Stravinsky Igor

The Great Ballets

Bennard Haitink si immerge perfettamente nello spirito Sravinskiano, donandoci una lettura di queste quattro partiture, brillante ed emozionante. Audio più che buono Registrazioni eseguite dal 1964 al 1974 e rimasterizzazione effettuata nel 1993. Ultraraccomandato.

Una feconda collaborazione
Stravinskij: quattro balletti per Djagilev

Nel 1910, mentre perseguiva con incrollabile determinazione l’obiettivo di conquistare Parigi alla testa dei suoi Ballets russes, il complesso da lui appena fondato, Sergej Pavlovic Diaghilev ottenne di passaggio il considerevole risultato di svelare al mondo il talento dell’esordiente Stravinskij. Tutto avvenne come in un film hollywoodiano del genere È nata una stella, con il compositore (Anatolij Ljadov) già affermato, ma un po’ pigro, demotivato e magari dedito al vizio, che tergiversa e non si decide ad onorare la commissione affidatagli: si

trattava di musicare un soggetto derivato da una leggenda russa che solo otto anni prima, col titolo Kascej bessmertnyi (Kascej l’immortale), era stato tradotto in opera da Rimskij-Korsakov, il maestro dello stesso Diaghilev.
Qualcuno (il coreografo Fokin o lo scenografo Benois) butta là come per caso l’idea di mettere alla prova un giovane compositore russo di belle speranze, che in patria era stato anch’egli allievo di Rimskij, e in pochi giorni la partitura è pronta – scritta a matita, per eccesso di prudenza, ma nessuno trova che ci sia qualcosa da cambiare; anzi le stelle dell’avanguardia parigina (Ravel, Debussy, l’immigrato di lusso Manuel De Falla) gridano subito al miracolo: quel giovanotto non ancora trentenne, per il quale il padre cantante d’opera aveva invano progettato una carriera d’avvocato, è consacrato sul campo apostolo di un nuovo verbo musicale. Il balletto L’oiseau de feu andò in scena all’Opera in 25 giugno, nell’acclamatissima interpretazione di Tamara Karsavina, che le foto d’epoca ci mostrano per nulla femme fatale – al contrario deliziosamente rotondetta, in un succinto costume ricco di doverosi piumaggi che fa di lei un incrocio fra le bathing beauties cinematografiche di Mach Sennett, nasciture di lì a sette anni, ed una improbabile forosetta nello stile Vecchia Russia, morituro invece ad identica settennale scadenza.
Elemento non meno determinante di tanto immediato successo fu certo l’innesto sul tronco tradizionale del colorismo russo venato di suggestioni orientaleggianti (eredità della scuola nazionale di Rimskij, Borodin, Balakirev) di elementi nuovi e personali, come la selvaggia violenza ritmica, l’uso di scale differenti – ora cromatiche e ora diatoniche – nonché di aspre dissonanze e di impasti timbrici cangianti in funzione di una espressività tutta drammatica. Questo provvisorio equilibrio stilistico si spezzerà assai presto con Le sacre du printemps, e allora saranno lo scandalo e gli scongiuri contro la barbarie incipiente.

Nella trama de L’oiseau de feu non c’è nulla che possa risultare inconsueto ai ettori di Propp o di Ariosto: lo stregone Kascej, un tenebroso vilain che pietrifica con le sue arti i poveri viandanti, ha rapito una bella principessa; lui però si guarda bene dal trasformarla in statua, anzi la tiene prigioniera per chissà quali suoi turpi disegni. Il principe Ivan, una sorta di Tamino delle steppe, vorrebbe naturalmente liberarla, ma non potendo affrontare da solo il fattucchiero cattura il magico uccello di fuoco; cosicché questi, pur di riottenere la libertà, gli cede una delle proprie penne fatate. Armato del potente talismano il principe mette in fuga Kascej e i suoi aiutanti infernali: seguono inevitabili nozze.
La collaborazione così felicemente iniziata continuò immediatamente con

Petruska, un tumultuoso affresco orchestrale nel quale tuttavia il pianoforte riveste un ruolo centrale (prima esecuzione: 13 giugno 1911). L’idea generatrice del lavoro era germogliata nel corso di una villeggiatura sul lago di Ginevra, durante l’agosto del 1910, e fu all’inizio un’idea puramente musicale. Per servirci delle stesse parole di Stravinskij: “… L’ostinata immagine di un burattino che all’improvviso prende vita e col diabolico arpeggio dei suoi saltelli mette a dura prova la pazienza dell’orchestra, la quale lo minaccia con le sue fanfare”. Solo in un secondo tempo questo personaggio si identificò quasi naturalmente con Petruska, lo svagato e infelice eroe dei teatrini ambulanti, qui impegnato a contendere ad un tracotante Moro l’amore di una graziosa ballerina nella rappresentazione all’aperto che un anziano giocoliere improvvisa in occasione della fiera di carnevale. Ucciso dal rivale, Petruska risuscita in ultimo col suo sberleffo irriverente – metafora intenzionale e trasparente dell’immortalità dell’animo popolare russo – (un misto di realistica ironia e di generosità, di sentimentalismo e insubordinazione).

Secondo il racconto autobiografico di Stravinskij, Petruska doveva rappresentare quasi un’esercitazione propedeutica nel campo della scrittura orchestrale, in vista di un grande progetto che egli andava accarezzando fin dal momento in cui, ancora a Pietroburgo, stava componendo L’oiseau de feu: “La visione di una grande festa pagana: dei vecchi saggi siedono in circolo, contemplando la danza di morte di una fanciulla che deve essere offerta in sacrificio per propiziare il dio della primavera”. Grazie alle conversazioni con il pittore Nikolaus Roerich, cultore di antichità slave, l’intuizione visionaria si andò organizzando in una serie di “quadri della Russia pagana”, che la compagnia di Diaghilev mise in scena per la prima volta il 28 maggio del 1913 al Théatre des Champs-Élysée. Ciò che il pubblico e la critica dell’epoca (incluso lo stesso coreografo Nizinskij) faticarono ad accettare in questa partitura – e che ancora nel 1949 mandava in bestia i “vecchi saggi” come Adorno – era il suo sfrenato vitalismo, davvero barbarico nell’autoaffermazione di un ritmo percussivo da incubo e nel programmatico disordine dei suoi timbri opulenti; ciò che non le ha impedito col trascorrere del tempo di venire accettata nel canone dei grandi classici del Novecento.
Ma anche per Stravinskij la stagione dell’avanguardia non doveva durare in eterno. Nel 1928, in epoca di grandi restaurazioni politiche e culturali, la sua collaborazione con Diaghilev si concludeva col balletto per soli archi Apollon Musagète. Pare quasi fin troppo ovvio parlare di neoclassicismo per questa rarefatta e lucida parafrasi del ballet de cour francese del Grande Secolo, con i suoi ritmi puntati “alla Lully” e il diatonismo spinto dei suoi intrecci contrappuntistici. Dopo la prima diretta da Klemperer alla Staatsoper di Berlino, Stravinskij dovette ripartire d’urgenza per Parigi nel cuore dell’estate senza assistere alle rappresentazioni curate da Diaghilev. Questi si spense appena un anno dopo a Venezia, e con lui ebbe termine anche la straordinaria ventennale attività dei “Ballets Russes”, fucina di capolavori in più d’una forma d’arte.

Carlo Vitali
1993. Philips Classics Productions

L’oiseau de feu: Balletto fantastico in due quadri

La genesi dell’Uccello di fuoco venne narrata con le seguenti parole da Stravinskij nelle proprie memorie: «Già avevo cominciato a pensare all’argomento dell’Uccello di fuoco durante il mio viaggio di ritorno a San Pietroburgo da Ustilug nell’autunno del 1909, prima ancora d’aver ricevuto l’incarico ufficiale di Diaghilev: questi infatti mi telefonò in dicembre, chiedendomi di dar inizio subito alla composizione. Ed io gli risposi che già da un mese ne stavo scrivendo la musica. Di per sé, come soggetto, l’Uccello di fuoco non mi attirava granché. E questa ne era la ragione: al pari di tutte le vicende legate ad una destinazione ballettistica, v’era la necessità di un genere di musica descrittiva che allora non avevo intenzione di scrivere perché non ero tanto sicuro dei miei mezzi creativi e non mi ritenevo in grado di criticare apertamente le teorie estetiche dei miei collaboratori. Nondimeno, decisi di farmi valere, e con arroganza, pur avendo soltanto ventisette anni. In realtà tutta la sottile arte diplomatica di Diaghilev risolse ogni problema il giorno che venne a trovarmi insieme al coreografo Fokine, al ballerino Nijinskij, agli scenografi Bakst e Benois; e quando tutti assieme, tutti e cinque, proclamarono formalmente la loro fiducia nel mio talento, allora, solo allora credetti in me stesso e accettai. Ero lusingato, naturalmente, dalla promessa dell’esecuzione della mia musica a Parigi e quando vi giunsi, provenendo da Ustilug, verso la fine del successivo mese di maggio, ero davvero in condizioni assai eccitate di spirito. Gli entusiasmi però furono, di colpo, raggelati perché alle prove mi sembrava che dappertutto, sulla scena e pure nella musica, vi fosse impresso il marchio della scritta “prodotto russo d’esportazione”. D’estrema crudezza erano infatti le scene mimiche ma, vista la sicurezza di Fokine, non sollevai alcuna obiezione».
Continua Stravinskij: «La première fu scintillante e ne conservo un ricordo memorabile. Ero nel palco di Diaghilev e, alla fine del balletto, fui chiamato diverse volte alla ribalta. Stavo ancora inchinandomi agli applausi del pubblico quando mi cadde in testa il sipario: Diaghilev corse ad aiutarmi e accanto a lui notai un signore dalla bella fronte spaziosa che mi rivolse la parola, presentandosi. Il suo nome era Claude Debussy. Ebbe espressioni gentili per la mia musica e m’invitò a cenare con lui.

Sergej Diaghilev

L’uccello di fuoco è, dal punto di vista stilistico, legato a quell’epoca, e segnato da un particolare rigore che è più evidente che in altre musiche legate a motivi d’ascendenza folclorica, ma, ora, non vi ritrovo una particolare originalità. Riconosco che la composizione presentava tutte le condizioni utili a riscuotere successo: successo che fu immancabile e non solo a Parigi. Quando mi orientai a trame una Suite per l’esecuzione concertistica, l’Uccello di fuoco figurava sui cartelloni dell’intera Europa e, salvo che in Russia, non è mai uscito dal normale repertorio orchestrale. Ho da aggiungere, in proposito, ancora un ricordo: l’Uccello di fuoco ha svolto un ruolo fondamentale nella mia carriera di direttore d’orchestra, perché proprio a questa musica è legato il mio debutto come direttore: fu nel 1915, a Parigi, quando condussi l’esecuzione dell’intero balletto per una manifestazione a beneficio della Croce Rossa. Da allora sino al 1962, data di questo mio ricordo, l’ho diretto non meno di un migliaio di volte. Ma anche se l’avessi diretto diecimila volte, tale esperienza non sarebbe riuscita a cancellare dalla mia memoria il ricordo del terrore che soffersi quella prima sera del debutto nel lontano 1915».
Presentato all’Opera di Parigi il 25 giugno 1910 per la stagione dei Ballets Russes di Diaghilev, l’Uccello di fuoco ha significato la sintesi di tutte le esperienze compositive degli anni precedenti di Stravinskij, orientato ormai alla realizzazione di un nuovo stile russo, nel superamento dell’Impressionismo. Il linguaggio musicale di questa partitura, infatti, è ricco di smaglianti colori ed intriso delle seduzioni armoniche del retaggio di Rimskij-Korsakov e Skrjabin, nonché di qualche reminiscenza debussiana, pur se appare inequivocabilmente stravinskijano, specie nel terrificante dinamismo ritmico delle sue pagine più celebri.
Di per sé il balletto trasse l’ispirazione da una antica fiaba russa trasferita in sede coreografica da Bakst e da Fokine, formulatore quest’ultimo di una nuova teoria sul balletto che era antitetica alla ripetizione di passi già esistenti, nonché contraria alla funzione della musica come mero accompagnamento della danza.
La trama, di carattere magico, con tanto di apoteosi nuziale alla fine, simboleggia la vittoria delle forze del bene su quelle del male. Il principe Ivan cattura un uccello di fuoco ma gli ridona la libertà. Mentre Ivan si intrattiene con le tredici principesse prigioniere del mostro Katschej, questi giunge con il suo seguito e si appresta a trasformare ogni creatura in pietra con le sue arti magiche. Interviene però l’uccello che addormenta tutti gli astanti con un incantesimo al suono della dolce Berceuse, dando la possibilità ad Ivan di spezzare lo scrigno che contiene l’anima del mostro. Il regno dei malvagi viene distrutto ed Ivan è il nuovo re della terra liberata, accanto alla più bella delle principesse.
La partitura presenta due aspetti marcatamente differenti in riferimento ai mondi contrapposti dei due gruppi di personaggi, cioè al mondo sovrannaturale delle fiabe (che comprende Katschej, i suoi sudditi e l’uccello di fuoco) e al regno umano (di cui fan parte le tredici principesse prigioniere e il giovane Iva’n). Per la sfera dell’umano Stravinskij adotta un linguaggio essenzialmente diatonico che si ricollega all’influenza del Gruppo dei Cinque e in parte anche a Cajkovskij, mentre il mondo magico del sovrannaturale viene a fondarsi su procedimenti cromatici di carattere orientale, nello scoperto influsso di certi episodi del Gallo d’oro di Rimskij-Korsakov. In tutta la musica dell’Uccello di fuoco si notano smaglianti raffinatezze di scrittura e straordinarie invenzioni strumentali, oltre ad una vibrante incidenza del ritmo e a una scoperta asprezza di timbri puri. I temi sono brevi e sintetici, il tessuto musicale appare sovente squadrato a blocchi, nella netta contrapposizione dei diversi piani tonali.
In questa partitura, inoltre, Stravinskij ebbe a sviluppare ulteriormente le esperienze maturate in lavori precedenti, come lo Scherzo fantastico e i Fuochi d’artificio, in specie a proposito della struttura asimmetrica di certi accordi armonici e del peculiare impiego della politonalità. Attento essenzialmente ai contrasti tra gli effetti scenici, Stravinskij non si preoccupò minimamente che un medesimo linguaggio servisse sia per un elemento positivo come l’uccello di fuoco, sia per un elemento negativo come Katschej, pur se a quest’ultimo furono riservati gli intervalli più dissonanti.
Nella stesura originaria del balletto il compositore russo impiegò un vastissimo organico orchestrale, rimasto pressoché inalterato nella prima Suite sinfonica realizzata nel 1911 che faceva seguire all’Introduzione, le Suppliche dell’uccello di fuoco, il Gioco delle principesse con il pomo d’oro, la Ronda delle principesse, la Danza infernale dei sudditi di Katschej. Nel 1912 Stravinskij estrapolò la Berceuse che venne inserita nella seconda Suite concertistica, realizzata a Morges nel 1919 per un organico strumentale più limitato. Nel 1945, infine, venne curata da Stravinskij una terza Suite che, per ragioni ballettistiche, provvide a recuperare tra il primo e il secondo episodio della seconda Suite tre pantomime, un pas-de-deux e lo Scherzo-Danza delle principesse. In tale ultima veste l’Uccello di fuoco venne adottato da Balanchine nel 1950 per uno spettacolo del New York City Ballet.
La partitura integrale del balletto ha una peculiare sua fisionomia e si caratterizza per vari specifici parametri, armonici non meno che timbrici e ritmici. Un carattere, quindi, innovatore non soltanto nell’ambito della tecnica di “montaggio” del balletto che ne marcò lo stacco dalle azioni coreografiche del repertorio ottocentesco russo, essenzialmente descrittive, con il rischio dell’accademismo. Tra i momenti di più significativo impatto musicale vi è senz’altro l’Introduzione con il suo aspetto grave e solenne, quasi regolato sul respiro umano che, nel suo incedere cadenzato, riesce perfettamente ad introdurre l’ascoltatore in un mondo misterioso e fantastico. Il clima malinconico e quasi opprimente del movimento viene all’improvviso interrotto dai furiosi accenti degli archi che sottolineano il risveglio dell’uccello che, in tutto il suo splendore, fa la sua apparizione nel giardino fatato, sottolineato da raffinati effetti coloristici.
Altrettanto memorabile risulta la Ronda delle principesse, nella preziosa tinteggiatura di un bozzetto orientale. Ma, all’apparire dei sudditi del re Katschej e alla sua Danza, la tensione del discorso musicale si incupisce ed il ritmo si fa ossessivo, nel rintronare dei fiati e negli improvvisi staccati degli archi. In modo simmetrico il quadro successivo della Berceuse ha di nuovo un andamento lento ed un carattere soporifero, con gli archi che suonano in lontananza e i lievi accenni dei legni e degli ottoni, mentre il Finale, pagina fiammeggiante, veloce e cadenzata dai timpani, appare improntato al più inequivoco tradizionalismo del tardo Ottocento ed è prossimo, sotto molti aspetti, alle conclusioni di tante opere sinfoniche e liriche del repertorio russo, tra presente e passato.

Petroushka: burlesque in quatto scene

Il secondo balletto di Stravinsky è quasi esattamente contemporaneo all’unica opera di Bartók. I due musicisti erano quasi coetanei, avevano entrambi una profonda ammirazione per Debussy e si legavano nei rispettivi paesi ad una corrente «nazionale» facendo riferimento alle tradizioni de! canto popolare. Questi elementi in comune sembrerebbero di un certo rilievo, ma in concreto non lo sono affatto: i mondi di Barbablù e di Petrushka appaiono lontanissimi fra loro. Il rapporto di Stravinsky con il canto popolare è semplicemente l’incontro con uno dei tanti materiali (uno dei primi) su cui si sarebbe esercitato il suo inesauribile potere di stilizzazione; mentre in Bartók è una scelta definitiva, compiuta con profonda partecipazione etica. E assai diverso è il modo di prendere le distanze dal tardoromanticismo e dall’impressionismo: non si può certo ridurre il Castello del principe Barbablù a queste etichette, ma si è visto come le suggestioni di Debussy e Strauss possono venir accolte in quest’opera senza menomarne l’autonomia. Diverso è soprattutto il modo di atteggiarsi nei confronti dell’espressione, e in senso più ampio, la visione del mondo: Bartók non avrebbe potuto condividere le implicazioni antiumanistiche dell’«oggettivismo» stravinskiano. Ma converrà lasciare questi rapidi e troppo schematici appunti per vedere più da vicino il significato di Petrushka, dopo averne ricordato brevemente la genesi.
Stravinsky cominciò a lavorare a questa partitura nell’agosto-settembre 1910 e la finì in meno di un anno, il 26 maggio 1911. La prima rappresentazione ebbe

luogo a Parigi il 13 giugno 1911, con la compagnia dei Ballets Russes di Diaghilev, la coreografia di Fokine e la direzione di Pierre Monteux. Petrushka era Nijinski, la Ballerina Tamara Karsavina, il Moro Aleksandr Orlov, il Ciarlatano Enrico Cecchetti.
Tra le testimonianze autobiografiche che Stravinsky ci ha lasciato sulla genesi di Petrushka è essenziale in primo luogo un celebre passo delle Chroniques de ma vie, che non possiamo esimerci dal citare. Stravinsky racconta come, dopo aver già concepito il progetto del Sacre, aveva pensato di rimandarlo e di affrontare intanto una pagina puramente strumentale: «volli divertirmi con un lavoro orchestrale in cui il pianoforte avesse una parte predominante, una specie di Konzertstūck. Componendo questa musica avevo nettamente la visione di un burattino subitamente scatenato che, con le sue diaboliche cascate di arpeggi, esaspera la pazienza dell’orchestra, la quale a sua volta gli replica con le minacciose fanfare.
Ne segue una terribile zuffa che, giunta al suo parossismo, si conclude con l’accasciarsi doloroso e lamentevole del povero burattino. Terminato questo bizzarro pezzo, per ore e ore, passeggiando sulle rive del Lemano, cercavo il titolo che esprimesse in una sola parola il carattere della mia musica e, di conseguenza, la figura del mio personaggio. Un giorno ebbi un sussulto di gioia. Petrushka! L’eterno, l’infelice eroe di tutte le fiere, di tutti i paesi! Era questo che volevo, avevo trovato il mio titolo!».
Stravinsky prosegue narrando che Diaghilev, conosciuto il pezzo, propose con insistenza l’idea di trasformarlo in balletto, e raccontando le circostanze in cui fu steso il soggetto e compiuta la composizione. Il soggetto fu definito in collaborazione con Alexandre Benois, autore anche di scene e costumi per la prima rappresentazione (sono le stesse scene che si vedono in questo spettacolo: se ne servì poi anche Milloss, la cui coreografia non intese contrapporsi a quella di Fokine, ma in un certo senso proseguirne la linea).
Ci sono nessi evidenti tra le immagini che Stravinsky collega alla genesi del Konzertstūck e la vera e propria vicenda del balletto. A Pietroburgo, durante le feste della settimana grassa un vecchio Ciarlatano presenta al pubblico tre marionette, che si rivelano poi dotate di sensibilità umana. Il malinconico Petrushka corteggia la Ballerina, ne viene respinto, freme di gelosia quando il Moro la conquista e infine, nella confusione del carnevale, viene ucciso dal rivale con un colpo di scimitarra. Il Ciarlatano mostra agli intervenuti che si trattava solo di un burattino; ma quando la folla si disperde il fantasma di Petrushka appare sopra il teatrino a compiere gesti di minaccia e scherno.
Sulla voluta ambiguità di questa conclusione Stravinsky ebbe a dichiarare a Craft: «Il fantasma di Petrushka, così come concepii la storia, è il vero Petrushka, e la sua apparizione alla fine fa sì che il Petrushka degli episodi precedenti risulti un semplice fantoccio. Il suo gesto non è di trionfo o di protesta, come spesso si dice, ma una specie di marameo rivolto al pubblico».
Nel racconto stravinskiano sopra riportato è decisiva l’affermazione che l’idea del balletto nacque da un pezzo puramente strumentale, fu un modo di dare evidenza scenica a delle implicazioni già presenti nella concezione musicale, quasi di tradurne in gesto teatrale alcune delle intuizioni più originali e innovatrici. Il fatto non sorprende in un compositore come Stravinsky, la cui musica, rifiutandosi allo spirito del canto, tende a risolversi nell’evidenza di un movimento, di un gesto (di qui la specifica congenialità al balletto che si è costantemente riconosciuta alla musica di Stravinsky, anche a quella destinata alla sala da concerto).
Nel caso specifico del Konzertstūck da cui nacque Petrushka la gesticolazione della musica suggeriva rigidi movimenti di marionette, ad esempio attraverso la novità di un timbro pianistico secco, percussivo, privo di alone e di potenzialità cantabili, incline quasi ad una metallica meccanicità, o ancora, attraverso la tagliente asprezza di dissonanze come quelle degli «arpeggi diabolici» bitonali.
Ma il soggetto suggerito dalla situazione musicale presenta inquietanti ambiguità e si ricollega a temi del Romanticismo e del Decadentismo di cui Stravinsky nelle Chroniques si guarda bene dal far cenno. Nei dialoghi con Craft dichiara che il Ciarlatano doveva essere un personaggio alla Hoffmann, e questo riferimento si può prender alla lettera.
Qualche perplessità può invece suscitare, nelle Chroniques, il riferimento alla figura di Petrushka come è conosciuta nella tradizione popolare russa. Quel burattino è un ribaldo manesco, insolente e truffaldino, non un «infelice eroe», qualifica che invece compete a Pierrot, maschera per eccellenza malinconica. Una volta collegato Petrushka a Pierrot e al teatro di marionette sarebbe agevole concedersi ad ampie divagazioni, da Hoffmann a Kleist a Gordon Craig, da Verlaine al Pierrot lunaire e via discorrendo.

Igor Stravinsky

Per questa strada, però, si potrebbero cogliere solo marginalmente le implicazioni più caratteristiche del burattino stravinskiano. La sua vicenda si lega anche ai temi romantici e fin de siècle del doppio, dell’ambiguità uomo/marionetta, del rapporto maschera/realtà, e fa propri gli aspetti inquietanti di quella tematica, ma è fondamentale il fatto che tale vicenda è immersa nella atmosfera popolare della festa del carnevale. L’irrompere della folla, il chiasso e la confusione della settimana grassa sono elementi decisivi per sottrarre completamente Petrushka all’aura di un eroe verlainiano e per definire la novità di questa partitura: il linguaggio musicale qui spazza via ogni possibile residuo di aura tardoromantica o impressionistica, e, ad un solo anno di distanza dall’Uccello di fuoco, rinuncia a tutte le suggestioni favolistiche ed esotiche che tanto rilievo avevano nel determinare il fascino di quel balletto.
La cruda nettezza del segno, la violenza delle ben definite campiture di colore (non a torto paragonate alla pittura dei «fauves»), la stilizzazione della banalità della canzonetta, la rivalutazione della fiera e del baraccone (che assurgono a dignità d’arte in una misura inconcepibile prima di questa partitura) sono alcuni degli elementi più vistosi che fanno di Petrushka un testo capace di segnare una svolta, un nuovo corso nella musica del nostro secolo. Vi si impone una logica formale che ignora l’elaborazione tematica, lo sviluppo, e punta tutto invece sulla tagliente evidenza di idee melodiche brevi, semplici, in sé compiute,
derivate in parte dal canto popolare russo, ma anche da fonti «cittadine», da musica di consumo, come una canzone francese o valzer viennesi, idee che non aspirano ad essere «nobili», che non si prestano a sviluppi, ma che non per questo sono modellate su un’intima cantabilità: in sé possiedono non il canto, il lirismo, ma la secca scansione del ritmo e del gesto, una chiarezza che è posta crudamente in luce dalle scelte timbriche e armoniche. Con tali idee Stravinsky procede per ripetizioni, giustapposizioni e sovrapposizioni, sorrette dalla lucida crudezza dei colori di cui si è detto e da una straordinaria fantasia ritmica.
Questo modo di procedere suggerisce, dietro la sua colorita vitalità, una situazione rigidamente bloccata: la ripetitività, il carattere frammentario e a mosaico, rimandano ad una impossibilità di sviluppo, sono spia di una concezione adialettica della storia e strumento di un «oggettivismo» antipsicologico. La affollata e colorita festa del carnevale è indifferente alle sofferenze e alla morte del malinconico burattino: il carattere apparentemente impersonale di tutta l’impostazione della musica si carica di ambiguità sinistre, con la sua crudele, deterministica meccanicità e il suo gusto del grottesco. L’antipsicologismo si carica di sfiducia nella storia e nella tradizione umanistica, rimanda ad un umorismo metafisico, e a quel radicale pessimismo di cui si sostanzia la visione del mondo di Stravinsky (per il suo fatalistico determinismo non è una marionetta il soldato giocato alla fine dal diavolo? E che altro è Edipo, fragile zimbello del destino?).
Le acrobazie e i pezzi di bravura dell’orchestra di Petrushka, le magistrali evocazioni della folla e della festa non bastano ad esorcizzare il significato inquietante della sfiducia nei valori interiori, della loro implicita negazione. E si capisce allora perché anche le citazioni di canti popolari russi non abbiano l’accento di una candida innocenza, di una freschezza primitiva (siamo ben lontani dal significato che aveva il folclore per un Bartók), si capisce perché possono venire «inquinate» dalla convivenza con spunti canzonettistici di estrazione cittadina e «banale», come la canzone francese «Elle avait un’jambe de bois» (che Stravinsky sentì suonata da un organetto sotto le sue finestre a Beaulieu, presso Nizza, e che inserì senza sapere che il suo autore, un certo Spencer, era vivo e avrebbe preteso da lui dei diritti) o due volgari valzer di Lanner, citazioni queste usate proprio in funzione della loro banalità.
Dei quattro quadri dai quali il balletto è formato il primo e l’ultimo sono ambientati nella piazza dell’Ammiragliato a Pietroburgo, in mezzo alle feste del carnevale, mentre i due centrali, più brevi, rispettivamente nelle stanze di Petrushka e del Moro. All’inizio si ha la celebre, suggestiva evocazione del turbinio della folla, con un alternarsi, incrociarsi e sovrapporsi di brevi spunti. La prima idea che viene enunciata a piena orchestra, emergendo da un continuo

fluttuare, è tratta da un canto popolare russo della regione di Smolensk (il cui testo era di ispirazione religiosa).
Un poco oltre si evoca l’arrivo sulla piazza di un organetto di Barberia: esso suona una melodia di trito sentimentalismo e uno spunto più vivace, quello della già citata canzonetta «Elle avait un’ jambe de bois», intonata dai legni cui si affianca il triangolo. Ritornano poi spunti già noti, fino alla conclusione della prima parte, quando nel silenzio dell’orchestra le note ribattute dei soli strumenti a percussione richiamano l’attenzione sulla figura del Ciarlatano. Per sottolinearne il carattere hoffmanniano Stravinsky lo presenta con una piccola cadenza del flauto allusiva a Weber, cui segue una pagina breve, immersa in un’atmosfera di magia freddamente sinistra, e infine la Danza russa dei tre burattini (che è anche il primo dei pezzi che Stravinsky trascrisse per pianoforte solo nei Trois mouvements de Pétrouchka): qui il pianoforte, con le sonorità rigide e legnose di cui già si è detto, ha una parte di rilievo.
La musica del secondo quadro, che si svolge nella stanza di Petrushka, non contiene vere e proprie danze, ma ha un carattere di pantomima: di qui partì l’intera concezione di Petrushka. Troviamo gli «arpeggi diabolici» di cui parla Stravinsky nelle Chroniques, arpeggi che con la loro bitonalità introducono nella musica una sorta di lacerazione, una sensibilità armonica nuova. Si ha in questa pagina un procedere frammentario, nervoso, a scatti, con sussulti amari e «sgraziati»; anche questo pezzo è trascritto nei Trois mouvements pianistici, come secondo brano.
Dopo il nuovo cambio di scena segnato dalla sola percussione il terzo quadro si apre con il ritratto della goffaggine del Moro; poi la tromba, accompagnata dal solo tamburo militare, segna con uno sfacciato spunto bandistico l’ingresso della ballerina. Essa, che nella scena precedente ha respinto il mesto Petrushka, danza ora con il Moro un valzer, la cui melodia è tratta dalle Steyrische Tànze di Josef Lanner ed è sostenuta da un grottesco accompagnamento del fagotto; anche il successivo spunto di valzer è di Lanner. A turbare questa danza, deformata in movenze banali e meccaniche, interviene Petrushka, folle di gelosia, ma viene scacciato.

Sergej Diaghilev

Nel quarto quadro irrompe nuovamente la festa del carnevale, con il suo caotico affollamento: si ha una successione di danze, che sono nell’ordine, dopo la
pagina introduttiva, la Danza delle balie (basata su due temi popolari), il Contadino con l’orso, Le zingare e il venditore ambulante, la Danza dei cocchieri (su un tema popolare), Maschere. Irrompe infine improvvisa la zuffa tra il Moro e Petrushka seguita dalla secca, veloce conclusione, con la morte di Petrushka e la sua beffarda riapparizione. Nei dialoghi con Craft Stravinsky dichiara di non aver mai avuto simpatia per Fokine («fu senza dubbio l’uomo più sgradevole con cui abbia mai lavorato»), ma esprime, accanto a riserve, alcuni significativi apprezzamenti positivi, come quello sull’invenzione del movimento con il braccio rigido «che Nijinski doveva poi concretare in modo indimenticabile». Il giudizio stravinskiano più equilibrato su questa storica coreografia si legge nelle Chroniques. Dopo aver reso omaggio alla grandezza di Nijinski e della Karsavina osserva: «Fu gran peccato invece che i movimenti della folla siano stati trascurati, che, cioè, anziché avere un ordine coreografico prestabilito, in armonia con le esigenze così chiare della musica, siano stati lasciati all’improvvisazione arbitraria degli esecutori. E tanto più lo rimpiango in quanto le danze d’insieme (dei cocchieri, delle balie, delle maschere) e quelle dei solisti devono considerarsi come una delle migliori creazioni di Fokine».

Rite of Spring: quadri della Russia pagana in due parti

Durante la primavera del 1910, mentre a Pietroburgo stava terminando le ultime pagine della partitura dell’Uccello di fuoco, Stravinskij ebbe come una visione. Racconta egli stesso nelle Cronache della mia vita: “un giorno – in modo assolutamente inatteso, perché il mio spirito era occupato allora in cose del tutto differenti – intravidi nella mia immaginazione lo spettacolo di un grande rito sacro pagano: i vecchi saggi, seduti in cerchio, che osservano la danza fino alla morte di una giovinetta che essi sacrificano per rendersi propizio il dio della primavera. Fu il tema del Sacre du printemps. Confesso che questa visione m’impressionò fortemente; tanto che ne parlai subito all’amico pittore Nikolaj Roerich, specialista nell’evocazione del paganesimo. Egli accolse l’idea con entusiasmo e divenne mio collaboratore in quest’opera. A Parigi ne parlai pure a Djagilev, che si entusiasmò subito di tale progetto”.
Nonostante la folgorazione e l’entusiasmo di Djagilev, che immediatamente ne vide le potenzialità per un nuovo balletto, la realizzazione non seguì immediatamente. Stravinskij fu occupato dalla composizione di Petruska che lo impegnò dalla metà del 1910 alla metà del 1911: solo dopo la sua rappresentazione, avvenuta nel giugno del 1911, poté pensare alla stesura della Sagra e alla sua concretizzazione scenica, in collaborazione con Roerich. Il balletto, con il sottotitolo di “Quadri della Russia pagana”, si suddivide in due parti: “L’adorazione della terra” e “Il sacrificio”. In una lettera a Djagilev, Roerich così descriveva l’azione: “Nel balletto Le sacre du Printemps, così come lo abbiamo concepito io e Stravinskij, il mio scopo è presentare un certo

numero di scene che manifestano la gioia terrena e il trionfo celestiale secondo la sensibilità degli slavi. La prima scena deve trasportarci ai piedi di una collina sacra, in una pianura rigogliosa, dove le tribù slave sono riunite per celebrare i riti della primavera. In questa scena c’è una vecchia strega che predice il futuro, un matrimonio dopo un rapimento, danze in tondo. Poi viene il momento più solenne. Il vecchio saggio è condotto dal villaggio per imprimere il suo sacro bacio sulla terra che ricomincia a fiorire. Durante questo rito la folla è in preda a un terrore mistico. Dopo questo sfogo di gioia terrestre la seconda scena suscita intorno a noi un mistero celestiale. Giovani vergini danzano in circolo sulla collina sacra, fra rocce incantate: poi scelgono la vittima che vogliono onorare. Immediatamente ella danzerà davanti ai vecchi vestiti di pelli d’orso per mostrare che l’orso era l’antenato dell’uomo. Poi i vecchioni dedicano la vittima al dio Jarilo”.
La prima rappresentazione del balletto ebbe luogo a Parigi al Théâtre des Champs-Elysées per la stagione dei Rallets Russes il 29 maggio 1913 (coreografo Vaslav Nijinskij, direttore Pierre Monteux) e suscitò uno scandalo rimasto memorabile. Stravinskij abbandonò la sala dopo le prime battute del preludio, che sollevarono immediatamente risa e canzonature. “Queste manifestazioni”, ricorda il compositore nelle Cronache della mia vita, “dapprima isolate, divennero presto generali e, suscitando d’altra parte delle opposte manifestazioni, produssero in breve un chiasso infernale. Durante tutta la rappresentazione rimasi tra le quinte, a fianco di Nijinskij. Questi stava in piedi su una sedia e gridava a squarciagola ai ballerini: “Sedici, diciassette, diciotto…” (si servivano di un conteggio convenzionale per segnare le battute). Naturalmente i poveri ballerini non sentivano niente a causa del tumulto della sala e del loro calpestio. Io ero costretto a tenere per il vestito Nijinskij, fuori di sé dalla rabbia e in procinto di balzare in scena, da un momento all’altro, per fare uno scandalo. Djagilev, per far cessare il fracasso, dava ordini agli elettricisti, ora di accendere, ora di spegnere la luce nella sala. È tutto ciò che ricordo di quella ‘prima’. Fatto strano, alla prova generale a cui assistevano, come sempre, numerosi artisti, pittori, musicisti, letterati e i rappresentanti più colti della società, tutto si era svolto in modo calmo e io ero lontano mille miglia dal prevedere che lo spettacolo avrebbe provocato quella gazzarra”.
Anche in seguito a quella storica serata, la partitura del Sacre rimase a lungo il simbolo della musica moderna, in ogni senso: se da un lato la sua apparizione parve sconvolgere tutti i canoni della bellezza e del gusto per l’inaudita violenza con cui si evocava l’irruzione di forze selvagge e primordiali, d’altro canto l’originalità della sua lingua barbarica e “primitiva” esercitò un influsso notevole, e non solo tra le avanguardie musicali del tempo. La radicale novità della partitura, percepibile soprattutto nell’invenzione ritmica, di una ricchezza

e complessità senza precedenti, ma estendibile anche ai parametri armonici e melodici, si basava su una visione formale profondamente emotiva, ma improntata anche a una evidenza insieme classica e popolare. Non a caso Jean Cocteau definì il Sacre “le georgiche della preistoria”, ponendo l’accento su una rappresentazione delle forze della natura che per quanto rovesciata in confronto alle visioni idilliche della primavera ne serbava il carattere mitico e l’aura sacrale; mentre Stravinskij stesso, ancora anni dopo la composizione, ribadì che a influenzarlo era stata l’esperienza della “violenta primavera russa, che sembra iniziare in un’ora ed è come se la terra intera si spezzasse”: un’esperienza che risaliva alla sua infanzia e che si intrecciava con il ricordo dei riti propiziatori della tradizione popolare. Gran parte del fascino incomparabile della partitura sta proprio in questa strettissima commistione di artificio e natura, mitologia e folklore, simmetria e asimmetria. pulsione vitale e istinto di morte, dinamicità e staticità.
L’Adorazione della terra si apre con il celeberrimo assolo del fagotto iinpiegato in una tessitura acuta, su una melodia popolare lituana. Fin dall’inizio si stabilisce un clima di arcaica staticità, cui ben si attaglia il titolo di “Notte pagana” suggerito dal compositore per il grande sacrificio: qui è come se la musica volesse rappresentare il timore suscitato dalle grandi forze cosmiche della creazione, “il risveglio della natura, lo stridio, il rodio, i movimenti di uccelli e bestie”, secondo un’indicazione del compositore stesso. Alcuni caratteri fondamentali si delineano già in questa introduzione: i motivi si riducono per lo più a frasi brevi e incisive, quasi formule elementari, che hanno però già in sé le forze della propria trasformazione; il ritmo, anche attraverso l’uso frequente dell’ostinato, provoca l’impressione di un impulso inarrestabile, che non è solo quello realistico della danza, ma assurge anche a valore simbolico di esasperazione del movimento; le sovrapposizioni politonali, congiunte da un lato con procedimenti modali e dall’altro con il libero trattamento delle dissonanze che non eliminano l’esistenza di centri tonali, creano un antagonismo che acquista via via un sempre più marcato senso drammatico (massimamente nel Gioco del rapimento, culmine anche di un crescendo dinamico di forza esplosiva). Ad episodi di crescente tensione fanno seguito zone di quiete e di rarefazione: così le Ronde primaverili vengono introdotte da un lungo trillo dei flauti che preludono a un movimento “sostenuto e pesante”, dove i clarinetti danno voce a una melodia di sapore popolare che ricorda il Chorovod, la danza circolare in onore della primavera.

Bernard Haitink

I trilli dei flauti fanno nuovamente da preludio al Gioco dalle città rivali, in cui entrano con prepotenza le percussioni, che assumono l’importanza quasi di una sezione orchestrale a sé stante. La tremenda tensione interna tra la semplicità del materiale tematico e la discordante complessità della tessitura ritmica e armonica è acuita dalla strumentazione, che utilizza mezzi estremamente sofisticati per ottenere un effetto volutamente elementare, primitivo. Episodi di opposta spettacolarità sono il Corteo del saggio, che culmina nella straordinaria magia evocativa del “bacio della terra”, e la vorticosa Danza della terra, momento di estrema forza centrifuga che chiude la prima parte con l’esplosione di un caos primordiale. La seconda parte si apre con una nuova Introduzione, di segno diverso: sono, secondo Roman Vlad, “sonorità glaciali, da notte polare”,
che creano il clima di attesa sacrificale. Nei freddi armonici degli archi e negli echi dei corni si fa luce un tema d’un singolare, astrale lirismo.
Nei Cerchi misteriosi degli adolescenti, intrisi ancora della medesima atmosfera velata, questo tema si dispiega in un incedere quasi ipnotico, trepido e struggente. A questo momento di ripiegamento lirico, segue, avviata dal tamburo, in un brusco accelerando, la Glorificazione dell’eletta, originariamente pensata come una selvaggia cavalcata delle amazzoni; la solenne Evocazione degli antenati ristabilisce il carattere religioso del sacrificio, a cui l’episodio successivo, Azione rituale degli antenati, conferisce sussulti e spasimi di sinistra irrevocabilità. Si avvicina così l’epilogo, la danza sacrale della vittima designata a morire per propiziare il rinnovarsi della primavera. Nella Danza dell’eletta, il furore ritmico raggiunge l’apice del più orgiastico parossismo, rimettendo in gioco tutte le possibilità strutturali sperimentate nell’opera e non lasciando più dubbi sul carattere barbarico del sacrificio. Eppure, proprio da questa identificazione con le crudeltà del rito che si è appena compiuto, si rigenera una sorta di euforia vitale, di panica rivelazione del mistero della rinascita, di tragica consapevolezza del ciclo eterno degli inizi e delle fini scandito dalle leggi immodifìcabili della natura.

Apollo: balletto in due scene

Nel 1927 Stravinsky ricevette dalla «Library of Congress» di Washington l’incarico di comporre un balletto destinato ad un Festival di musica contemporanea, con le sole condizioni che il lavoro durasse non più di mezz’ora e potesse essere rappresentato con un ristretto numero di esecutori. Stravinsky stesso ha narrato come questa commissione lo spingesse a realizzare una idea che da tempo lo tentava: un balletto ispirato a qualche momento o episodio della mitologia greca, la cui plasticità avrebbe dovuto essere trasfigurata dalla danza cosiddetta classica. La scelta dell’argomento cadde sulla figura di Apollon Musagète (= condottiero delle Muse), restringendo l’ambito del mito alle tre sole Muse Calliope, Tersicore e Polimnia, in un certo senso quelle che meglio esprimevano e rappresentavano l’arte della danza.
Come scrive Vlad, l’intenzione di Stravinsky era quella di «comporre quel che si dice un ‘balletto bianco’. Cioè un balletto basato interamente sulle astratte figure coreografiche della danza classica. Senza nessun intento psicologico, narrativo od espressivo. Senza valersi di sgargianti scenografie o costumi, ma limitandosi all’uso del monocromo tutù, della calzamaglia. A questa monocromia scenica corrisponde la monocromia timbrica delia musica che viene realizzata da un’orchestra di soli archi. Anche le strutture intrinseche delle figure sonore sì dispongono in vista dello stesso fine. Le sovrapposizioni politonali sono rare. Vi abbondano statici accordi perfetti. Neppure gli urti

dissonanti producono violenti effetti dinamici. Essi servono al contrario a rendere più asciutte le armonie; a dissanguarle quasi; ad annullarne la tensione tonale».
La dimensione dell’organico orchestrale, ridotto come si è ricordato ai soli archi (otto primi e otto secondi violini; sei viole; quattro primi e quattro secondi violoncelli; quattro contrabbassi), trascende di gran lunga l’occasione esterna della commissione per porsi come il fatto espressivo principale e distintivo, non solo in senso timbrico ma anche propriamente compositivo: «L’idea di scrivere una musica nella quale tutto gravitasse intorno al principio melodico», precisa Stravinsky, «esercitò sul mio spirito un’attrazione irresistibile. E poi, che piacere ritemprarsi nell’eufonia multisonora degli strumenti ad arco e farla penetrare nei più piccoli recessi della trama polifonica!».
«Apollon Musagète» rappresenta nella forma più pura e rarefatta la fase antica, o meglio greca, del periodo neoclassico di Stravinsky, ed è in questo senso una prima tappa del cammino stilistico ed espressivo che culminerà in opere come «Perséphone» (1934) e soprattutto in «Orpheus» (1948). Come ha scritto ancora Vlad, «l’ermetismo di questa musica può ingenerare facilmente freddezza e noia, ove non se ne intuisca il senso di calma sublime, di liberazione da ogni passione umana. Alla staticità della vicenda musicale corrisponde la staticità della vicenda coreografica. Come dicevamo, quest’ultima si basa esclusivamente sui movimenti plastici del balletto classico e s’inquadra nelle tradizionali forme del ‘Pas d’action’, ‘Pas de deux’, ‘Variations’ e ‘Coda’ ».
Rappresentato per la prima volta a Washington il 27 aprile 1928 con la coreografia di Adolphe Bolm, «Apollon Musagète» fu consacrato definitivamente alla storia del Novecento quando, il 12 giugno dello stesso anno, venne eseguito a Parigi con la direzione del suo Autore e la coreografia di George Balanchine, interpreti principali Serge Lifar, la Nikitina, la Tcehernicheva e Doubrovska. L’idea di affidare a Balanchine (nato a Pietroburgo nel 1904) la nuova coreografia dell’«Apollon», che doveva essere realizzata dalla Compagnia dei Balletti russi, era stata dello stesso Diaghilev, che affiancò all’allora giovanissimo coreografo, alla sua prima esperienza importante, il pittore «naif» André Bauchant. La coreografia di Balanchine per l’«Apollon Musagète», in questa occasione presentata nella realizzazione di John Taras, è non soltanto uno dei grandi capolavori in questo campo – come dimostra fra l’altro il suo quasi mezzo secolo di vita – ma segna anche uno degli esempi più perfetti di quella compenetrazione reciproca fra musica e danza tanto cara alla poetica greca fin dai tempi di Platone, e che qui si incarna nella progressiva e lucida ascesa verso l’apoteosi dello spirito apollineo della danza.

Igor Markevitch

Primo momento della fruttuosa collaborazione con Stravinsky, la coreografia di Balanchine, il gran ballo della giovinezza, del genio e dell’equilibrio estetico dell’artista ventiquattrenne, sembra dare ragione all’ammirazione che il grande musicista russo dichiarava di nutrire per il balletto classico, che «nella sua vera essenza, per la bellezza del suo ordine e per l’aristocratica austerità della sua forma, corrisponde perfettamente alla mia concezione d’arte»; e lo stesso Balanchine, in una testimonianza di molto successiva, ricordava con queste
parole quella tappa fondamentale della sua vita: «Ai tempi dei Balletti russi ho ballato tutto, il «pas de deux» come i ruoli dei vecchi barbuti e curvi. Nello stesso tempo ho creato dieci balletti fino alla morte di Diaghilev avvenuta nel 1929. Credo che l’«Apollon Musagète» nel 1928 sia stato decisivo per me. La partitura di Stravinsky mi ha insegnato che la danza come la musica deve saper trovare la sua economia, la sua unità di stile. Esistono rapporti fra i movimenti come fra i colori e fra i suoni, alcuni sono incompatibili con altri. Occorre lavorare in uno spazio ben delimitato».