava al culto della forma (culto di adorazione ma anche di timore) che dal tempo dei grandi classici viennesi incombeva sulla musica dell’area germanica; e in questo senso mai musicista dell’Ottocento fu più tedesco di Brahms.
Dall’ultimo Beethoven in poi la forma-Sonata era rimasta per i romantici eredità quanto mai imbarazzante. Non si poteva in tutto prescinderne, non si sapeva in che cosa mantenere i principi e in che cosa rinnovarla; la lezione del tardo stile beethoveniano era a un tempo stesso ipoteca e traguardo difficilmente raggiungibile, dopo le lacerazioni strutturali che con essa si erano innestate sul ceppo dell’augusto schema formale dei classici. Da qui l’ambiguità di quasi tutte le esperienze compiute dai musicisti delle generazioni successive a Beethoven, a cominciare da Schubert; e tanto più le cose si complicavano quando l’approccio alla forma principe della composizione strumentale avvenisse nel campo nobilissimo, ma altrettanto problematico, della Sinfonia: che per essere quello dove la complessità dell’elaborazione tematica si sposava con la complessità dell’organizzazione strumentale, offriva i compiti più ardui e di conseguenza le maggiori possibilità di risultato, ma anche i rischi di fallimento più vistosi. E all’incubo dei grandi precedenti storici si aggiungeva il rischio, di fronte al tanto maggior potenziale sonoro via via acquisito dall’orchestra ottocentesca, di tentazioni esteriorizzanti, coloristiche, persino descrittive e programmatiche, di una deviazione nella pressoché illimitata alchimia delle combinazioni timbriche e delle possibilità evocative. Prova lampante di queste angustie era stata l’ultima grande esperienza sinfonica conosciuta dalla musica tedesca, quella di Robert Schumann: poi, per quasi vent’anni essa non era riuscita più a produrre una Sinfonia vera e propria, se non per opera di autori minori, irrevocabilmente condannati al dimenticatoio; con la sola eccezione, rilevantissima ma semiclandestina, e comunque tale da non poter incontrare che la diffidenza di un compositore come Brahms, delle prime prove di Anton Bruckner.
All’impresa sinfonica Brahms si era preparato, per anni e anni, con un testardo e laboriosissimo noviziato nel campo della musica da camera; limitandosi a saggiare la grande orchestra, oltre che nel Concerto per pianoforte op. 15, nelle due Serenate e, in unione alla voce, nelle architetture formalmente meno ardue delle grandi composizioni sinfonico-corali. Poi quasi una prova generale, con le Variazioni su tema di Haydn: dove definitivamente si concretava l’incontro fra

linguaggio sinfonico e tecnica, prettamente sinfonica, dell’elaborazione tematica, all’insegna di un concetto della variazione sostenuto, sull’esempio beethoveniano, di capillari ma poderose nervature contrappuntistiche. Tali le basi sulle quali Brahms aveva potuto finalmente completare la sua Prima, sia pure con fatica. Dopodiché, secondo quell’istintivo lavorare «per coppie» che fu quasi una regola nel suo operato di compositore, venne la Sinfonia in re maggiore, la Seconda.
E come la creazione dell’una aveva richiesto tempo e sofferenze e fatica, così, l’abbiamo veduto, l’altra nacque con serena naturalezza, quasi ogni ostacolo e ogni difficoltà si fossero dissolti, bruciati nello sforzo della prima prova, lasciando al musicista la sicurezza e l’agilità, dell’animo non meno che della mano, necessarie alla successiva. Parallelamente, né forse fu un caso, quanto la Prima sinfonia era riuscita grandiosa, drammatica, ardua e ambiziosa, così la Seconda, quasi a riflettere nella propria fisionomia stilistica ed espressiva la diversa vicenda della sua gestazione, riuscì in complesso placida, affettuosa, scorrevole e serena; priva, forse, di quelle aspirazioni che della Prima costituiscono una delle suggestioni maggiori: ma anche senza denunciare in alcun luogo le fatiche del lavoro, senza che nel suo impasto si mescolassero scorie, senza che i colpi dello scalpello lasciassero incrinature sulla sua levigatissima superficie. Come fu colto: nel 1876, quando Brahms si era deciso a far eseguire la Prima, Hans von Bülow si era affrettato a definirla «la Decima di Beethoven», cosa che a Brahms dovette fare un gran piacere, perché non era complimento da poco, ma che contribuì non poco ad appiccicargli addosso quell’etichetta di epigono beethoveniano che risultò, per la sua immagine di artista in realtà originalissimo, più dannosa che altro; adesso ecco la Sonata guadagnarsi l’epiteto di «Pastorale di Brahms», oltre a quello, non meno stupido, di «ultima Sinfonia di Schubert».
In realtà, la Sinfonia in re maggiore non è meno tipicamente brahmsiana di tutte le altre pagine di Brahms. Certo, si può dirla beethoveniana se per beethoveniana si intende una composizione elaborata con una profondità e una coerenza quali soltanto Beethoven aveva saputo insegnare alla musica europea. Ed è schubertiana se per schubertiano s’intende – ed è categoria tutta da verificare – uno stile alieno da contrasti brutali, propenso ad abbandonarsi alla distesa effusione del canto, proiettato in orizzonti spesso contenuti in un’affettuosissima intimità.

Leonard Bernstein

Ma questi caratteri in fondo sono quelli – o alcuni di quelli – caratteristici di tutto il maggior Brahms: qui resi particolarmente evidenti dalla felicità con la quale un tessuto compositivo di estrema densità di intrecci contrappuntistici e tematici sa sciogliersi in un incedere fluido, spirante letizia e amorosa contemplazione naturalistica. Per contro, l’unità strutturale dell’opera resta granitica, tutto il patrimonio di motivi sulla quale essa è costruita potendosi ricondurre a poche formule di base. Prima fra tutte quella con cui prende l’avvio l’Allegro non troppo, e che è al tempo stesso il primo tema, l’introduzione al primo movimento e il germe di quasi tutti i temi successivamente presentati. Predominano, in tutto il primo movimento, le intenzioni cantabili; tutte animate di un lirismo teso, trascoloranti nel corso del pezzo in straordinaria ricchezza di proposte espressive, affidate a una scrittura orchestrale capace di toccare la più solenne potenza sonora come di aprire gli scorci più delicati; né mancano le suggestioni popolaresche, incastonate a perfezione in un panorama stilistico che si mantiene ancorato a toni di estrema dignità, ancorché non sia alieno da compiacimenti.
Tutto ciò peraltro è manipolato, alla luce di quella tensione formale che dell’opera di Brahms, o perlomeno delle sue sorti concrete, e causa prima e determinante, in un edificio di organica coerenza, il cui sviluppo non sfugge mai a un senso di categorica necessità. Il che vale anche per il secondo movimento, al di là della sua fisionomia di pagina lirica, tutta poesia e pudica confessione; comunque una delle creazioni più perfette e seducenti dell’intera opera di Brahms. Nel quadro della Sinfonia, è quello certamente il momento maggiormente votato alla riflessione, sotto il segno di quella malinconia inquieta e nostalgica sulla quale si fonda il fascino nordico della musica di Brahms: ma anche, sapendo ben leggere dietro la apparente semplicità e immediatezza di detto lirismo e pudore, la sua ascrizione a settori della spiritualità ottocentesca men sicuri e regressivi di quanto a tutta prima non possa sembrare. Vivace, estrosa esibizione di maestria il terzo tempo, costruito, grosso modo, come uno Scherzo con due Trii, il secondo dei quali è travestimento ritmico del primo, mentre ambedue restano strettissimamente connessi con il materiale tematico della sezione principale; e sul medesimo tono, raffinatissimo e quasi furbesco, si svolge l’opera dello strumentatore, con risultati come non mai trasparenti e preziosi. Corona la Sinfonia un Finale che assume quasi il significato e il ruolo di una ricapitolazione, del resto trascinante e brillantissima, di tutta l’opera, per gli scoperti richiami tematici al primo movimento; ricchissimo, ancora una volta, di proposte melodiche, attraverso il variegato succedersi degli episodi appare teso senza intoppi verso una conclusione che non teme di essere rutilante e festosa.

Sinfonia n. 3 in fa maggiore per orchestra, op. 90

La via brahmsiana alla Sinfonia si definisce più puntualmente a sei anni dalla Seconda con l’ultima coppia di sinfonie. Anni di intensa attività creativa, tra i cui frutti non possiamo tacere le due ouverture e la ricca raccolta dell’anno che precede la Terza: il Gesang der Parzen per coro e orchestra, il Trio op. 87, il Quintetto per archi op. 88 e i Lieder op. 85 e 86. Il Brahms che dedica l’estate 1883 – piacevole estate di lavoro, trascorsa nella località termale di Wiesbaden, ospite di amici – alla nuova sinfonia, unica partitura di un anno intero, esprime con mano sicura un progetto ideologico ormai individuato come personale. Condotto con una stringatezza che testimonia la raggiunta chiarezza, stilistica, il progetto mal sopporta, data la brahmsiana complessità sentimentale, l’appellativo di «eroica» attribuito alla Sinfonia da Hans Richter, che diresse i Wiener Philharmoniker nella «prima» del 2 dicembre 1883 alla viennese Gesellschaft der Musikfreunde, aprendo la via allo straordinario, immediato successo del lavoro in tutta Europa e in America.
Le primissime battute dell’Allegro con brio contengono in nuce il progetto dell’intera Sinfonia. Le misure 1-3 presentano tre poderosi accordi dei fiati (fa – la bemolle – fa, corrispondenti alle lettere FAF: acrostico del motto brahmsiano froh aber frei, «felice ma libero»), portale solenne del primo tempo, ma soprattutto suo fondamentale Leitmotiv unificatore. Sull’ultimo accordo gli archi, sostenuti da tromboni e timpani, lanciano il primo tema, energico e appassionato, non immemore di Schumann, né del tutto solare nel suo continuo inabissarsi verso regioni gravi. Il Leitmotiv contrappunta l’Esposizione del primo tema e torna nel corso della transizione al lirico secondo tema. Le voci predilette di clarinetto e viola (l’anno successivo usciranno gli Zwei Gesänge op. 91, con l’accompagnamento di quest’ultimo strumento) presentano il nuovo tema, costruito su minime variazioni di un piccolo inciso, in la maggiore, grazioso e a mezza voce; noncurante, dalle movenze di valzer, il motivo rimane incastonato nel raffinato contesto timbrico caratterizzato dal pizzicato dei violoncelli. Il gioco imitativo dei legni prosegue nella coda dell’Esposizione, dove s’insinua nuovamente il Leitmotiv. Una pagina drammatica conduce allo Sviluppo, aperto su gesti discendenti memori del primo tema, cui segue corposo il secondo ad archi gravi e fagotti, agitato e in tonalità minore. Il risuonare del Leitmotiv al corno su dolci sincopi degli archi e il successivo ritorno del primo tema, preludono alla Ripresa che espone due volte il Leitmotiv seguito dal primo tema, mentre lievi movenze di danza ai violini e un gesto ascendente del fagotto annunciano l’entrata del secondo tema al clarinetto. La coda inizia citando l’esordio della Sinfonia, per concludersi, dopo un lungo e accidentato percorso, pacificata; l’ultima apparizione del primo tema (di cui Carl Dahlhaus ha rilevato la connotazione intimistica) ricorda l’Incantesimo del fuoco con cui si chiude La valchiria di Richard Wagner, in scena a Vienna durante il Festival dedicato al suo autore, morto nel febbraio dello stesso anno, proprio in quel dicembre 1883 che vide la «prima» della Terza sinfonia brahmsiana.
L’Andante è un esercizio esemplare, sulla corda dell’elegia, dell’arte della variazione. Ancora una volta i clarinetti presentano in do maggiore un tema semplice, coadiuvati da fagotti, flauti, corni, che creano una sonorità da serenata settecentesca, tardo retaggio di quel complesso di fiati imperiale della Vienna Giuseppina per cui Mozart aveva scritto alcuni capolavori. Su sonorità antiche Brahms immette un nuovo pensiero sinfonico: le quattro misure del temine ricompaiono sottilmente variate, e così una terza e una quarta volta. Il discorso si anima con l’innestarsi felice di ornamentali quartine di semicrome, finché una pagina interlocutoria non conduce alla sezione centrale di questo tempo in forma ternaria (ABA’).

Johannes Brahms

Clarinetto e fagotto vi presentano un tema derivato dal primo, ossessivamente insistente sulle medesime note, recitativo inquietante nonostante l’indicazione dolce, forse anche a causa dell’incedere funebre degli archi. La sospensione d’ogni moto prelude all’elaborazione del primo tema, la cui testa circola per le varie sezioni orchestrali, unitamente alle quartine e alle sincopi in crescendo dei
violini. Il primo tema ritorna compiutamente a flauto e oboe (seppure contraffatto nel ritmo dell’attacco e nell’accento metrico) con accompagnamento di quartine, inaugurando la ripresa della sezione principale. Da continue variazioni melodico-ritmiche fiorisce inaspettato un tema espressivo del tutto nuovo ai violini; un’ultima pagina di sospensione (analoga a quella che aveva introdotto la sezione B) porta alla coda, dapprima riservata alle voci gravi di clarinetto (che ripropone nostalgico il primo tema), fagotti (cui spetta il sapore cromatico della pagina), violoncelli e contrabbassi. Si chiude sulla magia pastorale degli arabeschi dei legni.
Un ennesimo gioiello – Poco allegretto, momento lirico letteralmente indimenticabile – in terza posizione. Brahms esalta la potenza di un canto sublimato dalla più struggente Sehnsucht romantica, abbandonando la consueta complessità formale per approdare a una struttura di limpida, classica chiarezza. La forma ternaria (ABA’), con ulteriore tripartizione della sezione A (AxA-B- A’xf’A’), moltiplica la presenza del formidabile tema principale, che, come un’onda, viene esposto a mezza voce dai violoncelli (appena increspato dalle terzine degli archi superiori sul pizzicato dei contrabbassi) e in seguito dai violini, che introducono l’intermezzo x, proseguendo insensibilmente sul fluire del primo tema ai fiati (in tutto il movimento ogni contrasto tematico vero e proprio viene annullato a vantaggio dell’unico, grande tema). La sezione B, fondata su cullanti sincopi, oppone staticamente le diverse sezioni orchestrali, come spesso avviene in questo movimento. La ricomparsa della testa del tema ai legni prelude al momento magico della Ripresa della sezione A: il canto viene inaspettatamente affidato al corno, tenuto in serbo come solista per la grande occasione dall’a solo del primo tempo. Il tema passa all’oboe e, dopo il ritorno dell’intermezzo x, ai violini. La coda, dolce e piano, è fondata, come la sezione B, su sincopi dei fiati, cui si uniscono gli archi in un’estrema fiammata sentimentale che si stempera nel gesto discreto del pizzicato.
Come i suoi omologhi, anche l’Allegro finale della Terza sinfonia si dimostra originale già dall’ambiguità tra i suoi possibili modelli strutturali: forma-sonata con introduzione oppure forma-sonata senza ripresa delle prime due parti del primo gruppo tematico. Seguendo quest’ultima ipotesi il primo gruppo tematico esordisce misteriosamente, piano e sottovoce (come già il finale della Seconda sinfonia) con l’unisono dei violini nella regione grave e l’apporto cupo dei fagotti, per passare ai legni su un accompagnamento particolarmente morbido e leggero, caratteristico di tutto il movimento. L’orchestra piena, ma in pianissimo, presenta un tema di marcia derivato da quello secondario dell’Andante, mentre aleggia il fantasma ritmico del terzo tempo della Quinta beethoveniana, finché i tromboni non introducono la terza parte del primo gruppo tematico (il primo tema dello schema alternativo): quest’ultima, stentorea, animata da salti ascendenti in levare, contrasta nettamente col secondo tema, cantato con slancio eroico da violoncelli e corno (libera citazione dell’inno Die Wacht am Rhein?). Anche questo tema lirico presenta una seconda parte complementare, esposta in fortissimo dall’orchestra piena, tra fitte indicazioni dinamiche (accenti, sforzando, ben marcato), analoga nello spirito, ma esaurita, coerentemente con il serrato alternarsi di atteggiamenti contrapposti in tutto il movimento, nel ricordo della testa del tema dell’esordio foriero dello Sviluppo (che consta di variazione ed elaborazione contrappuntistica delle prime due idee tematiche). La Ripresa impiega soltanto la terza idea del primo gruppo, cui fa seguire l’intero secondo tema e il tema dell’esordio. Un breve duetto dei corni porta alla coda della Ripresa, che combina, come già lo Sviluppo, seconda e prima idea tematica. L’indicazione Un poco sostenuto apre l’ultima, sorprendente sezione, solenne e misteriosa a un tempo, in cui, capovolto in maggiore il fa minore d’impianto, fra gli accordi statici dei fiati e il mobile fruscio degli archi, circolano fantasmatiche apparizioni di temi ben noti, tra cui – estremo, sibillino messaggio simbolico – il motto FAF su cui la Sinfonia si era aperta.

Sinfonia n. 4 in mi minore per orchestra, op. 98

Sinfonia n. 4 in mi minore per orchestra, op. 98 Fedele a quella sorta di rituale che aveva segnato la sua produzione già dagli esordi, e che ancora negli anni successivi avrebbe scandito alcune fra le tappe della sua creatività, Brahms compose la quarta e ultima delle sue Sinfonie di seguito a un’opera analoga, la Terza sinfonia op. 90, terminata nel 1883: quasi sull’onda di un unico moto dell’ispirazione, o meglio sulla rincorsa di uno sforzo di invenzione e di riflessione troppo intenso e impegnativo per trovare realizzazione sufficiente e del tutto soddisfacente in un solo lavoro, ancorché di qualità altissima e dimensioni più che ragguardevoli, e men che meno per esaurirsi in quello. Fra il 1884 e l’85 dunque, sfruttando soprattutto le propizie condizioni di lavoro dei soggiorni estivi in Stiria, Brahms a poco a poco stese la sua ultima Sinfonia: il primo anno l’Allegro non troppo e l’Andante; poi, nell’85, il Finale, mentre al terzo tempo toccò venir composto per ultimo. In settembre, Brahms era in grado di offrire il nuovo lavoro a uno dei più celebri e autorevoli direttori d’orchestra del tempo, Hans von Bülow, allora alla testa della prestigiosa orchestra di corte di Meiningen: la prima esecuzione, alla cui preparazione aveva contribuito Brahms stesso, ebbe luogo il 25 ottobre, con successo eccezionale; perfino il maniacale senso autocritico che angustiava eternamente il suo autore ne fu sopraffatto. L’opera fu inserita nei programmi di una prossima tournée europea, mentre l’anno seguente la partitura veniva pubblicata a Berlino da Simrock, l’editore di quasi tutta la musica di Brahms. Cosi, più che cinquantenne, con la seconda e definitiva e massima coppia di Sinfonie, e in particolare con la Quarta, nata proprio, si direbbe, per essere quel che poi riuscì, e cioè il capolavoro sinfonico, e non solo sinfonico, del suo autore, Brahms suggellava l’esperienza creativa che in termini di fatica, di perplessità, di ricerca, gli era costata di più; e nella quale aveva riposto le ambizioni più grandi, per un’intima e insopprimibile esigenza artistica e storica; giuocandovi sopra, per così dire, tutto se stesso. Giacché dei grandi generi musicali da lui toccati – praticamente tutti quelli disponibili per un compositore dell’Ottocento, escluso il teatro, e non senza coerenza – la Sinfonia era quello che da sempre gli era parso più necessario; nel senso che la grande forma sonatistica applicata alle risorse del più ampio fra gli organici strumentali, l’orchestra, inevitabilmente si poneva ai vertici di quella professionalità artistica che Brahms, da vero tedesco del Nord, da vero discendente di Bach e di Händel, aveva eletto come impresa della sua personalità di creatore.
Proprio per questo atteggiamento, che comportava un senso profondamente responsabile della continuità storica, e dunque un riaggancio sofferto, ma non per questo meno autentico, con i valori della classicità, Brahms si era considerato, anche con qualche forzatura, erede e continuatore di Beethoven, più che non di quello di Schumann alla cui ombra incoraggiante aveva mosso i primi passi. E soprattutto si era sempre trovato naturalmente estraneo, anzi avversario, di qualunque tendenza estetica che mirasse a sostituire, nella determinazione dei modi del comporre, le ragioni di un contenuto extramusicale, del «programma», e quelle di una forma intensa come esigenza primaria e totale. Donde la sua ostilità dichiarata al poema sinfonico posto in auge da Liszt, come a tutto ciò che in un modo o nell’altro recasse l’impronta del pensiero o del linguaggio del musicista nel quale parevano incarnarsi tutti i segni di quel «tempo» dal quale, per esplicita ammissione, Brahms anelava invece a «salvarsi»: Richard Wagner. Da qui, ancora, quel ruolo ambiguo di restauratore che di tanto in tanto, oggi come allora, qualcuno cerca di attribuirgli: un’etichetta che la critica più attenta – con l’avallo anche dì musicisti come Schönberg – ha definitivamente contestato; ma che esteriormente trova una giustificazione storica nel fatto che Brahms, per recuperare e difendere i valori che gli erano cari – ossia, anzitutto, quelli della forma, come involucro esterno della sostanza musicale e ancora più come fattore internamente generativo di questa per il tramite della variazione integrale – doveva per forza rifarsi alla lezione di Beethoven, specialmente di quello estremo: opponendosi, si, ai contemporanei, ma anche scavalcando, con apparente mossa a ritroso sulla via dell’evoluzione nell’estetica e nel linguaggio, tutte le esperienze, da questo punto di vista devianti, della generazione romantica, Schumann compreso.
Anche Beethoven, però, poteva costituire un problema: «non puoi avere un’idea di ciò che si sente, avvertendo dietro le spalle i passi di un gigante come quello», aveva confessato Brahms al direttore d’orchestra Hermann Levi, proprio discorrendo delle difficoltà di comporre una Sinfonia dopo Beethoven. Ovviamente il problema non era semplicemente quello di fare una Sinfonia che non fosse troppo «inferiore» a quelle di Beethoven; il quale, del resto, quando Brahms nel ’76 si decise a far eseguire la sua Prima, era morto da quasi mezzo secolo, né aveva potuto essere una presenza temibile per la sua attualità nemmeno nel ’62, quando Brahms aveva intrapreso la composizione dell’opera per interromperla molto presto, o negli anni precedenti, che avevano veduto concretarsi le prime scelte di Brahms poco più che ventenne in un fallito primo tentativo sinfonico, quell’abortita Sinfonia in re minore (a sua volta rielaborazione di una mancata Sonata per due pianoforti), di cui Brahms aveva riutilizzato parte della musica già scritta per il primo tempo del Concerto per pianoforte op. 15. Il vero problema era quello della forma, l’ossessione di tutto il secolo. La Sonata, spinta da Beethoven a lacerazioni strutturali e orizzonti fantastici poco meno che sconcertanti, sembrava divenuta per i romantici un’eredità troppo costosa da amministrare, una patata bollente con cui era inevitabile scottarsi le dita. Specialmente quanto l’approccio alla forma avvenisse nel genere nobilissimo, ma quanto mai problematico, della Sinfonia; dove all’ipoteca dei grandi precedenti storici il maggior ribollire del potenziale sonoro, nelle prospettive orchestrali ottocentesche, sovrapponeva il rischio di deviazioni esteriorizzanti, descrittive, coloristiche, nella quasi illimitata alchimia delle combinazioni timbriche.
Condizionato in due direzioni opposte dalla consapevolezza storica (non imitare Beethoven, e tuttavia mantenere una continuità con il suo esempio), in armi contro tanta parte delle tendenze proprie al suo tempo, e al tempo stesso, nello spirito, nutrito più che lui stesso non sapesse forse scorgere di molti di quei mali che tanto lo turbava constatare intorno a sé, Brahms si trovava ad affrontare l’impegno sinfonico gravato anche dall’insicurezza e dall’autocritica che erano da sempre i suoi scomodi compagni di strada. Quasi a prepararsi al compito, dopo la prima rinuncia, nel 1854, e l’altra nel ’62, e poi fra questa e il finalmente sopraggiunto momento della composizione della Prima, Brahms si era imposto il lungo noviziato della musica da camera: la forma sperimentata e manipolata negli organici ristretti – e dunque con l’impegno etico ridotto, secondo una scala di valori tacitamente accettata – dati alla combinazione di poche parti strumentali solistiche (e anche qui con prudenza: alla forma più nobile del Quartetto per archi arrivando solo nel 1873, preferendo prima indugiare nel genere più leggero della musica con pianoforte).

Leonard Bernstein

Poi la «prova generale» della Sinfonia, con le Variazioni su tema di Haydn: dove la tecnica dell’elaborazione tematica integrale, ereditata direttamente da Beethoven, si sposava per la prima volta in lui con l’orchestra, fin allora, con l’eccezione del Concerto op. 15, confinata in pagine di poca ambizione, come le due Serenate, o unita alle voci nelle composizioni sinfonico-corali attestate intorno al Deutsches Requiem. Il successo delle prime due Sinfonie gli era certo parso provvisorio: probabilmente in lui l’impegno sinfonico era anche vocazione all’opera unica e definitiva; né tale potè essere un capolavoro anche esteriormente tormentato come la Terza, nata da un rinnovato imperativo a creare che non potè, ancora una volta, accontentarsi di un solo risultato. Così Brahms si accostò alla Quarta forse consapevole che sarebbe stata l’ultima, e deciso a farla perfetta anche ideologicamente: e lo fece forte di un bagaglio di esperienze tale da far di lui il più preparato, in fatto di dottrina e di tecnica del comporre, fra tutti i musicisti del tempo suo; e nel pieno di una maturità poetica che vedeva la sua personalità di artista aprirsi a una varietà e a un’intensità di emozioni illimitate, e al tempo stesso capaci di sottilissime sfumature, in un orizzonte espressivo di profondità abissale.
Ne risultò quella che oggi, se al termine «Sinfonia» si riserva il significato che poteva attribuirvi un Brahms, appare la più grande e poderosa Sinfonia di tutto l’Ottocento, e un po’ anche l’ultima in senso assoluto: imponente nelle dimensioni e nella densità della scrittura, ricchissima nell’articolazione della partitura orchestrale, immensa nelle risonanze poetiche, tinte ora di ombre malinconiche e autunnali, ora di colori sonori grandiosi; chiusa in ripiegamenti gravi e complessi ma anche dilatata in entusiasmi panici (com’è difficile perdonare a Hugo Wolf di aver scritto: «il vero modo di saggiare la grandezza di un compositore consiste nel rispondere a questa domanda: può egli esultare? Brahms non può esultare, mentre Wagner e Bruckner lo possono»). Fin dal primo movimento appare in tutta la sua sterminata portata espressiva il tipico modo brahmsiano di costruire l’arco melodico, «per parentesi», com’è stato detto: il materiale tematico, complesso e nutrito, vive una profonda organicità, basata sulle analogie nascoste, sulla continuità piuttosto che sul contrasto; il meccanismo classico della forma-Sonata si sublima in una densità di riferimenti e di allusioni garantita, sul piano formale, dalla intima unitarietà delle proposte motiviche fondamentali, mentre l’orchestrazione, la pesante e corposa orchestrazione di Brahms, si incarica di dipingerne le diverse sfumature espressive, ma anche subito di sottolinearne il decorso formale, talvolta già indicando il timbro come elemento costruttivo. Sogno, lirismo, dramma, convivono nel tempo lento: anche, in sostanza, ci si fonda sulla variazione, intesa in senso tecnico ma anche poetico, di un tema solenne e gravido di echi e allusioni; la strumentazione esplora con suggestioni sorprendenti le possibilità di scomposizione e di aggregazione in piccoli gruppi proprie all’orchestra del tardo Ottocento, delineando lungo il succedersi degli episodi prospettive dinamiche e timbriche sempre rinnovate. Lo scatto balzante del terzo tempo richiama la funzione tradizionale allo Scherzo: la forma però è quella di una Sonata senza sviluppo (ne tiene il posto una sorta di Trio dominato dai corni); alla vivacità robusta, quasi campagnola, di questo tempo, corrisponde una orchestrazione particolarmente nutrita, aperta a ospitare uno strumento come il triangolo che pare quasi un intruso in un contesto tanto nobile qual è quello del sinfonismo brahmsiano, e che invece contribuisce in qualche misura a completare la globalità delle proposte espressive della Sinfonia.

Ma tutto lo sforzo del compositore, a riprova di un senso della forma acutissimo e di ampio respiro, converge sul Finale: uno dei più grandiosi e perfetti finali di Sinfonia, forse «il» Finale della Sinfonia nata e cresciuta nello stile classico. Recuperando la forma barocca della Passacaglia, Brahms costruisce il brano su un tema di otto battute, sottoposto a trentadue variazioni che senza alternarne l’ossatura ne dilatano in misura impensabile le valenze espressive e le possibilità di elaborazione, combinando la profondità di intervento propria alla variazione integrale con il rispetto del dato di partenza imposto dalla permanenza delle funzioni armoniche e di tempo. Il ruolo della strumentazione assume qui una dimensione strutturale quasi degna di un serialista novecentesco, garantendo altresì una illimitata proiezione poetica ed espressiva. La lunga avventura del tema – ripreso, forse non casualmente, da una Cantata di Bach – conosce le deviazioni più impensate, le escursioni più ardite, i ristagni più densi di significato, in un caleidoscopico trascolorare di rumori e di sensibilità, crescendo verso la fine in una perorazione ambiziosa, che nell’espansione sonora di un tessuto strumentale gonfio di ottoni, irrobustito dal compatto ripieno degli archi e dei legni delinea il coronamento solenne e imperioso di tutta l’esperienza sinfonica di Brahms: quasi le colonne d’Ercole di una regione della musica che aveva molte cose da dire, anche quando ci si approssimasse ai suoi confini estremi, prima di avventurarsi in mari sconosciuti e non privi di pericoli.

Concerto n. 1 in re minore per pianoforte e orchestra, op. 15

La prima esecuzione del Concerto avvenne il 22 gennaio 1859 ad Hannover, solista lo stesso Brahms, direttore Joachim, con accoglienza tiepida. Si trattava in realtà di un’anteprima in vista della presentazione al Gewandhaus di Lipsia del 27 gennaio (direttore Julius Rietz, solista ancora Brahms), dove il Concerto fu subissato dai fischi. Il giorno dopo Brahms, scrivendo a Joachim, osservò: «Penso, comunque, che questo risultato sia il meglio che potesse capitarmi: mi induce a lottare, mi dà coraggio. Dopo tutto sono ancora in una fase di sperimentazione e sto orientandomi a tentoni. Però, a ben pensarci… i fischi erano davvero troppi». Una successiva esecuzione ad Amburgo, il 24 marzo, venne nuovamente diretta da Joachim e si risolse in un successo formale, di stima. Brahms decise allora di ritirare il Concerto, e vi apportò ancora qualche miglioramento in vista della pubblicazione, uscita nel 1861. Come interprete lo riprese solo nel 1865, sotto la direzione di Hermann Levi, non ancora passato al partito wagneriano. Ma per vederne la definitiva consacrazione si dovranno attendere gli anni Ottanta, quando i trionfi del secondo Concerto si rifletteranno anche sul primo.
L’op. 15 è il frutto di un’ossessione (scrivere una Sinfonia, sogno che avrebbe dovuto attendere fino al 1876 per realizzarsi) e di una ricerca accompagnata da uno strenuo spirito di autocritica. La conseguenza fu una contraddizione risolta con un compromesso, adottando uno schema tradizionale per un modello alternativo. Non stupisce quindi che il destino del Concerto fosse contrastato e difficile. Molti dei rilievi che gli vennero mossi dai primi ascoltatori (e non bisogna dimenticare che Brahms ebbe fin dall’inizio ascoltatori attenti e non prevenuti) sono in parte comprensibili. In effetti il Concerto in re minore è lontano dalle convenzioni del concerto per strumento solista, in quanto il pianoforte e l’orchestra vi sono trattati su un piano di assoluta parità: il che lo fece sembrare una Sinfonia con pianoforte obbligato.
La stessa evidente ambizione di rifarsi al Beethoven drammatico ed eroico (soprattutto a quello del Terzo Concerto in do minore) collide con la profusione di passaggi divaganti e sospesi (nel senso del phantasieren romantico alla Schumann) e con il contenuto eterogeneo, appassionato, malinconico, giocoso, dei temi. Insomma esso ci appare come un lavoro di sperimentazione che solo a posteriori avrebbe trovato la sua giustificazione e la sua esatta collocazione nella storia del Concerto per pianoforte: costituendo, di essa, una sorta di ultimo anello.
E ciò che ce lo fa apprezzare nel suo pregio e nella sua novità, poteva apparire all’epoca di composizione un difetto. L’accusa ricorrente, che a noi appare infondata, di non offrire al solista alcuna occasione di protagonismo, va anch’essa intesa secondo un’ottica che aveva a punto di riferimento la letteratura brillante, o quella salottiera, del tempo: assorbite entrambe da Brahms, ma finalizzate ad altri scopi. Pur privo di vere e proprie cadenze (del tutto abolita quella fondamentale del primo movimento), la parte pianistica presenta notevoli difficoltà tecniche (arpeggi rapidissimi, doppie terze e seste, tripli trilli, doppie ottave, decime spezzate nella mano sinistra, eccetera: senza contare la densità massiccia degli accordi, mossi da una stratificata polifonia interna), ma non nel senso della esibizione virtuosistica. Giacché la sua sostanza rimane quella di un pensiero sinfonico integrato e ampliato al pianoforte.
L’impegno costruttivo e architettonico si manifesta soprattutto nel tempo d’apertura, che da solo occupa quasi la metà del Concerto. Ma non si tratta tanto di questioni di durata quanto di intenzioni.

Kristian Zimerman

Nell’indicazione Maestoso e nella stessa tematica è impossibile non ravvisare l’ombra incombente della Nona Sinfonia di Beethoven (che Brahms, fra l’altro, aveva ascoltato per la prima volta a Colonia nel marzo 1854, proprio durante la gestazione del Concerto). L’introduzione orchestrale, di eccezionale ampiezza (90 misure), è di altrettanto eccezionale complessità: al primo tema, appassionato, cupo, tempestoso, sostenuto da un lungo pedale cromaticamente discendente, quasi basso dilatato di passacaglia, segue una dolce parentesi lirica, di trepida emozione, da cui si originano, prima e dopo il riapparire del primo tema, singoli spunti che verranno ripresi ed elaborati dal solista nel corso del movimento. L’entrata del pianoforte, punteggiata da trombe e timpani soli, è pensosa e severa, quasi velata, e può ricordare un corale. La progressiva integrazione tra solista e orchestra avviene nella gigantesca riesposizione e prosegue, alternando slanci e ripiegamenti, monologhi e dialoghi (tra i quali spicca quello poeticissimo con il corno), nell’intenso e tuttavia stringato sviluppo: per trovare infine nella ripresa, avviata questa volta dal pianoforte, la piena estrinsecazione di sostanza e decorazione, di forza drammatica e concentrazione espressiva.
L’Adagio in re maggiore si apre con un tema introverso degli archi con sordina, accompagnati in terze dai fagotti, poi ripreso dal corno. Molto dolce ed espressiva è l’entrata del pianoforte, che elabora liberamente, come in un intermezzo fantastico, frammenti del tema. La parte centrale, affidata ai legni,
ha un profilo più vivo e marcato, mentre il ritorno del primo tema, tra accordi ed arpeggi del pianoforte, sospingerà l’Adagio verso sonorità celestiali, di astratta purezza trascendente. L’epigrafe che accompagnava questo movimento nel manoscritto posseduto da Joachim (“Benedictus qui venit in nomine Domini”) ha fatto per anni la delizia dei commentatori, già portati a riconoscere nel Concerto un’impronta programmatica (il primo biografo di Brahms, Max Kalbeck, aveva visto nel primo tempo l’evocazione del dramma della follia di Schumann). L’intestazione (cancellata in seguito) è stata interpretata in vari modi: come traccia di una Messa non completata o come un ritratto musicale di Robert e Clara Schumann. A noi pare che possa essere considerata semplicemente un devoto omaggio a Beethoven (Missa solemnis).
L’Allegro non troppo finale è nella forma del Rondò. Un tema vigoroso, un po’ rude e scontroso nei suoi nuovi tratti di danza popolare, viene esposto dal pianoforte, solo, passa all’orchestra, ritorna al pianoforte e poi invade baroccamente il Tutti. Una sua variante, di tono più leggero e lirico, introduce la parte più melodica del movimento, che culmina non inaspettatamente in un fugato a quattro voci degli archi in si bemolle minore. Seguono il ritorno del tema iniziale in re minore, una breve cadenza del pianoforte e la ripresa dell’elemento fugato da parte degli strumentini, in re maggiore. Nonostante la maestria dell’elaborazione e delle variazioni, e qualche nota asprigna di ironia mozartiana, questo finale denuncia un’intenzione dimostrativa, forse residuo della sua prolungata genesi, e la volontà di chiudere ad ogni costo con un’affermazione positiva.

Concerto n. 2 in si bemolle maggiore per pianoforte e orchestra, op. 83

C’è una lettera di Brahms in data 7 luglio 1881 al suo amico Herzogenberg in cui il musicista dice, tra l’altro, del suo impegno come compositore in quel momento: «Sto scrivendo un piccolo concerto per pianoforte con un piccolo scherzo molto grazioso. È in si bemolle; e benché questa sia un’ottima tonalità, temo di averla utilizzata troppo spesso». Questo “piccolo concerto” era il secondo dei due concerti per pianoforte e orchestra scritti da Brahms e in realtà una delle opere più ampie e imponenti da lui composte, su idee tracciate tre anni prima a Pörtschach, all’epoca del Concerto per violino e orchestra op. 77 (nell’ambito di questi lavori di grosso respiro seguiranno soltanto le due ultime sinfonie nel 1883 e ’85 e il Doppio concerto per. violino, violoncello e orchestra nel 1887). Il Secondo concerto op. 83 venne eseguito per la prima volta a Budapest il 9 novembre 1881 sotto la direzione d’orchestra di Sandor Erkel e con lo stesso Brahms al pianoforte: non mancò il successo di pubblico, che successivamente si estese nei paesi di lingua e cultura tedesca, anche se alcuni critici dissero che si trattava di una sinfonia con pianoforte per la densità e la robustezza del discorso orchestrale, tematicamente molto ricco e vario nel gioco

timbrico e ritmico. L’orchestra è formata da due flauti, due oboi, due clarinetti, due fagotti, quattro corni, due trombe, timpani e quintetto d’archi.
Il Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 è articolato in quattro tempi in luogo dei tre tradizionali ed anche per questo presenta dimensioni superiori rispetto a quelle di qualsiasi altro concerto solistico precedente. Il primo movimento è un Allegro non troppo in 4/4 in si bemolle maggiore, costruito secondo lo schema della forma-sonata, ma con una doppia esposizione. Questa parte inizia con un episodio dall’aspetto di preludio, con i temi annunciati in forma concisa. Il primo tema, vigoroso e marcato, è distribuito fra i corni e il pianoforte, cui si aggiungono poi i legni e gli archi. Segue una cadenza brillante del pianoforte, che conduce ad un ritorno del primo tema, esposto con ampiezza dall’intera orchestra.
Ecco quindi il secondo tema cantabile affidato agli archi, al quale segue un’idea secondaria, il cui disegno ritmico avrà un ruolo importante nel corso del movimento, specie per il contrasto determinato con i due temi principali, essenzialmente melodici. Dall’episodio introduttivo nasce una frase brillante a tempo di marcia e riaffiorano gli elementi tematici enunciati in precedenza. La doppia esposizione, contrassegnata da un pianismo smagliante, conduce allo sviluppo, presentato da Brahms con straordinaria abilità e penetrante ricerca di effetti, secondo la tecnica della variazione, di cui il musicista fu un grande maestro. L’idea ritmica secondaria viene ampliata notevolmente e si giunge alla coda costruita con robustezza di accenti sul primo tema.
Il secondo movimento è un Allegro appassionato in 3/4 in re minore, nella forma di scherzo con il trio centrale. Originariamente questo Allegro era stato pensato come scherzo del Concerto per violino e orchestra, eliminato su consiglio del violinista Joachim: Brahms lo ha utilizzato poi nel Concerto op. 83. L’episodio iniziale poggia su due temi: il primo esposto due volte dal pianoforte; il secondo è una frase cantabile, di tono tranquillo e dolce, dice l’indicazione in partitura, prima esposta dagli archi e poi dal pianoforte. Il trio centrale in re maggiore ha l’andamento di una danza popolare, basata su un ritmo ben marcato che scorre dai violini, ai corni e ai violoncelli, per assumere forma definitiva con tutta l’orchestra. Un ponte di passaggio conduce alla ripresa dello scherzo.

Kristian Zimerman

l terzo movimento è un Andante in 6/4 in si bemolle maggiore, costruito nella forma del Lied tripartito: due episodi simmetrici racchiudono un episodio centrale più breve e in tempo Più adagio. L’unico tema del movimento è proposto dal violoncello solo: dapprima con semplicità espressiva e poi nella forma di variazione con florilegi ornamentali pianistici. È una pagina di stupenda poesia romantica.
Il finale è un Allegretto grazioso in 2/4 in si bemolle maggiore composto nella forma di rondò, concepito molto liberamente. Il tema principale viene annunciato dal pianoforte e poi sviluppato; ritorna due volte dopo i divertimenti d’obbligo e nella coda (Un poco più presto) assume una brillante trasformazione ritmica. Nella sua esposizione si notano tre idee: la prima in la minore (legni) e le altre due in fa maggiore (pianoforte), un materiale tematico largamente adoperato nell’ultimo movimento. Va osservato inoltre che nel finale di questo concerto come in quello per violino e orchestra è presente l’influenza della musica viennese e tzigana, particolarmente amata da Brahms.

Akademische Festouvertüre (Ouverture per una festa accademica), op. 80

Se la quasi totalità dei lavori sinfonici di Johannes Brahms ha avuto origine senza alcuno stimolo “esterno”, ma per una spontanea esigenza del compositore, l’Ouverture accademica, costituisce certamente una eccezione rispetto a questa regola. All’origine della composizione si pone infatti un evento di qualche rilievo nella biografia dell’autore, così scevra da eclatanti
rivolgimenti. L’11 marzo 1879 l’Università di Breslavia insignì Brahms del titolo di dottore “honoris causa” in filosofia. Un simile riconoscimento, offerto dall’Università di Cambridge tre anni prima, era stato respinto dal compositore, a causa della indisponibilità a recarsi di persona in Inghilterra per prendere parte alla relativa cerimonia.
La laurea di Breslavia giungeva dunque come tardivo atto riparatorio di una università tedesca; e tuttavia è ovvio che Brahms si sentisse estremamente lusingato dalla circostanza; era fra l’altro assai legato alla cittadina universitaria, presso la quale aveva soggiornato per alcuni mesi nel 1853 insieme all’amico Joachim, approfittando degli stimoli culturali offerti dal luogo, subito prima di presentarsi a Schumann.
È ovvio che l’accettazione del titolo vincolasse Brahms a un rapporto di gratitudine verso l’Università di Breslavia. La cartolina postale che il compositore inviò a Bernhard Scholz, direttore della musica presso l’ateneo, non poteva essere sufficiente a sdebitarsi; e infatti Scholz non tardò a rivolgersi nuovamente all’autore per chiedergli, in segno di ringraziamento, di scrivere una partitura nuova di zecca, che avesse un carattere in qualche modo “universitario” e celebrativo. Dopo qualche incertezza Brahms aderì alla richiesta, progettando appunto «una gaia Akademische Festouverture, con “gaudeamus” e altre amenità».
È ovvio che, al di là dello spunto esterno, Brahms avesse anche un sincero interesse a cimentarsi nuovamente con l’orchestra sinfonica. Non a caso parallelamente alla Ouverture accademica si applicò alla stesura di un’altra ouverture, definita Tragica; in sostanza diede vita a due opere gemelle, secondo quel particolare metodo di lavoro che consisteva nel “reinvestire” immediatamente nella seconda opera l’esperienza acquisita in quella precedente. Le due ouvertures costituiscono dunque una sorta di spartiacque fra la prima (1877/78) e la seconda (1884/86) coppia di Sinfonie, un’esercitazione nella scrittura orchestrale in vista degli ultimi, magistrali, lavori sinfonici.
Oltre che dalla denominazione, le due opere sono accomunate anche dalle vicende della pubblicazione e della esecuzione; edite infatti la Accademica come op. 80 e la Tragica come op. 81, furono eseguite insieme, sotto la direzione dello stesso autore, nel gennaio del 1880 presso l’Università di Breslavia, in occasione del conferimento della onorificenza (ma in realtà la Tragica era stata presentata già prima a Vienna sotto la guida di Hans Richter). Assai diverse si configurano invece nel contenuto; mentre la Tragica è completamente improntata allo spirito che le ha conferito il proprio nome, la Accademica, quale omaggio agli universitari di Breslavia, contiene umoristiche citazioni di canti goliardici – che non mancarono di scandalizzare i soliti censori.

Del tutto peculiare è l’organizzazione formale della pagina. Anziché impegnarsi in un movimento in forma sonata, Brahms preferisce dar vita a un brano la cui logica consiste soprattutto nell’allineare diversi canti tradizionali goliardici; dunque piuttosto che la tecnica elaborativa, consueta per il compositore, troviamo un avvicendamento paratattico dei diversi temi. Ciascuno di questi ha poi un carattere ben distinto; e dunque possiamo cogliere come in questo avvicendamento dei temi Brahms si richiami al carattere consacrato dei movimenti di una sinfonia classica; come dire che la ouverture goliardica può anche essere letta come una sinfonia in miniatura, sintesi giocosa delle ambizioni della forma maggiore.
Una complessa introduzione con un tema ritmato e altre idee secondarie lascia spazio al “corale” degli ottoni che si basa sul tema «Wir hatten gebauet ein stattliches Haus». Dopo una sezione transitoria si passa a una maestosa melodia, Der Landesvater, che ha funzione di pausa lirica. Carattere di scherzo ha invece il terzo episodio dove appare il Fuchslied, il canto imposto alle matricole, e si tratta forse dell’episodio più complesso. Infine, dal serratissimo gioco contrappuntistico che riporta alla luce vari temi già uditi (ma non si può parlare di una vera e propria ripresa) emerge luminoso il grande e celebre Gaudeamus igitur, che chiude con intonazione trionfale l’energia rigogliosa della celebre ouverture.

Tragische Ouvertüre (Ouverture tragica) in re minore per orchestra, op. 81

Distribuita lungo poco più di quarant’anni, dagli esordi nei primi anni Cinquanta dell’Ottocento fino alla senilità precoce, coincidente con la fine del secolo, la creatività di Brahms appare tutta convergente intorno a un problema cruciale, quello della Sinfonia: espressione del massimo impegno tecnico – la scrittura per orchestra – applicata alla forma più nobile lasciata in eredità dai classici, la Sonata. Attorno a questo bersaglio sembra muoversi, ora affrontandolo con decisione, ora – cioè assai spesso – ritraendosene con prudenza, l’operato del compositore. Un compito imposto dal senso della storia, e sentito come destino personale forse fin dall’avvenimento capitale della gioventù, l’investitura conferitagli da Schumann con quell’articolo Vie nuove che sulle colonne della «Neue Zeitschrift für Musik» aveva additato al mondo musicale una sicura e grande promessa nel ventenne e sconosciuto Brahms: «Se vorrà piegare la sua bacchetta magica là dove la potenza della musica infonda la sua forza, nel coro e nell’orchestra, ci si apriranno prospettive ancor pù magnifiche nel mondo dello spirito». Così quasi subito in Brahms era sorto il desiderio di cimentarsi con la Sinfonia: scrupoli autocritici e pesantezza di condizionamenti storici lo avevano consigliato di attendere; ed ecco tutto il giovane Brahms volgersi altrove, quasi allenandosi per un impegno solo rimandato, senza rinunciarvi.

Molto del Brahms anteriore alla Prima e alla Seconda sinfonia appare, più o meno consapevolmente da parte di lui, come un’ultima preparazione a quel compito; molto del Brahms successivo al completo assolvimento di esso, con la Terza e la Quarta, appare, specularmente, il frutto di una pienezza creativa, finalmente conseguita e concreta. Cosi le opere che risalgono cronologicamente alla pausa che separa i due duplici cimenti sinfonici di Brahms (Prima e Seconda, terminate fra il ’76 e il ’77; Terza e Quarta, fra l’83 e l’85), sembrano appartenere a una fase di riposo (relativo) e di riflessione, fra l’una e l’altra grande esercitazione formale. Sono anzitutto il Concerto per violino e il Secondo per pianoforte; poi musiche da camera: la Sonata in sol maggiore, op. 78, per violino e pianoforte, il Trio in do maggiore op. 87, il primo Quintetto per archi, Top. 88; e poi lavori sinfonico-corali, come la Nenia e il Canto delle Parche, oltre alla mai interrotta produzione liederistica.
Giusto in mezzo a questo periodo, due pagine sinfoniche, almeno formalmente gemelle, le Ouvertures Accademica, op. 80, e Tragica, op. 81. Gemelle, ma antitetiche: «Questa piange, l’altra ride», disse Brahms della Tragica e dell’Accademica (che più correttamente, volendo tradurre alla lettera l’originale tedesco, suonerebbe in italiano «Ouverture festiva accademica», o «Ouverture per una festa accademica»). Diverse, del resto, erano state anche le circostanze della nascita. L’Ouverture Accademica aveva un’origine in certo senso occasionale, la laurea honoris causa in filosofia conferita a Brahms nel 1879 dall’università di Breslavia; presso la cui sede, nel gennaio dell’81, Brahms si recò a dirigere la sua Ouverture, offrendola a titolo di ringraziamento per l’onore tributatogli. La Tragica, viceversa, nacque più o meno contemporaneamente (nell’estate del 1880), riprendendo abbozzi risalenti a parecchi anni addietro da un impulso spontaneo del compositore. Cui forse non fu estraneo il fatto che in quel torno di tempo stesse prendendo forma l’Ouverture accademica: giacché fu costante abitudine di Brahms, com’è noto, il tornare a breve distanza di tempo su una medesima forma, creando le famose «coppie» di opere analoghe.

Johannes Brahms

A volte si trattò dell’esigenza, forse inconsapevole, di ripetere con maggior compiutezza un’esperienza compositiva che gli era costata particolare riflessione e sforzo, come fu nel caso delle quattro Sinfonie, composte appunto a due a due. Altra volta fu la necessità di costituire un contrappeso ideale a una
composizione troppo marcatamente sbilanciata in un senso; e fu il caso dell’ Accademica e della Tragica, dove non si trattava solamente di stabilire un equilibrio fra intonazioni espressive (letizia-dolore, come nella definizione di Brahms stesso), ma anche di «riscattare» un pezzo tutto sommato disimpegnato e divertito con un’opera più profondamente sentita e costruita.
Questa, a conti fatti, la considerazione da dare della Tragica, che resta la sola vera Ouverture composta da Brahms, se per tale si intende una composizione sinfonica in un sol tempo, dettata da intenzioni formali ed espressive non dissimili da quelle di una Sinfonia vera. In realtà, neanche la Tragica sembra partecipare a pieno titolo a quelle che furono le caratteristiche dell’Ouverture ottocentesca, divenuta, dopo il suo svincolo da una funzione appunto di «introduzione» (a un’opera o a uno spettacolo con musiche di scena) e il suo divenire genere autonomo, un po’ una sorta di poema sinfonico, sia pure senza precise indicazioni descrittive.
A differenza delle Ouvertures di Mendelssohn o di un Berlioz, quest’opera non trova altra ispirazione (anche se pare che Brahms in un primo momento l’avesse pensata come introduzione ideale al Faust di Goethe) che in se stessa, nella propria struttura musicale e nelle proprie proposte poetiche. Che appaiono, l’una e le altre, quanto mai concise e intense, concorrendo a disegnare il profilo di una delle più significative e compatte costruzioni sinfoniche di Brahms. Articolata sulle linee di un primo tempo di Sonata, la Tragica elabora con stringata conseguenzialità un materiale tematico di eccezionale pregnanza e eloquenza, altamente rappresentativo dei dati più fatalistici e cupi dell’invenzione melodica e armonica di Brahms. Predominante, anche se non esclusivo, l’accento drammatico; che attraverso le vicende della forma non pare tendere a una risoluzione in positivo ma anzi si manifesta con rinnovata evidenza nelle sonorità corrusche della chiusa, che si distacca rapida dai ristagni in cui la musica, immediatamente prima, è parsa arenarsi.

Variazioni in si bemolle maggiore per orchestra, op. 56a

All’interno della produzione sinfonica di Johannes Brahms, le Variazioni su un tema di Haydn op. 56a, composte nell’estate 1873, rivestono un ruolo chiave, quello di una sorta di “prova generale” rispetto al grande cimento della Prima Sinfonia, eseguita nel 1876. L’ambizione di Brahms verso il mezzo orchestrale e il genere della sinfonia datava in effetti fin dagli anni giovanili; lo stesso Robert Schumann, nel celebre articolo “Neue Wege” (“Nuove strade”, pubblicato nel 1853 sulla “Neue Zeitschrift für Musik”), con il quale impose all’attenzione del mondo musicale il ventenne Brahms, aveva chiaramente individuato la prepotente propensione del giovane verso la scrittura sinfonica. Nella sua prosa fiorita Schumann attribuiva a Brahms «un modo di suonare

quanto mai geniale, che fa del pianoforte un’orchestra dalle voci ora lamentose ora esultanti di gioia. Erano Sonate o piuttosto delle Sinfonie velate…».
Ciò nonostante, l’approccio alla scrittura sinfonica doveva essere, per Brahms, estremamente sofferto, sia per il timore di confrontarsi, nel caso della sinfonia, con un genere ormai storicizzato, al quale gli autori romantici si erano avvicinati sempre con prudenza e circospezione; sia per la vera e propria difficoltà tecnica di definire una scrittura orchestrale sicura e personale. Basterà ricordare, a questo proposito, che lavori per orchestra come la Serenata op. 11, il Concerto per pianoforte op. 15, il Deutsches Requiem, assunsero la loro veste e forma definitiva dopo essere stati concepiti almeno in parte come partiture puramente sinfoniche.
È significativo che i timori e le esitazioni verso il genere sinfonico venissero finalmente superati in breve tempo dopo le Variazioni su un tema di Haydn, partitura che è caratterizzata fin dal titolo da due elementi che si imporranno come centrali nel sinfonismo di Brahms: l’attitudine storicistica e la tecnica della variazione.
Brahms fu tra i primi musicisti a considerare la musica del passato come oggetto di studio; non solo la musica del classicismo, ma anche la musica corale rinascimentale e barocca, accessibile allora attraverso manoscritti, o attraverso le prime edizioni “storiche”. L’approccio del compositore non si limitò a Bach e Händel, ma si rivolse anche a Palestrina, Orlando di Lasso, Heinrich Schütz, autori la cui scrittura polifonica si ritrova a tratti nell’opera corale brahmsiana. Il “ritorno al passato” è dunque per Brahms tutt’altro che una semplice conservazione, il ritorno a stilemi compositivi desueti di una precisa epoca storica. È piuttosto un atteggiamento onnicomprensivo di ricerca verso la storia musicale e le sue tecniche compositive, studiate e assimilate con l’obiettivo di verificarne poi la possibilità di impiego in un contesto del tutto dissimile, aperto a una loro “rigenerazione”. Non stupisce dunque che proprio a Brahms il musicologo Carl Ferdinand Pohl – bibliotecario della “Gesellschaft der Musikfreunde”, la Società degli amici della musica di Vienna, della quale il compositore fu direttore artistico dal settembre 1872 – mostrasse, nel 1870, il manoscritto, datato 1784, di sei Feldparthien per complesso di fiati (due oboi, due corni, tre fagotti, un serpentone), indicandogli come autore Franz Joseph Haydn; e che Brahms annotasse sul suo quaderno di appunti il tema del secondo tempo della prima composizione, il Divertimento in si bemolle maggiore.

Heinrich Schütz

All’interno della composizione – destinata probabilmente alla banda militare degli Esterhàzy, i nobili ungheresi presso i quali Haydn prestava servizio, e la cui attribuzione a Haydn, tuttavia, è stata in seguito scartata, in favore di quella
a Ignace Pleyel, che di Haydn fu allievo – quel tema era verosimilmente, a sua volta, la citazione da un antico canto processionale austriaco, il cosiddetto “Chorale in honorem St. Antonii”.
Proprio il carattere “antico” e popolare di questo tema doveva risultare ideale per Brahms, nel momento in cui si determinò a cercare la strada delle variazioni orchestrali. La scelta del tema con variazioni per una composizione orchestrale – del tutto desueta, se si pensa che l’ultimo autore ad adottarla era stato Antonio Salieri nel 1806 – era del tutto mirata e fortemente significativa per Brahms, che già in campo pianistico e cameristico aveva dato vita a importanti raccolte di variazioni; consentiva infatti al compositore di assumere una “regola” a partire dalla quale sperimentare trasformazioni melodiche e impasti orchestrali (e cautamente l’autore si cimentò prima in una stesura per due pianoforti op. 56b, che aveva la funzione di porre le basi del lavoro di strumentazione); un passaggio essenziale per raggiungere la desiderata sicurezza nella scrittura sinfonica, se si considera che il principio della “variazione-sviluppo” – cioè della continua trasformazione di incisi tematici – è peculiare del linguaggio di Brahms, sia cameristico che orchestrale.
Come lo stesso autore ebbe a scrivere, per comporre delle variazioni «è indispensabile scegliere un tema il cui basso abbia un solido peso: per me il basso è più importante della stessa melodia. È infatti la sua vera guida, e anche il controllo della fantasia». Ecco dunque che le Variazioni op. 56a seguono la strada di mantenere immutato il basso del tema, in quanto a configurazione melodica e articolazione periodica, e di costruirvi sopra otto episodi fra loro diversissimi, seguiti da un finale più libero. Il richiamo al passato, il peso della storia, non si avverte tanto nella scelta del tema di Haydn, quanto nell’ascendenza barocca di certe scelte di strumentazione e nel peso della polifonia, che innerva fittamente tutta la partitura.
Dopo il tema, il cui carattere di corale è accentuato dalla strumentazione per fiati, con gli archi pizzicati, la prima variazione si basa sui rintocchi scanditi dei fiati, su cui gli archi costruiscono un fluido melodizzare; la seconda, in minore, su uno slancio schumanniano che reca però, nella contrapposizione fra archi e fiati e fra livelli dinamici, anche un’impronta barocca. La terza ha il carattere di corale figurato, e vede poi in primo piano i dialoghi fra gli strumenti a fiato. Evidentissima è la polifonia barocca nella quarta, in minore, innervata da un crepuscolare lirismo; mentre la quinta, leggerissima e trapuntata, ha il carattere dello scherzo mendeissohniano. La sesta è una sorta di marcia, esposta dai corni, ripresa responsorialmente dai legni, e potenziata nella seconda parte dagli slanci eroici degli archi. La settima è una parentesi contemplativa, basata sul cullante ritmo di siciliana, dove gli stilemi pastorali vengono impreziositi da

armonie iridescenti; l’ottava invece si dipana come un misterioso moto perpetuo, con un progressivo sovrapporsi di linee fittamente intrecciate.
Così come le Variazioni su un tema di Händel per pianoforte si concludevano con la forma barocca della fuga, così le Variazioni su un tema di Haydn – anticipando una scelta che apparterrà poi alla Quarta Sinfonia – si chiudono con un’altra forma barocca, quella della passacaglia, consistente in un breve basso che si ripete sempre uguale, e sul quale vengono costruite variazioni sempre rinnovate; abbiamo dunque in questo nono e ultimo episodio il principio della variazione al quadrato che, nella varietà delle soluzioni espressive che trapassano coloristicamente dall’una all’altra, compendia e riassume tutti i principi costruttivi della raccolta. Nello studiatissimo climax espressivo di questa conclusione si fa luce progressivamente il tema del “Chorale in honorem St. Antonii”, che corona tutta la costruzione sinfonica con una affermazione grandiosa e vitalistica.

Serenata n. 2 in la maggiore per piccola orchestra, op. 16

La Serenata in la maggiore op. 16 venne composta da Johannes Brahms nel 1858 durante il soggiorno nel principato di Lippe-Detmold, dove il musicista amburghese ricopriva incarichi di direttore d’orchestra, pianista e insegnante della principessa. Fu un soggiorno sereno e proficuo, che permise a Brahms di prendere coscienza delle proprie capacità compositive, come testimoniano le lettere a Clara Schumann («Che bello creare con vigore rinnovato! Ora trovo molto gusto nelle mie cose. Credo veramente, cara Clara, di crescere») e, all’amico violinista Joachim («Ero di ottimo umore a Detmold. Di rado ho composto con tanto diletto»).
L’organico della Serenata op. 16 («la sorella più giovane e più tenera» dell’op. 11, secondo la felice definizione del critico viennese Eduard Hanslick), accanto a flauti, oboi, clarinetti,fagotti e corni, prevede gli archi senza i violini, a testimonianza della predilezione di Brahms per il registro centrale, per i toni più morbidi e scuri, per le sonorità più intimistiche. Questa scelta verrà poi ripetuta nella, prima parte del Requiem tedesco op. 45 del 1868 (anche qui mancano i violini) e nei due Quintetti per archi op. 88 (1882) e op. 111 (1891), col raddoppio della viola.
L’Allegro moderato iniziale è in forma-sonata, con un primo tema morbido e seducente, che subito sfocia in una sinuosa melodia discendente a terzine; il discorso musicale si anima improvvisamente e questo semplice spunto viene subito sottoposto a un intenso lavorio da parte di tutti gli strumenti dell’orchestra. Il secondo tema, esposto dai clarinetti in terze parallele ha un sapore dolcemente popolare, quasi di ländler viennese, e conclude in pianissimo la prima parte del movimento. Lo sviluppo si apre con la ripetizione del primo tema, ricordo degli Sviluppi di Haydn e richiamo esplicito alla «classicità» della Serenata, per proseguire con una lunga elaborazione motivica, basata sulla melodia discendente a terzine, che viene scomposta da Brahms in un mirabile gioco contrappuntistico. Un lungo pedale di tonica (ancora una tecnica compositiva «classica») porta alla Ripresa, che si snoda parallela all’Esposizione differendone solo nella diversa strumentazione dei temi. L’ampia Coda finale si nutre ancora di elementi motivici tratti dalla melodia discendente a terzine, ma conclude il movimento riprendendo il carattere tenero e popolare del secondo tema.

Johannes Brahms

Lo Scherzo successivo è una sferzata ritmica alle orecchie dell’ascoltatore: il robusto tema principale affidato esclusivamente ai fiati, è costruito sull’ambiguità del metro ritmico, che è ternario in partitura, ma sul quale Brahms sovrappone un’insistita e martellante struttura binaria. Interessante dal punto di vista del colore armonico è poi la ripetizione di questo tema nella lontana tonalità di mi maggiore seguita immediatamente dal brusco rientro nel tono d’impianto. Il Trio centrale è più lirico: clarinetti e fagotti in seste parallele propongono un motivo dolce e delicato, poco turbato dall’insistenza ritmica degli archi, che ripropongono il ritmo scatenato dello Scherzo.
Nell’Adagio non troppo molti critici e commentatori dell’opera di Brahms hanno voluto vedere un omaggio bachiano: il tema principale in 12/8 ricorda effettivamente molto da vicino il tema della grande Passacaglia in do minore per organo di Bach. La ricorrenza di questo tema domina interamente questa straordinaria pagina orchestrale, mirabile per la sapiente strumentazione, per la cupa sonorità, per quell’aura mistica che la pervade da cima a fondo. La potenza d’ispirazione del tema di passacaglia non deve però far passare in secondo piano la presenza di un limpido secondo tema, esposto dai legni in stile quasi corale, e di alcuni momenti di vera e propria magia sonora (su tutti il solare intervento del corno, sopra il tremolo della viola) che valsero, a questo Adagio la sincera ammirazione di Clara Schumann.
Il Quasi menuetto, con la sua discrezione, il suo passo felpato, la sua elegante noncuranza, sembra non voler contrastare troppo l’intensa religiosità dell’Adagio precedente; strutturato nella canonica forma Minuetto-Trio- Menuetto, evidenzia un’orchestrazione e un’ispirazione melodica che diremmo schubertiane (e proprio a Schubert si richiama il tema del Trio, affidato alla voce dolce e malinconica dell’oboe).
Conclude la Serenata un Rondò dal sapore quasi rustico, nel quale spicca il carattere festoso e popolare del primo tema affidato dapprima ai clarinetti ma ripreso, elaborato e ripetuto poi con gioia da tutti gli strumenti dell’orchestra. Un breve ripiegamento interiore si ha col secondo tema, esposto da clarinetti e fagotti, ma l’apparire del terzo tema riporta all’atmosfera di danza paesana dell’inizio. Lo Sviluppo riprende sostanzialmente i materiali tematici dell’Esposizione, con la, sola, aggiunta di un nuovo motivo di straordinaria), dolcezza, ancora affidato ai clarinetti sopra i cullanti arpeggi di flauto, viola e fagotto. Nel turbinio ritmico e sonoro della Ripresa si staglia tagliente la voce dell’ottavino, protagonista anche della Coda, costruita sopra il tema principale e tutta giocata sulle vivaci scalette in progressione dal grave all’acuto dei legni (clarinetto, fagotto, corno, oboe, flauto, ottavino).

Concerto in re maggiore per violino e orchestra, op. 77

Il Concerto in re maggiore op. 77 per violino fu composto da Brahms nell’estate del 1878 a Pörtschach, un ridente villaggio della Carinzia caro ai soggiorni estivi del compositore e nido altrettanto propizio alla nascita della Seconda Sinfonia e della Sonata per violino op. 78: opere tutte, come il Concerto op. 77, percorse in misura prevalente da una esuberanza di melodie e da una radiosa amabilità di tono, tipica in realtà della fase immediatamente successiva all’impegno drammatico e formale della Prima Sinfonia del 1876.
Poche righe a Joseph Joachim del 21 agosto 78 rivelano in Brahms il desiderio di cointeressare l’illustre violinista alla prima nascita del Concerto: «Caro amico, … vorrei mandarti un certo numero di passaggi per violino … mi domando se non sei tanto sprofondato in Mozart e forse in Joachim stesso, da poter disporre di un’oretta per guardarli»; e il giorno dopo, inviando la parte copiata in bella: «mi basta che tu dica una parola o ne scriva qualcuna sopra la parte: difficile, scomodo, impossibile e così via». Tanta cautela, avanzata poi in altre lettere ancora alla vigilia della prima esecuzione pubblica (il 1° gennaio 1879 a Lipsia, solista naturalmente Joachim stesso), forse non cercava solo il parere del grande tecnico, ma una solidarietà profonda da autore a interprete. In una lettera del lontano 1855, dopo un concerto di Joachim ad Amburgo, Brahms gli aveva scritto di considerare il Concerto per violino di Beethoven come «di Joachim», tanto straordinaria e immedesimata ne era stata l’interpretazione: Joachim, il compagno fraterno della giovinezza schumanniana non doveva essere solo un consigliere di passi difficili, ma un tramite con quella che agli occhi di Brahms era la più sacra delle tradizioni.
Nel primitivo disegno l’opera doveva essere in quattro movimenti; poi, uno “scherzo” in seconda posizione si distaccherà dal progetto e troverà posto nel Secondo Concerto per pianoforte, lasciando quindi il Concerto per violino austeramente fissato nella più classica delle strutture, allegro – adagio – allegro: e classica – e nell’Adagio quasi neo-classica – è la luce che illumina tutto il Concerto, senza le impennate drammatiche dei concerti pianistici, o le ombre solipsistiche del Doppio Concerto op. 102.
Nel primo movimento l’intimismo si convalida a contatto con quella solennità di respiro sinfonico che il Concerto per violino romantico, di Mendelssohn (1844), di Schumann (1850) e poi di Max Bruch (1868) aveva ormai messo da parte: simbolo di questo clima è il grande tema d’apertura, tanto monumentale nell’alta marea orchestrale, quanto trepidante di confessioni interiori nell’esposizione solistica. La strumentazione per fiati soli che apre l’Adagio guarda a Mozart con una lacrima di nostalgia, mentre il canto del violino si spinge addirittura alla semplicità d’impianto di un Vivaldi (interessi storici per il violinismo rivela anche, nell’anno 1879, l’elaborazione pianistica per la sola mano sinistra della Ciaccona di Bach); al cuore di questo idillio, la parte centrale vede lo strumento solista impegnato in uno stile parlante, dove gruppi ritmici minuziosamente annotati, respiri e pause, condensazioni e distensioni, sembrano voler registrare nella scrittura il “rubato”: in altre parole, scrivere la libertà, secondo la grande lezione di Chopin.

Gidon Kremer

Un vigore rusticano assalta tutto il finale, nel solco di quei modi “ungheresi” cari, da Haydn in poi, a tutta la classicità viennese: civiltà che trova nel Concerto per violino di Brahms una delle sue ultime e più commoventi reviviscenze.

Doppio concerto in la minore per violino, violoncello e orchestra, op. 102

«La mia folle, ultima composizione»: così Brahms a proposito del suo Concerto per violino e violoncello, composto nell’estate del 1887, quando dunque lui aveva compiuto da poco cinquantaquattro anni. Un’età non poi veneranda o tale da far pensare a un ritiro; e infatti non fu certo quella l’ultima composizione di Brahms, che continuò a sfornare capolavori per quasi dieci anni ancora. Eppure dicendo quelle parole, così tipiche di un uomo come lui, malato di un pessimismo e di una sfiducia in se stesso e negli altri che avevano qualcosa di maniacale, Brahms era forse sincero, e in certo senso era anche nel vero. Intanto perché quasi tutte le musiche composte da Bramhs dopo la cinquantina – la sua vecchiaia, spiritualmente parlando, fu precoce – ebbero, almeno esteriormente, i
caratteri dell’opera ultima: la Quarta sinfonia, tanto per citare l’esempio più clamoroso; ma anche tante delle composizioni da camera.
E l’intenzione di ritirarsi fu più volte manifestata, del resto: come nel caso del Quintetto per Archi op. 111, composto nel 1890, che Brahms presentò agli amici come un addio alla musica; salvo poi fare, per nostra fortuna, diversamente.
E poi, «ultimo», il Concerto in la minore in qualche misura lo è: con esso si conclude la serie delle composizioni per strumenti solisti e orchestra dì Brahms, apertasi nel 1854-58 con il Primo concerto per pianoforte e proseguita nel ’78 con il Concerto per violino e nell’81 con un Secondo per pianoforte; non solo, ma dopo di esso mai più Brahms si sarebbe accostato all’orchestra, campo per lui sempre più faticoso da coltivare, più che ogni altro, eppure seminato con costanza e determinazione eroiche, dalle giovanili Serenate alle Variazioni su tema di Haydn, al quadruplice sforzo delle Sinfonie, alla coppia delle gemelle Ouvertures Accademica e Tragica, ai Concerti appunto, e alle favolose partiture sinfonico-corali.
L’esperienza sinfonica, del resto, si era quasi sempre legata nelle intenzioni di Brahms alla ricerca formale, secondo una gerarchia di generi che privilegiava sopra ogni altro (magari capovolgendo quella che poteva essere la naturale disposizione creativa di un musicista come lui) la Sinfonia. E dopo un capolavoro – questo sì davvero conclusivo, e di un’esperienza personale e di un capitolo della storia – come la Quarta sinfonia, terminata nell’85, era certo difficile per Brahms, per un Brahms, ripetiamolo, continuamente portato a credersi prossimo alla morte o comunque all’esaurimento delle proprie forze creative, immaginare di poter andare oltre.
È quindi non privo di significato il fatto che la nascita di un’opera non «folle», certamente, ma altrettanto certamente insolita come il Concerto «doppio» in la minore sia legata al fallimento – o alla rinuncia – di un tentativo del genere. Infatti in quell’estate del 1887, seconda delle tre consecutive che Brahms trascorse in serenità sul lago di Thun, in Svizzera, beandosi della quiete e delle bellezze della natura, il Concerto in la minore prese forma da un materiale abbozzato proprio pensando a una quinta Sinfonia.

Joseph Joachim

Fu certo la consapevolezza di un’oggettiva, vìen fatto di dire storica, improponibilità di un disegno simile a far cambiare idea a Bramhs, che tutto era fuorché un musicista che lavorasse con la mano sinistra, e mai, specialmente quando ci fosse di mezzo una Sinfonia, avrebbe consentito a se stesso di operare senza convinzione; come dimostra il fatto che almeno un’altra volta Brahms aveva cominciato a scrivere una Sinfonia per poi tirarne fuori qualcosa di affatto diverso, quando, a poco più di vent’anni, aveva dirottato verso un progetto sinfonico il materiale già steso per una Sonata per due pianoforti, per
vedersi presto costretto a rinunciare, utilizzando il già fatto per quello che sarebbe diventato il suo Primo concerto per pianoforte, e, più tardi, per una parte del Deutsches Requiem. Ora, dopo oltre trent’anni, il cerchio si concludeva con un’altra rinuncia: quasi che a incorniciare cronologicamente le quattro Sinfonie effettivamente scritte, nella storia di Brahms compositore dovessero per forza esserci, prima e dopo, due Sinfonie mancate. E quella «Prima» e quest’«Ultima» mai realizzate, ecco un’altra coincidenza, si trasformarono in composizioni di genere sempre sinfonico, ma tuttavia, avendo mente alle gerarchie fra i generi, minore: due Concerti con strumenti solisti, il primo e l’ultimo – vogliamo credere qualcosa di fatale anche qui? – il primo e l’ultimo Concerto di Brahms.
Almeno esternamente, sulla fisionomia del Concerto, senz’altro all’epoca inconsueta, di lavoro sinfonico per due solisti, contribuì a quanto pare anche una preoccupazione di carattere personale da parte di Brahms, desideroso di rinsaldare i rapporti con Joseph Joachim, il violinista principe che fin dalla giovinezza era il suo amico più intimo e il consigliere più ascoltato, a pari merito con Clara Schumann. Le cose, fra Joachim e Brahms, si erano guastate anni prima, in occasione della causa di divorzio fra il violinista e la moglie, assai più giovane di lui; nel corso della quale, con gran sorpresa e disappunto di Joachim, Brahms aveva preso le parti di lei. Al riavvicinamento che si era avuto in occasione della Terza sinfonia, di cui Brahms aveva spedito in visione la partitura all’amico, come era stato solito fare per anni, adesso seguiva addirittura la dedica di una nuova opera: pensata, per la parte del violino solista, proprio per Joachim, e da lui stesso interpretata, insieme con il violoncellista Robert Haussmann, membro del celebre quartetto d’archi capitanato dallo stesso Joachim, e sotto la direzione di Brahms, in una prima esecuzione privata a Baden-Baden. La cosa non impedì comunque a Joachim di esprimere forti perplessità sul valore del Concerto, condivise da Clara Schumann e perfino da Eduard Hanslick, il critico della «Neue freie Presse» di Vienna, antiwagneriano sfegatato e da sempre capofila degli zelatori di Brahms. Perplessità che tuttora trovano corso abbastanza ampio, ponendo secondo molti il Concerto in la minore un po’ al di sotto delle cose più importanti di Brahms; ma senza riuscire a cacciarlo, come qualcuno vorrebbe, addirittura fra le opere minori.
La cosa che riesce più difficile da mandar giù, probabilmente, è l’assetto del lavoro dal punto di vista della dimensione concertante. È ovvio che Brahms, quali che siano state le sue intenzioni allorché si era deciso a ripiegare dal progetto sinfonico su quello di un Concerto con due strumenti solisti, non poteva pensare seriamente di riallacciarsi, se non in modo vago, al Concerto grosso barocco, con il suo «concertino» di due o più strumenti, né a esempi come la Sinfonia concertante per violino e viola di Mozart: la forma del Concerto, e lo aveva dimostrato già tre volte, poteva essere intesa da lui soltanto nel senso di una vigorosa composizione sinfonica.

Mischa Maisky

Nella quale poteva trovare benissimo posto uno strumento solista, magari con ampie occasioni di virtuosismo e di effusione lirica, in prima persona, a rompere il prioritario impegno formale che una Sinfonia propriamente detta avrebbe imposto; ma certo senza che il ruolo di questo (nemmeno nel caso del Concerto per violino, che è forse fra tutti il più «compromesso» in tale direzione) prevaricasse mai sull’orchestra, sulla densa, maestosa e drammatica orchestra brahmsiana, con evidenza schiacciante veicolo principale della sostanza compositiva dell’opera. Nel disegnare il ruolo non più di uno, ma di due strumenti solisti, Brahms non seppe o non volle scostarsi da queste linee, ragion per cui venne a mancare al Concerto doppio proprio quel fasto di

dialoghi all’interno del «concertino» e fra questo e l’orchestra, che sarebbe dovuto derivare da un libero e ricco, magari disimpegnato ed edonistico, dispiegarsi di una pura fantasia strumentale. Il lavoro risultò caratterizzato dalla granitica monoliticità di tutte le grandi composizioni di Brahms; con in più, qua e là, un certo senso di fatica, una seriosità tale da compromettere alquanto le possibilità spettacolari che alla vitalità di un Concerto solistico si ritengono perlopiù necessarie.
In barba a queste considerazioni, peraltro, il Concerto in la minore si presenta come opera di straordinaria portata espressiva, tale da concedere ai solisti, sia pure con le restrizioni che si sono accennate, ampia occasione di farsi valere dal punto di vista interpretativo, oltre che da quello strumentale. L’eccezionale ricchezza di idee del primo tempo – ci si possono riconoscere fino a otto temi, fra principali e secondari, secondo l’impianto consueto ai tempi di Sonata brahmsiani – dà vita a un pezzo estremamente articolato, spesso segnato da una grandiosa drammaticità, quale annuncia il gesto imperioso e fatalistico delle poche battute orchestrali in apertura, poi alternato a episodi più intimisti e lirici. Nell’Andante centrale, invece, ci troviamo davanti alla vena più intensa e poetica di Brahms: un canto gonfio di commozione, velato di nostalgia, proiettato in quella dimensione fantastica nordica e ombrosa, sognante eppur venata di turbamento, che è propria a tante pagine del Brahms più tardo. Nell’ultimo tempo ricompare la concitazione ritmica che imprime un carattere quasi popolaresco di tanti finali brahmsiani: un’esplosione di vitalità incontenibile, tanto in orchestra che nelle parti dei solisti, quasi a siglare una conclusione in positivo dei contrasti del primo movimento.